Un’attività di rapina

Amazzonia: una diversa prospettiva (1a parte)

È comune pensare all’Amazzonia a partire da due immagini:
• la prima è quella di una natura esuberante, fatta di foreste, alberi giganteschi, animali selvaggi, grandi ricchezze minerarie, fiumi immensi, grande riserva d’acqua dolce, polmone verde della Terra;
• la seconda immagine è quella di una terra abitata da popolazioni primitive incapaci di profittare delle ricchezze che la natura offre loro e insediate in aree immense ampiamente sottoutilizzate.
Questo per noi occidentali; per gli indigeni dell’Amazzonia, Yanomami, Macuxí, Ingarikó, Patamona, Taurepang, Wapixana, Waimirí-Atroarí, Wai-Wai e altri, la foresta è il loro mondo, la loro casa, la loro terra ancestrale, la terra dei loro avi. La terra è la vita, la madre che da sempre fornisce loro tutto il necessario per vivere. è il luogo dove c’è tutto: la cacciagione, le piante, i fiumi e l’acqua, le montagne e loro stessi.
Sorvolando l’Europa si vede chiaramente come gli occidentali, cioè gli europei, hanno risolto la dicotomia predetta: praticamente non c’è più foresta; solo qua e là si possono vedere macchie di alberi spontanei che ancora resistono, ma sono sempre meno e sempre meno estese. È la soluzione che ha permesso agli europei di alimentare e di fornire di una massa enorme di beni le popolazioni locali che, nei secoli, sono cresciute talmente da doversi poi spostare in altri continenti, ove hanno esportato la loro cultura di sfruttamento delle risorse naturali fino ad annullare, in certe zone, la possibilità di sopravvivenza delle stesse.
Il nuovo eldorado
Questa cultura sta aggredendo ora anche la foresta Amazzonica; da quando essa è diventata il «Nuovo Eldorado» che richiama avidi latifondisti locali o stranieri o grandi multinazionali – che vedono la foresta amazzonica come un posto di frontiera da sfruttare sul piano economico e politico –, così come povera gente che arriva dal sertão semidesertico del Nordeste (Maranhão, Piauí, Ceará, Rio Grande do Norte, Paraíba, Peambuco, Alagoas, Sergipe, Bahia) per cercare un’alternativa alla loro miseria, per trovare oro o comunque uno spazio vergine da occupare e colonizzare per dare sostentamento a sé e alla propria famiglia.
È l’eterna situazione che si crea quando si ha un’enorme discrepanza fra le risorse naturali presenti in un territorio e la popolazione che ci vive. Così è stato dopo la scoperta dell’America e poi dell’Australia, continenti che presentavano un rapporto fra popolazione indigena e risorse naturali infimo rispetto allo stesso rapporto presente in Europa, ma così era stato anche al tempo delle migrazioni delle popolazioni indoeuropee dall’Asia verso l’Europa. Quando gli squilibri nei valori di questo rapporto sono rilevanti e del segno predetto, si crea un movimento di popolazione da dove essa è sovrabbondante verso dove è scarsa. La differenza è che oggi c’è anche la possibilità di mobilitare e trasferire ingenti capitali artificiali che permettono una rapida utilizzazione delle risorse naturali fisse.
strade e Immigrazione
La forte immigrazione dei nordestini (ma anche dei cariocas, paulistas e gauchos del Sud) nella zona amazzonica è recente e si può dire che sia stata favorita dalla costruzione, negli Anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, di strade quali la rete transamazzonica, comprendente la Belem-Brasilia, la Cuiabá-Porto Velho-Perù, la Porto Velho-Manaus-Bõa Vista-Venezuela/Guyana, la Porto Velho-Imperatriz, la Cuiabá-Santarem, la Macapá-Bõa Vista-Colombia. Lo scopo della costruzione di tali strade era d’integrare il territorio amazzonico al resto del paese, permettendo lo sfruttamento delle ingenti risorse minerarie e vegetali in esso presenti nonché, assorbendo la popolazione eccedente del Nordeste, di alleggerire le tensioni economiche e sociali presenti in quest’ultima regione.
Gran parte di esse, per mancanza di manutenzione, ora non sono più utilizzate, se non per tratti limitati, ma la loro costruzione e quella di altre strade ha aperto delle brecce nella foresta che hanno creato le premesse per l’accelerazione dello sfruttamento delle risorse naturali e dell’introduzione di coltivazioni intensive (acacia mangium, riso e soia soprattutto) e dell’allevamento del bestiame.
fazendeiros
L’occupazione delle terre amazzoniche da parte dei bianchi iniziò nella seconda metà dell’Ottocento, con l’introduzione di attività agropastorali, come strategia per garantire la sicurezza militare della regione assicurando in essa la presenza di brasiliani (contro possibili invasori da fuori). I coloni immigrati (fazendeiros) ottennero via via dai governatori dello Stato dell’Amazzonia diritti di proprietà su terre di incontestabile occupazione indigena. Le leggi statali ampliarono l’estensione del territorio destinato all’occupazione privata, riducendo a esigue fasce di terra la parte riconosciuta agli indios.
Questo avvenne in uno stato di «convivenza pacifica» tra bianchi e indios, ma costituì un’effettiva espropriazione delle terre indigene da parte dei fazendeiros. Attraverso un sistema di relazioni di dipendenza, che andavano dal rapporto padrino-compare alla cessione di donne indigene ai padroni come domestiche e di bambini per farli educare nella fazenda alla cultura e ai modi dei bianchi, i fazendeiros stabilirono un meccanismo efficace di dominio e occupazione delle terre. Con questa strategia, gli indios si ritrovarono ben presto senza terre, con le loro case comunitarie (maloca, per usare un termine di origine guaraní alquanto diffuso) e i loro campi circondati dal bestiame dei padroni.
A partire dagli anni Settanta del secolo scorso, gli agricoltori bianchi cominciarono a recintare le aree che dichiararono di loro proprietà e a registrarle nell’attesa di una regolamentazione, impedendo così agli indios anche l’accesso ai fiumi, ai laghi e alle riserve di selvaggina, e accusandoli di invadere le loro proprietà.
garimpeiros
Parallelamente si ebbe un’intensificazione delle immigrazioni di cercatori di oro e diamanti (garimpeiros). Le prime immigrazioni di garimpeiros risalgono agli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso, ma la scoperta di importanti giacimenti minerari (oro, diamanti, cassiterite, bauxite, uranio ecc.) avvenne negli anni Ottanta: la «corsa all’oro» in Amazzonia esplose alla fine di quel decennio, quando migliaia di brasiliani di altre regioni ingrossarono le fila dei garimpeiros, che arrivarono in cerca di rapidi guadagni con la complicità delle forze politiche locali e federali. Gli invasori erano in gran parte senza alternative, cosicché il processo divenne irreversibile.
attività di rapina
L’estrazione di minerali è per sua natura un’attività di rapina nei confronti dell’ambiente (prende senza dar niente in cambio se non danni) e degli indios e della loro cultura, perché rapina è anche l’appropriazione delle terre a uso privato e l’attività di supposta acculturazione (forzata) degli indigeni. Allontanati dalla loro maloca e dalla loro cultura per essere inseriti in scuole e inteati, e acquisite le regole sociali di tipo occidentale, pochi ritornano nuovamente alle maloca stesse. La maggior parte resta nelle città, lavorando per i bianchi; anzi, coloro che tornano ai villaggi indigeni lo fanno per convincere i parenti a lasciare il luogo natale per trasferirsi in città, agendo negativamente nei confronti della cultura indigena.
Indigeni espulsi dalle loro terre o richiamati dalla città con il miraggio di nuovi modelli di vita, garimpeiros che non hanno fatto fortuna e disperati dell’assetato Nordeste, attirati dalla prospettiva di trovare fecondi raccolti nell’umido clima amazzonico o dalla propaganda politica (in periodo elettorale promette lotti di terra a chi decida di stabilirsi nella regione e assicuri un voto, per poi abbandonare gli immigrati al loro destino), si riversano in città, ove non trovano né accoglienza né appoggi e spesso alla fine sono costretti a vivere sotto teloni di plastica in uno dei diversi quartieri periferici delle poche città presenti.
città, tomba delle illusioni
Gli abitanti delle città sono quadruplicati nel corso degli anni Novanta, ma le possibilità di lavoro stabile sono rimaste contenute. A parte il miraggio del «funzionariato pubblico» presso le strutture del Goveo o della Prefettura, ciò che è accessibile è una varietà di lavori temporanei, soprattutto informali, che permettono la sopravvivenza, ma non offrono garanzie di sicurezza e stabilità economica.
La situazione di precarietà può trovare una spiegazione nel difficile adattamento degli indios che arrivano in città. Essi non conoscono i meccanismi del mercato del lavoro e generalmente non si relazionano con i bianchi – se non nella forma di rapporti di sudditanza – ma solamente con altri indios, parenti o amici. Questa situazione non caratterizza solamente chi è arrivato da poco in città, ma anche chi pur con molti anni di permanenza non riesce comunque a trovare le condizioni per lavori migliori e più stabili.
Così la maggioranza degli indios cittadini difficilmente ha un luogo di lavoro fisso o un contratto; essi prestano servizi temporanei, con un salario giornaliero o settimanale; sono i primi a essere licenziati in caso di difficoltà economica dell’impresa per cui lavorano e non sono per nulla tutelati dalla legge sul lavoro; fanno lavori quali il becchino, lo scaricatore di camion, il muratore e l’aiutante muratore, il guardiano notturno, il manovale. Le donne sono le più sfruttate, per lo più occupate quali domestiche e lavandaie.
non solo indios
Questa situazione vale per gli indios che hanno lasciato la foresta, ma anche per i contadini – quasi mai di professione, spesso privi di esperienza o attitudine al lavoro agricolo e abbandonati al loro destino in insediamenti improvvisati in mezzo alla foresta – i quali non hanno retto alla vita dura nella foresta e si sono riversati verso la città, e anche per i garimpeiros che non hanno fatto fortuna. Contadini e garimpeiros che devono vivere in situazioni di vita del tutto sconosciute: la foresta, il clima, le distanze enormi, l’isolamento, l’estrema difficoltà di qualsiasi contatto con il resto del Paese.
Sono tutti vittime dell’esclusione sociale, della mancanza dei servizi che dovrebbero essere foiti dalle amministrazioni pubbliche o dalla società civile come scuole e servizi sociali e sanitari. Invece le strutture sanitarie sono scarse e inadeguate, l’offerta educativa è insufficiente e non esistono servizi di orientamento e inserimento nel lavoro.
boom della coca
Per questi (contadini e garimpeiros, in special modo) si è aperta, in diverse zone della foresta amazzonica, una nuova via, quella della coltura della pianta della coca per ottenee la pasta. Il boom della coca è la conseguenza evidente del crollo delle illusioni dei coloni: non si fa nessuna fatica a convincerli che, con poco sforzo, in poco tempo e con grande abbondanza, si può accumulare denaro coltivando la coca. In effetti la coltivazione della coca è quella che si presenta, nella foresta amazzonica, come la più redditizia: secondo le diverse fonti, la rendita della coca risulta da cinque a dieci volte superiore a quella del caucciù; da dieci a venti volte superiore a quella del cacao. Più redditizia è ovviamente l’attività di chi dispone di piccoli laboratori per produrre la pasta di coca partendo dalle foglie della pianta. Ugualmente ben pagata, rispetto ai salari correnti, è l’attività dei raspachines, manodopera errante che passa di finca (campo – piantagione) in finca per la raccolta delle foglie di coca.
In realtà si tratta di stime di redditività comparata che si fermano al solo calcolo economico, al calcolo della redditività lorda, che non tiene conto delle forti diseconomie (costi economici e metaeconomici individuali, oltre che sociali) derivanti dall’illegalità, dallo stato di violenza e disordine sociale e famigliare che la narcoproduzione e il narcotraffico comportano.
Che poi – come si sente dire, con evidente confusione sul concetto di «bene» – la produzione della coca possa essere valutata, a livello macro-economico, come fatto positivo, poiché attiva reddito e occupazione, è fatto assai criticabile, in quanto confonde la promessa di benessere – reddito e occupazione – con la realtà del benessere – disponibilità di beni atti a migliorare la qualità della vita della popolazione (… e naturalmente questo non vale solo per la coca e la cocaina, ma anche per molti altri prodotti, che gonfiano i valori del PIL, ma non quelli del benessere anche solo materiale).
boom boomerang
Il boom della coca richiama alla mente precedenti bonanza (imprese altamente redditizie e relativamente facili, ma di breve durata, ndr.), quali quelle del caucciù, della china, delle pelli degli animali, del legno pregiato ricavato dalla deforestazione, del riso, del granoturco, della soia. Tutte hanno il comune denominatore dello sfruttamento irrazionale della foresta e delle terre in generale, a causa dell’ignoranza dei contadini in merito alle tecniche agricole e zootecniche appropriate al contesto locale. Molti contadini continuano a praticare la tecnica del «taglia e brucia», che danneggia gravemente l’ambiente locale, distruggendo le risorse forestali e favorendo l’erosione dei suoli fino a provocare veri e propri fenomeni di desertificazione. I terreni sono coltivati fino a esaurimento – senza conoscere tecniche appropriate e andando anche incontro a perdite economiche – e successivamente rivenduti ai latifondisti come pascolo, e i piccoli coloni sono sempre alla ricerca di nuove terre nella foresta.
(1 – continua)

Daniele Ciravegna

Daniele Ciravegna




Squali senza pinne

Rientro dei pescatori e crisi del mercato ittico

In Senegal la pesca occupa più di 600 mila persone, di cui 400 mila impegnate nella pesca tradizionale; ma la quantità di pesce è diminuita dell’80% rispetto a dieci anni fa. La crisi è iniziata quando pescherecci europei e asiatici hanno avuto licenza di depredare le acque africane, con sistemi che mettono a rischio la riproduzione ittica.

Il giorno prima di lasciare il Senegal, la mattina, Rosalie mi guida in un giro nel porto di Dakar, il più importante dell’Africa dell’Ovest. Accanto a enormi navi cariche di container in attesa di essere sdoganati, tante piroghe di legno e relitti che ancora escono in mare per la pesca. Coloratissime, slanciate nella loro lunghezza, le piroghe sono in grado di stare in mare per settimane di pesca. Sembrano esili e quasi traballanti, eppure con quelle barchette, mi assicura Rosalie, i pescatori senegalesi si spingono fino nelle acque della Guinea Bissau. Ne vedo arrivare una che sembra scivoli sulle onde e sia sempre in procinto di ribaltarsi: un movimento precario che per i pescatori è normale, ma non per me.
Più tardi, spinta dalla curiosità, chiederò a un pescatore di fare un giro nella sua piroga; ma non usciamo nemmeno dal porto che il mio stomaco in ebollizione e il mio colorito verde costringe il gentile pescatore a fare subito marcia indietro.
I pescherecci, anche quelli più grandi, non hanno sistemi di conservazione del pesce. Caricano le stive di ghiaccio riuscendo a conservare il pesce anche per una settimana. Non cerco nemmeno di spiegarmi come facciano; ormai ho la consapevolezza che quello che per noi sembra impossibile per loro è la normalità.
Incontro il signor Antonio, un armatore italiano in Senegal da quasi 20 anni, pur non parlando una parola di wolof né di francese. È Rosalie che si occupa di tutto per lui. Egli mi racconta come il mercato ittico in Senegal fosse diverso fino a qualche anno fa: «Qui si pescano tonnellate di pesce perché l’oceano è ricco di plancton. Una volta bastava calare le reti e in poco tempo si riempivano. Riempivamo container di pesce e li spedivamo in Italia. Da quando l’Unione europea ha fatto certi accordi bilaterali con il Senegal, la pesca non è più un settore redditizio, poiché barche da tutta l’Europa possono pescare liberamente al largo delle coste senegalesi».
«In cambio del permesso di pesca in acque africane, l’Unione europea offre cifre irrisorie, almeno a parer mio – continua il signor Antonio -. Due anni fa, il Marocco è stato il primo a contestare questa politica europea. Ora anche il Senegal chiede che i negoziati con Bruxelles tengano conto dell’impatto che la pesca tradizionale ha sulla gente, dato che coinvolge direttamente almeno 80 mila senegalesi e indirettamente altri 500 mila. Troppa gente rischia la rovina a causa delle modee pratiche industriali di pesca, ma l’Unione europea sembra preoccuparsi solo di riconfermare la possibilità di pescare in acque senegalesi. Inoltre, la sospensione dell’accordo tra Ue e Marocco non ha fatto altro che aumentare la pressione sulle risorse ittiche senegalesi. L’economia legata alla pesca tradizionale è in forte crisi. Cresce la disoccupazione tra i giovani e i meno giovani che erano già impegnati in questo settore. L’Ue insiste su pratiche di pesca dannose per i fondali: la “pesca pelagica”, cioè quella effettuata con reti lunghe anche un paio di chilometri, che raschiano i fondali e aggrediscono tanti tipi di pesci, impedendone la riproduzione, la pesca “da traino” e la pesca del tonno, tutte tecniche notevolmente invasive per i pesci».

