Cooperando
Le cornoperative sono una forma di impresa sociale. Alcune grandi e potenti, altre piccole. Legate alla comunità, rappresentano un importante strumento di sviluppo nel Sud del mondo.
Cooperative agricole, cornoperative di credito, cornoperative di lavoratori, di consumatori, di produttori: a uno sguardo anche superficiale, la presenza di queste forme d’impresa nella quotidianità di tutti i cittadini risulta piuttosto evidente, nel Nord come nel Sud del mondo. Secondo dati Onu, le cornoperative danno lavoro a circa cento milioni di persone sul pianeta (cioè una persona su settanta) e contano poco meno di un miliardo di associati, un settimo della popolazione mondiale. Le trecento più grandi cornoperative del globo hanno, insieme, redditi per 1.600 miliardi di dollari.
Non stupisce, dunque, che le Nazioni Unite abbiano deciso di dedicare a questa forma di impresa dodici mesi di iniziative e visibilità, dichiarando il 2012 «anno internazionale delle cornoperative» e preparando un fitto calendario di eventi ad esso correlati. La campagna di sensibilizzazione targata Onu, comunque, si concentra non «sul quanto» ma «sul come»: «le cornoperative – recita lo slogan ufficiale – costruiscono un mondo migliore», perché sono imprese possedute e dirette da e per i loro membri.
Questa la definizione generale, che cattura quello che si potrebbe definire lo spirito di cornoperativa. La realtà, tuttavia, appare estremamente più variegata e sotto la stessa etichetta ricadono tipi di impresa che vanno da piccole realtà di autofinanziamento e sussistenza a colossi economici con giri d’affari milionari. La più grande del mondo è una cornoperativa di consumatori, l’inglese The Co-operative Group Ltd: conta sei milioni di membri, dà lavoro a oltre centomila persone, agisce nel mercato alimentare e farmaceutico, nella foitura di servizi bancari e legali, nella gestione di imprese di pompe funebri, agenzie di viaggio, concessionarie di auto e negozi di elettronica, per un fatturato annuo di oltre tredici miliardi di sterline.
Ovviamente, il primo tipo di cornoperativa, quello di piccole dimensioni, è quello che più di frequente si incontra e si promuove nelle iniziative di cooperazione allo sviluppo. Nel Sud del mondo, le cornoperative sono uno strumento attraverso il quale si dà forma all’esigenza di una comunità di organizzarsi per garantirsi il sostentamento e l’indipendenza economica.
I valori fondanti
Il movimento cornoperativo si identifica in sette principi fondanti: adesione libera e volontaria; controllo democratico da parte dei soci; partecipazione economica dei soci; autonomia e indipendenza dei soci; educazione, formazione e informazione; cooperazione fra cornoperative e interesse verso la comunità.
Come questi principi vengano tradotti in entità legalmente riconosciute e quanto abbiano un effetto concreto sul tessuto economico locale dipende dalle singole legislazioni e dal contesto politico ed economico di ogni paese. Secondo l’Inteational Co-operative Alliance – Ica, principale partner delle Nazioni Unite nelle iniziative del 2012 sulle cornoperative, i sistemi giuridici e le realtà economiche di molti paesi, specialmente nel Sud, non sono adeguati a recepire i principi cornoperativi e a creare un ambiente favorevole per lo sviluppo dell’impresa sociale. «Gli operatori economici – spiega il premio Nobel per la pace Muhammad Yunus nel suo libro Un mondo senza povertà – non ne riconoscono l’esistenza né assegnano loro un posto nel mercato; le considerano delle stramberie e le tengono ai margini». Uno dei punti su cui con più forza batterà la campagna delle Nazioni Unite sarà dunque proprio quello di fornire alle imprese cornoperative, e ai gruppi che aspirano a costituirsi come tali, consulenza e informazioni per accrescere il proprio ruolo nelle economie locali.
