Verso la nuova revolución

Reportage dall’isola che sta cambiando

Per salvare il socialismo cubano occorre un cambiamento. Aperture verso libertà imprenditoriale e agricoltura famigliare saranno elementi importanti. Intanto 500mila impiegati pubblici saranno in eccesso. E dovranno riconvertirsi nei «nuovi» lavori.

Lo aveva detto Fidel Castro oltre dieci anni fa: rivoluzione è capire il momento storico, è cambiare tutto quello che deve essere cambiato. E oggi a Cuba siamo in piena rivoluzione. Si sta delineando un sistema misto, dove il ruolo dello stato andrà riducendosi e l’iniziativa privata acquisirà maggiore spazio, ma garantendo la supremazia della pianificazione rispetto al mercato.  Per quanto si vogliano addolcire le definizioni, il processo prevede,  tra l’altro, l’incorporamento al settore privato nei prossimi cinque anni di 1,8 milioni di lavoratori. Il governo di Cuba, lo scorso gennaio, ha già avviato una revisione dell’organico del personale pubblico in cinque ministeri e le previsioni sono di un taglio di 500.000 impiegati statali entro la fine dell’anno. Mentre in altri paesi si parlerebbe di 500.000 disoccupati, a Cuba si preferisce chiamarli «lavoratori disponibili».
Raul Castro in un discorso al parlamento Cubano (Anpp, Assemblea Nacional por el Poder Popular) il primo agosto 2010 aveva annunciato l’espansione dell’esercizio del lavoro in proprio e la sua utilizzazione come un’ulteriore alternativa occupazionale per i lavoratori in esubero, eliminando una serie di divieti vigenti per la concessione di nuove licenze e per la commercializzazione di determinate produzioni, rendendo più flessibile la contrattazione di forza lavoro. Il 18 dicembre era tornato sul tema ribadendo che il 2011 sarebbe stato segnato dall’introduzione graduale e progressiva di cambiamenti strutturali e di concetto nel modello economico cubano. Tali cambiamenti serviranno per preservare il socialismo e rinforzarlo, aveva detto il leader.

Tempo di riforme
Quello a cui Raul si riferisce non è una riforma del sistema socialista – e ci tiene a fare il pignolo sull’uso dei termini – ma la sua attualizzazione.
Nella seconda metà di aprile si è riunito all’Avana il sesto Congresso del Partito comunista cubano (Pcc) a distanza di «soli» tredici anni dal precedente del 1997. La frequenza media è di un Congresso ogni sette anni (il primo si era svolto nel 1975). Il Congresso, organismo supremo del partito, del quale determina gli orientamenti politici e le linee guida, è basato sull’approvazione dei «Lineamenti»1 della politica economica e sociale del partito e della rivoluzione, ovvero un nuovo volto per l’isola. Il 6° Congresso è stato composto da mille membri, eletti a livello di comitati municipali e distretti.
Incontriamo uno storico funzionario pubblico cubano – che preferisce rimanere anonimo – nonché membro del partito comunista dalla sua fondazione: «I cambiamenti saranno faticosi per il mio paese, ma sono indispensabili. Forse si è aspettato troppo, avremmo dovuto capire prima che stavamo commettendo alcuni errori. Per esempio, non è giusto che ci sia così tanto lavoro in nero, e che la gente onesta, laureati e devoti compagni, guadagnino molto meno che un tassista o di chi ruba parte della produzione per rivenderla sottobanco. Anche a livello di quadri dirigenti, alcuni hanno sempre operato per il bene, ma altri non hanno saputo gestire le risorse. Penso sia corretto che adesso, chi non è efficiente o chi non dimostra impegno, possa essere licenziato». Gli chiediamo quale sarà la difficoltà maggiore nell’affrontare i tanti cambiamenti previsti dai Lineamenti e con sicurezza risponde: «La parte più difficile sarà convincere il popolo della necessità di prendere certi provvedimenti, perché se capiranno che il socialismo deve cambiare per il bene di tutti, allora appoggeranno il piano di riforma. Il regime non abbandonerà mai a se stessi i bisognosi, chi è solo e non può lavorare avrà sempre la tessera di razionamento e un sussidio. Però bisogna avvalorare meglio le necessità e le possibilità reali dello stato, e occorre rimboccarsi le maniche».

Economia cercasi
Nel documento all’esame del Congresso si ripete con costanza quasi ossessiva la parola «spreco» e si insiste sulla diffusione di nuovi meccanismi di razionalizzazione delle risorse. Raul Castro coglie con lucidità il punto e spiega come «una delle barriere più difficili da superare nell’obbiettivo di formare una visione diversa – e  lo riconosce pubblicamente nel discorso del 18 dicembre scorso – è l’assenza di una cultura economica tra la popolazione, inclusi non pochi quadri dirigenti, i quali, dimostrando un’ignoranza supina nella materia, nell’affrontare problemi quotidiani adottano o propongono decisioni senza valutare un istante quali costi e quali effetti si producono, e senza sapere se esistono fondi allocati nel bilancio dello stato».
Il messaggio è chiaro: in tutti gli ambiti, dalla salute alla cultura, dall’impiego pubblico alle imprese statali, bisogna tagliare gli esuberi, migliorare l’efficienza e spendere meno.
Anche agli occhi di un semplice viaggiatore straniero sbarcato sull’isola, appare evidente che la maggior parte della gente negli ultimi cinquanta anni non ha saputo – o potuto – sviluppare alcuna forma di imprenditorialità.
I cubani vedono nei turisti la loro principale fonte di guadagno, ma non conoscono alcuna logica relativa alla qualità del servizio, all’ampliare l’offerta o a migliorare la prestazione, né comprendono il rapporto qualità-prezzo per gli standard della regione, così che Cuba risulta molto più cara rispetto a paesi quali Messico, Nicaragua, Repubblica Dominicana, che offrono servizi di qualità superiore. A ciò si aggiunge una marcata passività, un’attitudine all’aspettare che il cambiamento sia portato da altri e che risolvere i problemi più gravi, come l’impatto della recente crisi economica, ci pensi il regime.
Vicente, ha una storia tipicamente cubana: negli anni Ottanta venne mandato in Russia a studiare «tecniche di comunicazione dei sistemi satellitari militari» all’Università di Leningrado (l’attuale San Pietroburgo).  Quando gli mancava un solo anno per raggiungere la laurea, venne rispedito a Cuba: non ci sarà più bisogno di sistemi satellitari militari gli hanno detto, la guerra fredda sta per finire. Rientrato nel suo paese ha fatto di tutto, dal cameriere al manovale, e adesso da qualche mese ha aperto una piccola cabaña (pensione) sulla costa di Remedios, dove offre servizi basici per turisti nazionali. «La mia sensazione è che lo stato voglia imporre sempre maggiori tasse a chi vuole avviare attività economiche in proprio, per prendersi la sua fetta di guadagno e fronteggiare la crisi. Ufficialmente hanno detto che amplieranno le possibilità di lavoro privato ma in pratica, per quanto mi riguarda, hanno già aumentato le tariffe per la concessione delle licenze e le imposte sul reddito. Però, per chi ha iniziativa, questo è il momento in cui provarci, a fare qualcosa di diverso, che non sia emigrare o aspettare le rimesse dei familiari all’estero. Almeno ora se vogliamo metterci in proprio possiamo farlo sotto il buon auspicio del partito e in totale legalità».
Martino Vinci, esperto di sviluppo rurale per il Pnud (Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo), lavora all’Avana da diversi anni, e conferma le grandi aspettative di novità: «Cuba potrebbe non essere più la stessa dopo questo anno, stiamo vivendo un nuovo salto storico ma bisognerà vedere se i cambiamenti previsti saranno di sostanza e non solo di forma. L’autonomia non si ottiene con un decreto ma si costruisce con la partecipazione di tutti.
I principali limiti del sistema agricolo cubano, e ricordiamoci che Cuba è un importatore netto di alimenti, risiedono nella contraddizione esistente tra un modello produttivo reale che è sempre più decentrato e non statale (le cornoperative) ed un altro ancora centralizzato, di pianificazione, commercializzazione dei prodotti e assegnazione dei mezzi di produzione. È un sistema che non premia chi è più efficiente, non distribuisce in base ai livelli di produttività, ma introduce molti livelli di intermediazione e quindi non può essere sostenibile. I Lienamienti vanno esattamente verso una direzione opposta all’attuale, concedono maggiore spazio alla piccola produzione non statale, riducono il peso dello stato sia nella gestione sia nella produzione e danno maggiori responsabilità ai governi locali nella pianificazione del settore. La diversificazione produttiva è una scelta ormai senza ritorno, così come la rinuncia alla monocultura della canna da zucchero».