Osservo i pescatori che passano da una barca all’altra parlando e interrogando. Rosalie mi dice che cercano lavoro, per una settimana piuttosto che per un giorno. L’immagine del rientro di centinaia di piroghe dall’oceano, con le donne ansiose sulla riva che aspettano i mariti e i figli, sarà la foto del Senegal che mi porterò dietro.
Arriviamo quando il sole non è più così alto. Iniziamo lo zig zag tra decine e decine di piroghe. Bambini le svuotano dall’acqua accumulata, come pescatori esperti. A destra e a sinistra sedute sulla sabbia, le donne chiacchierano mentre puliscono il pesce e lo preparano per i vari mercati. Una moltitudine di colori impressiona l’esposimetro della mia macchina fotografica che non sa più cosa mettere a fuoco. Bimbetti seguono le mamme intente nella trattativa. Schiere di donne ordinate come in una perfetta fila militare, aspettano i mariti a riva, pronte per scappare a vendere il pesce.
Rosalie mi spiega che la vendita del pesce spetta alle donne. Gli uomini si «limitano» a pescarlo. Saranno le mani esperte e veloci delle donne a sistemarlo esteticamente e a venderlo, seguendo le logiche di un marketing senegalese.
Nelle reti tantissimi piccoli squali sono rimasti impigliati; i pescatori ne tirano fuori a decine e decine dalle reti e li buttano sulla sabbia. Osservandoli per bene, si nota che moltissimi non hanno più le pinne. Sono stati i pescatori cinesi a catturarli, mutilarli, per le loro famose zuppe di «pinne di squalo», e a ributtarli in mare, condannandoli a una morte certa.  
Io sembro una bambina all’acquario. Non ho mai visto così tante specie di pesci. Enormi, colorati e dalle espressioni più strane. Anche i cetacei sono tanti, così pure i molluschi racchiusi in bellissime conchiglie.

Per salutarci, Paco decide di mostrarci come anche gli uomini senegalesi sappiano cucinare. Sarà che l’ho talmente punzecchiato con la storia del turismo sessuale, delle donne che a parer mio, non suo, sono ancora troppo sottomesse, che vuole lasciarmi un ricordo indimenticabile del Senegal e della sua gente. E da che mondo è mondo, come si può sfuggire al piacere della gola? Prenderà del pesce al mercato e ci preparerà dei piatti tipici senegalesi. Dopo un paio di ore di lavoro, è fatta. E il risultato sono piatti squisiti che ci lasceranno la voglia di tornare in Senegal.

Romina Remigio

Romina Remigio




Occhi di bimbi da sognare

Dakar: visita alla pouponniere

«Al servizio della vita in una delle sue forme più amabili, l’accoglienza e l’accompagnamento dei neonati, la Pouponnière delle Francescane Missionarie di Maria si presenta quale risposta a diversi appelli, giunti da famiglie o istituzioni civili del paese. Essa manifesta la stima rivolta all’essere umano sin dalle prime tappe della sua esistenza (Giovanni Paolo II, 22 febbraio 1992).

Arrivo alla Pouponnière dopo aver attraversato gran parte della Medina, il quartiere musulmano di Dakar. Il nostro taxi gira e rigira tra i vicoli stretti e saturi di gente. Sembra di essere in un labirinto, con strade e case tutte uguali, come le persone. Donne coperte fino ai piedi e uomini con il loro tipico babou. Nonostante siano passate le tre pomeridiane il caldo è ancora intenso; l’umidità non ha mai smesso di soffocare i miei polmoni, per non dire dell’effetto sui miei capelli, così increspati che mi sembra di avere un cespuglio in testa.
Il muezzin chiama alla preghiera. Il nostro tassista continua a sostenere di conoscere la strada, ma non facciamo altro che girare e rigirare, immergendoci sempre più nel cuore della Medina. Sono stanca. Stiamo viaggiando dalla mattina presto. Scopro tanti occhi che mi fissano. Sono convinta che non avranno mai visto una bianca con dei capelli così sconvolti in testa! O mi fissano perché le donne senegalesi amano le parrucche! Sembra che non abbiano folte criniere. I miei occhi fotografano ogni angolo, ogni sguardo e ogni attività di questo non troppo agitato quartiere.
C’è tanta gente, ma i movimenti sono lenti. Uomini seduti sotto ombrelloni giocano a dama. Un chiacchiericcio di sottofondo riempie l’aria. Ovunque gruppi che discutono e leggono il corano. Le donne vendono frutta, pesce e chincaglierie varie, sempre chiacchierando. Cerco di immergermi nei loro pensieri e discorsi, pur non capendone la lingua. Si racconteranno della preoccupazione per il futuro dei figli, dei mariti sempre più pesanti nel loro religioso maschilismo.
Inevitabilmente mi tornano alla mente le parole di amici che mi spiegavano come la religione stia diventando incompatibile con la società attuale. Propone e impone comportamenti retrò per un paese che cerca quotidianamente di metabolizzare la globalizzazione.
Dakar è la metafora della schizofrenia del Senegal. Una grande città dove confusione e modeità, povertà e ostentazione, integralismo religioso e comportamenti estrosi si fondono, cercando una dimensione di equilibrio. Ma ho imparato che il concetto di equilibrio ha un significato semantico diverso per gli africani rispetto al mio.

un nido tutto speciale
Finalmente arriviamo davanti al grande cancello della Pouponnière. Ci accoglie un uomo intento a dissetare i fiori e le piante di un giardino arso dal sole e da una temperatura proibitiva anche per una pianta. Operai al lavoro continuano nella costruzione di un’altra casa per gli ospiti. Il compound è grande, ma si nota come gli edifici siano stati aggiunti nel corso degli anni.
La Pouponnière è stata fondata il 5 agosto 1955 dalle suore Francescane Missionarie di Maria e tuttora gestita da loro, sebbene aiutate da una dozzina di mame africane e dipendenti vari. È una sorta di orfanotrofio perché accoglie bambini orfani, abbandonati e malati; vi si respira un clima di calore e affetto.
La Pouponnière è stata creata come struttura parallela agli ospedali per quei servizi che gli stessi ospedali, già sovraccarichi di lavoro, non riuscivano a svolgere. Tra le problematiche maggiori: bambini denutriti o malnutriti che devono seguire per mesi una determinata alimentazione, neonati le cui mamme sono morte di parto e neonati abbandonati perché figli illegittimi o nati fuori dal matrimonio, figli di genitori di etnie diverse e bambini abbandonati per le vie della città.
Dal 1955 a oggi la Pouponnière ha accolto 4.150 bambini, da zero a 12 mesi: 3.496 di essi erano orfani e/o casi sociali, 550 sono stati adottati o stanno seguendo le procedure di adozione e solo 104 non ce l’hanno fatta. Attualmente i bambini sono 87 da zero a 12 mesi. Al secondo piano ci sono i bambini più piccoli da zero a 4 mesi. Attraverso i corridoi ordinati, con lettini, culle, scaffali carichi di vestitini e peluches mandati da ogni parte del mondo.
Mi accolgono mame senegalesi intente nella pulizia degli spazi e dei bambini. Grandi occhi neri spuntano dalle culle. Mi sorridono e tutti vogliono saltarmi in braccio. Osservo le donne correre da una culla all’altra. Nelle stanze vicine c’è quella del bagnetto. Una decina di bambini vengono lavati, profumati e vestiti. Sembra una catena di montaggio! Mani che disinfettano, girano, toccano, premono quei corpicini per accertarsi che vada tutto bene.
Molti bimbi vengono da situazioni davvero estreme. Tanti sono visibilmente denutriti e hanno bisogno di cure continue, sono piccolissimi.

bisognosi di coccole
Nel giro di un quarto d’ora mi ritrovo a dondolare con il mio piede destro, un bimbo urlante in un ovetto, un altro in braccio che mi si aggrappa al collo e un altro che gattonando sta lottando per alzarsi in piedi avvinghiato a un ginocchio. Vedendomi in panne, mi viene incontro una donna; per lei è una situazione normale: le donne africane riescono ad allevare sei, sette bambini insieme. Le vedo gestire una stanza di bambini con movimenti continui ma rilassati. Uno viene dondolato mentre l’altro vuole venire in braccio; nel mentre c’è quello che morde il vicino, il quale inizia a piangere; allora bisogna spostarlo, quello che inizia a gattonare titubante sembra geloso e si aggrappa alle gambe. Se inizia a piangere uno, partono tutti come allarmi impazziti.
Dopo mezz’ora le ragazze se la ridono, guardandomi seduta su una sedia con l’aria sconfortata. Me ne fanno scivolare in braccio uno così piccolo che quasi ho paura a tenerlo. Sembra un bambolotto. Si vedono solo gli occhi grandi e nerissimi, che mi fissano terrorizzati. È indeciso se piangere davanti a questa bianca dai tanti capelli o rilassarsi perché comunque è in braccio. Forse avverte la paura delle mie braccia, allora da solo si posiziona come meglio crede e si rigira senza mai staccarmi gli occhi di dosso.
Verrò a sapere poi dalla suora che quel bimbo ha appena una settimana ed è stato abbandonato davanti al cancello della Pouponnière; la madre, secondo voci di quartiere, era una ragazzina molto giovane di Gorèe, l’isola di fronte a Dakar. È denutrito e spaventato. Marì mi dice che all’inizio non voleva nemmeno mangiare, piangeva tutto il giorno; poi, piano piano, sono riuscite a tranquillizzarlo. Nella sua tutina troppo lunga sembra ancora più piccolo. Si stende, sbadiglia, mantenendo sempre gli occhi incollati ai miei.
Altri bambini si avvicinano perché sono abituati a vedere volontari che vengono per brevi periodi e che li coccolano esageratamente. Ma non si può fare diversamente. Le stesse mame li sbaciucchiano, li accarezzano! E io giro per la stanza con questo fagottino, che mi si è così raggomitolato stringendosi al collo, che quasi trattengo il respiro per paura di svegliarlo. E quando meno me l’aspetto, si sveglia, si gira ancora traballante e mi fa un sorriso che mi scioglie. Inevitabilmente mi chiedo cosa debba aver provato la mamma ad abbandonarlo. Sarà stata una sua scelta oppure è stata obbligata! E la vita, il futuro di questo piccino come sarà?
Entro nella stanza dei giochi: su un enorme materassino mi trovo davanti a una scena simile alle cartoline di Anne Geddes: una decina di bambini messi in cerchio dormono l’uno accanto all’altro.
impossibili istantanee  
Al secondo piano della Pouponnière invece ci accolgono bambini dai sei ai dodici mesi che gattonano a più non posso. Stessa struttura: lungo i corridoi con culle a destra e a sinistra e i piccoli che si arrampicano e alzano le braccia cercando la mia attenzione.
Entro nella stanza dei giochi. C’è un enorme materassino come al primo piano; qui, però, i bambini non dormono, ma sfrecciano gattonando a una velocità pazzesca. Mi tolgo le scarpe e assisto a una maratona di quattro bimbi che mi corrono incontro quasi scavalcando gli altri pur di arrivare per primi ai miei piedi.
Sul materassino c’è chi dorme, chi infila le dita negli occhi dell’altro, chi si trascina per rubare il pupazzo al vicino: uno spettacolo! Sono tutti curiosi di toccare da vicino quello strano giocattolo che ho al collo: la macchina fotografica. In un baleno me ne trovo uno sulle ginocchia, un altro si aggrappa alle gambe; stendendo il braccio in altezza, cerco di allontanare la macchina fotografica dalle loro vivacissime mani, più veloci anche degli occhi. Sono letteralmente assaltata da questi bellissimi bambini che tra enormi sorrisi, baci e morsi cercano di convincermi a prenderli in braccio, per riuscire nell’intento di toccare il mio giocattolo.
Quando penso che si siano arresi, inizio a fare le foto, piegandomi per meglio sistemare l’inquadratura e subito me ne corrono incontro dieci come cagnolini che nel giro di dieci secondi, alitano, leccano, baciano, toccano me e l’obiettivo, ormai oscurato da così tanto «affetto».
Pur di fermarli per qualche minuto, faccio vedere loro dal monitor della macchina le foto già scattate, provocando un coro di grandi sorrisi, come se capissero le facce curiose delle foto. Hanno solo otto, nove, dieci mesi, ma sembrano bimbi di un paio di anni.

adozioni inteazionali
Qui alla Pouponnière permettono le adozioni inteazionali. Ma prima di affidare un bimbo ad altri, cercano parenti vicini o lontani che se ne possano occupare. Non tutti sono orfani o abbandonati; molti sono semplicemente nella struttura per ristabilirsi da casi di denutrizione o malnutrizione e dopo un anno, quando i bambini stanno bene, vengono reinseriti nelle proprie famiglie.
Mi spiega una suora che il loro fine principale, come quello degli assistenti sociali, è di aiutare i genitori e i bambini in difficoltà, cercando di non sradicarli dalla loro realtà familiare, neppure nei casi di crisi. Infatti i bambini mantengono i contatti con la famiglia che può visitarli di solito la domenica pomeriggio. Anche una volta reintrodotti in famiglia, la Pouponnière continua a sostenere i bambini fino ai due anni, attraverso razioni mensili di cibo e latte.
Nella Pouponnière c’è una casa riservata agli ospiti e ai numerosi volontari. Molte camere sono riservate alle coppie sposate che vengono a Dakar per adottare un bimbo.
Il Senegal non ha ancora ratificato la Convenzione dell’Aia (29-5-1993) sulla tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozioni inteazionali. Ma è dotato di una legge intea che disciplina la materia attraverso il Codice di famiglia e il Codice di nazionalità; le condizioni per concedere un bambino in adozione sono alquanto rigorose: una di esse richiede ai genitori adottivi la permanenza di almeno tre settimane in Senegal, non solo per conoscere il bimbo da adottivo, ma anche la cultura e tradizioni del paese.

sogno realizzato
Mentre mi preparo un caffè nella cucina in comune, entrano Pedro e Maria salutando gentilissimi; mi basta guardare i loro occhi raggianti per capire: Maria mi dice subito che hanno realizzato il loro sogno; dopo aver fatto tutta la trafila per l’adozione, sono stati finalmente chiamati e da una settimana sono in Senegal. C’è una bambina per loro! Si parlano amorevolmente e si abbracciano continuamente. Hanno 34 anni lui e 32 lei. Stanno insieme da sempre, da quando avevano dodici anni, praticamente sono cresciuti insieme. Sono di un paesino vicino Malaga, in Spagna.
Dico loro che sono una fotogiornalista, interessata alla loro storia e che vorrei raccontarla. Loro sono così felici che non hanno remore a rispondere alle mie domande.
Preparo tre tazzine di caffè e inizio delicatamente ad affrontare l’argomento. Dall’inizio alla fine della nostra chiacchierata essi si terranno per mano, sorridendosi e sostenendosi continuamente anche nei momenti più delicati. Maria ha avuto da giovanissima un tumore da cui è uscita bene, nonostante mesi e mesi di chemioterapia. Ma la conseguenza finale è stata il non poter avere figli. Pedro mi racconta che hanno girato tutta la Spagna, provato vari interventi e anche l’inseminazione artificiale, ma sembra che l’utero di Maria non riesca ad accogliere un bambino.
«Sono stati mesi e anni duri. Tristi! Tutti i nostri amici si facevano una famiglia – racconta Pedro -. Nella nostra cittadina un matrimonio senza bambini non è un matrimonio. Non è vita. Gli anni passavano e la depressione aumentava. Abbiamo scoperto che Maria non riusciva a concepire perché aveva un problema alle ovaie, sembrava una ciste, invece era un tumore. Subito la paura di non poter avere bambini. Eravamo troppo giovani. Ci siamo sposati a vent’anni, perché ci sembrava di perdere tempo. Io volevo diventare padre. Insegnare a mio figlio a pescare, a giocare a calcio o se fosse stata una bimba, farla diventare la principessa di casa. Maria aveva ventidue anni quando l’abbiamo scoperto. Una volta operata ci avevano detto che non era stato toccato l’utero e che, seppure con difficoltà, sarebbe stato possibile avere un bambino. Invece non è stato così. Quanti medici, visite, ospedali, tentativi e, soprattutto, preghiere, ma nostro figlio non è arrivato. Siamo una famiglia di tradizione molto credente e devo assolutamente dire che l’unica cosa che ci ha tenuti insieme e che non ci ha mai fatto perdere la speranza è stata la fede. Sono momenti così difficili che non fai altro che domandarti perché! Perché a me? Perché a noi? Ci siamo fatti seguire dal nostro parroco, un carissimo amico, ma abbiamo seguito anche sedute di psicologi. Alla fine dopo un viaggio in Africa, in una missione, ci siamo detti: perché non aiutare uno di questi straordinari bimbi che potrebbe darci la serenità e la felicità che sogniamo? Una missionaria ci aveva parlato del Senegal e della Pouponnière e, poiché non siamo poi tanto lontani, siamo venuti a informarci».
«Quando siamo entrati in quella stanza – continua Maria – e abbiamo visto così tanti angioletti che ci chiedevano solo di essere felici, è bastato guardarci per convincerci che nostro figlio era lì. Sarebbe stato uno di loro. E così abbiamo iniziato subito tutte le pratiche di adozione e finalmente dopo un anno e mezzo ci hanno chiamato dicendoci di venire per conoscere la nostra bambina. Ha quattro mesi. È stata portata qui dalla polizia, dicendo di averla trovata dietro un albergo. Forse è figlia di qualche ragazza che lavora lì. Quello che ci importa è che sta bene ed è serena. Poi è bellissima!».
Maria interrompe il racconto perché è l’ora in cui possono andare a prendere la bambina. La chiameranno Angela. Quando rientrerò dal mio giro per Dakar, li troverò fuori in terrazzo assorti nell’osservare Angela che si gode tutto il loro affetto. Mi basta guardarli per capire davvero cosa sia la felicità.