I risultati di una maggior apertura al modello cornoperativo in alcuni paesi sono, d’altronde, piuttosto confortanti: secondo i dati del Fondo internazionale delle Nazioni Unite per lo sviluppo agricolo (Ifad), in Brasile più di un terzo del Pil derivante dall’agricoltura (pari al 5% di quello totale) è stato prodotto da imprese cornoperative, che hanno ottenuto dall’esportazione di prodotti agricoli per 3,6 miliardi di dollari. Mentre in Kenya circa venti milioni di persone traggono le loro fonti di sussistenza dal movimento cornoperativo o dal suo indotto, che genera quasi metà del prodotto interno lordo e controlla il 70% del mercato del caffè e quasi tutto quello del cotone. In Costa d’Avorio le cornoperative hanno investito complessivamente ventisei milioni di dollari per costruire scuole, strade e cliniche per la salute matea e infantile.
Non solo. Secondo uno studio dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo), le cornoperative dimostrerebbero una maggiore capacità di resistenza in tempi di crisi, poiché dipendono dal capitale dei membri e non da quello prestato dalle banche. I dati statistici, prosegue lo studio, indicano che le cornoperative hanno un tasso di sopravvivenza più alto rispetto a quello dei loro competitors e sono mediamente più longeve delle altre imprese.
Infine, la promozione del movimento cornoperativo in contesti come l’Africa orientale e meridionale è una delle esigenze emerse durante il forum degli agricoltori che si è tenuto al quartier generale dell’Ifad a Roma nel febbraio 2010, poiché solo mediante forme aggregative come quella delle cornoperative agricole sarebbe possibile aumentare l’autonomia, l’accesso al mercato e il potere decisionale dei contadini all’interno dell’economia dei propri paesi.
Cooperative e microcredito
Le cornoperative sono anche uno degli strumenti attraverso i quali vengono realizzate iniziative di microfinanza, in particolare di microcredito e, viceversa, la microfinanza si può basare (ma non sempre) su un modello cornoperativo. Entrambi nascono con l’intento di rendere disponibile l’accesso al credito alle fasce più povere della popolazione prive delle credenziali per rivolgersi al sistema bancario tradizionale.
Sebbene microfinanza e cooperazione abbiano delle indubbie somiglianze quanto allo spirito che li caratterizza, sono tuttavia due concetti diversi. Muhammad Yunus, uno dei massimi promotori del microcredito al punto da essee considerato il padre, ha concepito il proprio modello come qualcosa di differente dal credito cornoperativo. Nel suo libro Il banchiere dei poveri spiega che le cornoperative di credito in Bangladesh, suo paese natale, richiedevano la restituzione della somma prestata in una sola tranche, creando a suo dire nei contadini una resistenza a separarsi in un’unica soluzione da una cospicua cifra di denaro. Di conseguenza, i debitori tendevano a rimandare il rimborso del credito ricevuto e ad accumulare così un debito sempre più alto, fino a trovarsi nell’impossibilità di saldarlo. Yunus adottò il metodo opposto, decidendo di richiedere il rimborso del credito in soluzioni di entità talmente ridotta che il cliente non si sarebbe neanche accorto di pagarlo. Sempre a proposito delle cornoperative Yunus scrive che, sebbene nate in risposta allo sfruttamento degli operai da parte degli avidi proprietari delle fabbriche inglesi del XVIII e XIX secolo, le imprese di questo tipo non hanno come obiettivo principale quello di migliorare le condizioni dei poveri. «Se cadono nelle mani sbagliate – continua Yunus – le cornoperative possono anche diventare uno strumento di penetrazione nell’economia che consente guadagni a singoli individui o a gruppi ristretti invece che portare beneficio all’insieme della società».
Al di là dei dibattiti interni a quello che è il mondo, estremamente complesso, dell’imprenditoria sociale e dell’economia solidale, il legame fra cornoperative e microfinanza è abbastanza solido in molte realtà del mondo: in Colombia, ad esempio, sono imprese di questo tipo a gestire la quasi totalità delle iniziative di microcredito nel paese.