Largo all’agricoltura familiare
A livello di politiche agrarie, si erano visti segni importanti di cambiamento già con un decreto del luglio 2008, che prevedeva la concessione dei terreni incolti ai contadini che avessero dimostrato volontà di produrre e la disponibilità dei mezzi minimi per intraprendere l’iniziativa. Vinci spiega: «La distribuzione delle terre è in corso, ha raccolto grande consenso, ma non soddisfa ancora la grande domanda generata tra la popolazione. Del milione di ettari previsti, ne sono stati distribuiti circa 700mila e i risultati sono visibili ad occhio nudo. Tuttavia i problemi sono ancora molti. I nuovi produttori spesso non hanno adeguato accesso ad assistenza tecnica, finanziamento e mezzi di produzione, con forti rischi di abbandonare il loro progetto prematuramente. La terra è concessa in usufrutto gratuito per dieci anni alla sola condizione di mantenerla in produzione».
Gli chiediamo se non ci saranno rischi nell’introdurre meccanismi vicini all’economia di  mercato: «Non si va verso l’eliminazione dei prezzi sussidiati né verso un mercato dominato solo dall’offerta e dalla domanda. Si aspira a introdurre un sistema più equo di distribuzione dei sussidi, non più generalizzati, e a una coesistenza più armonica tra prezzi determinati dal mercato e prezzi regolati dallo stato. Il problema principale risiede nella necessità che i prezzi si adeguino maggiormente ai costi reali, soprattutto se verranno eliminati i sussidi per l’accesso ai mezzi di produzione. Allo stesso tempo occorrerà garantire l’accesso agli alimenti fondamentali adeguando i prezzi alla capacità di acquisto della maggior parte della popolazione. Se si riesce a stimolare davvero l’offerta, attraverso un incremento sostanziale della produzione, i rischi saranno ridotti. Attualmente la maggiore pressione sui prezzi dipende dal fatto che sul mercato non esiste sufficiente offerta di determinati prodotti alimentari e questo crea speculazioni e distorsioni».
Tra i cambiamenti presentati nel piano di riforma ve ne sono alcuni che più di altri rompono con il passato: per esempio, la legalizzazione della compra vendita immobiliare, da sempre severamente vietata a Cuba. Il funzionario intervistato ci spiega che di fatto, non si fa altro che legalizzare pratiche che erano già ampiamente diffuse: «I cubani hanno sempre trovato il modo per comprare e vendere case o auto, ma lo facevano di nascosto e con sotterfugi; è un bene che oggi accettiamo la realtà e andiamo avanti».  
Altro punto critico previsto è la soppressione graduale della tessera di approvvigionamento. Non è più sostenibile fornire servizi e assistenza a tutti, senza distinguere chi ne ha realmente bisogno. Come viene spiegato nel documento esaminato dal Congresso, il socialismo è parità di diritti e di opportunità, ma non è uguaglianza. Gli atteggiamenti patealisti dello stato vanno evitati e si deve riscattare il valore del lavoro come mezzo indispensabile per rispondere alle necessità quotidiane.
«Bisogna cancellare per sempre la nozione che Cuba sia l’unico paese al mondo dove si può vivere senza lavorare» aveva gridato Raul Castro, introducendo il vento di cambiamento che anticipava il documento di riforma. «Il lavoro è un diritto e un dovere e dovrà essere remunerato in modo conforme alla quantità e qualità. Il salario diventerà uno stimolo per incrementare la produttività, la disciplina e la motivazione». Si punta su un sistema meritocratico, piuttosto che di favoritismi.
Non c’è alcun dubbio che la posta in gioco per Cuba sia molto elevata: la battaglia economica costituisce oggi, più che mai, il dovere principale e il centro del pensiero ideologico dei dirigenti, perché da essa dipende la sostenibilità del sistema socialista.

Ermina Martini

1- Il documento «Lineamentos» della politica economica e sociale del Partito e della Rivoluzione è reperibile in www.pcc.cu

Ermina Martini




Ombre sulla pace

Burundi: dopo 15 anni di guerra, una pace instabile

I massacri della guerra civile burundese restano impuniti. E gli
abitanti di uno dei più piccoli paesi d’Africa continuano a vivere
nell’incertezza per il futuro. La terra, unica risorsa del paese, inizia
a scarseggiare. Le elezioni del 2010 sono boicottate dall’opposizione. E
ritorna il fantasma dei «ribelli» sulle mille colline.


Il piccolo paese centro africano, sta tentando, con difficoltà, di
camminare sulla via della riconciliazione. Dalla sua indipendenza (1962)
dal protettorato belga, il Burundi era stato dominato da un gruppo di
tutsi, minoranza etnica (14% rispetto all’85% di hutu) e aveva già visto
la sua storia segnata da ricorrenti massacri (1964, 1972, 1988).
Nel giugno 1993 si tengono le prime elezioni libere, che sono vinte a
grande maggioranza dagli hutu. Melchior Ndadaye è il primo presidente
hutu del paese. Ma la transizione si rivela difficile, i tutsi sono in
tutti i posti chiave dell’amministrazione del paese e hanno in mano
l’esercito. Tre mesi dopo il neo presidente è assassinato e iniziano i
massacri che porteranno a 300.000 morti, un milione di sfollati e
rifugiati nei paesi confinanti (sui 6,8 milioni di abitanti di allora) e
a tre lustri di guerra civile. Storia meno nota del genocidio rwandese,
ma altrettanto terribile. Le uccisioni di massa nel vicino Rwanda si
innescano nell’aprile del ‘94, quando l’aereo su cui viaggiano i
presidenti di Rwanda e Burundi viene, misteriosamente, abbattuto. Oggi,
sei alti funzionari rwandesi, vicini al presidente Paul Kagame
(all’epoca ufficiali del suo esercito) sono sotto inchiesta per il
fatto.
La comunità internazionale si impegna nella difficile mediazione
burundese. Anche Julius Nyerere prima e (soprattutto) Nelson Mandela poi
sono coinvolti in prima persona. Nell’agosto 2000 sono firmati gli
accordi di Arusha (Tanzania), che prevedono una divisione in base alla
percentuale etnica nelle istituzioni dello stato, compreso l’esercito,
da sempre in mano ai tutsi. Ma la guerra continua.

Solo a fine 2003, con gli accordi di Pretoria (Sudafrica), si arriva a
un cessate il fuoco “quasi” generale. Sul terreno restano i ribelli del
Fronte nazionale di liberazione (Fnl), che scenderanno a patti nel 2008,
diventando partito politico l’anno successivo. Nel 2005 le elezioni
generali (presidenza, parlamento, amministrative) vedono la vittoria del
partito di ex ribelli Cndd-Fdd (Consiglio nazionale per la difesa della
democrazia – Forze per la difesa della democrazia). Pierre Nkurunziza,
uno dei leader, diventa presidente. Il primo vice presidente è invece un
tutsi. Vengono rispettate le quote etniche e tutti i partiti si
attrezzano per avere nei propri ranghi hutu e tutsi e cancellare i nomi a
sfondo etnico. Viene promulgata la nuova Costituzione.
«Ormai la connotazione non è più etnica – raccontava una giornalista
burundese prima delle ultime elezioni – si parla più in termini di
partiti politici, al potere e all’opposizione».

Alla firma di Pretoria gli sfollati sono ancora 100.000, mentre dal 2002
ad oggi sono 360.000 i rifugiati in Tanzania che rientrano nel paese,
secondo l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr). Oggi sarebbero
ancora 100.000 a dover rientrare.
In un paese di 27.000 km quadrati, con una popolazione di 8 milioni di
abitanti, questo enorme afflusso ha ulteriormente aggravato il problema
principale: la terra. La densità di popolazione, oltre 290 abitanti a
km2, è una delle più alte del continente.
«La terra è la questione fondamentale di questo paese. Con due stagioni
delle piogge, un suolo fertile e bagnato da diversi fiumi, il Burundi è
sempre verdeggiante. Ma la produzione alimentare non arriva a soddisfare
tutte le bocche da sfamare. Il padre di famiglia divide il suo
appezzamento tra i figli maschi e questa divisione sta provocando una
“polverizzazione” delle parcelle. Senza contare che i rifugiati
rientrati hanno bisogno di terra per coltivare». Spiega un analista
esperto del paese.

Elezioni «imbrogliate». Il 24 maggio 2010 le elezioni amministrative
vedono vincere il partito al potere con il 64% dei voti. Gli osservatori
nazionali e inteazionali rivelano «irregolarità», ma giudicano la
consultazione valida nel suo insieme. I brogli non avrebbero influenzato
il risultato finale.
Ma i partiti di opposizione non ci stanno, denunciano «frodi massicce» e
decidono di boicottare le successive legislative di giugno e
presidenziali di luglio. Pierre Nkurunziza resta l’unico candidato alla
presidenza. Oltre ad essere riconfermato presidente, il suo partito si
assicura una maggioranza schiacciante in parlamento.
Intanto la situazione della sicurezza peggiora drasticamente: «Durante
il periodo pre-elettorale, persone legate al Cndd-Fdd e al Fnl,
avrebbero aggredito e ucciso, oppositori politici, così come militanti
dei loro partiti diventati critici» denuncia Amnesty Inteational. Il
Cndd-Fdd mobilita i suoi giovani membri, nel movimento Imbonerakure
questi, spesso armati di bastoni e manganelli, scortano rappresentanti
del potere pubblico che arrestano o pattugliano i quartieri. I partiti
di opposizione, si vedono impedire le riunioni.
Così la campagna presidenziale è segnata da violenze politiche: almeno
116 sono gli attacchi alla granata e oltre 30 locali di partiti sono
dati alle fiamme (essenzialmente del Cndd-Fdd). Allo stesso tempo molti
sono gli esponenti dei partiti di opposizione arrestati e detenuti
arbitrariamente. Ricompare la pratica della tortura, molto usata dai
temuti Service national de renseignement, i servizi segreti burundesi,
fino a pochi anni fa, ma che era in diminuzione e nel nuovo codice
penale (2009) è definita fuori legge. I servizi dipendono direttamente
dal presidente della Repubblica.
Alcuni leader importanti di partiti politici fuggono all’estero. È il
caso di Agathon Rwasa, capo del Fnl e di Alexis Sinduhije, che è anche
direttore della Radio pubblica africana (Rpa), i cui giornalisti sono
continuamente perseguitati (vedi articolo).