Romina Remigio

Romina Remigio




Turismo «irresponsabile»

Un primato non invidiabile

Da alcuni anni il Senegal è diventato la meta preferita del turismo sessuale femminile: nel paese africano è in continuo aumento il numero di donne europee e americane che scelgono di «divertirsi» con prestanti «accompagnatori» del posto.

Il sermone sulla bontà del muridismo fatto dal «grande marabut» di Touba ha soddisfatto varie mie curiosità, ma non ha fugato affatto alcune mie perplessità sulla società islamica in generale e su quella senegalese in particolare. Mi domando soprattutto come sia ancora possibile tollerare certe pratiche barbare come l’infibulazione, il matrimonio di bambine con vecchi e altre tradizioni che negano i diritti basilari della donna, destinata ad assolvere quattro compiti: servire e assecondare il marito, mettere al mondo e crescere i figli seguendo i dettami del marito.
Ancora più intrigante è il fatto che di fronte all’indottrinamento islamico di massa (non me ne vogliano i musulmani senegalesi), in una realtà così chiusa in se stessa, si possa concepire un turismo sessuale sfrenato come quello che si registra in Senegal!
La situazione del Senegal mi richiama alla mente quella dell’Iran, paese ogni giorno alla ribalta di giornali e telegiornali di tutto il mondo per la negazione dei diritti umani, violenze, soprusi e rigidità di ogni genere; eppure è uno dei paesi dove c’è il più alto tasso di ricostruzione dell’imene, di chirurgia plastica in generale, per non parlare della libertà sessuale, sperimentata solo nelle feste private, di nascosto dai pasdaran, i guardiani del popolo.
Sono convinta che le imposizioni dell’integralismo islamico, che vuole regolare ogni aspetto e comportamento della vita delle persone, non può che portare a realtà schizofreniche. Con ciò non voglio generalizzare: ho amiche di entrambi i paesi, i cui genitori non le hanno sottoposte a certi obblighi o violenze, ma ho potuto constatare quanto sia complicato per esse vivere in tali ambienti.
Ho sperimentato di persona come in Senegal sia impossibile per una donna bianca e sola, girare senza essere soffocata da continue richieste. Nell’Africa occidentale, a differenza che in Africa orientale, ho dovuto sempre trovare qualche persona che girasse insieme a me, non tanto perché fosse pericoloso stare da sola, ma semplicemente perché è impossibile fare il proprio lavoro. Girare per un mercato significa incontrare nugoli di ragazzi che vogliono venderti di tutto, e questo è normale, ma insistono e insistono, ti chiamano, ti bloccano, ti tirano, ti seguono per ore e ore, lamentandosi con esasperante logorrea.
Cerco di giustificare tale comportamento con l’errata concezione del bianco che si sono costruita, come colui che ha sempre tutto o che comunque possiede più di loro; sembra inutile tentare di convincerli del contrario. D’altronde ragazzi che nascono in una società dove devono sempre ubbidire a qualcuno senza se e senza ma, indottrinati da imam o marabut del proprio villaggio, che ascoltano i racconti di senegalesi emigrati e ritornati «ricchi» ai loro occhi, e magari all’età di 18-20 anni si ritrovano a Saly come «accompagnatori» di denarose donne bianche, più e meno vecchie, è normale che ci vedano solo in un certo modo.

Sono stata una settimana a Saly, la più famosa delle stazioni balneari del Senegal. Ho affittato un alloggio sulla spiaggia, proprio per capire come mai il Senegal, tra i paesi dell’Africa nera, sia la meta preferita del turismo sessuale soprattutto delle donne.
Un tipo di turismo ormai presente in varie località dell’Africa. Ne avevo già avuto sentore a Zanzibar alcuni anni fa, dove mi ero recata per godermi un po’ di mare, dopo sei mesi intensi di missione. Nell’albergo in cui alloggiavo, lavorava un ragazzo di nome Robert, che ogni giorno, in maniera molto garbata, mi chiedeva se volessi le fragole, se volessi fare un giro per i vicoli di Zanzibar. All’inizio scambiai la sua estrema cortesia con la gentilezza tipica dei tanzaniani, anche se mi chiedevo come mai, ai tropici, con l’abbondanza di frutta locale, avesse voluto offrirmi proprio le fragole.
Dopo qualche giorno, a colazione, assorta nel contemplare l’oceano, notai una signora americana, mia vicina di stanza, mano nella mano con un giovanissimo tanzaniano: riflettendo su quel particolare, cominciai a rivalutare gli atteggiamenti di Robert. Il Tanzania è così discreto su queste cose che mi sembrava troppo strano. Ma alla fine invitai Robert a sedersi al mio tavolo per fargli delle domande. E lui, imbarazzato, iniziò a rivelarmi che era venuto da Njombe a Zanzibar per lavorare, che l’albergo offriva ai clienti, compreso nel prezzo, anche un particolare extra, ossia un compagno o compagna. Ecco le fragole, mi dissi! Robert non sapeva più come farmi comprendere che lui era lì a mia disposizione e non riusciva a capire come mai una giovane ragazza bianca fosse venuta lì solo per il mare e per il sole. Dalla mia accettazione o meno dipendeva parte del suo stipendio, poiché gli albergatori, convinti che gli inservienti arrotondassero con le turiste, li pagavano pochissimo.  

In Senegal invece quest’attività è molto meno riservata, per non dire spesso ai limiti del ridicolo. A Saly, ogni albergo o spiaggia privata ha una schiera di bagnini che non aspettano altro che arrivi la prima anziana. Paco mi racconta come tantissimi ragazzi siano sposati con delle nonne bianche.
Una mattina scendo in spiaggia sotto casa e mi ritrovo accerchiata da una decina di anziane signore, che con i libri sotto braccio e audacissimi bikini, non danno affatto l’impressione di essere lì per abbronzarsi. Nel giro di pochi minuti ecco l’assalto di frotte di giovani senegalesi altissimi, i corpi cosparsi di olio che evidenzia i loro fisici scultorei.
Cerco di trattenermi dal ridere quando vedo la mia vicina di camera, abbronzatissima e in topless, 60 anni passati da un pezzo, rossetto vermiglio sui denti più che sulle labbra, andare incontro a suo marito, un diciottenne, baciandolo appassionatamente. Una scena davvero imbarazzante.
Altrettanto comico è vedere i ragazzi discutere tra loro per conquistare l’ambita preda. Come trattenersi dal ridere quando li ascolti lanciarsi in frasi del tipo: «Ma che bella pelle; come sei carina; che begli occhi… » e magari la donna ha gli occhiali da sole? E tutto questo indirizzato ad anziane che cercano in tutti modi di vestirsi e muoversi come ragazzine.
La sera, passeggiando per la lunga spiaggia, è un continuo susseguirsi di ragazzi che si avvicinano per chiedermi se voglio compagnia, mentre osservo tante coppie di «nonne e nipoti», mano nella mano.
Parlando seriamente con Paco, vengo a scoprire come la realtà del turismo sessuale sia tutt’altro che comica, soprattutto per i danni che esso provoca nelle nuove generazioni. «Ci si può sposare con donne senegalesi, farsi una famiglia; ma anziché lavorare, ci si fa mantenere da donne che vengono in Senegal a divertirsi per qualche mese e, con un po’ di fortuna, ci si fa mantenere tutto l’anno».
Paco mi racconta che anche lui è stato sposato con una donna svizzera che aveva l’età di sua madre. Si erano conosciuti quando lui era molto giovane. E per qualche anno è stato il suo giocattolo, da usare come e quanto lei voleva. Alla fine la convivenza era diventata impossibile e Paco l’ha lasciata. Lei ha iniziato a tormentarlo, minacciando di suicidarsi, finché Paco è riuscito farle conoscere un suo amico.
La sera facciamo un giro anche per i vari locali di ritrovo e posso constatare come ce ne siano davvero per tutti: locali per omosessuali, locali per uomini in cerca di donne e per donne in cerca di uomini. Osservo quelli che potrebbero essere miei nonni e nonne. E tanti italiani. La chiamano trasgressione semplice. Con pochi dollari fai quello che vuoi. Fuori dai locali molti ragazzini, non avendo soldi per entrare, cercano di imitare i loro «modelli», provando a sedurre chiunque passi.
Generazioni di ragazzi e ragazze crescono seguendo questi modelli come dei valori. «Il Senegal non era così. Non c’è nemmeno voglia di sacrificio, di lavoro – mi spiega Rosalie -. Il pensiero dominante è farsi mantenere da parenti all’estero o da donne e uomini bianchi. Certo, non siamo tutti così, ma credimi, le percentuali sono diventate altissime, soprattutto nelle grandi città. Questa concezione del gigolo senegalese poi, non fa che rafforzare il potere dell’uomo in generale».

Non voglio concludere questa mia esperienza descrivendo solo realtà negative: il Senegal, come l’Africa in generale, è sinonimo di luce, musica, arte, spiagge, isole bellissime, gente cordiale. Tale genere di turismo non è affatto da generalizzare. Sono innumerevoli le organizzazioni e le inziative che promuovono il turismo responsabile in molte parti del Senegal. Iniziative che, unite a politiche e campagne del governo riescono a promuovere lo sviluppo del paese e ad arginare certi drammi come la diffusione dell’aids, diventato una pandemia in altri stati africani.
L’economia progredisce. Grazie alla creazione di infrastrutture, banche inteazionali, autostrada… il Senegal continua ad attirare molti investitori: con l’augurio che non siano tutti cinesi.

Romina Remigio

Romina Remigio




Muridismo: «Islam nero»

Incontro con il «gran marabut»

Un ufficiale coloniale francese lo definì «islam nero»: è il muridismo, nato nel cuore del Senegal alla fine del secolo XIX, ispirato agli insegnamenti coranici, ma interpretati in senso mistico; esso consiste in un insieme di pratiche di culto e regole di vita basate sull’amore, la tolleranza, il lavoro e la venerazione del «gran marabut», la guida suprema della confrateita muride. Lo abbiamo incontrato a Touba, la città santa con la sua sfarzosa moschea, una delle più belle d’Africa, ma in stridente contrasto con la circostante situazione che desta più di una perplessità.

Siamo a Touba, la città santa del Senegal, con la sua maestosa moschea: il più grande monumento musulmano dell’Africa nera. È situata nel bel mezzo del deserto senegalese, a 193 km da Dakar, voluta e fondata nel 1887 da Cheikh Ahmadou Bamba, il cui progetto era di realizzare un centro capace di conciliare l’aspetto spirituale e quello temporale in conformità con i dettami del Profeta. La stessa parola Touba significa «il grande bene».

«la mecca» senegalese
Un grande arco dà il benvenuto nella città santa; o meglio, esso separa la libertà di comportamenti dal rispetto rigoroso dei dogmi musulmani. Mi viene subito detto di coprirmi e non solo con un velo, ma con un vestito lungo fino ai piedi. Patrizia e io iniziamo i travestimenti. Riciclo un abito formato extra large che mi avevano gentilmente regalato le donne all’inaugurazione di un pozzo, pensando alla loro stazza e soprattutto altezza. La casacca è talmente larga che la scollatura mi scende sulle spalle; mi copro con un kanga; cerco di legarmene un altro alla vita, fermandolo come meglio posso. La cosa più sconvolgente è che riuscirò a ottenere un’intervista esclusiva con il grande marabut di Touba, presentandomi con tale acconciatura: mi viene da ridere solo a pensarci.  
Scendiamo dall’auto e troviamo subito due guide disposte ad accompagnarci nella moschea. Dobbiamo toglierci le scarpe. Attraversare scalzi i chilometri quadrati di marmo rovente, che ci portano all’entrata della moschea, è già una prova notevole. Sembra che la pelle si sciolga, ma, piuttosto che tornare indietro, riporterò delle ustioni ai piedi che curerò con un uso industriale di crema di aloe.
Sebbene Patrizia e io siamo coperte fino ai piedi, ci è permesso visitare solo alcune parti della moschea. Ma non sono arrivata fin qui per non fare nemmeno una foto; quindi, nonostante le ammonizioni e il borbottare continuo degli uomini palesemente urtati, scatto foto con la complicità della guida, che spera in una lauta offerta.
La costruzione di questo monumento religioso è durata 32 anni, ha richiesto 1.800.000 ore di lavoro, secondo una stima, e 4.800 tonnellate di pietre, di sabbia e d’acciaio. Con i suoi quattro minareti agli angoli alti 66 metri e uno al centro di 86 metri (chiamato Lamp Fall in onore di Cheikh Ibra Fall), sormontata da tre grandi cupole, la moschea offre una vista incantevole già a 10 km di distanza, da qualsiasi direzione si provenga.
Tonnellate e tonnellate di marmo bianco di Carrara e marmo rosa proveniente dall’Egitto rivestono la moschea. Che non abbiano badato a spese è evidente. Dai lampadari ai marmi, agli intarsi delle porte, tutto è straordinariamente maestoso. Mi sorprende, però, il contrasto tra lo sfarzo smisurato di questa costruzione e le case di paglia attorno alla moschea e nei villaggi in periferia della citta santa, che rispecchiano una realtà di povertà diffusa e tanto forte. Ci dicono che ogni sala è stata donata da un paese musulmano e dalle offerte costanti dei senegalesi muridi sparsi nel mondo.