Si conclude in questo mese il progetto empowerment delle donne vulnerabili e delle ragazze madri in due città, Kinshasa e Isiro, finanziato per metà con i fondi della cooperazione decentrata del comune di Roma (vedi MC ottobre 2011). Un botta e risposta sul progetto con padre Santino Zanchetta, responsabile della parte di progetto eseguito a Kinshasa.
Padre Santino, lei lavora a Saint Hilaire, un quartiere di Kinshasa, che lei ama definire «una periferia a misura d’uomo». Che cosa intende con questa espressione?
«Intendo che non si tratta della periferia tipica dei paesi poveri, con case accatastate le une sulle altre. È un quartiere densamente abitato, questo sì: solo la nostra parrocchia conta ventinovemila persone, inserite in un comune di oltre un milione e seicentomila abitanti. La gestione degli spazi, però è diversa: è lo Stato stesso che destina appezzamenti di terreno di diciotto per diciotto metri, che diventano il cortile dove si può costruire un’abitazione e vivere insieme alla propria famiglia con una certa autonomia».
I problemi sono tanti, comunque, a partire dai servizi e dalle infrastrutture.
«Sì, la foitura di elettricità e acqua dipende da società pubbliche che servono anche la nostra zona, ma la distribuzione è poco costante sia nelle quantità che nei tempi.
A livello di servizi educativi la situazione è molto problematica. Il 47% dei ragazzi in età scolare non ha la possibilità di andare a scuola: le famiglie non possono permettersi di pagare le rette per tutti i figli – di solito sono sette o otto – perciò ne fanno studiare solo alcuni. Chi patisce di più questa esclusione sono le ragazze, perché spesso le famiglie preferiscono far studiare i maschi, considerati il futuro fulcro della famiglia africana. Eppure, a ben guardare, sono proprio le donne con la loro “economia sommersa” a far quadrare il bilancio familiare».
Come nasce il progetto di empowerment delle donne?
«Per andare incontro a queste ragazze che non hanno potuto studiare, per poter fornire loro una dignità derivante dal saper leggere e scrivere e per permettere loro di “avere in mano un mestiere” con cui provvedere ai propri bisogni immediati – si pensi ai corsi di sartoria: anche il semplice saper riparare gli abiti dei familiari è già un risultato – e trarre da questo mestiere il proprio sostentamento. Oltre ai corsi di sartoria ce ne sono altri, ad esempio quelli di estetica o quelli di informatica».
Come si promuove l’inserimento delle donne nel mondo del lavoro?
«Attraverso un programma di microcredito, che permette loro di avere un capitale iniziale per cominciare un’attività e di abituarsi all’idea e alla pratica del risparmio. Ogni donna riceve una somma pari a centoventi euro che deve utilizzare per avviare un’attività e restituire, entro una determinata scadenza, maggiorata di un piccolo interesse, in modo che il comitato gestionale del progetto possa utilizzare questa maggiorazione per aprire il microcredito a ulteriori donne».
Le donne sono organizzate in una cornoperativa?
«Sono organizzate in piccoli gruppi che funzionano in modo molto simile a una cornoperativa, ma in certi paesi – e il Congo è uno di questi – ottenere il riconoscimento formale come impresa cornoperativa richiede un iter burocratico lungo e complesso».
Può citare un esempio di successo del progetto?
«Il primo che mi viene in mente è quello di Matondo, una donna giovane ma già vedova, che ha otto figli. Due delle figlie, di diciotto e sedici anni, hanno preso parte ai nostri corsi e ora, oltre a lavorare negli atelier per il confezionamento di abiti, hanno aperto un chioschetto per strada dove vendono beni di prima necessità come zucchero, tè, pane, latte, caffè. Grazie a questa attività, hanno potuto far studiare altre due sorelle, di otto e undici anni, pagando autonomamente le rette scolastiche. Questo è solo un esempio, ce ne sarebbero molti altri».
Chiara Giovetti