Gli accordi di Arusha prevedevano la realizzazione di una Commissione
nazionale verità e giustizia (Cnvg) e la creazione di una commissione
giudiziaria internazionale per realizzare un’inchiesta sui colpevoli
delle tante violazioni dei diritti umani e assassinii politici della
guerra. La Cnvg, che dovrebbe essere affiancata da un tribunale speciale
e dovrebbe inserirsi nel sistema giudiziario burundese, non ha però
ancora visto la luce. Così gli autori dei massacri di centinaia di
migliaia di persone restano totalmente impuniti.
Intanto voci di una nuova ribellione armata nel paese scuotono i
burundesi. Da settembre 2010 si verificano attacchi sporadici a
postazioni militari e civili da parte di gruppi armati. Il governo li
chiama «banditi», alcuni commentatori parlano di «ribelli». Riaffiora
troppo presto il vocabolario degli anni della guerra civile, che si era,
da poco, messo nel cassetto.

Marco Bello

Marco Bello




Radio Incontro

Storia di una radio per la riconciliazione

Nata come radio per la riconciliazione, ha oggi obiettivi precisi: sorvegliare l’azione di governo; lottare contro la povertà e aprirsi verso la regione. Ma anche cercare di dare alla popolazione gli strumenti per sapersi autogestire.

Radio Isanganiro è una radio associativa burundese. Ascoltata in tutto il paese e in parte nei vicini Congo (Rdc) e Rwanda, è stata creata nel 2002 da un gruppo di giornalisti formati da una Ong statunitense, Serach for common ground, attiva nell’ambito della risoluzione dei conflitti attraverso i media. «Eravamo in un contesto di guerra civile aperta, c’erano movimenti ribelli che combattevano il governo, ma anche sfollati interni e molti rifugiati fuori dal paese, soprattutto in Tanzania». Chi parla è Vincent Nkeshimana, giovane e dinamico direttore della radio. I giornalisti per riflesso, pensarono di poter essere più efficaci creando una radio per il dialogo. «Isanganiro, vuol dire incrocio in kirundi, la lingua di tutti i burundesi, punto d’incontro. Tutti i programmi erano orientati verso la creazione di spazi di scambio tra la diaspora e coloro che erano nel paese, tra i rifugiati e quelli che stavano all’interno. E c’erano anche degli scambi di produzioni con la Radio Kwizera in Tanzania, allo scopo di veicolare l’immagine di ricostruzione della nazione, ma anche di permettere alla gente di esprimersi sulla loro situazione» ricorda Vincent.
«Siamo andati oltre e abbiamo teso il microfono ai ribelli, cosa che era proibita. Ma questo ha causato minacce, chiusura della radio e l’arresto di alcuni giornalisti. Poi, il governo si rese conto che quello che era stato detto alla radio non era così negativo come pensava e avrebbe potuto aiutare ad avvicinare le posizioni dei belligeranti».

Media per la pace
Una radio per far incontrare la gente, per riconciliare e chiudere le ferite aperte dai massacri. Al contrario di quello che era stata Radio mille colline in Rwanda nel 1994 e altri media in Costa d’Avorio dopo l’inizio della crisi del 2002, che lavorarono per dividere la nazione.
Radio Isanganiro ha iniziato a trasmettere durante la guerra, una situazione in cui l’informazione è particolarmente sotto controllo. «Ora si può dire che siamo in un sistema democratico, i diritti umani sono relativamente rispettati, ma le sfide restano intere. A parte il fatto che non c’è guerra aperta, non ci sono grandi differenze con i primi anni: il problema della fame è sempre presente, il deficit di educazione e di accesso alla salute sono sempre attuali. Anche la libertà di espressione non è totalmente garantita. Tutti questi sono cantieri sui quali la radio deve continuare a lavorare e facciamo tutto per accompagnare l’azione di sviluppo del nostro paese».
Il Burundi sta affrontando un cammino difficile, dove l’incontro deve passare anche attraverso percorsi di giustizia. Radio Isanganiro vuole risvegliare la coscienza del cittadino e mettere chi gestisce davanti alle sue responsabilità, sorvegliare l’azione di governo e denunciando i malfunzionamenti: «Vogliamo appoggiare l’attuazione della giustizia, perché il Burundi ha conosciuto un passato drammatico, e forse la comunicazione su queste piaghe può fare emergere ancora violenza. Siamo per la Commissione verità e riconciliazione, ma occorre che i burundesi siano pronti a “consumare” queste verità».

Elezioni «difficili»
Ma se parliamo di politica, in particolare di elezioni (vedi box), il direttore si rivela molto diplomatico.
«Il processo elettorale è stato influenzato da una escalation verbale violenta e a volte da violenze vere, ma globalmente le elezioni si sono svolte bene. Il problema è che un gruppo di partiti politici si è ritirato, e oggi non riusciamo a valutare tutti gli aspetti negativi di questo fatto. Ci sono rischi di un “ritorno indietro”. Lo dico basandomi sui casi di assassinii che sono ormai regolari. Non c’è un giorno in cui non si parla di furti, uccisioni o attacchi da parte di gente che si dice affiliata ai movimenti che hanno disertato le elezioni. Dall’altra parte c’è un potere che ha vinto tutto con le elezioni e non vuole cedere di nulla, è legittimamente installato al potere per cinque anni. È una situazione di non dialogo, nella quale l’avvenire non è senza preoccupazioni».
Nel momento in cui scriviamo non ci sono  rivendicazioni chiare del movimento violento che si è creato e non si conoscono i legami di questo con i partiti politici che hanno boicottato le elezioni.
«Se ci deve essere dialogo, occorre ancora capire su cosa negoziare e perché».

Una lingua, più lingue
In Burundi la lingua kirundi è parlata da tutti e unisce tutti. Viene parlato anche il kiswahili, come lingua commerciale, ma non è originaria della zona.
La radio trasmette il 70% dei programmi in kirundi e altri in francese e in kiswahili. Ora si sta attrezzando anche per emissioni in inglese, in quanto il paese fa parte della Comunità degli stati dell’Africa dell’Est (East African Community, Eac), paesi anglofoni. Isanganiro trasmette anche in diretta sul web (www.isanganiro.org) e quindi può essere ascoltata dai numerosi burundesi della diaspora.

Libertà di stampa
Il direttore è positivo sulla libertà di espressione e di stampa nel suo paese. Lo dice in un momento in cui Jean-Claude Kavumbagu, direttore dell’agenzia NetPress, è in carcere da metà luglio per aver messo in dubbio le capacità delle forze di sicurezza del paese di difendere i cittadini da attacchi terroristi. Accusato di «tradimento», capo di accusa applicabile, secondo diritto burundese, solo durante lo stato di guerra, è considerato da Amnesty Inteational un detenuto d’opinione. Allo stesso tempo anche un giornalista della Radio pubblica africana è dietro le sbarre. «Ora abbiamo una relativa libertà di espressione, ma questo ci mette in difficoltà rispetto a certi agenti del potere. Loro, penso, hanno un’interpretazione diversa di quello che deve essere l’obiettivo del giornalismo». E fa un confronto con i paesi limitrofi: «Rispetto al Rwanda e alla Repubblica democratica del Congo, il Burundi è un paradiso in termini di libertà di espressione. Ma il problema è l’influenza che i nostri dirigenti subiscono: credono che i metodi dei vicini siano i migliori e quindi sono tentati di fare come loro».
La Radio Isanganiro collabora con le tre radio comunitarie presenti nel paese. Queste sono molto radicate con il loro territorio (sono una a Ngozi, Nord, una a Gitega, centro e la terza a Makamba, nel Sud). Sviluppano programmi comuni nei quali Isanganiro beneficia del giornalismo di prossimità, mentre le radio comunitarie ricevono formazione e competenze per la produzione e gestione dell’informazione.
Oggi le maggiori difficoltà sono economiche. «È dura mantenersi finanziariamente, perché i costi in Burundi sono elevati, e se non ci fossero stati aiuti estei di finanziatori, le radio private qui non sarebbero mai nate. Il mercato della pubblicità è molto ridotto: nel migliore dei casi, non copre il 20-25% del budget. Se non ci sono aiuti estei diventa impossibile mandare in giro le équipe».
Uno studio dell’istituto Panos di Parigi del 2008, confermato nel 2010, riporta la Radio Isanganiro come la seconda più ascoltata in Burundi, subito dopo la radio pubblica nazionale, che ha dalla sua tutte le infrastrutture nel paese.
«Noi ci siamo lanciati in una riflessione per un piano manageriale che ci permetta, progressivamente  una raccolta di fondi che possa coprire il funzionamento. Abbiamo un piano strategico e uno operativo».

Marco Bello

Per approfondimenti su Radio associative e comunitarie nel mondo si veda dossier MC settembre 2009.