Il muridismo
I muridi sono i seguaci degli insegnamenti di Cheikh Ahmadou Bamba. Il muridismo è un insieme di pratiche di culto e regole di condotta, basate sull’amore e l’imitazione del profeta Muhammad, il cui fine è il perfezionamento spirituale. È una forma di sufismo, che non costituisce un movimento confessionale come il sunnismo o lo sciismo, ma piuttosto uno stile di vita e un insieme di credenze e pratiche di culto che traggono le loro origini dal Profeta.  «Per Cheikh Ahmadou Bamba – spiega la nostra guida – sarebbe illusorio e anche pericoloso gettarsi nel misticismo senza soddisfare certe condizioni. Bisogna prima di tutto istruirsi nella religione e fare propri i principi islamici fondamentali e regolare la propria condotta in base alla shari’a e alla sunna (atti e detti del Profeta). Conformemente allo spirito di pietà e di devozione ad Allah che ha guidato Cheikh Ahmadou Bamba nella fondazione di Touba, il sacro Corano vi è letto, ogni giorno 28 volte».
Nonostante la proclamata volontà di aiuto, sostegno e amore reciproco, secondo il muridismo spiegato dalla nostra guida, nella moschea siamo spesso circondati da bambini di strada che chiedono insistentemente qualche spicciolo per mangiare, venendo redarguiti dalle nostre guide.
Incontriamo anche i famosi bambini del marabut di cui i senegalesi non vogliono parlare: non sono solo ragazzi orfani, abbandonati, di strada a cui il marabut dà un tetto, facendoli in cambio «lavorare» per lui. Sono letteralmente un esercito di piccoli accattoni, vestiti malamente e con una ciotola in mano per chiedere disperatamente l’elemosina per le strade senegalesi.  

venerazione… esagerata
In Senegal non c’è bus, taxi o macchina che non abbia sul cruscotto o appiccicato al vetro la benedizione del marabut di Touba. Non riesco a spiegarmi come mai quasi tutti i senegalesi siano così ossessionati per Touba e il suo marabut.
Paco cerca di azzerare le mie perplessità, dicendo che Touba è il loro Vaticano e il marabut è il loro papa. Accetto la spiegazione; ma è l’ossessione che mi intriga e gli spiego che i cattolici, nonostante le migliaia di pellegrini che quotidianamente visitano il Vaticano, non sono così esagerati, anzi.
Quando un senegalese parla del marabut abbassa anche il tono della voce, perché dice di non essere degno di parlare di lui. «Il marabut può tutto. Lui può permettersi qualsiasi cosa e noi seguiamo alla lettera i suoi comandamenti, in quanto lui è la voce del Profeta» mi sento ripetere da più parti.
Sono sempre più curiosa di conoscere questo marabut, allora comincio a solleticare la curiosità delle guide che ci girano attorno. Mi spaccio per una famosissima giornalista italiana estremamente interessata alla storia di Touba, del muridismo e della sua guida suprema. I nostri amici iniziano a telefonare e ritelefonare, discutere e parlare tra loro. Mi dicono che il marabut è molto malato, quindi sarà difficile vederlo. Insisto che non gli ruberò molto tempo. Alla fine mi dicono che il suo primo figlio, già suo sostituto e destinato a diventare il «grande» marabut di Touba, è disposto a incontrarmi.
La nostra guida è letteralmente fuori di sé dalla gioia. Inizia a baciare il telefono, mi prega di farlo entrare con noi. Siamo tutti un po’ storditi dal fatto di essere riusciti a ottenere un’intervista da quello che sembra essere l’uomo più potente e inavvicinabile del Senegal. Con noi ci sono anche due suore della missione di Mbar che sembrano sorprese più delle guide.
Immediatamente i nostri amici fermano un tassista, che non si fa pagare per il solo fatto di accompagnarli davanti alla casa del marabut; li seguiamo e dopo una decina di minuti arriviamo alla sua villa. Una fila interminabile e ordinata di donne, bambini e anziani aspetta pazientemente il proprio tuo per chiedergli un favore, che ripagheranno con soldi, frutta, pesce secco e addirittura con un proprio figlio.
Arriviamo alla cancellata della villa del marabut e i guardiani, evidentemente già avvertiti, ci fanno segno di seguirli. Entriamo. All’ombra in una zona del giardino, accerchiato da guardie del corpo e una schiera di assistenti, il marabut ascolta una donna.
Ci fanno accomodare in quello che dovrebbe essere un salotto. Un grande tappeto dozzinale riempie la stanza, il cui arredamento è decisamente di cattivo gusto; la stanza trabocca di oggetti di ogni tipo; quadri e condizionatori appoggiati per terra e alle pareti; televisori a schermo piatto ancora nella scatola e tanti divani tutti diversi.
Dopo pochi minuti vediamo dalle immense vetrate della stanza, arrivare il marabut circondato dai suoi collaboratori. Serigne Abdoul Karim Mbacké Fallilou: due metri di altezza con una mole imponente. Un babou (vestito tipico senegalese) bianco e larghissimo lo rende ancora più imponente. Saluta: «Salaam alekum»; e io prontamente: «Alekum salaam». E ci invita a sedere.

a quattr’occhi con il marabut
I suoi collaboratori si siedono sul tappeto ai suoi piedi, come fedelissimi cagnolini, facendoci capire che dovremmo fare altrettanto. Io occupo la prima sedia di fronte al marabut. Sedermi per terra sarebbe un’impresa con quella specie di sacco che mi avvolge; e poi, va bene coprirsi, ma stare ai piedi di un uomo proprio non l’accetto. Quindi con grande sorpresa dei suoi cortigiani, anche le suore e gli altri accompagnatori si siedono sui divani. Lui non ne sembra sorpreso; ci offre prima dell’acqua e poi delle bibite analcoliche, che un suo collaboratore ci porge stando sempre in ginocchio sul tappeto.
Inizio a fare le mie domande, che il mio traduttore pronuncerà in wolof, senza mai guardare il marabut negli occhi. Lui risponde solo dopo aver intervistato me: chi sono, che faccio, se sono sposata, dove lavoro, cosa ci facciamo in Senegal…
Il marabut si mostra soddisfatto del lavoro che sta facendo il dottor Antonio e la sua «Associazione Karibu insieme per crescere» e, pur capendo che io voglio risposte sul suo ruolo, su Touba, sul muridismo e sulla sua vita, lui, come prevedevo, non risponde alle mie domande. Inizia il suo sermone sulla bontà del muridismo, i cui seguaci sono persone che lavorano per Dio e per gli altri. Il suo lavoro è estremamente intenso. Accoglie centinaia e centinaia di persone che vengono a chiedergli aiuto, in cambio di un’offerta. Mi dice che ricevono milioni di franchi sefa ogni giorno, che poi vengono reinvestiti nell’aiuto ai più bisognosi.
Egli non è mai uscito dal Senegal, quindi non mi è difficile solleticare la sua curiosità sull’Italia di cui tanto ha sentito parlare. E mi sorprende il suo apparente imbarazzo nel sostenere il mio sguardo, mentre racconta e mi ascolta. È evidente che non è abituato a guardare negli occhi una donna o essere guardato mentre parla.
Dalla mia intervista viene fuori solo un suo encomio dei musulmani muridi, di Touba, importante non solo come meta di pellegrinaggio, ma anche dal punto di vista sociale. Su tutti i problemi del Senegal, dalla povertà alle squadre di bambini di strada, alla condizione delle donne, di estrema sottomissione agli uomini, Karim Mbacké Fallilou sorvola, rispondendomi che sono argomenti di cui non deve e non può parlare la «seconda» guida suprema di Touba.
Gli racconto (anche se nutro qualche dubbio che il mio interprete stia traducendo esattamente ciò che dico) di come sia rimasta impressionata dalla bellezza della moschea di Touba, ma altrettanto sconcertata nel vedere la precarietà della vita e le difficoltà delle persone visitate nei villaggi nel deserto, dove l’acqua è ancora prerogativa del solo Grande Allah e dove sopravvivere è davvero un miracolo.
Spiego al marabut che stiamo realizzando un libro fotografico sul Senegal e che mi piacerebbe invitarlo in Italia per presentarlo. Solo più tardi mi renderò conto della mia incoscienza nel fare tale invito: la facilità con cui ci ha ricevuto mi ha fatto dimenticare il ruolo e l’importanza di questo personaggio per i senegalesi di tutto il mondo.

quasi onnipotente
Il marabut di Touba ha un potere davvero assoluto in Senegal. Non esiste politico o presidente che possa ostacolarlo. Anzi, questi non possono che assecondarlo, in quanto egli è l’unico in grado di smuovere, convincere o «obbligare» masse di centinaia di migliaia di senegalesi a fare quello che lui crede sia giusto. È l’unico uomo che può vantarsi di decidere in maniera esclusiva e assoluta di vita, carriera, futuro e morte di una persona.
Verrò in seguito a sapere che qualsiasi senegalese che sia uscito o che voglia uscire dal paese in maniera legale o illegale, prima di partire e di iniziare la documentazione per il rilascio del passaporto ha bisogno di una lettera del marabut. Il suo potere assoluto quindi è legale sotto tutti gli effetti.
Non è un segreto, anche se nessun senegalese potrà mai ammetterlo chiaramente a un giornalista, che il primo stipendio di un emigrato andrà al marabut e non alla propria famiglia, per non parlare dei finanziamenti che i senegalesi continueranno a mandare a Touba «spontaneamente». Il marabut decide perfino quando un emigrato debba tornare a casa e quale tipo di attività aprire.
Alcuni amici senegalesi mi hanno raccontato che non è semplice tornare a casa. Prima di tutto bisogna riportare tanti soldi poiché, oltre a parenti e amici, si presenta a casa tutto il villaggio per mangiare tranquillamente e per chiedere ogni sorta di aiuto. «Il problema o, meglio, lo sbaglio della maggior parte dei senegalesi che tornano in patria è che non hanno il coraggio di raccontare le difficoltà, la fatica e i sacrifici fatti per guadagnare e risparmiare i soldi spediti alle proprie famiglie».
«La vita dell’emigrato è dura – continua un altro amico senegalese – ma quella nei nostri nostri villaggi è ancora peggiore, per cui si affrontano tutti i sacrifici richiesti. Ma quando si ritorna, lo si deve fare alla grande: vestiti firmati, cellulari di ultima generazione, lussuosi orologi e occhiali da sole… Si riportano regali per tutti e soldi da distribuire ai parenti. Così si continua a far credere che in Europa tutto sia semplice, che i bianchi sono tutti ricchi… Per cui l’importante è arrivare in Europa; se non si trova lavoro, si spera di trovare qualche donna più o meno anziana che, in cambio di una relazione, darà soldi senza fare storie».

Romina Remigio

Romina Remigio




Nel deserto a 50 gradi

Introduzione

Ero già stata in Senegal nel 2007, coinvolta in un progetto di contrasto all’immigrazione clandestina. Avevo girato per le periferie di Dakar, conoscendo amici e realtà africane immaginabili e non. Fui sorpresa nel vedere come l’Africa dell’ovest fosse differente da quella orientale; fin dall’ora compresi come sia sbagliato parlare dell’Africa come di una realtà monolitica: tradizioni, cultura, lingue sono totalmente diverse tra est e ovest.
Reincontro la mia amica Rosalie, che ancora sorride nel ricordare l’espressione che feci quando mi portò in uno dei più noti locali senegalesi in cui mi fu servita carne di montone su un foglio di carta usato al posto del piatto, da mangiare con le sole mani… A me che ero una fervente vegetariana!
Rosalie, cristiana cattolica, in un Senegal al 90% musulmano, mi racconta come sia difficile portare avanti e far accettare alla mamma e ad altri famigliari la sua relazione con un ragazzo cattolico del Togo di cui non conoscono la cultura e la lingua. Rosalie, cresciuta ed educata nelle scuole delle Suore missionarie di Maria, è decisa a sposare un ragazzo cattolico. «Non sai quanto è difficile trovare un ragazzo senegalese cattolico. E io non voglio essere la seconda o terza moglie di qualcuno che magari dall’oggi al domani mi butta fuori di casa senza se e senza ma. Ecco perché, nonostante i miei 35 anni non mi sono ancora sposata. Non voglio accontentarmi di un marito che abbia più mogli. Per non parlare del fatto che gli uomini senegalesi, nonostante si sposino, sono ossessionati dal desiderio di diventare mariti di anziane donne bianche che li mantengano. Questa situazione puoi ben capire come abbia stravolto le aspettative, la cultura e i modi di vivere dei giovani senegalesi».
Mi sembra inconcepibile tutto ciò, in un paese di ferventi musulmani. Mi immergerò in una realtà schizofrenica: dalla città santa dell’islam, Touba, al turismo sessuale senza freni; dall’intervista al «grande marabut», i cui uomini gli siedono ai piedi come cagnolini, alla movida nottua dei locali in cui incontrerò gente di tutte le età e orientamenti.
Ma sto accorciando troppo il mio reportage, direbbe Karen Blixen. Andiamo per ordine. Sono andata in Senegal nel maggio del 2010, per realizzare un libro fotografico per conto dell’associazione «Karibu Insieme Per Crescere», una Onlus di Cervia che da anni opera in Tanzania e in Senegal, costruendo pozzi in luoghi remoti e isolati. Dopo aver visto I Care Tanzania, il mio libro per le missionarie della Consolata, hanno voluto fae uno anche loro per raccogliere fondi e mostrare cosa siano riusciti a realizzare nonostante le esigue risorse.

Arrivo all’aeroporto di Dakar con il presidente dell’associazione Antonio Pescini e sua moglie Patrizia che è già buio. Una ventata di caldo umido mi si appiccica addosso mentre aspetto che l’impiegato si decida a mettere un timbro sul passaporto. Non faccio in tempo a girarmi che già due «guardie del corpo», sorridendomi dall’alto dei loro due metri, afferrano il carrello con i miei bagagli… Li lascio fare. È inutile dire loro che non ne ho bisogno, che non voglio, sarebbe solo l’inizio di un’estenuante trattativa che in quel momento il mio fisico, impegnato a lottare con quell’umidità asfissiante, non potrebbe affrontare. È sempre così quando arrivo in Africa, anche se il caldo del Senegal mi ha messo a dura prova più che in altri paesi.
Ad aspettarci fuori dall’aeroporto c’è Paco, un giovane senegalese dalle mille risorse, che ci accompagnerà nelle prossime settimane. Carichi di valige e borse, entriamo nella sua macchina diretti a Saly, una località costiera, conosciuta dai turisti non solo per il mare. L’indomani, davanti a uno straordinario oceano, non possiamo fare altro che godercelo.
Il giorno seguente partiamo per l’entroterra, per inaugurare tre pozzi e fotografare i progetti realizzati. E inizia l’avventura! Paco ci viene a prendere con un ibrido di Peugeot, una crasi di quattro modelli di macchine diverse, troppo bassa per attraversare strade sterrate e deserto; ma, più che prepararci al divertimento non possiamo fare!
Dopo esserci incastrati nella macchina, prima a vicenda e poi con le valigie, partiamo alla volta di Mbar, nella regione di Kaolack. In queste settimane macineremo chilometri e chilometri attraversando in lungo e in largo le tre regioni di Kaolack, Diourbel e Fatick, nei villaggi dove l’associazione ha realizzato pozzi e un dispensario di ginecologia.

Il deserto ci avvolge a perdita d’occhio. La solitudine del paesaggio viene rotta da concentrazioni di maestosi baobab e di tanto in tanto da villaggi. La temperatura inizia a salire, supera facilmente i 35°, poi i 45° fino ad arrivare a 52° nei giorni successivi. L’umidità è così spessa da rendere il cielo dello stesso colore della sabbia. Polvere, sabbia e ancora sabbia.  
Mi perdo a osservare un deserto ricoperto di buste di plastica, lattine e bottiglie. È impressionante vedere chilometri e chilometri di sabbia nuda, ricoperta di così tanta spazzatura che cerca di sciogliersi. Ma è inutile farsi domande sul perché non si riesca a sviluppare una coscienza ecologica in Africa: è certamente un problema che, fino ad oggi, non è mai interessato a nessun partito politico o associazione presente nel paese.

Romina Remigio

Romina Remigio




Cana (21) «C’era là la madre di Gesù»

Il racconto delle nozze di Cana (21)