Marco Bello




Attese e dubbi nel «paese del sorriso»

Maggio 2010-Maggio 2011: ad un anno dalla rivolta

Nel paese asiatico, la situazione è di grande confusione e di calma apparente. Da una parte, c’è il movimento delle «Camicie rosse» («Fronte unito per la democrazia contro la dittatura», Udd); dall’altra, i «poteri» che, da sempre, hanno in mano il paese: l’esercito, i monarchici, le élites. Ma l’equilibrio può rompersi da un momento all’altro, perché, se si guarda dietro il sorriso da dépliant turistico, si scopre un paese caratterizzato da miseria e ingiustizie secolari. Nel frattempo, anche l’economia langue, a parte quella legata al mercato del sesso – con due milioni di thailandesi coinvolti – che non conosce recessione.

Bangkok. Il 19 maggio cade l’anniversario della fine della protesta che per due mesi nel 2010 portò nelle piazze della capitale thailandese molte migliaia di manifestanti, ma costò al paese anche le peggiori violenze dell’ultimo ventennio.
Con un bilancio di 90 morti e oltre 1.800 feriti, decine, forse centinaia di desaparecidos e data la reazione delle autorità e dell’esercito (chiamato a sostituire una polizia inaffidabile), la «rivoluzione mancata» è sembrata virare verso la guerra civile. A complicare la situazione tra i due contendenti, le «Camicie rosse» e le «istituzioni» (che al loro interno sono tutt’altro che univoche), un numero imprecisato di «uomini in nero»,  visti in diverse occasioni all’interno della protesta impegnare militarmente l’esercito facendo uso di armi automatiche e di rudimentali lanciarazzi, divenendo così ragione e pretesto per azioni militari contro manifestanti in maggioranza pacifici.
Come andarono veramente le cose, in termini di rispetto dei diritti civili e umani, ma anche delle convenzioni inteazionali, come pure sulle ragioni dei contendenti  e, ancora, a chi sono da attribuire le responsabilità per la morte dei due fotoreporter durante gli scontri (il giapponese Hiro Muramoto e l’italiano Fabio Polenghi), resta ancora in buona parte da chiarire.
Nell’ultimo anno, il paese, vasto una volta e mezza l’Italia e con 65 milioni di abitanti, ha mantenuto le sue divisioni e se possibile le ha approfondite. Pochi sono stati i cambiamenti, se non in termini repressivi, che potrebbero impedire una sollevazione e un bagno di sangue di dimensioni ancora maggiori.
A dimostrarlo la campagna dinamitarda che colpì Bangkok e le regioni nordorientali del paese dopo la repressione e fino ad autunno inoltrato. Un susseguirsi di azioni che potrebbero indicare o una strategia della tensione rientrata quando la situazione è apparsa maggiormente sotto il controllo delle autorità, oppure che la protesta ha una struttura in grado di pianificare e mettere in pratica anche atti violenti. In quest’ultimo caso, suggerito da una serie di altri elementi, azioni di tipo terroristico potrebbero riaffacciarsi in qualunque momento.
Negli ultimi mesi sono andate crescendo di entità e frequenza le proteste organizzate dal «Fronte unito per la democrazia contro la dittatura» (il nome formale del movimento delle Camicie rosse) mirate insieme a chiedere le dimissioni del governo guidato da Abhisit Vejjajiva, nuove elezioni e la liberazione dei leaders in carcere (senza processo) dal maggio 2010.
Iniziative pacifiche e colorite, con una crescente carica politica in vista del voto che dovrebbe situarsi tra giugno e luglio 2011, di fatto a soli tre-quattro mesi dalla scadenza naturale della legislatura.
Le recenti manifestazioni, rese possibili dalla fine della legge marziale (inizialmente imposta a buona parte del paese e poi rimasta in vigore a Bangkok e nelle province limitrofe sino a fine anno), hanno portato in piazza decine di migliaia di manifestanti e hanno incentivato la liberazione dei sette maggiori leaders della protesta, accusati di terrorismo. L’obiettivo più importante a breve termine è stato dunque raggiunto ma, mentre un buon numero di capi del movimento e della rivolta restano alla macchia in Thailandia e in Cambogia, esso cerca nuove strade e si dà nuovi obiettivi sul medio termine, con quello finale dichiarato di un cambiamento radicale della società thailandese ovvero la fine del dominio dei gruppi elitari e la presa del potere da parte delle classi meno privilegiate.
Debolezza principale delle Camicie rosse è la loro mancanza di coesione. Se i principali obiettivi sono simili per tutte le sue componenti, strategie e interessi immediati possono anche essere diversi. Per non parlare dei particolarismi locali e di leadership. Inoltre, se la maggioranza del movimento ha metodi e scopi pacifici, non manca al suo interno chi è convinto che un vero cambiamento non potrà esserci se non attraverso una lotta violenta. La repressione governativa ha accentuato questa convinzione.
La sensazione è che il peggio potrebbe ancora venire proprio in occasione di una campagna elettorale che il governo espresso dal Partito democratico (a sua volta sostenuto dalle «Camicie gialle», movimento nazionalista e filo-monarchico), hanno cercato di blindare a loro favore. Questo partito, il più antico del paese, fondato negli anni Trenta, è oggi guidato da Abhisit Vejjajiva, nemmeno cinquantenne. Nato in Gran Bretagna ed educato a Oxford, per uno strano avvitamento della storia, è toccata a lui la responsabilità di decidere una repressione sanguinosa senza avee pagato almeno finora lo scotto con le dimissioni o l’esilio, altra prassi nella tormentata storia del paese.

CAMICE ROSSE E CAMICIE GIALLE
Quanto all’opposizione, il referente politico delle Camicie rosse, il Puea Thai (erede del Thai rak thai, fondato dal magnate delle telecomunicazioni ed ex primo ministro Thaksin Shinawatra e sciolto dopo il golpe), è un partito di scarsa credibilità democratica. Come il suo ispiratore, alla fine.
Thaksin, esiliato dal colpo di stato militare del 2006, già condannato a due anni di carcere per abuso di potere, sarebbe un personaggio come tanti, nella politica del continente asiatico, se non fosse per un elemento fondamentale: è stato l’unico a dare a molti milioni di thailandesi l’illusione di potere uscire dalla loro situazione, che non è solo di povertà, ma anche e soprattutto di mancanza di prospettive e opportunità. I thailandesi che lo avevano mandato al potere una prima volta nel 2001 e lo hanno votato nuovamente (con una maggioranza schiacciante) a fine 2005, hanno voluto credere nella sua  propaganda e negli ideali espressi dalla sua politica, perché di quegli ideali nessuno aveva mai parlato come lui. Con una vasta semina di opportunismo e populismo, ma sostenuto anche da azioni concrete, seppure pagate con il denaro pubblico.
Come il ticket per accedere agli ospedali: poco più di mezzo euro per disporre di visite mediche e medicinali essenziali, prima irraggiungibili. Non sufficienti per cure concrete, ma almeno per sapere contro quale male combattere. Oppure il milione di baht (circa 23mila euro al cambio attuale) donato a ciascun villaggio – almeno nelle aree che lo hanno votato – per opere pubbliche. Concessioni che poco hanno influito sulle drammatiche disparità di questo paese. Tuttavia, il suo potere è cresciuto fino al punto da sfiorare le massime istituzioni del Regno. La reazione dei vecchi centri di potere non si è fatta attendere, propiziata anche dalla discesa in piazza delle Camicie gialle, che due anni dopo sarebbero state responsabili della clamorosa occupazione degli aeroporti di Bangkok per far cadere il governo filo-Thaksin (intanto finito esule all’estero) eletto liberamente pur sotto un  nuova costituzione dettata dai militari golpisti.

IL MIGLIORE DEI MONDI? CORRUZIONE, MISERIA, INGIUSTIZIA
Dietro il sorriso da dépliant turistico, la Thailandia nasconde un’ampia realtà di miseria e ingiustizia.
Il sistema elitario e patealistico che lo governa ha cercato per decenni di convincere i thailandesi che vivono nel migliore dei mondi possibili e insieme ha negato alla maggioranza una prospettiva di miglioramento dalla propria condizione originaria. Disinteresse e tolleranza hanno convinto molti  che l’unico mezzo per uscire dallo stato di arretratezza e sottomissione fosse un arricchimento rapido: con quali mezzi, lo testimoniano insieme la realtà dei quartieri dedicati allo svago a Bangkok, Pattaya, sulle isole di Phuket e Koh Samui. Con quali risultati è evidente nella quantità di beni di consumo, motociclette, auto e alcornol che affluiscono verso le campagne senza un significativo aumento della scolarizzazione, del risparmio, della coscienza politica. La crisi del paese non è conseguenza della protesta, ma ne è ragione e sfondo. Purtroppo in questi ultimi anni, dal colpo di stato militare (sostenuto in primo luogo da aristocrazia, settori della monarchia, élite urbane di Bangkok), che ha costretto Thaksin a lasciare il potere, la situazione è se possibile peggiorata. La corruzione colpisce a tutti i livelli della società e coinvolge profondamente le istituzioni.
Quella coinvolta in questa situazione è una Thailandia unita all’orgoglio nazionalista e dalla monarchia, ma nettamente divisa in due da necessità e possibilità con un divario crescente fra benessere e miseria.
A questo punto il paese si trova a un bivio e a fare da spartiacque non sarà più il tradizionale «mediatore» militare. Nessuno crede più che gli uomini in divisa, gestori di vasti interessi economici di fatto senza controllo da parte dell’autorità civile, che al governo impongono congrui versamenti di bilancio in cambio di protezione dagli oppositori, che non controllano una limitata insurrezione islamista nel Sud, possano essere credibili gestori del paese. Un ulteriore golpe, il 21° in 90 anni, non sarebbe accettato dalla popolazione, ma anche dalla classe politica e imprenditoriale che già lotta con crisi globale e incongruenze locali. Certamente non dalla diplomazia internazionale, i cui rapporti con Bangkok hanno visto nell’ultimo anno momenti tesi. Una diplomazia che  osserva con attenzione le mosse di chi gestisce questo paese secondo logiche abituali all’interno, ma impresentabili al di fuori. La pretesa è che il mondo non veda e non giudichi, in cambio di possibilità d’investimento e l’apertura a un turismo sovente equivoco e diseducato, negativo per l’immagine del paese almeno quanto la rapacità degli imprenditori locali e dei palazzinari che vanno devastando, con convinta gradualità, le coste un tempo splendide della terraferma e delle isole.
Bangkok resta un cantiere perenne e a stupire per primi gli operatori turistici locali e stranieri è lo spuntare continuo di alberghi e centri commerciali, veloci nella edificazione quanto anarchici nell’inserimento urbanistico.