Gv 2,1c: «[Uno sposalizio avvenne a Cana di Galilea] ed era la madre di Gesù là»
(kài ên hē mêtēr toû Iēsoû ekêi)
Sapevamo già che Gesù ha relazioni parentali particolari o almeno interessanti: è il «Figlio unigenito che viene dal Padre» di cui viene a farci «l’esegesi» (Gv 1,14.17); è «il Figlio di Dio» testimoniato da Giovanni il battezzante (cf Gv 1,34) e riconosciuto da Natanaele che lo va a cercare di notte (cf Gv 1,49). Sapevamo anche che Gesù stesso si autopresenta come «Figlio dell’uomo» (Gv 1,51) e dai «vangeli dell’infanzia» sia di Mt che di Lc sappiamo anche che ha due genitori: Giuseppe e Maria che egli tratta abbastanza malamente quando ricorda loro che devono stare al loro posto: «Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» (Lc 2,49), non considerando l’angoscia e il dolore dei due malcapitati che credendolo scomparso si sono disperati a cercarlo. Si rivolge ai genitori contrapponendoli a un altro «Padre». Il testo di Lc è interessante perché probabilmente è la versione cristiana del rito ebraico della «Bar Mitzvàh – Figlio del Comandamento», il rito del passaggio alla maggiore età di ogni ebreo maschio al compimento del dodicesimo anno e all’ingresso nel tredicesimo. Da questo momento ogni Ebreo diventava maggiorenne e poteva leggere la seconda lettura (i profeti) nella liturgia della sinagoga. Noi ora non possiamo occuparcene.
Dalla sposa alla madre
L’autore del IV vangelo a sua volta ci informa che c’è una «madre» (cf Gv 2,1) che partecipa alle nozze: non sappiamo se come semplice invitata o come parente. Anche questa «madre» però in Gv ha una particolarità: è sempre senza nome perché non viene mai indicata ed è un altro indizio che ci costringe a salire di livello. Una precisazione è necessaria: nella letteratura Giovannea quando si parla di «madre» indica sempre Maria di Nàzaret definita secondo il costume orientale con la sua funzione (cf Gv 2.1.3.5.12; 19,25.26.27); quando si parla di «sposa» si indica invece sempre la Chiesa (Gv 3,29; Ap 18,23; 21,2.9; 22,17). È importante sottolinearlo, perché nel racconto di Cana abbiamo «la madre», ma non «la sposa», nonostante si tratti di «uno sposalizio»; bisogna intendere cosa vuole dirci l’autore.
Riguardo alla parentela, Gesù è descritto da Gv come «unigenito del Padre» (Gv 1,14.18), «Figlio di Dio» (Gv 1,34.49) e «Figlio di Giuseppe» (Gv 1,45), per cui ora abbiamo un nuovo rapporto di parentela, preludio dei tempi nuovi: inizia l’èra della mateità della Chiesa, la sposa che genera la nuova umanità, immagine del Figlio.
Dal punto di vista delle relazioni umane, c’è chi pensa che la presenza della «madre di Gesù» sia dovuta a legami di parentela. Scrive a questo proposito Raymond E. Brown: «Esiste una tradizione apocrifa che Maria fosse la zia dello sposo, che un prefazio latino dei primi del III secolo identifica come Giovanni figlio di Zebedeo» (Giovanni, I,126). Un fatto è certo: la Madre è presente alla festa di nozze; anzi «doveva» esserci (v. più sotto la spiegazione dell’uso dell’imperfetto del verbo «essere»), ma anche perché da nessuna parte si dice che era stata invitata, come invece si afferma nel versetto seguente per Gesù e per i suoi discepoli.
Se il motivo della presenza fosse stata la parentela, anche Gesù avrebbe dovuto essere trattato come parente e avrebbe dovuto essere già là. Non si capisce perché per lui l’evangelista sente la necessità di dire che «era stato invitato» (Gv 2,2), mentre non sente questa necessità per la madre. Gesù e i suoi discepoli possono essere stati invitati da qualche conoscente, come Natanaele che era di Cana, il quale poteva avere interesse che la presenza di Gesù, personaggio noto, avrebbe dato certamente lustro e importanza al matrimonio.
Il motivo però della differenza tra la madre, che è «già» sul luogo delle nozze, e Gesù, che giunge all’inizio della festa, non bisogna cercarlo nel grado di parentela o in un invito interessato, perché ci porremmo sempre al livello immediato delle banalità; bisogna invece andare oltre le apparenze e penetrare il simbolismo che Gv ha inteso esprimere.
La semplice constatazione che «la madre di Gesù era là» potrebbe essere solo una notizia di cronaca, ma in Gv nulla è scontato e infatti dietro il senso domestico di una presenza materiale a una festa nuziale come tante altre, c’è la dimensione teologica che l’autore vuole mettere in evidenza.
Abbiamo detto spesso, e lo sottolineiamo di nuovo, che Gv usa lo stile della duplicità di significato: dietro le parole materiali di uso comune si nasconde la teologia cristologica. Non si tratta più dell’importanza del senso comune delle singole parole, ma del fatto straordinario che ciascuna di esse ha «settanta significati» per affermare la ricchezza inesauribile della Parola di Dio che nessun linguaggio, nessuna parola possono pretendere di contenere.
Qui ci troviamo espressamente di fronte a una «rivelazione» della personalità di Gesù, il Figlio di Dio. Se dal Sinai scendeva una Legge pietrificata, a Cana avviene la «manifestazione», l’epifania della persona stessa di Dio che si presenta alle nozze dell’alleanza nuova, come lo sposo atteso dall’amante del Cantico dei Cantici, e questo sposo è Gesù.
Significato dell’imperfetto «era»
L’abbinamento del verbo essere con l’avverbio «era … là» è tipica di Gv, che in tutto il vangelo la usa dieci volte, di cui due nel racconto di Cana (cf Gv in 2,1.6; 3,23; 4,6; 5,5; 6,22.24; 11,15; 12,9.26). L’uso, infatti dell’avverbio locativo «là – ekêi» con il verbo «essere» al tempo imperfetto, ritorna anche in 2,6: «C’erano poi là sei giare di pietra» (Gv 2,6). Questo richiamo ravvicinato, e identico sintatticamente, è fatto apposta per creare un parallelo tra la madre e le giare:
– Gv 2,1: «Ed era la madre di Gesù là»
                (kài ên hē mêtēr toû Iēsoû ekêi).
– Gv 2,6: «Poi erano là sei giare di pietra»
                (êsan dè ekêi lìthnai hydrìai).

Il verbo «essere» al tempo imperfetto ha valore qualitativo e indica una azione continuativa e duratura nel passato e intende dire che la madre stava «là» fin dall’inizio, come dire che «c’era da sempre».
Ogni volta che l’autore del IV vangelo deve introdurre un personaggio importante con un ruolo particolarmente significativo, usa sempre il tempo imperfetto:
– Gv 2,1: «C’era la madre di Gesù».
– Gv 3,1: «C’era tra i farisei un uomo di nome
                Nicodemo».
– Gv 4,46: «C’era un funzionario del re».
– Gv 5,5: «C’era lì un uomo che da 38 anni era malato».
– Gv 11,1: «C’era un malato, Lazzaro».
– Gv 12,20: «C’erano dunque tra quelli che erano saliti
                    per il culto, alcuni greci».

L’uso dunque dell’imperfetto del verbo «essere» è costante in Gv e forma quasi uno schema di presentazione importante (cf SERRA, Le nozze di Cana, 202-204).
La madre  e le giare
La sua presenza non è casuale: non è venuta per le nozze, ma c’era già come se aspettasse quelle nozze che sono il motivo della sua attesa. Lo stesso si deve dire delle giare di pietra, perché anche esse «erano là, distese per terra/che giacevano» prima ancora che le nozze iniziassero. È evidente che Gv ci vuole comunicare un simbolismo particolare sia della madre che delle giare, perché l’una e le altre non sono coreografiche, ma hanno un ruolo preciso e una funzione determinante. La madre e le giare «erano là», cioè aspettavano che finalmente avesse luogo lo sposalizio. La madre rappresenta il popolo d’Israele in attesa di essere ripreso come «sposa» dell’alleanza nuova rinnovata, perché è reduce dalle nozze dell’antica alleanza sinaitica finita in esilio, cioè in corruzione.
Le giare sono il segno visibile della Toràh scritta e orale, incisa su tavole di pietra (Es 24,12; cf Mateos – Barreto, Il Vangelo di Giovanni, 133 e 137) che sono diventate il «sacramento» del cuore di pietra di Israele descritto dal profeta Ezechiele e in attesa del trapianto del cuore di carne (cf Ez 11.19; 36,26). La madre e le giare sono il simbolo della sinagoga che attende il Messia:
a) le giare sono pronte per innovare la purificazione che il popolo dovette fare ai piedi del Sinai: «Il Signore disse a Mosè: “Va’ dal popolo e santificalo, oggi e domani: lavino le loro vesti e si tengano pronti per il terzo giorno, perché nel terzo giorno il Signore scenderà sul monte Sinai, alla vista di tutto il popolo”» (Es 19,10-11).
b) la madre è già sulla scena perché deve accogliere sia lo sposo, il Figlio, sia i figli che tornano dall’esilio, ponendo fine alle lacrime di Rachele che piange i suoi figli esiliati (cf Ger 31,15). La madre qui assume un connotato di dirompente profezia, perché annuncia l’arrivo del Messia e, al tempo stesso, chiude il tempo dell’attesa: il vino coservato nella cantina del monte Sinai, il vino della Parola di Dio ora scorre abbondante e invade la Chiesa, l’Israele fedele, il nuovo popolo che non è sostitutivo del primo Israele, ma ne è la continuazione nel segno del compimento.

L’espressione «la madre di Gesù» è una costruzione con un soggetto (la madre) e un genitivo (di Gesù) che tecnicamente si chiama «genitivo adnominale», perché riceve senso compiuto e pieno dal nome da cui dipende (cf R. Cantarella – C. Coppola, Nozioni di Sintassi Greca, Milano 1971, § IX,II,1). Senza il nome sarebbe semplicemente «la madre di…» nessuno.
Madre, Israele e Messia
Maria è chiamata sempre «la madre di…» Gesù, espressione che ricorre ben dieci volte su undici occorrenze (cf Gv 2,1.3.5.12; 6,42;19,25[2x].26[2x].27). La sola volta in cui ricorre il termine «madre» non riferito a Gesù è nelle parole di Nicodemo, alle prese con il tentativo di rientrare da adulto nel grembo di sua madre (cf Gv 3,4). Il motivo dell’anonimato è di due ordini: la madre è conosciuta e tutti sanno chi è, ma anche perché non è importante la sua persona, ma ciò che rappresenta, il simbolo che rappresenta. Approfondiremo questo aspetto nel commento al v. 4, quando Gesù si rivolge alla «madre» con l’appellativo di «donna».
Ancora oggi in oriente presso gli Arabi, «madre di…» è titolo onorifico, perché la mateità dà alla donna un nome nuovo, facendole assumere una personalità nuova che le fa perdere il nome proprio e subordinandola all’esistenza del figlio (G. Segalla, Giovanni, 160). Nel Cantico dei Cantici, lo sposo [il re Salomone], nel giorno delle nozze, è incoronato dalla madre (cf Ct 3,11; cf Manns, Jésus 72).
A Cana la madre «era là» per incoronare il figlio, l’«amato del Padre», che con le sue nozze conclude l’alleanza annunciata dal profeta Geremia (cf Ger 31,31) e porre fine al lutto di Rachele perché inizia la nuova vita dei suoi figli che tornano dall’esilio della morte. La madre deve incoronare il figlio nel segno dell’acqua-vino e accompagnarlo fino all’ora suprema delle nozze, l’ora del sangue e dell’acqua (cf Gv 19,34) quando sulla croce sarà spremuto come l’uva matura fino a dare il suo Spirito vitale all’umanità nuova rappresentata dalla madre/nuova Eva e dal discepolo/ nuovo Adam, consegnando loro lo Spirito (cf Gv 19,30).
In questo senso, per Gv «Madre di Gesù» è un titolo cristologico, come cristologica è la prospettiva di tutta la scena. Maria, figura del popolo nuziale dell’antica alleanza, ora è presente alle nuove nozze di Dio con l’umanità, simboleggiate nelle nozze di Cana.
Maria è la personificazione del popolo d’Israele che attende lo sposo e Gesù, suo figlio, è lo sposo che giunge per «prendere possesso» legittimamente del suo popolo. Il nome del villaggio «Cana», in ebraico «Qanàh», significa «acquistare/comprare»: il luogo geografico dell’intervento di Gesù è profetico perché esprime già il valore teologico dell’azione. Non si tratta di un matrimonio di routine, ma di un evento salvifico perché il Messia viene nel mondo «per acquistare» (redimere) non più Cana, ma la «madre» che rappresenta il popolo di Israele. Rachele era rimasta sepolta sulla via di Betlemme a piangere per i suoi figli che andavano esuli in Egitto (cf Ger 31,15; Mt 2,18). A Cana invece «c’è la madre» che accoglie il Figlio/ Messia per essere nuovamente resa feconda di figli.
Madre e popolo messianico
A Cana inizia la nuova mateità nella persona della madre, «consacrata» genitrice del popolo Israele rinnovato. Questo processo troverà il suo compimento ai piedi della croce, quando non sarà più simbolo di un Israele, ormai realtà troppo esigua, ma in rappresentanza di Eva, «la madre di tutti i viventi» (Gen 3,20), riceverà dal Figlio suo, «l’amato dal Padre», la consegna del secondo figlio, «il discepolo che egli amava» (cf Gv 19,26; 20,2; 21,7.20), immagine e figura di Adamo e della nuova umanità «“ri-”creata». Ciò che comincia a Cana si perfeziona al Calvario, che è il vertice del vangelo, ai piedi della croce, là dove «l’ora» che a Cana vide «il principio dei segni» (Gv 1,11) esplode nella manifestazione/rivelazione al mondo della «gloria di Dio» nell’uomo crocifisso. Come a Cana la madre era già lì per consumare l’attesa del popolo orfano, così anche al Calvario, la madre è ancora già e sempre lì: «Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre …» (Gv 19,25).
Sinai, Cana e Gòlgota stanno insieme e si richiamano a vicenda: l’uno non può sussistere senza gli altri. Cana sta tra i due monti «salvifici» a fare da legame teologico. Al Sinai si celebra la nuzialità come promessa: «Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto» (Es 24,7), sintetizzato dal profeta nella formula sponsale: «Voi sarete il mio popolo ed io sarò il vostro Dio» (Ger 11,4). Dal monte Sinai con le tavole di pietra discende, la volontà di Dio si essere il «Dio di Israele», l’identità di Israele, l’unità della nazione come popolo e il fondamento di questa unità che è la Toràh, la Legge come coscienza e come compito.
A Cana si compiono le nozze: lo sposo è accolto dalla madre. Cessa il lutto, finisce la vedovanza, inizia la nuova storia di Israele.
Al Gòlgota la Toràh non è più scritta sulla pietra, ma sulla carne viva del Figlio che versa il sangue della vita per dare vita all’acqua dell’umanità arsa dalla fame e sete della Parola di Dio (cf Am 8,11): «Uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscirono sangue ed acqua» (Gv 19,34). Come Eva uscì dal fianco di Adamo, così la nuova umanità esce dal fianco di Cristo, attraverso l’acqua del battesimo e il sangue dell’eucaristia che compiono quanto è stato visto e sperimentato a Cana con l’acqua trasformata in vino.
Il Sinai, come abbiamo già visto nel capitolo dedicato al vino, era considerato dagli Ebrei come la cantina di Dio, dove era conservata fin dalla creazione del mondo il vino messianico di cui la Toràh era la premessa e la promessa. Sulla croce il sangue di Cristo è versato tutto, consumando ogni riserva come aveva profetizzato il gesto di Cana, quando i servi riempiono le giare di pietra «fino all’orlo».
 (21 – continua)

Paolo Farinella

Paolo Farinella




Dove la vita vince la morte

Dalle lettere di padre Beppe Svanera da Marialabaja

Padre Beppe Svanera, bresciano doc da Ome nella Franciacorta, è un veterano della Colombia e dell’Ecuador. Catapultato a Marialabaja nel 2005, è ormai di casa in una realtà che è un crogiolo di elementi contraddittori: schiavitù e libertà, violenza e pace, morte e vita, nero e bianco, Africa e America, agricoltura industriale e di sopravvivenza, grande fede e tradizioni ancestrali.
Lasciamoci guidare da lui alla scoperta di un mondo dove, nonostante tutto, si danza la vita.

NUOVA REALTà (Pasqua 2005)
Sono nuovamente in Colombia, vicino a Cartagena de Indias, alle prese con una realtà particolarmente interessante tra la popolazione afro-americana discendente degli africani portati qui come schiavi e in seguito  mescolati con i bianchi dominatori e gli indios ormai decimati.
Proprio nel porto di Cartagena sono arrivato per la prima volta il 23 novembre del 1973, per proseguire poi fino ai fiumi e alla selva del Caquetà. Adesso ritorno al punto di partenza. Sono con due confratelli nella parrocchia di Marialabaja a un’ora di macchina da Cartagena. Nel paese vivono circa 25.000 persone; altre 40.000 vivono in una serie di paesini sparsi nella campagna e nella foresta. Il primo contatto con la gente e con il territorio mi ha permesso di intravedere il fascino e la complessità della situazione e della cultura afro-americana o afro-colombiana caratteristica di questa regione in cui il 95% degli abitanti ha chiare fattezze africane con un colore della pelle che va dal nero più accentuato al bianco abbronzato.
Marialabaja riflette tutte le contraddizioni della Colombia e non mancano i problemi dovuti in particolare alla violenza che, come altrove, ha provocato molti morti e tante famiglie allo sbando. Diversi piccoli quartieri sono sorti in questi ultimi anni con le famiglie dei «desplazados» o sfollati il cui futuro è molto incerto. Senza terra, senza lavoro, cercano di non lasciarsi morire e di continuano a sperare. Nonostante tutto è gente stupenda, di una vitalità incredibile, accogliente e amabile; può sembrare strano, ma ho l’impressione che nonostante tutti i problemi reali in cui vivono, non smetterà mai di ballare e di divertirsi. La vita continua e… la festa pure!

Missione vera (Luglio 2005)
Mi sono buttato a capofitto in questa nuova realtà ed è come se da sempre fossi vissuto qui. Tutto mi è diventato familiare. Mi trovo benissimo: la gente, il territorio, il clima e la missione mi sembrano ideali per le mie attuali condizioni. Marialabaja è missione vera, non tanto per l’ambiente fisico, ma per la gente e la sua cultura tipica tutta da scoprire. E anche per l’estrema povertà e ignoranza (soprattutto religiosa) che si tocca con mano.
Qui c’è tutto, ma a troppa gente manca tutto. La terra è ricca e produttiva: due o tre raccolti all’anno, frutta abbondante e verdura fresca sempre. Una zona collinosa e una pianura fertile per coltivazioni e allevamento del bestiame, una grande riserva di acqua dolce e un sistema di irrigazione ben organizzato. Tutta la produzione ha il mercato assicurato nelle due città vicine di Cartagena e Barranquilla.
Nonostante queste condizioni ottimali, tanta gente riesce appena a sopravvivere, troppi bambini sono denutriti, tante persone e famiglie intere sono costrette ad emigrare spinte soprattutto dalla fame e dalla violenza.
In questi ultimi anni c’è stata una violenza assurda con autentiche stragi di civili, donne e bambini, e molti sfollati. Le cause di questa guerra sono da ricercarsi nella lotta per il controllo del territorio (strategicamente ed economicamente importante) tra la guerriglia e i paramilitari che sostengono il governo.
Questo scenario richiede alla missione di trovare risposte sempre nuove e di dedicarsi a fondo alla formazione delle persone. Per questo abbiamo aperto un «Centro pastorale» per ritiri e convivenze, mentre pensiamo ad un «Centro giovanile», senza dimenticare interventi immediati come l’attività degli asili che ora accoglie 160 bambini dai tre ai cinque anni.
La missione è, prima di tutto e sempre, annuncio di Gesù Cristo che porta necessariamente a creare le condizioni del suo Regno di giustizia, amore e pace. Non manca quindi il lavoro. Chi opera è sempre e unicamente Lui, che «fa nascere il sole su buoni e cattivi» e ha cura di tutte le sue pecorelle. Per questo siamo fiduciosi e come sempre … sereni!

Gli asili (Natale 2005)
In questi giorni a Marialabaja si è concluso l’anno scolastico e anche noi abbiamo chiuso gli asili. Essi sono nati cinque anni fa dall’intuizione di p. Salvatore Mura per rispondere al gravissimo problema di molte famiglie impossibilitate a mandare i bambini a scuola. I corsi di formazione per le maestre, le visite alle famiglie e le riunioni con le mamme, in maggioranza abbandonate dai mariti e con diversi figli a carico, hanno favorito la realizzazione del programma. Abbiamo anche migliorato la struttura e gli strumenti didattici, e, soprattutto, assicurato ai bimbi il pranzo giornaliero che è stato una vera benedizione per questi piccoli, anche perché a Marialabaja la gente non ha l’abitudine di fare pranzo e si alimenta soprattutto la sera. I bimbi che adesso fanno pranzo e cena hanno cambiato veramente aspetto!

Ritmi (Pasqua 2006)
Gli studenti sono tornati a scuola segnando un ritorno alla normalità, ma ci sono altri ritmi che qui regolano la vita.
C’è il ritmo dei contadini che aspettano ansiosamente il tempo del raccolto per dare un futuro migliore ai figli senza dover emigrare. C’è il ritmo scandito dalla politica, o meglio dalla «politicheria», segnato dalle varie elezioni amministrative e politiche con grande sfoggio di discorsi e feste a base di birra e rum, balli e divertimenti di ogni tipo. Non si può dimenticare che il Comune (chiamato qui Municipio) è la più grande impresa del paese e con un sindaco amico si può sperare in un posto di lavoro, altrimenti non servono né i titoli né la capacità professionale.
Il ritmo religioso è scandito anche dalle feste principali come Natale e Settimana Santa, ma la festa che si vive con maggior intensità e partecipazione popolare è certamente la festa del santo patrono delle diverse comunità con manifestazioni religioso-culturali non facili da capire per noi, eppure assolutamente coinvolgenti e partecipate dalla nostra gente, che si esprime soprattutto con balli fino all’esaurimento delle forze.

L’invasione
Ogni tanto qualche novità scuote il paese e tutta la regione. Il 9 dicembre 2005, 936 famiglie hanno dato vita a una invasione (invasione: contadini senza terra che occupano terre demaniali non coltivate, ndr.). Molti si sono poi ritirati, ma la maggioranza aspetta, inutilmente per adesso, l’assegnazione di uno spazio per costruire almeno una capanna di fango e paglia in cui rifugiarsi. Nel mese di marzo la presenza della guerriglia appena fuori del paese ha suscitato un certo allarme, dileguatosi poi dopo le elezioni amministrative. La nostra presenza su tutto il territorio ci permette di renderci conto personalmente della complessità della situazione e della necessità di alcuni interventi per assicurare la tranquillità e il progresso della regione. Facciamo del nostro meglio annunciando il Vangelo e favorendo condizioni di vita dignitose con la nostra gente.
Intanto continuiamo con le diverse attività. Hanno ripreso a funzionare gli asili e abbiamo aumentato il numero dei bimbi (adesso 180) e delle maestre (9 più una cornordinatrice) soprattutto per venire incontro alle necessità delle famiglie dell’invasione proprio nei pressi dell’asilo san Martin de Porres. Con quelle famiglie vorremmo iniziare anche dei piccoli progetti produttivi che possano permettere un miglioramento della qualità di vita. Il sogno è di arrivare a tutti i bimbi poveri e denutriti del territorio con altri piccoli programmi, ma per adesso questo è un sogno proibito, anche se nessuno mai ci proibirà di continuare a sognare come sogna «Dio Padre di tutti».

BULLERENGUE (Natale 2006)
Con la fine dell’anno scolastico i 180 bambini degli asili parrocchiali sono tornati a casa per le vacanze. Riprenderemo in febbraio 2007 con 225 alunni.
All’alba di Natale si sono spente le voci e il rullare dei tamburi della tredicesima edizione del festival nazionale del «Bullerengue»: il ballo tipico di Marialabaja con profonde espressioni di gioia e stupore per la vita che nasce e per le mille situazioni quotidiane della nostra gente. È un ballo intensamente vissuto perché esprime i sentimenti più profondi e dà spazio alle espressioni più significative. Questo è vero soprattutto dei quartieri più poveri dove si sopravvive non per le risorse economiche che spesso non ci sono, ma perché si ama la vita e così anche le situazioni più banali del vivere quotidiano trovano un significato. L’amore alla vita è sempre più grande delle tragedie quotidiane e deve essere cantato e ballato senza stancarsi mai. Per questo il ballo si chiama «Bullerengue», parola che indica una festa piena d’allegria in omaggio alla fertilità della donna.
Fa impressione constatare questa estrema vitalità nella danza e nella festa e la passività quasi totale di fronte alle situazioni di ingiustizia e di ordinaria sopraffazione causate da politici e amministratori corrotti che mantengono questo territorio nell’abbandono e sottosviluppo.

Eppure qualcosa si muove…
Ci sono persone che dimostrano una certa sensibilità, gruppi che si organizzano, giovani che cominciano ad assumere con orgoglio la propria cultura afro e iniziano timidamente a parlare di diritti-doveri e di partecipazione civica. Punto di riferimento di questa nuova tendenza è senza dubbio il nostro «Centro della Consolata» dove si svolgono incontri di ogni tipo: dall’agricoltura alla catechesi, dall’organizzazione popolare ai progetti produttivi, in un clima assolutamente familiare coronato dal tradizionale e saporito «sancocho» (minestrone).
In questi giorni si sta realizzando una tappa della «scuola afro-giovanile» per creare una maggiore coscienza e identità culturale nei giovani del territorio. Contemporaneamente ogni giorno si danno il tuo gruppi di «desplazados» (sfollati) che fanno mattoni di cemento per cominciare a costruire le proprie case aiutati dalla diocesi e dalla parrocchia. È un progetto di «autocostruzione» di 82 stanze per altrettante famiglie che stanno rispondendo con vero entusiasmo all’iniziativa.

Baldoria (Pasqua 2007)
Si dice che: «Anticamente, durante la Settimana Santa, mentre i bianchi spagnoli si dedicavano alle celebrazioni religiose, gli schiavi neri rimanevano liberi e si dedicavano… alla baldoria». Sembra proprio che questa tradizione continui ancora oggi anche se con manifestazioni sempre nuove.
Nella mentalità popolare infatti queste sono giornate di festa e di allegria. Ciò non toglie che molte persone il Venerdì Santo partecipino con devozione alla Via Crucis animata dai giovani che rappresentano con molta creatività i testi dei Vangeli. L’ambiente è di grande festa familiare e comunitaria. Le famiglie si ritrovano e ricuperano antiche tradizioni con piatti tipici come la «icotea» (piatto a base di tartaruga d’acqua dolce), il riso e fagioli neri e una straordinaria varietà di dolci fatti in casa. Dall’ambiente famigliare si passa poi alla «caseta» dove si balla e abbondano birra e rum, accompagnati dalla musica assordante dei «picò», e una folla di giovani e meno giovani si danno appuntamento nel «Canal» dove passa l’acqua per l’irrigazione delle risaie e la festa si fa sfrenata con bagni, giochi, musica, balli, alcornol, droga e dove puntualmente… ci scappa il morto!
Naturalmente ci sono anche persone che vivono la Settimana Santa in forma differente partecipando alle celebrazioni religiose abbinate a manifestazioni culturali molto belle, ma fa veramente impressione la folla che si raduna per la baldoria.
Da parte nostra cerchiamo ancora una volta di capire il fenomeno «culturale» nei suoi aspetti più positivi perché «la Pasqua» è libertà e risurrezione e quindi «festa»!

FESTE PATRONALI
Spesso la festa esplode proprio per esorcizzare le tragedie vissute e i gravi problemi quotidiani come è successo in questi giorni nella festa patronale di «San Josè de Playon» dove la gente ha potuto finalmente esprimersi dopo anni di terrore. Negli anni passati ci sono state decine di morti e moltissimi avevano dovuto abbandonare tutto e rifugiarsi altrove, subito sostituiti da altri sfollati che venivano dalla campagna. Adesso, insieme e con calma, stiamo tentando di creare una nuova comunità. Sono nate le prime organizzazioni e un comitato ha iniziato proprio con la ricostruzione e abbellimento della chiesa come segno di una nuova vita per questa regione. Il comitato ha organizzato in ogni dettaglio la festa patronale di san Giuseppe con la partecipazione di tutta la popolazione: messa, battesimi, manifestazioni culturali, solenne (e interminabile!) processione con il santo patrono accompagnato dalla banda, la quale ha poi animato il «fandango», ballo in onore del santo durante tutta la notte. Da anni questo non succedeva e la gente ha potuto sfogare finalmente i sentimenti più profondi, preludio per un futuro diverso da costruire insieme affrontando i problemi di salute, educazione, organizzazione comunitaria, economia e sviluppo.

RITORNA P. SALVATORE
(15 luglio 2007)
La novità più grande e più gradita di questo periodo è stato il «ritorno» del P. Salvatore Mura nella nostra parrocchia. P. Salvatore, sardo di Cagliari, da queste parti è un personaggio conosciuto perché, salvo alcuni anni in Italia, ha quasi completato 50 anni in Colombia di cui cinque come parroco di Marialabaja. Gli è toccato il periodo di maggiore violenza e si è guadagnato la stima e l’affetto di tutti perché avevano trovato in lui un vero pastore. A lui si deve, tra l’altro, l’avvio degli asili, che adesso sono una gran bella realtà, come pure l’acquisto della terra per le casette degli sfollati e di un terreno che stiamo attrezzando per realizzare la «cittadella sportiva» per i tanti giovani del nostro territorio.
Le iniziative non mancano. C’è entusiasmo e partecipazione, anche se le risorse sono scarse. Si cerca di coinvolgere la nostra gente in un progetto di costruzione della comunità alla luce del Vangelo, mantenendo i valori tradizionali e assicurando una vita degna dei figli di Dio con una minima sicurezza alimentare nel rispetto dell’ambiente, pur nell’indifferenza, se non ostilità, delle autorità locali.

Forum per la terra
(3 novembre 2007)
È la stagione secca. Pioverà pochissimo. I ragazzi potranno godersi le sospirate vacanze. Toeranno tanti che sono dovuti emigrare da questa terra incredibilmente fertile dove però non hanno potuto costruirsi un futuro a causa di mille ragioni, ma soprattutto per copla di politiche sociali e agrarie perlomeno discutibili.
Stiamo organizzando un Forum per studiare la nuova preoccupante situazione che si sta creando nel nostro territorio. Il Goveo colombiano si è buttato, come molti altri paesi del Sud del mondo, nella produzione del biodiesel e dell’etanolo. Da un momento all’altro enormi estensioni di terra adatte all’agricoltura e da sempre utilizzate per produrre alimenti, sono state destinate alla produzione di biocarburanti. E lo chiamano «progresso»! Il Municipio di Marialabaja è entrato in questa nuova, pericolosa e discutibile realtà. Nel giro di pochi anni sono stati seminati quasi cinquemila ettari di palma da olio africana per l’estrazione del biodiesel con la prospettiva di raggiungere i diecimila ettari. Questo territorio che da sempre si è considerato la «dispensa alimentare di Cartagena» corre il rischio di non produrre a sufficienza neppure per gli abitanti della regione.
E all’orizzonte si affaccia un altro pericolo: altrettanti ettari destinati alla coltivazione della canna da zucchero per produrre l’etanolo, l’altro biocarburante richiesto sul mercato internazionale.
Naturalmente questi progetti sono presentati dalla propaganda ufficiale come la soluzione ideale ai problemi della nazione e dei contadini colombiani. Si fanno mille promesse e si moltiplicano le offerte di ogni tipo ma la preoccupazione aumenta dal momento che, di fatto, diminuiscono gli alimenti e aumentano i prezzi…

la minaccia delle monocolture
Come missionari, anche se non siamo tecnici né economisti, siamo realmente preoccupati, e non bastano certo le dichiarazioni dei politici che promettono: «Non toccheremo un centimetro quadrato di selva. Non penetreremo la frontiera agrícola colombiana. Useremo una terra che è praticamente inefficiente».
Marialabaja, per esempio!?… Terra lussureggiante e fertilissima, destinata da sempre all’agricoltura tradizionale, con un sistema d’irrigazione tra i migliori in Colombia. Una vera pazzia; il prezzo da pagare al «progresso» e ancora una volta…fame! Il Vescovo Pedro Casaldaliga afferma che ci sono solamente «…due assoluti: Dio e la fame!»
Vi posso assicurare che non è per niente piacevole vedere continuamente bambini denutriti e dover necessariamente concludere che i responsabili siamo tutti noi infatuati del progresso e schiavi di un capitalismo selvaggio e distruttore. Non sarà certamente il Forum indetto dalla parrocchia a risolvere questi problemi. Speriamo comunque di creare una certa sensibilità che aiuti a prendere coscienza e trovare qualche alternativa che possa favorire la nostra gente. Intanto continuiamo con piccole iniziative per mantenere la speranza e magari indicare il cammino da seguire per un vero benessere.
Con il vostro aiuto, oltre agli asili  sta funzionando la piccola fattoria della Consolata, trasformata in un autentico giorniello, modello di coltivazioni tradizionali e piccolo centro per la trasformazione dei prodotti locali (riso, granoturco, frutta…). È la sede per i corsi di formazione di animatori e catechisti del paese e della campagna per costruire, alla luce della Parola di Dio, un mondo a misura d’uomo. Noi ci proviamo nella speranza che ancora una volta il piccolo Davide abbatta il gigante Golia! Naturalmente «se il Signore non costruisce la casa, invano faticano i …manovali».
Continuiamo con le attività pastorali di sempre. Insieme cerchiamo di applicare e aggioare un progetto pastorale che risponda ai bisogni della nostra comunità afro.

NECROCARBURANTI
(Natale 2007)
Abbiamo realizzato il Forum lunedì 10 dicembre. Domenica 16 dicembre ci siamo riuniti in assemblea con la partecipazione dei rappresentanti dei 35 villaggi che compongono la parrocchia di Marialabaja. La conclusione del Forum non poteva essere più chiara: per la nostra gente e per il nostro territorio non si può parlare di biocarburanti (bio=vita) ma di necrocarburanti (necro=morte). Le ragioni sono molteplici e complesse, ma tutte conducono a politiche nazionali e inteazionali, basate sul solito capitalismo selvaggio che disprezza la vita delle persone e distrugge le risorse del pianeta per affermare gli interessi egoistici dei pochi di sempre.
Purtroppo però ci rendiamo conto che tutti siamo complici, e quindi responsabili, a causa del nostro stile di vita che esige tutte le comodità offerte dalla società in cui viviamo. Sarà possibile vivere diversamente, e quindi con sobrietà, a Marialabaja, a New York o a Milano senza divorare le risorse del creato? Non sarà forse anche questa la sfida del Povero che nasce a Betlemme e di un Natale che si rinnova ogni anno perché «tutti abbiano vita e l’abbiano in abbondanza»? Probabilmente dovremmo lasciarci evangelizzare dalla nostra gente, dai poveri che nonostante tutto rimangono aggrappati alla vita e ai valori veri.