SESSO A PAGAMENTO, UN MERCATO SEMPRE FIORENTE

In un momento di evidente difficoltà economica, con un turismo che tiene (per l’ascesa degli arrivi di indiani, cinesi, coreani e russi a scapito dei tradizionali clienti europei e giapponesi), le statistiche ufficiali e gli imprenditori fingono che tutto vada a gonfie vele. La tenuta riguarda soprattutto la marea di turisti indirizzati verso il «Paese del sorriso» dalla disponibilità di servizi sessuali sotto varie forme ma tutti, ugualmente, all’insegna dello sfruttamento della persona e della disattenzione (interessata) delle autorità.
Tra parentesi, la maggior parte della «materia prima» di cui si nutre questo mercato (che coinvolge fino a due milioni di thailandesi) proviene, non a caso, dalle regioni dove più alta è la densità di Camicie rosse e di seguaci di Thaksin Shinawatra. Sono le regioni orientali, quelle che ospitano una vasta popolazione impoverita e senza prospettive che foiscono a Bangkok e ai centri più o meno decaduti del turismo internazionale non soltanto le risorse alimentari necessarie, ma anche le persone-oggetto, la cui età media tende ad abbassarsi in misura inversamente proporzionale allo spessore della crisi.
Non c’è stata una sola volta, nei cinque anni in cui chi scrive ha posto la sua base lavorativa in Thailandia, che sui giornali si sia dibattuto del fenomeno e della sua entità, sulle sue ragioni e sulle possibilità di intervenire per limitarlo, almeno. Il sesso è una merce, disponibile ovunque, come il riso sulle tavole dei thailandesi e come esso sottoposto solo alle regole del mercato, ma mai messo in discussione o subordinato alla ricerca di alternative, in questo caso di istruzione e di un lavoro dignitoso, sufficientemente retribuito.
Davanti a  questo che, per un paese «normale», sarebbe causa almeno di imbarazzo e sottoposto a tentativi di soluzione, sia in termini di opportunità, sia di persecuzione di chi sfrutta questa situazione, stranieri e tutori dell’ordine inclusi, le sue élites mostrano un disinteresse a cui si oppongono con poche risorse Ong locali e inteazionali. Su uno stesso livello si può porre l’uso di alcornolici, che fanno della Thailandia il paese meno astemio dell’Asia e insieme quello con il più alto numero di decessi correlati all’alcornol nel continente.
Il senso di questi due esempi è che mentre il sistema educativo prepara buoni cittadini, passivi davanti al cambiamento e alle loro stesse difficoltà, problemi enormi vengono se non incentivati almeno tollerati come valvola di sfogo di disoccupazione, frustrazione e povertà.

LE STAMPELLE DELLE FORZE ARMATE E DELLA MONARCHIA
Per un paese che si vorrebbe dare una veste di modeità, il fardello è pesante, ma esso sembra non riguardare un sistema di potere che non è solo benestante, ma autoreferenziale e che si appoggia, per la sua sopravvivenza e giustificazione, sulle forze armate o sulla monarchia a seconda del momento e della convenienza. Un uso crescente della «lesa maestà» contro dissidenti ed oppositori stanno in questi ultimi tempi sollevando un dibattito anche sui media locali, abitualmente distratti e, ancor più, sottoposti a autolimitazioni  o alla censura connessa alle varie forme di legislazione d’emergenza. La Thailandia, paese che nell’immaginario collettivo è un avamposto della democrazia in Asia e tra i più certi alleati degli Stati Uniti (due questioni connesse, originatesi ai tempi del conflitto vietnamita), oggi è in realtà sottoposto a un regime che continuamente elude le regole e di fatto vive sulla criminalizzazione dell’avversario.
Le opposizioni non sono meno criticabili, ma dalla loro parte hanno la scusante di essere oggi – nel bene e nel male – espressione di un disagio concreto e senza risposte di un paese profondo che nei numeri è maggioritario, come anche di una Thailandia rurale che ha nell’élite urbana di Bangkok non un riferimento riformista e cosmopolita, ma l’espressione degli interessi tradizionali e di un idealismo accademico che – come la politica – si perde tra le pieghe di repressione, corruzione, interessi molteplici e spesso contrapposti. Insomma, un sistema che si bilancia con regole intee a scapito di una società che non ha la possibilità di esprimere il proprio disagio e le proprie necessità, sapendo che comunque le sue richieste saranno eluse.
La povertà e l’ignoranza, oltre che pressioni di ogni genere, contribuiscono alla vendita dei voti. Una consuetudine che tutti i gruppi politici dicono di volere cambiare, ma alla fine favoriscono. Si è finora votato e probabilmente si voterà presto, non per partiti e programmi, ma per il candidato che potrebbe essere più utile in prospettiva e che al momento opportuno paga meglio.

Stefano Vecchia

BOX / La cronistoria: alcune date significative

2005, fine – Le elezioni danno il secondo mandato consecutivo a Thaksin Shinawatra, magnate delle comunicazioni. Il risultato non viene accettato dagli oppositori e a Bangkok si mobilitano le Camicie gialle, movimento nazionalista e filomonarchico, che sostiene il Partito democratico, sconfitto alle elezioni.

2006, 19 settembre – Mentre Thaksin si trova a New York per partecipare alla riunione dell’Assemblea Onu, i militari effettuano un colpo di stato incruento che suscita la simpatia della popolazione della capitale.

2007- Dopo un referendum, viene promulgata la nuova Costituzione.

2007, dicembre – Le elezioni vedono la vittoria del «Partito del potere popolare» che si rifà all’esperienza del disciolto Thai Rak Thai («Thai che amano i thai») di Thaksin.

2008, settembre – Le Camicie gialle occupano gli aeroporti della capitale.

2008, dicembre – Una sentenza della Corte Suprema condanna per brogli elettorali decine di esponenti del «Partito del potere popolare», tra cui quasi tutti i membri del governo.

2008, dicembre – Il Partito democratico prende il potere senza una chiamata alle ue e il suo presidente, Abhisit Vejjajiva diventa primo ministro. I superstiti parlamentari legati a Thaksin danno vita al Puea Thai, oggi maggiore partito di opposizione. Con ruoli invertiti, si sviluppa ora la protesta delle Camicie rosse.

2010, marzo/maggio – A decine di migliaia scendono su Bangkok, inizia un braccio di ferro drammatico con le autorità che finirà con la repressione dei manifestanti il 19 maggio 2010.

BOX / I protagonisti: i colori delle «camice» thialandesi

L’ascesa al potere del governo di coalizione guidato dal Partito democratico è stata propiziata dalle
Camicie gialle, movimento con più «anime» (monarchici, aristocratici, burocrazia, nazionalisti, parte del clero buddhista…), tuttavia il rapporto di simpatia si è da tempo interrotto. La disputa territoriale su alcune aree contese del confine Thai-cambogiano, ha portato il movimento ad accusare il governo di avere svenduto gli interessi del paese e ne ha chiesto le dimissioni.
Le Camicie blu, organizzazione fiancheggiatrice di uno dei partiti della coalizione, il Bhum Jai Thai, e quelle «bianche» o «multicolore» (ali meno estremiste delle Gialle a cui si associa parte del pubblico impiego) hanno fatto la loro comparsa in diverse manifestazioni di piazza.
Le Camicie rosse, nate come reazione al colpo di stato militare contro Thaksin Shinawatra, sono la sponda di piazza del Puea Thai e degli altri gruppi d’opposizione. Al loro interno hanno diverse tendenze ideologiche – dalla sinistra radicale agli ecologisti alla social-democrazia -, ma soprattutto provenienze e leadership differenti. Questo ha impedito che diventasse un vero e proprio movimento rivoluzionario.
Le Camicie nere, sono il servizio d’ordine del movimento, organizzate in stile paramilitare e con un ruolo ancora da chiarire nelle vicende della protesta e della repressione.
Ste.V.

Stefano Vecchia




Diritti e tutela

Migliorare la salute matea e neonatale nel Sud del Mondo

I dati relativi alla salute matea e neonatale nel mondo rivelano una situazione di enorme disparità tra il Nord e il Sud del mondo: una donna in gravidanza nei paesi poveri corre un rischio 300 volte maggiore di morire a causa di complicazioni rispetto alla sua sorella dei paesi ricchi. Una donna muore ogni minuto per cause diverse soprattutto nelle due grandi aree del sottosviluppo sanitario: l’Africa subsahariana, in cui ha luogo la metà dei decessi matei annui, e l’Asia meridionale. È una situazione inevitabile o si può prevenire?

È trascorso oltre un ventennio da quando la comunità sanitaria globale nel 1987 si riunì sotto gli auspici dell’Iniziativa «Mateità sicura» per concentrarsi soprattutto sulla mortalità matea, i cui dati oggi, come allora, rivelano una realtà globale in cui rimane estremamente fragile lo stato della donna in ambito sanitario. D’altro canto il divario nel rischio di mortalità matea tra il mondo industrializzato e molti paesi del Sud, soprattutto quelli meno sviluppati, è spesso definito «il più ampio divario del mondo». In altri termini, come ribadito recentemente (2009) anche da UNIFEM, il Fondo delle Nazioni Unite contro le disparità di genere, una donna del Sud del mondo è almeno 300 volte più esposta al rischio di morire a causa di complicazioni dovute alla gravidanza o al parto di una donna che vive nel ricco Nord. Eppure ancora
nel 2000, quando vennero definiti gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, oltre 600mila donne morivano ogni anno per complicazioni collegate alla gravidanza e al parto. Circa il 95% dei decessi matei avveniva nei paesi in via di sviluppo. Attualmente, secondo quanto riportato nel recente rapporto «La Condizione dell’infanzia nel mondo», redatto nel 2009 dall’UNICEF, il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia, ogni anno più di mezzo milione di donne muore per cause associate alla gravidanza e al parto e circa 4 milioni di neonati muoiono entro 28 giorni dalla nascita. Inoltre, milioni di donne che sopravvivono al parto subiscono lesioni, infezioni, malattie e disabilità, spesso con conseguenze che durano tutta la vita. Dati certamente allarmanti che misurano il polso attuale della salute globale per le categorie cosiddette fragili.

CAMBIARE SI PUÒ
Nel moderno contesto globale quindi una donna muore ogni minuto per cause in gran parte prevenibili, soprattutto nelle due grandi aree del sottosviluppo sanitario: l’Africa subsahariana, in cui ha luogo la metà dei decessi matei annui, e in Asia meridionale dove si stima un restante 35%, lasciando il mondo molto distante dal suo obiettivo di ridurre di tre quarti il tasso di mortalità matea tra il 1990 e il 2015 (il cosiddetto MDG 5, Traguardo A). Oltre ai decessi, però, disabilità, malattie, infezioni e lesioni inficiano permanentemente la salute di molte giovani donne, sebbene esistano soluzioni efficaci in termini di costi ed risultati. Si tratta di misure urgenti e radicali, di cui si fanno carico per lo più Ong e organismi inteazionali, nei pur delicati contesti sudmondisti. Dalla prevenzione sanitaria ai più complessi progetti di cooperazione, sarà possibile abbattere quel dato allarmante che stima ancora l’86% dei decessi neonatali come conseguenza diretta di patologie gravi (sepsi-polmonite, tetano e diarrea), asfissia e parto pretermine. Si stima inoltre che le patologie infettive rappresentino circa il 36% di tutti i decessi neonatali, causa principale di morte, soprattutto dopo la prima settimana. La modea ricerca applicata alla sanità sudmondista, ha dimostrato che circa l’80% delle morti legate alla gravidanza si potrebbero evitare se le donne avessero accesso ai servizi essenziali di prevenzione e assistenza sanitaria di base. L’adozione di pratiche igieniche durante il parto è fondamentale per prevenire le infezioni possibili in quel momento, ma ci sono altre complicazioni o malattie che devono essere riconosciute e trattate in tempo. Ugualmente le infezioni nei neonati devono essere riconosciute e trattate subito dopo il parto. Oltre il 40% dei decessi annuali di bambini sotto i cinque anni, l’equivalente di quasi 3,7 milioni di fanciulli, secondo le stime del-l’OMS, avviene nei primi 28 giorni di vita. Tre quarti di questi si verificano nei primi sette giorni di vita e anche la maggior parte di essi sono assolutamente prevenibili.

MODELLI VIRTUOSI
Questi decessi, pesantemente concentrati tra i gruppi di popolazione più svantaggiati all’interno dei paesi con poche risorse, riflettono una disuguaglianza sociale persistente e ingiusta che merita da tempo maggiore attenzione.
Va comunque ricordato che buona parte del lavoro di riduzione delle disuguaglianze va al di là delle possibilità del settore sanitario stesso. La causa di molte malattie non è la mancanza di antibiotici, ma di acqua pulita; le malattie cardiache non dipendono tanto dalla scarsità di unità coronariche, quanto dagli stili e dagli ambienti di vita. Di conseguenza, il settore sanitario deve attirare l’attenzione sulle «cause» alla radice delle disuguaglianze. Affidarsi troppo agli interventi medici è un modus vivendi troppo occidentale. Il modo migliore per aumentare l’aspettativa di vita e migliorare la qualità della stessa sarebbe, senza dubbio, l’adozione, da parte di ogni governo, di politiche e programmi per la salute e l’uguaglianza sanitaria. Ma non solo. I progressi del paese nel campo dello sviluppo umano, soprattutto nell’istruzione matea e infantile, sono stati una delle più grandi storie di successo sud-mondista dei degli ultimi decenni. Proprio dal popoloso subcontinente asiatico è possibile evincere alcuni modelli sanitari virtuosi che hanno invece cambiato, in alcuni stati e regioni, l’inarrestabile catena di morte generata da povertà e dalla crescita demografica.

IL CASO DELLO SRI LANKA
Quella dello Sri Lanka, accanto a quella del sistema sanitario dello stato indiano del Kerala, è la storia più recente di un successo pianificato. Un paese a basso reddito, martoriato da una lunga guerra civile e dalle conseguenze devastanti dello tsunami del 2004, è riuscito a risollevarsi da una drammatica situazione di deprivazione sanitaria. Il tasso di mortalità neonatale dello Sri Lanka è diminuito da 340 su 100mila nati vivi nel 1960, a 43 su 100mila nati vivi nel 2005 e, oggi, il 98% dei parti avvengono negli ospedali. I tassi di assistenza prenatale – almeno una visita – e di assistenza qualificata al parto raggiungono il 99%. Questi risultati hanno avuto effetti positivi anche sulla sopravvivenza infantile: il tasso di mortalità sotto i cinque anni è diminuito da 32 su 1.000 nati vivi nel 1990, a 21 su 1.000 nel 2007. Gli ultimi dati disponibili indicano che anche il tasso di mortalità neonatale si è ulteriormente ridotto a circa 8 su 100mila nati vivi nel 2004. Anche nel settore dell’istruzione di base, le prestazioni dello Sri Lanka sono state straordinarie. Secondo le più recenti stime inteazionali, il tasso netto di iscrizione elementare è pari a oltre il 97% sia per i maschi che per le femmine, mentre i tassi di alfabetismo tra i giovani di età tra 15 e 24 anni raggiungono il 97% tra i maschi ed il 98% tra le femmine. I dati amministrativi indicano che il tasso di completamento della scuola primaria è del 100%. Tenuto perciò conto della correlazione positiva tra istruzione e sopravvivenza matea e infantile, questi sono i risultati di investimenti sostenuti in tutti e tre i settori. La chiave degli straordinari miglioramenti nella salute matea compiuti dallo Sri Lanka è stata l’estensione di un pacchetto sinergico di servizi sanitari e sociali ai poveri. Il sistema sanitario del paese, che risale alla fine del XIX secolo, ha posto come obiettivo innanzitutto la foitura universale di un’assistenza migliorata, i servizi igienico-sanitari e la gestione delle malattie. Successivamente, ha aggiunto interventi specifici per migliorare la salute delle donne e dei bambini. Nel corso degli anni, i governi hanno adottato un approccio prudente che dava la priorità ai servizi di assistenza sanitari per le madri ed i poveri, utilizzando le risorse economiche e umane in maniera giudiziosa. I miglioramenti ottenuti nella salute delle donne sono sostenuti e rafforzati da misure volte all’empowerment sociale e politico delle donne mediante l’istruzione, l’occupazione e l’impegno sociale. Le radici culturali e il passato coloniale foiscono inoltre una prospettiva unica sull’evoluzione della salute matea nel paese. Si tratta di una tradizione secolare che affonda le sue radici nei testi medici dei secoli IX e X, mentre alcune pratiche affina-tesi durante il periodo coloniale hanno visto l’istituirsi di alcune importanti professioni mediche. Quella ostetrica, ad esempio, grazie al governo coloniale britannico ha registrato i decessi per gravidanza fin dai primi anni del secolo scorso, garantendo così la raccolta di una grande quantità di informazioni e di conoscenze.
Precise competenze obbligatorie hanno inoltre contribuito a professionalizzare le ostetriche, mentre la politica di «non cercare il colpevole (della eventuale morte del neonato) a tutti i costi» ha aiutato a svolgere inchieste su invalidità e morti matee. I risultati sono stati sensazionali: la mortalità matea si è dimezzata tra il 1947 e il 1950 e solo dieci anni dopo, le percentuali dei decessi si sono ulteriormente dimezzate.
Una volta messe a punto le strutture e le reti sanitarie, il miglioramento di organizzazione e gestione clinica ha consentito allo Sri Lanka di ridurre il tasso di mortalità neonatale e matea del 50% ogni 6-11 anni. Inoltre, il livello di alfabetismo delle donne è aumentato dal 44 al 71% in poco più di vent’anni. Anche i tassi di assistenza qualificata al parto presso le strutture ospedaliere sono aumentati. Le ostetriche da più di cinquant’anni hanno contribuito all’ampliamento dei servizi pubblici di pianificazione familiare, oltre ad avere svolto nella sanità pubblica il proprio ruolo di assistenti ai parti. Ciò dal momento che l’assistenza domiciliare è diminuita dal 9% nel 1970 ad appena l’1,5% nel 2010.