Senso della missione
(Pasqua 2008)
Qualsiasi bilancio naturalmente bisogna farlo alla luce della Pasqua, morte e risurrezione. Apparentemente la tragedia di Gesù appare come un fallimento, ma per noi tutti esplode la vita. La Risurrezione si afferma come la dimensione ultima della nostra esistenza e pervade la storia dell’umanità destinata a risorgere con Cristo per una nuova vita di giustizia, amore e pace. La missione va in questa direzione, vuole trasformare un mondo di morte nel trionfo della vita. Protagonista è sempre e solo il Signore risorto che si manifesta attraverso chi lo segue e lotta per un mondo diverso, qui e dappertutto, perché tutti abbiano vita e vita in abbondanza.
Nelle cosiddette «missioni» forse questo è più evidente perché i contrasti e le ingiustizie sono più palesi, ma la «missione» è per tutti sempre e dovunque.

Un bilancio provvisorio
In questi anni abbiamo accompagnato come missionari la nostra gente di Marialabaja, insieme abbiamo tentato di fare qualcosa e in parte pensiamo di esserci anche riusciti. Nella direzione giusta? Crediamo di sì. Con grandi risultati? Sicuramente no, anche perché non si può pensare di fare in tre anni quello che non si è fatto in trecento. A volte ci domandiamo e spesso ci chiedono: Vale la pena venire dall’Italia? Non è meglio lasciare che la gente viva come ha sempre vissuto? Perché disturbare e creare altre esigenze? Ogni popolo ha la sua cultura e la sua religione e bisogna lasciarlo vivere in pace. Se poi è vero che ci sono tanti problemi, è vero anche che esistono organizzazioni che lavorano per questa gente. In fin dei conti ha senso oggi essere missionari?
La risposta difficilmente può essere teorica. Per noi nasce da quello che viviamo e contempliamo nella Settimana Santa. La missione di Cristo si realizza attraverso la passione, morte e risurrezione per una novità di vita offerta a tutti e da realizzare insieme. Luis, il bambino che cresce nell’asilo e riceve un pranzo caldo, attenzione e affetto. Yoiner, il giovane che comincia a credere nel suo futuro. Yaneth, la donna sempre più cosciente della sua dignità. Julio, lo sfollato che riprende fiducia e si sforza per ricostruirsi una vita. Quando ci identifichiamo con le sofferenze e i bisogni della nostra gente, in particolare dei più poveri, e insieme cerchiamo soluzioni, viviamo la Pasqua e il suo mistero di morte e risurrezione. Questa è la missione. Il grido giornioso che il Signore è risorto e ha vinto definitivamente la morte. Qui e dappertutto. Anche da voi!
(1 – continua)

a cura di Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Isole favolose delle spezie

Reportage dall’arcipelago delle Molucche

Conteso per secoli da portoghesi, spagnoli, inglesi e olandesi per
le sue spezie (una volta più preziose dell’oro), diventato suo malgrado parte dell’Indonesia, l’arcipelago delle Molucche ha visto la pacifica convivenza dei suoi abitanti turbata da scontri sanguinosi tra cristiani e musulmani. Toata la pace, sono tornati i turisti.

Ritoo alle origini
Il viaggio è molto lungo dall’Europa. L’ultimo dei 5 voli mi porta ad Ambon, dove sbarco insieme a un folto gruppo di famiglie miste di molucchesi che ritornano in patria con coniugi olandesi e figli. Wilma è una signora olandese che mi invita per Natale a casa sua, nell’isola di origine della famiglia del marito.
«Ritorniamo tutti gli anni a Saparua per le vacanze» mi spiega Theo, il marito dalla pelle scura, nato in Olanda in un ex campo di concentramento nazista, da genitori costretti a emigrare dall’arcipelago nel ‘51.
La testimonianza di Theo mi farà approfondire la storia recente delle Molucche, conosciute come isole delle spezie, da secoli percorse da commercianti e avventurieri cinesi, malesi, arabi ed europei.
Dopo la seconda guerra mondiale e dopo aver combattuto i giapponesi al fianco degli olandesi, migliaia di soldati di Ambon e delle Molucche del sud rimasero fedeli all’Olanda. Molti erano cristiani e, temendo di passare sotto il governo di Giava, proclamarono una repubblica indipendente, che ebbe vita breve.
Quando l’Olanda, su pressione americana, accettò l’indipendenza dell’Indonesia, si preoccupò di mettere in salvo coloro che erano stati fedeli all’esercito reale olandese e rischiavano di venire massacrati.  
I genitori di Theo erano tra i 12.500 che furono trasportati in Olanda. Avevano già un bimbo, altri 12 nacquero nel campo di concentramento. Privati di documenti e di nazionalità, non potevano ritornare in patria, rischiavano di venire uccisi per la loro fedeltà all’Olanda.
Le famiglie condivisero per 12 anni gli spazi angusti e angosciosi del campo di concentramento. Il loro sonno era tormentato da incubi; alcuni, la notte, credevano di sentire ancora i gemiti degli ebrei.
I bambini, numerosi, frequentavano le scuole e col tempo anche i loro genitori riuscirono a inserirsi e abitare case decorose. Anche in Olanda il dopoguerra fu segnato dalla voglia di riprendere vita e speranza.
Wilma ha 7 tra fratelli e sorelle e ha trovato la felicità accanto a Theo. Piccolo di statura, occhiali e sorriso bonario. Negli anni la coppia ha dovuto superare prove difficili, come la morte del secondogenito in un incidente. «Era il più bello dei tre» si confida Theo, quando mi complimento per la prestanza dei due ragazzi.
Poi Wilma mi indica una cicatrice, lasciata da un’operazione a cuore aperto che ha dovuto subire. «La vita in Olanda è molto ben organizzata per chi ha famiglia» mi conferma la cognata, che è arrivata col marito olandese e il figlio. «Qui in Indonesia non vi è alcuna forma di sicurezza sociale, una malattia grave ti porta alla tomba, ma per le vacanze è un luogo meraviglioso».

Itawaka, 20 dicembre 2010
Raggiungo Saparua sul motoscafo carico di merci e persone. Salgo su un ojeck, il taxi-moto che mi conduce alla fermata del bemo, il pulmino che attraversa l’isola e mi porta a Itawaka, il villaggio dei Papilaja.
Striscioni e bandiere bordano la strada; la gente è intenta a dipingere le facciate delle case e le recinzioni: mancano solo quattro giorni a Natale. I chiodi di garofano sono stesi ad asciugare sulle stuoie lungo le strade e le donne raccolgono le noci moscate in grandi ceste.
In chiesa si celebrano matrimoni, due o tre al giorno, seguiti da pranzi dove è costume mangiare carne di cane.
Arrivo a casa di Theo quando la famiglia è riunita in veranda, accanto alla tomba del nonno, mancato tre anni fa. «I bambini gli fanno compagnia» mi spiega Wilma. In cucina si sta preparando la papeda, una polentina che pare colla, da servire con sughi speziati, fatta con la farina di sago, una palma che cresce su queste isole. Estrarre la polpa bianca dal tronco è un lavoro complesso e faticoso, che ho visto fare lungo i fiumi, perché occorre acqua per lavare e tritare la dura massa del sago, palma che ha consentito la sopravvivenza durante guerre e carestie. 

AMBON
La strada che collega l’aeroporto ad Ambon si snoda lungo la baia, bordata da piante esotiche, giardini e casette curate, un vero paradiso tropicale. Fino a un anno fa erano ancora molti i segni lasciati dal conflitto che insanguinò queste isole tra il 1998 e il 2002. Chiedo ai miei nuovi amici il perché di quella strage e tutti sono concordi nel ritenere responsabile il governo di Jakarta, che, cogliendo l’occasione di un incidente tra le due comunità, inviò l’esercito a maggioranza islamica. Cristiani e musulmani avevano convissuto pacificamente per secoli nelle isole. Ma le aspirazioni all’indipendenza delle Molucche dovevano essere represse, fomentando divisioni, rancori e vendette, terribili nella tradizione delle isole. L’intervento portò distruzione e morte, gli incendi bruciarono case e chiese ad Ambon e rasero al suolo interi villaggi sulle isole.
L’Indonesia è sovente percorsa da moti di ribellione, isole come  Sumatra, Papua e Sulawesi, ricchissime di minerali, petrolio, gas, oro, uranio, vedono dirottare i proventi verso la capitale, mentre la popolazione soffre. Le ribellioni vengono sedate dall’esercito, che riceve lauti compensi direttamente dalle multinazionali e compagnie petrolifere (Exxon).
Oggi sento che si vuole dimenticare e si aspira a una vita migliore. Sono stati costruiti alberghi per ospitare i partecipanti alle manifestazioni inteazionali di vela, che coinvolgono anche la vicina Australia. Il mare e le barriere coralline delle isole sono splendidi, ma difficilmente raggiungibili. Il traffico è in aumento, con auto nuove. Molte le moto e i bejack, carretti spinti sulle biciclette, da uomini che si rompono le reni, come a Calcutta e in Bangladesh.

Cattedrale
Credo di capire il perché di tante chiese. Tutti hanno un figlio, un nipote, qualcuno che sta male. L’ospedale è nuovo, ma le cure sono da pagare; a chi non ha denaro non resta che pregare.
Ambon è punteggiata dai campanili delle chiese protestanti, numerose come le diverse denominazioni. Le belle chiese cattoliche costruite dai portoghesi nel 1500 furono rase al suolo dai calvinisti olandesi, quando presero possesso dell’arcipelago. Gli altri eleganti edifici coloniali furono bombardati dagli alleati, quando Ambon divenne il quartier generale giapponese dal 1942 al 1944.
Accanto alla cattedrale la biblioteca è curata dall’anziano vescovo olandese, che mi riceve tra gli scaffali colmi di libri, pubblicazioni e sculture in pietra e legno, provenienti da Papua e Tanimbar. «Mi chiamo Andre Sol e ho 95 anni» mi dice orgoglioso e sorridente il vescovo, oramai in pensione. Giunto nel 1946 nelle Molucche, conserva vivacità e spirito critico. «La comunità cinese di Ambon, molto abbiente, ha voluto finanziare la nostra nuova, splendida cattedrale. Troppo ricca. Gesù era povero; bastava fare una semplice tettornia con il clima caldo che abbiamo».
Andre mi consiglia di visitare le isole Kei, avamposto dei cattolici in un paese segnato dalla forte presenza di protestanti e islamici. Poi mi consegna un libro che mi aiuterà a capire meglio la gente di Molucca, scritto una trentina di anni fa da un’insegnante di inglese australiana: nei due anni vissuti lavorando presso l’università di Ambon, accumulò esperienze forti e profonde e seppe descrivere con arguzia e affetto gli aspetti più significativi della cultura nelle isole.

CERAM
Quello che ho visto durante le immersioni nel mare delle Molucche è meraviglioso. Ceram è l’isola madre, l’isola misteriosa, dove la resistenza al regime di Jakarta si è prolungata fino a metà degli anni ‘70. Foreste impenetrabili la proteggono; i fiumi che scendono dai monti si possono risalire, portandosi appresso le seghe per liberare il passaggio della barca dai rami. Il petrolio viene estratto anche qui,  ma in luoghi remoti, che non vedremo, perché l’isola è grande, lunga più di 300 km e le strade sono poche e impervie.
La giungla è abitata da un’etnia particolare, gli alifuru, che usano portare una bandana rossa e fino alla seconda guerra mondiale erano noti come cacciatori di teste.
Per raggiungere la costa nord e il villaggio su palafitte di Sawai, dobbiamo cercare posto sul veicolo 4×4 che lo collega al capoluogo Masohi, trasportando persone, cose e casse di pesci. Dobbiamo superare una serie di catene montuose, in 4 ore di curve e ripide salite. L’ultimo tratto di strada risulta essere una pista piena di buche e fango.
La notte si scatenano violenti temporali, ma il giorno può essere radioso, con passaggi di nubi che si arrossano al tramonto. La capanna di bambù in cui alloggiamo ha l’assito che di notte lascia filtrare la luce della luna, riflessa sull’acqua. L’umidità sale e la mattina ci troviamo con gli indumenti bagnati.
Tra le palafitte sotto casa veleggiano leggiadri pesci pipistrello; le strade del villaggio risuonano delle grida e delle risa di tanti bambini; gli uomini sono intenti a scavare con scalpelli i tronchi che diventeranno sampan, leggere imbarcazioni. Le donne lavano e si lavano allegre, tuffandosi nei canali d’acqua dolce e fresca, che scende dalle alte pareti di roccia che circondano l’abitato.
La scuola si trova su un’altura e dall’altra parte della baia vi è un villaggio cristiano. La sera il muezzin chiama alla preghiera, le bambine vestono una mantellina bianca con cuffia e si recano in moschea, separate dagli altri fedeli da un drappo appeso.

KEI KECIL
Traghetti e speed boats collegano le varie isole dell’arcipelago, ma i viaggi sono lunghi e pieni d’incognite. Per le isole Kei ho trovato due posti sul volo che parte da Ambon all’alba.
Jan Pieterszoon Coen è ricordato come lo spietato condottiero che assicurò all’Olanda il monopolio del commercio delle spezie, dopo aver sconfitto i portoghesi, che per primi erano giunti nelle isole Molucche, nel 1512.
La popolazione di Banda, le isole della noce moscata, che si era rifiutata di sottostare alle sue imposizioni, fu sterminata e i pochi sopravvissuti fuggirono alle Kei, isole remote che rimangono ancora oggi il centro più importante del cattolicesimo delle Molucche.
I gesuiti arrivarono a Kei nel 1888; le Missioni del Sacro Cuore di Gesù li sostituirono nel 1920. Sede vescovile, nel 1946 Kei inviò a Papua i missionari cattolici  e gli insegnanti con le loro famiglie per portare il messaggio cristiano.
Kei Kecil (piccola) è unita a Dullah da un ponte. Lungo la via principale si notano le insegne di scuole cattoliche, con ampi spazi verdi e campi sportivi. Veniamo fermate da tre studenti in divisa, il più grande si chiama Feri e studia turismo nell’istituto  Santa Teresia, gestito dalle suore del Sacro Cuore.
Feri vuol farci conoscere Olav Luis, l’insegnante d’inglese che ci invita a scambiarci il numero di telefono. Feri non ci lascerà più, i suoi sms mi seguiranno per tutto il resto del viaggio. Lo porteremo con noi nelle visite a Dullah, l’isola dove abita con la famiglia, ma che non conosce. Prendiamo in affitto un vecchio bemo e raggiungiamo i villaggi, tutti islamici, dove i bimbi ci guardano attoniti. Spaventati dai nostri visi estranei, scoppiano a piangere e corrono dai fratellini.
Anche queste isole hanno tradizioni simili alle altre che abbiamo visitato. I villaggi, i cui abitanti possono essere di religione diversa, hanno una forma di gemellaggio, detta Pela che li coinvolge nei casi di bisogno.
Il matrimonio tra gli abitanti dei due villaggi, che possono essere anche situati su isole diverse, sono considerati incestuosi e puniti severamente, anche con la morte.
Kei ha una particolarità, le tre caste: la maggior parte della gente appartiene alla casta media e non ha problemi, che invece toccano coloro che appartengono alla casta inferiore o a quella superiore.
L’ultima sera visitiamo la famiglia di Feri, che abita una casa di fango, tra i campi di manioca, l’unica coltura possibile, a parte il cocco e le banane, in un’isola fatta di corallo. La stanza è rischiarata da un lume a petrolio che manda un fumo acre. In cucina è pronta la cena a base di pesce secco e manioca bollita.
Paulina è una mamma bella e stanca, nativa di Kisar, isola non lontana da Timor Est; anche il marito è un bell’uomo, gentile. Così pure i 5 figli. Per noi hanno disteso un foglio di plastica sul pavimento e hanno appeso delle tende alle pareti.
Ci salutiamo. «Devi ritornare –  insiste Feri -; ti potrò accompagnare a Kei Besar, l’isola grande, dove sono nato e dove vive la famiglia di papà».

Claudia Caramanti

Claudia Caramanti




Porto Alegre dieci anni dopo

Dakar 2011: il Forum visto dai contadini

Da Porto Alegre a Dakar: il Forum sociale mondiale compie 10 anni. E lo fa in Africa.
I problemi organizzativi non mancano, ma partecipazione ed entusiasmo sono elevati. Importante la presenza dei movimenti contadini di tutto il mondo. Sono loro che producono il cibo per l’intero pianeta.