PROBLEMI DA RISOLVERE
Malgrado i progressi significativi rimangono ancora problemi da risolvere, per lo più amplificati dalle nuove dinamiche transfrontaliere della globalizzazione. Negli ultimi anni, ad esempio, il paese registra un’importante carenza di operatori sanitari, molti dei quali mi-grati nei paesi occidentali; secondo il World Health Statistics, nei primi dieci anni del nuovo Millennio, il paese, ha stimato appena 6 medici e 17 infermiere-ostetriche ogni 10mila abitanti. Tuttavia i servizi si sono deteriorati a causa del giro di vite alle risorse finanziarie, con una spesa sanitaria di circa il 3,5% del PIL nel 2010. E il problema della sicurezza alimentare, soprattutto se i prezzi inteazionali degli alimenti rimarranno elevati, rischierà di inficiare parte dei buoni risultati fin qui conseguiti in ambito sanitario. Il paese presenta ancora condizioni marcate di malnutrizione tra i neonati ed i bambini sotto i cinque anni. Secondo le recenti stime foite dall’UNICEF, più di 1 neonato su 5 nasce sottopeso ed il 23% dei bambini sotto i cinque anni sono moderatamente o gravemente sotto-peso. E il miglioramento dei livelli di allattamento esclusivo al seno per i bambini di età inferiore a sei mesi, rispetto a quello attuale del 53%, sarà vitale per mantenere i risultati ottenuti dallo Sri Lanka nella mortalità neonatale ed infantile.

LOTTA ALLA POVERTÀ: ESSENZIALE PER LA SALUTE
Ecco alcune strategie virtuose nate dalla consapevolezza di come le politiche sanitarie che non promuovano una lotta alla povertà e alla disparità economica, o che considerino la salute una merce, abbiano come corollario una «catastrofe». Ma come è stato possibile un risultato come quello dello Sri lanka in un mondo dove la politica non indirizza più l’economia, dove le logiche di mercato rappresentano il motore dell’azione politica e dove impera ancora la convinzione che un modello di sviluppo economico possa essere garantito solo dalla libera concorrenza? Imparare dunque da alcuni stati del Sud del mondo è una nuova opportunità per comprendere come sia possibile consolidare la salute di donne e bambini con costi almeno quattro volte inferiori a quelli attualmente affrontati nella nostra società. Equità, partecipazione degli individui e multisettorialità sono gli elementi di base di una ricetta dal valore indiscusso, applicabile a livello globale. Strategie solide, risorse adeguate e impegno politico, possono invece garantire un successo consolidato nel tempo. Un fatto su cui vi invito a riflettere.
(2. continua)

Massimo Ruggiero

Massimo Ruggiero




«Ti dico che sei malato»

Le multinazionali del farmaco (seconda ed ultima puntata)

La lobby delle case farmaceutiche ha mille facce. Dagli articoli pseudo-scientifici, alla sperimentazione su popolazioni dei paesi «poveri», alla modifica dei parametri di salute. Per arrivare alle campagne di vaccinazione inutili e dannose.
Occorre una maggior indipendenza dei medici ma anche un approccio più responsabile di tutti rispetto al consumo dei farmaci.

Gli sforzi per incrementare i guadagni delle industrie farmaceutiche non si limitano solo a quanto descritto (si veda MC marzo 2011, prima puntata), già di per sé molto discutibile. Le strategie messe in atto da quella che risulta essere una vera e propria lobby del farmaco sono molteplici e decisamente illecite. Si va dai metodi più innocui, come la promozione di congressi e giornate dedicate alle varie patologie (comprese quelle che fino a qualche anno fa non erano considerate malattie come la menopausa, l’osternoporosi, l’incontinenza o la stipsi), fino a quelli un po’ più subdoli, come inviti a ristoranti prestigiosi e regali di vario tipo per i medici prescrittori dei loro farmaci. Peggio ancora, queste industrie riescono a pilotare le pubblicazioni su alcune riviste scientifiche, spesso al soldo di «Big Pharma» (la lobby farmaceutica), in modo da influenzare i medici nelle loro scelte. In pratica esse assoldano degli autori sconosciuti (i quali fanno spesso capo ad agenzie di marketing) per redigere articoli, che magnificano le qualità dei loro prodotti e mettono in cattiva luce, senza peraltro valide prove scientifiche, i prodotti concorrenti. Oppure mitigano i rischi, che l’assunzione del farmaco pubblicizzato può comportare, o ancora promuovono farmaci non adeguatamente testati. Tali articoli vengono poi sottoposti alla firma di un luminare medico, che non ha partecipato ad alcuna ricerca sul farmaco in questione, ma è disposto a sottoscrivere l’articolo, per avere una pubblicazione in più nel suo curriculum. In tal modo l’articolo acquisisce credibilità, viene pubblicato su una rivista scientifica e quindi utilizzato per pubblicizzare il proprio farmaco presso i medici curanti, che purtroppo non sempre cercano le prove scientifiche di quanto viene pubblicato.
Al fine di contrastare questa pratica, dannosa per la vera informazione scientifica, ma soprattutto per i pazienti, si è costituito un gruppo di operatori sanitari, denominato «No grazie, pago io», con omonimo sito internet, impegnato a far sì che la propaganda farmaceutica non guidi la pratica clinica.

Cavie (umane) africane
Ciò che fa veramente inorridire, però, è il comportamento delle multinazionali dei farmaci nei paesi in via di sviluppo, per quanto riguarda le sperimentazioni delle nuove molecole. Purtroppo in questi stati abbondano le persone malate e senza diritti, da sottoporre a test improponibili in Occidente. Si moltiplicano infatti le testimonianze su test clinici, che non rispettano i diritti umani più elementari, pur di arrivare a tempo di record alla commercializzazione di un prodotto. I paesi dove si è maggiormente spostata la sperimentazione delle industrie del farmaco sono quelli africani, oltre a quelli dell’Europa dell’Est e dell’America Latina.
Basta ricordare, ad esempio, quanto avvenne nel 1996 nell’ospedale di Kano in Nigeria. Nel paese africano, quell’anno vi fu un’epidemia di meningite, che uccise 15.800 persone. La Pfizer decise di sperimentare in quell’ospedale un suo nuovo antibiotico, il Trovan, senza alcun controllo da parte della Food and Drug Administration (Fda), l’ente statunitense che dà il via libera ai farmaci, ma che non ha praticamente voce in capitolo sugli esperimenti effettuati fuori dagli Stati Uniti.
Secondo la testimonianza dei medici dell’Ong Medici senza frontiere, che operavano nello stesso ospedale e curavano i malati con un vecchio, ma efficace antibiotico, il cloramfenicolo, i ricercatori della multinazionale assoldarono 200 bambini malati, somministrando il Trovan a 99 di loro ed un antibiotico già rodato di controllo (il cefotriaxone) agli altri 101.
La sperimentazione partì male e proseguì peggio, perché venne intrapresa senza il consenso scritto (obbligatorio) dei genitori, adducendo come scusa che si trattava di persone analfabete. Inoltre la prova venne condotta solo per 6 settimane, mentre negli Stati Uniti le autorità richiedono un anno di lavoro, per convalidare un nuovo farmaco.
Infine, il fatto più grave, la terapia a base del nuovo antibiotico venne mantenuta per molti giorni, senza una apprezzabile risposta da parte dei pazienti. Risultato: morirono 11 bambini e ci furono numerosi casi d’infezione, che causarono sordità, paralisi, lesioni cerebrali e cecità. A seguito di questa sperimentazione, le autorità statunitensi permisero la commercializzazione del Trovan solo per gli adulti, a causa dei frequenti danni al fegato e di alcune morti osservate anche nei paesi occidentali.
In Europa questo farmaco venne tolto dal commercio.