Dopo Bamako, Mali (2006) e Nairobi, Kenya (2007), si è svolto a Dakar, in Senegal, il terzo Forum sociale mondiale (Fsm) in terra d’Africa.
La manifestazione è così giunta alla sua decima edizione ed ha ormai compiuto 10 anni. Nato nel 2001 a Porto Alegre, nel Sud del Brasile, si è poi svolto nella stessa città nel 2002, 2003 e 2005. In Asia, a Mumbai è stata organizzata l’edizione del 2004, mentre nel 2006 i movimenti sociali hanno optato per un Forum detto «policentrico», ovvero due incontri che si sono svolti, a una settimana di distanza a Caracas e a Bamako appunto. Dall’anno successivo, il Forum è diventato biennale.
Quest’anno a Dakar, tra il 6 e l’11 febbraio la prestigiosa università Cheikh Anta Diop è stata invasa da 75 mila persone. Oltre il doppio di quelle previste dagli organizzatori. Hanno partecipato attivisti dei movimenti di 123 paesi, di cui ben 43 africani (quasi ogni stato del continente, visto che oggi sono 53). Presenti anche i rappresentanti dei popoli «senza stato» palestinese e kurdo.
«C’è stata una forte mobilitazione a tutti i livelli, il numero di partecipanti che aspettavamo è stato largamente superato, il bilancio è quindi molto positivo da questo punto di vista». Tira le prime conclusioni Samba Gueye, presidente del Cncr (Consiglio nazionale di concertazione dei rurali), la piattaforma nazionale che riunisce contadini, allevatori e pescatori di tutto il Senegal. È una delle grosse associazioni senegalesi attive nella preparazione del Forum. «È vero che dal punto di vista organizzativo ci sono stati dei problemi» ammette.
Il rettore dell’Università, di recente nomina, ha dichiarato, a lavori iniziati, di non essere al corrente del Forum. Così le lezioni e gli esami non sono stati sospesi e si è creata una competizione sulle aule. Più volte è successo che fosse in corso un seminario del Forum e arrivassero gli studenti senegalesi che dovevano sostenere un esame. Gli occupanti venivano così invitati ad andarsene. In tutta fretta gli organizzatori hanno dovuto allestire dei tendoni negli spazi vuoti del campus universitario, per ovviare al problema. Queste sovrapposizioni di spazi hanno fatto saltare completamente la programmazione ed è diventato difficile individuare ora e luogo degli incontri di interesse.

Soddisfazione senegalese
«È la prima volta che si tiene nel nostro paese un avvenimento di questo tipo e siamo stati tutti sorpresi dell’entusiasmo che ha suscitato» racconta il dottor Mamadou Cissé, rappresentante dell’Ong italiana Cisv in Senegal. «Avevamo molti dubbi sul fatto che le organizzazioni del Senegal sentissero loro il Forum, sulla percezione che la società civile mondiale sarebbe venuta da noi». «Nonostante le difficoltà di programmazione, ho sentito la presenza di una forte volontà di ritrovarsi a discutere sulle diverse tematiche» continua il dottor Cissé.
«Riconosco grande coraggio e perseveranza a tutte le organizzazioni della società civile, che malgrado i problemi organizzativi, sono riuscite a sedersi intorno a un tavolo, sotto delle tende, o semplicemente da qualche parte per mancanza di una sala. È stata importante la comunione tra i diversi attori che hanno partecipato e si sono confrontati».
Si dice che sia stato il Forum sociale peggio organizzato, ma è stato certo molto partecipato, soprattutto dagli africani. È riuscito a coinvolgere la popolazione senegalese, la sua società civile, cosa successa in tono minore ad esempio a Nairobi nel 2007.
Le donne, in particolare quelle africane, sono state protagoniste degli incontri e hanno fatto sentire la loro voce. Secondo alcuni questo è stato un elemento caratterizzante del Forum di Dakar.
«Anche a livello delle tematiche sviluppate c’è stata molta partecipazione: per noi è un obiettivo raggiunto» continua soddisfatto Samba Gueye.
Giustizia ecologica, crisi mondiale, migrazioni, sovranità alimentare, accesso all’acqua e all’igiene, leggi e buon governo, sprechi militari e altri sono i principali temi trattati in quasi 1.000 incontri dalle 1.205 organizzazioni iscritte al Forum di Dakar.  Per la prima volta, il Forum mondiale di Teologia e Liberazione si è svolto direttamente all’interno del Fsm, per dare la possibilità a tutti di parteciparvi. Circa 80 teologi, di differenti tradizioni e regioni del mondo, si sono incontrati su «Relazione tra spiritualità ed etica a partire dal dialogo tra tradizioni religiose e pratiche sociali». Tra i temi affrontati, quello del legame tra ricchezza, povertà ed ecologia, per una «Liberazione dal capitalismo come sistema di accumulo».
Fsm declinato al «rurale»
Tra i movimenti sociali in Africa, quelli più importanti sono i movimenti contadini. Forse perché la grande massa degli africani è impiegata in campagna e vive di agricoltura, allevamento, pesca. A Dakar ha partecipato la sempre presente rete mondiale Via Campesina, ma anche la piattaforma continentale africana e quella dell’Africa dell’Ovest, il Roppa (Rete delle organizzazioni contadine e dei produttori agricoli dell’Africa dell’Ovest) di cui fa parte il Cncr.
Alcune questioni preoccupano i produttori agricoli africani, sfide fondamentali anche per i consumatori, come lo dimostrano le attuali rivolte del pane in Nord Africa.
Samba Gueye parla animatamente di un tema caldo, quello dell’«accaparramento della terra» da parte delle multinazionali (noto anche come land grabbing, vedi MC ottobre 2010, ndr).
«C’è stata convergenza e solidarietà tra tutti i contadini del mondo su alcuni temi. Ad esempio l’appropriazione delle terre. Stiamo mettendo in piedi dei meccanismi e continueremo a costruire alleanze per quanto concee il problema fondiario e l’accaparramento di questa risorsa. Abbiamo discusso molto e abbiamo preso delle misure per mobilitarci ancora di più verso i nostri governi e, allo stesso tempo, incontrare altri settori della società civile, per unire i nostri sforzi e agire insieme per fermare il fenomeno. Perché se non mettiamo un freno, avremo dei contadini senza terra oppure degli operai agricoli».
Ma oltre ai grandi leader contadini, all’incontro di Dakar erano presenti produttori di diversi paesi del continente. E non solo.
«Il Forum in sé non produce risultati concreti – dice Malick Sow -. Ci offre delle tribune, per poter discutere di tematiche che sono al centro delle preoccupazioni dei produttori: l’accaparramento delle terre, ad esempio, ci accomuna e ci spinge a fare delle alleanze con altri attori». Malick è un agricoltore della regione di Louga, nel Nord del Senegal. È anche il segretario generale della sua associazione la Federazione delle organizzazioni contadine di Louga. Pragmatico, meno diplomatico, va dritto al dunque: «Nella nostra regione esiste questo fenomeno. Abbiamo dei produttori che sono stati vittime dell’accaparramento. Li abbiamo portati al Forum e hanno dato una testimonianza molto forte sulla loro esperienza, spiegando qual è l’impatto sulla produzione e sulla vita quotidiana. In questo modo sono entrati in contatto con dei giuristi che hanno preso l’impegno di essere al loro fianco per cercare modi e possibilità di rientrare nella loro parcella di produzione. Questo è un risultato concreto». E continua: «Inoltre come associazione abbiamo preso contatto con un centro ricerche e stiamo cercando di mettere insieme produttori e consumatori su questa problematica. Perché se si priva della terra il produttore, questi troverà comunque il modo di nutrire la sua famiglia, mentre il consumatore corre più rischi di non riuscirvi. Tutti devono capire che è loro interesse che il produttore non sia privato della terra».

Ogm e microcredito
Malick snocciola diverse questioni importanti: «Un altro problema, quello delle sementi Ogm, ha avuto molto spazio nelle discussioni. Grazie agli incontri abbiamo potuto pensare a collaborazioni con altri settori che hanno i nostri stessi interessi e pensare ad azioni concrete per lottare contro l’introduzione di queste sementi in Senegal. Un’altra preoccupazione fondamentale è la questione del finanziamento rurale. Quali sono le possibilità per mettere in piedi un sistema di finanziamento dell’agricoltura adattato alle esigenze dei produttori? Abbiamo identificato una collaborazione con altri attori latino americani. E ancora, importante per noi è la questione della migrazione. Si è parlato di co-sviluppo (nome tecnico per indicare azioni di migranti in appoggio ai loro villaggi di origine, ndr). Noi siamo in zone ad alto potenziale di migrazione e dobbiamo riflettere sul modo in cui i migranti possano investire in azioni a carattere economico per migliorare la produzione agricola».
Malick vede come risultato concreto anche i contatti e il confronto con i movimenti di altri continenti: «Ci sono molte esperienze interessanti in alcuni paesi latinoamericani, come Brasile, Colombia, Venezuela. Esperienze diverse, ma noi stiamo cercando di capire come tradurle nella nostra realtà socio culturale. Ci sono contatti stabiliti grazie al Forum e vedremo come continuare questa collaborazione e questo scambio, e mettere in piedi azioni concrete».
Samba Gueye spiega il lavoro svolto sulle questioni più legate alle pressioni inteazionali:
«Abbiamo parlato di sicurezza e sovranità alimentare, perché i popoli devono continuare a sfamare la propria gente, rurale o urbana, con la produzione agricola, ma per questo ci vogliono delle politiche coerenti. Abbiamo anche denunciato gli Ape (Accordi di partenariato economico che l’Unione europea sta siglando con diversi paesi, ndr) e quelli dell’Omc (Organizzazione mondiale del commercio). Si è discusso molto dei biocarburanti, le colture che ci sono imposte e alle quali siamo contrari. Si è parlato della diffusione delle monocolture a scapito della produzione famigliare e di controllo dell’acqua, come risorsa di irrigazione. Per questo dobbiamo denunciare i paesi ricchi che vogliono prendere acqua e terre fertili e lasciarci quelle aride».

Il vento del Nord
Si respirava, nell’atmosfera del Forum, un’attenzione particolare alle lotte di liberazione nei paesi arabi e alla cacciata dei dittatori in Egitto e Tunisia. Due eventi che hanno visto la mobilitazione delle masse, della società civile e soprattutto dei giovani di questi paesi. A indicare che c’è una grande stanchezza verso i regimi autoritari.
Taoufik Ben Abdallah, figura storica del Fsm, membro dei consigli africano e internazionale e uno tra i principali organizzatori di Dakar, poco prima dell’inizio dei lavori aveva detto: «La situazione in Tunisia, Costa d’Avorio ed Egitto ha un’eco nel mondo per rivitalizzare situazioni comuni in tanti paesi. Vogliamo che il Fsm 2011 sia come un ricettacolo di energie e capacità dei popoli per migliorare la propria vita. Vogliamo un Forum per le alternative popolari e democratiche e per valori universali condivisi».

Marco Bello
Si ringraziano per la collaborazione Simone Pettoruso e Sara Fischetti da Dakar, e per le foto Mara Alberghetti.

DAKAR 2011: impressioni di un partecipante «speciale»

Uniti dalla stessa passione

Dalla manifestazione di apertura, ricca di colori e ritmi africani, all’invasione pacifica dell’università. Donne, uomini, giovani dei movimenti di mezzo mondo si sono ritrovati per una settimana di confronto. Il racconto di un volontario italiano che da anni vive in Senegal.

«L’Afrique organise, le Sénégal accueille» (l’Africa organizza, il Senegal accoglie): i manifesti lungo le caotiche strade di Dakar non lasciano dubbi, il decimo Forum Sociale Mondiale sarà un evento marcato da una forte impronta, quella del calore e dei ritmi senegalesi. O meglio, africani.
L’appuntamento con il Forum è per domenica 6 febbraio nella grande piazza davanti alla Rts, principale televisione nazionale. Alle 13, nonostante il caldo, la piazza è già un insieme colorato e rumoroso di delegazioni dei vari paesi, con minibus che contribuiscono con megafoni e musica, mentre gli immancabili djembé (tipico di tamburo, ndr) raccolgono i più coraggiosi per qualche passo di danza.
Appena arrivati ci mettiamo alla ricerca delle associazioni con le quali la Cisv lavora quotidianamente nel paese. I loro striscioni diventano immediatamente i nostri. I saluti, qualche scambio di attese sul Forum che sta per cominciare e subito siamo rapiti da un altro cartello, striscione o semplicemente dal piacere di vedere che la società civile senegalese con la quale condividiamo sforzi e speranze è presente in massa all’appuntamento. Poco dopo il lungo corteo inizia la sua marcia in direzione della Check Anta Diop, l’università di Dakar. Dai palazzi e dai marciapiedi i più applaudono, partecipando a rendere la manifestazione un evento indimenticabile, mix unico di colori e rivendicazioni pacifiche, ma determinate. Dai movimenti dell’America Latina per l’accesso alla terra dei popoli indigeni, ai comitati di sans papier delle banlieue parigine, fino alle donne della Casamance che chiedono la fine di una guerra che da 20 anni colpisce il Sud del Senegal, tutti sembrano legati da un filo comune e dalla stessa voglia di farsi sentire, ognuno con i propri slogan, canti e ritmi. I grandi viali di Dakar, irriconoscibili senza la confusione dei taxi e dei car rapide, ci accompagnano fino all’ingresso dell’università dove il corteo aspetta gli interventi del presidente Abdoulaye Wade, di Lula ed Evo Morales (presidente della Bolivia). L’accoglienza riservata a questi ultimi permette fin da subito di capire quali sono i punti di riferimento dei movimenti presenti a Dakar.
Il Forum è ufficialmente aperto e per noi, la «delegazione» Cisv, arriva il momento di rimboccarsi le maniche, entrare in contatto con il Comitato organizzativo e cominciare ad allestire il nostro stand. Avendo partecipato alle riunioni di preparazione del Forum sappiamo che non sarà facile muoverci all’interno di un’organizzazione degli spazi e degli eventi che si preannuncia tutt’altro che perfetta. E la nostra impressione trova conferma.
Le magliette gialle dei volontari incaricati di gestire l’evento vengono sommerse di partecipanti in cerca di informazioni, gli stand iniziano ad animarsi e lo spazio destinato alla Cisv prende forma grazie a una paziente ricerca di tavoli, sedie, tessuti e quanto sia necessario per renderlo un punto di incontro e scambio di esperienze. E così per tutta la durata del Forum l’équipe della Cisv ha «invaso» l’università, non solo con la presenza allo stand, ma anche con seminari organizzati direttamente o con la partecipazione agli atelier che ogni giorno riempiono il campus universitario. Più di cento seminari al giorno, oltre a proiezioni di film, spettacoli teatrali e musicali, il tutto secondo la logica dell’auto-organizzazione, che prevede improvvisazione, adattabilità e una buona dose di pazienza.

Sfogliando il lungo programma degli eventi si ha immediatamente la percezione dell’ampiezza e della varietà dei gruppi di partecipanti presenti a Dakar, con la possibilità di ascoltare esperienze e proposte, problemi e soluzioni, a volte mischiando lingue diverse o approfittando dei traduttori spontanei tra il pubblico. Capita quindi, che durante un seminario sulla microfinanza, si sieda accanto a noi Alex Zanotelli, o che sotto una tenda si possano vedere Naomi Klein e il presidente del Roppa (Rete di organizzazioni contadine dell’Africa dell’Ovest), Djibo Bagna, mentre discutono di accaparramento di terre, problemi globali e alternative locali. O ancora che politici europei si nascondano tra i partecipanti per sentire le ragioni della società civile. Ed è con questo spirito che durante i sei giorni del Forum le strade del campus universitario hanno visto una folla disordinata andare su e giù verso le facoltà di Lettere, Diritto e Scienze tecnologiche le quali hanno ospitato i partecipanti nelle aule o, più sovente, nelle tende all’esterno dei palazzi, in un incrocio decisamente atipico con gli studenti che si recavano alle lezioni abituali. Altra meta dei partecipanti è stata il villaggio che ospitava le attività sul tema della migrazione, di grande attualità nelle sue diverse sfaccettature, allestito presso il prestigioso Istituto Fondamentale d’Africa nera (Ifan). E nella zona di più recente costruzione dell’università, l’Ucad II, gli stand delle associazioni sono stati luoghi di conoscenza tra realtà diverse in cui i contatti si concretizzano e le idee si moltiplicano. Tra questi punti di incontro impossibile non includere anche lo stand della Cisv, in cui lo striscione, le foto appese e i molti volantini sul tavolo hanno attirato centinaia di persone, incuriosite dal nostro lavoro in Senegal e, più in generale, dalle iniziative che la «comunità per il mondo» realizza in Africa e America Latina.
Fino a venerdì 11 febbraio, giorno degli ultimi seminari, prima dei saluti e dell’augurio che il Forum possa continuare a crescere. Consapevoli che una parte di questo percorso, dal 2001 ad oggi, è passato da qui, dalla Check Anta Diop di Dakar e dai suoi viali stracolmi di colori e persone.
Noi, con la stanchezza e la soddisfazione di questi giorni, torniamo alle nostre attività, a Louga, Dahra, Ross Bethio, Sippo e agli altri angoli di Senegal, con in più l’impressione di far parte di un grande movimento eterogeneo ma unito dalla stessa passione per il futuro.

Simone Pettoruso, da Dakar

Marco Bello e Simone Pettoruso