Scrupoli addio
La vicenda della sperimentazione del Trovan ha dimostrato che lo spostamento della ricerca farmacologica nei paesi poveri porta con sé molto spesso soprusi, scorrettezze e cattiva qualità degli studi. In queste zone ci sono più malati, quindi più cavie. Per sperimentare un nuovo farmaco, prima di metterlo in commercio, servono circa 4.000 persone. Poiché ogni giorno di ritardo, per il lancio di un nuovo farmaco, costa negli Stati Uniti 1,3 milioni di dollari alla ditta produttrice, si capisce la fretta di effettuare la sperimentazione e quindi di reclutare cavie umane nel più breve tempo possibile. Ecco quindi il vantaggio di spostare la sperimentazione nei paesi del Sud del mondo.
Non sono poi da sottovalutare i costi della sperimentazione. Secondo fonti industriali, un esperimento complesso costa alla casa farmaceutica circa 10.000 dollari per paziente nell’Europa occidentale, 3.000 dollari in Russia e meno della metà in Africa. Inoltre, parallelamente ai flagelli della malaria e della tubercolosi, l’Aids sta preparando l’Africa ad essere il laboratorio ideale per le sperimentazioni senza scrupoli.
In molte circostanze, le multinazionali dei farmaci hanno dimostrato di avere a cuore solo il loro profitto e non la salute pubblica, inducendo le associazioni mediche a modificare le linee guida e i parametri, che determinano lo stato di salute o di malattia (ad esempio abbassando progressivamente il livello dei valori normali della glicemia, della colesterolemia e della pressione arteriosa). Per cui chi, fino al giorno prima, era considerata una persona in salute, in base agli esami di laboratorio, improvvisamente si è ritrovato malato e quindi indotto ad assumere farmaci per lo più inutili, ma sicuramente non scevri di effetti collaterali. Un semplice modo per allargare il giro d’affari.

Attenti al vaccino
Spesso, inoltre, il potere di queste multinazionali è tale da convincere i politici a promuovere iniziative a livello nazionale, come le vaccinazioni di massa. Un tipico esempio del genere è rappresentato dalla vaccinazione gratuita per le ragazze adolescenti fino a 12 anni contro il carcinoma del collo dell’utero, correlato con l’infezione da «papilloma virus umano» o Hpv. Da 3 anni in Italia viene condotta la campagna vaccinale contro l’Hpv e il relativo vaccino viene somministrato dal Servizio sanitario nazionale (Ssn) gratuitamente alle ragazze fino a 12 anni e a prezzo agevolato fino a 25 anni. La campagna pubblicitaria per la vaccinazione, con tanto di spot televisivi, giornate dedicate, convegni e articoli sui principali quotidiani e settimanali è stata martellante e spregiudicata, arrivando a generare sensi di colpa nei genitori contrari. Al pubblico sono però stati accuratamente nascosti alcuni dettagli della vaccinazione e cioè: 1) esistono circa un centinaio di ceppi Hpv, di cui circa 15 sono oncogeni ad alto rischio, cioè capaci di indurre tumori, ma i vaccini usati (il Gardasil della Merck Sharp & Dohme e il Cervarix della GlaxoSmithKline) sono diretti rispettivamente solo contro 4 e 2 di questi ceppi, lasciando tutti gli altri liberi di agire; 2) è gratuita solo la prima vaccinazione, ma quelle che dovranno essere eseguite a distanza di 5 anni sono a pagamento (più di 500 euro); 3) le sperimentazioni sul vaccino si sono svolte nell’arco di 5 anni, ma il tumore della cervice uterina impiega tra i 10 ed i 20 anni a svilupparsi, quindi, in effetti, non c’è stato il tempo di verificare che il vaccino funzioni veramente; 4) sono stati tenuti nascosti gli effetti avversi del vaccino, che in alcuni sfortunati casi ha provocato la morte in giovani ragazze, fino a quel momento in buona salute, e inoltre ha provocato alcune reazioni particolarmente gravi di ipersensibilità, come l’anafilassi, la sindrome di Guillan-Barrè, la mielite trasversa, la pancreatite ed episodi di tromboembolia (vedi il gruppo creato dall’autrice su Facebook «Le nostre figlie non sono cavie da esperimento»).
Vale quindi la pena di fare alcune considerazioni. Innanzitutto sarebbe auspicabile una maggiore indipendenza dei medici dalle pressioni esercitate dalle industrie del farmaco e una loro volontà di ricercare informazioni scientifiche frutto di ricerche indipendenti e non sovvenzionate dalle stesse industrie. In secondo luogo dovremmo noi stessi cambiare il nostro atteggiamento, per quanto riguarda l’uso dei farmaci, utilizzandoli quando sono effettivamente necessari, senza cadere in questa nuova forma di consumismo. Andrebbe sempre ricordato che il medico migliore non è colui, che prescrive i farmaci che vogliamo, ma quello che sa consigliarci per il meglio, dicendoci qual è il momento giusto per smettere di assumerli. Eviteremmo in tal modo di fare del male a noi stessi, dal momento che non possiamo essere certi di non andare incontro ad effetti collaterali e nel contempo non alimenteremmo un giro d’affari spregiudicato.     

Rosanna Novara Topino


Farmaci via Inteet

Da qualche anno sta diventando sempre più fiorente un nuovo mercato: quello dei farmaci via internet. Una recente indagine dal titolo «Fake medicines: a global issue» (Farmaci contraffatti: un problema globale), presentata dal gruppo socialdemocratico al Parlamento europeo ha evidenziato un aumento delle vendite di farmaci, molto spesso contraffatti, in rete. Sono infatti sempre più frequenti i siti di sedicenti farmacie on line, che esibiscono falsi sigilli di approvazione, che imitano ad esempio quello della FDA (Food and Drug Administration) o quello di PharmacyChecker, un vero sito certificatore. Per essere più convincenti, alcune farmacie on line dichiarano di avere una sede e dei magazzini, di cui riportano una foto ed i relativi indirizzi, ma una semplice indagine con Google Maps rivela facilmente l’infondatezza di tali dichiarazioni. Secondo l’indagine, il mercato dei farmaci taroccati è cresciuto del 400% dal 2005 ed inoltre sono più di 100.000 ogni anno i decessi causati dai questi farmaci. Sempre secondo questa inchiesta, il 62% dei farmaci venduti on line è contraffatto, il 95,6% delle farmacie on line è illegale, nel 94% dei siti web l’identità del farmacista non è verificabile ed oltre il 90% delle farmacie on line vende senza ricetta medicinali soggetti invece a prescrizione. In Europa almeno una persona su 5 ha già acquistato farmaci on line e gli Stati europei dove il commercio di farmaci in rete è più fiorente sono Germania ed Italia. Secondo un’altra indagine dell’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco), la disinformazione su questo argomento, nel nostro Paese, è pressoché totale. Il 40% della popolazione, ad esempio, non sa che la vendita di farmaci on line è illegale e pensa che si possano vendere liberamente i farmaci, che non necessitano di prescrizione, il 41% non sa nulla dell’argomento e solo uno sparuto 19% è consapevole dell’illegalità di questo commercio. Inoltre il 33% degli italiani pensa che l’acquisto dei farmaci in rete sia un fatto positivo e vantaggioso. Il fenomeno dell’acquisto on line dei farmaci è particolarmente preoccupante, quando gli acquirenti sono dei minori, che spesso acquistano farmaci anoressizzanti o dopanti, in totale anonimato e senza alcuna prescrizione. In generale, l’acquisto di farmaci on line espone a gravi pericoli. I farmaci contraffatti possono essere suddivisi in 4 categorie: prodotti che contengono gli stessi principi attivi (ottenuti legalmente o illegalmente) dei farmaci originali e gli stessi eccipienti, nella giusta quantità; prodotti, che contengono le stesse componenti, ma non nella giusta quantità; prodotti, che contengono principi non attivi o altre sostanze in sé non nocive; prodotti, che non presentano gli stessi principi attivi dei farmaci originali o che contengono addirittura sostanze nocive. Inoltre i farmaci venduti on line possono risultare pericolosi per difetti del confezionamento o per una cattiva conservazione durante il loro immagazzinamento o trasporto.
Secondo l’OMS, il 7% di tutti i farmaci venduti al mondo è contraffatto, con punte del 30% in Brasile e del 60% in alcuni Stati africani. Il valore di questo commercio è stimato intorno ai 10 miliardi di euro. Gli antibiotici sono la categoria di farmaci più contraffatta, rappresentando circa il 45% del totale di questi farmaci, ma ci sono anche i falsi contraccettivi, i falsi antimalarici ed i falsi vaccini. In Europa ed in Nord America il fenomeno della vendita dei farmaci contraffatti è in forte aumento. In questo caso, i farmaci più venduti sono quelli «life-style», come Viagra, Cialis, Levitra, ma anche gli antidepressivi ed i farmaci per le patologie cardiovascolari e respiratorie.

Rosanna Novara Topino

Alla ricerca della pillola magica

Si definiscono farmaci inutili, per i quali non è dimostrata l’efficacia, oppure che sono efficaci per la cura di una determinata patologia, ma vengono spesso prescritti per altre indicazioni. Sostanzialmente possono essere ritenuti inutili tutti quei farmaci, per cui non esiste un rapporto beneficio-rischio favorevole.
Possiamo classificare i farmaci inutili in 3 categorie.
1) La prima è quella dei farmaci, per cui non esistono evidenze scientifiche circa la loro reale capacità di migliorare la qualità della vita, o la sua durata, o di diminuire i sintomi patologici. Tra questi abbiamo una pletora di farmaci di uso comune, tra cui  epatoprotettori, vasodilatatori, ricostituenti, immunomodulanti, farmaci per aiutare la memoria, farmaci anti-invecchiamento, integratori alimentari. Spesso chi fa ricorso a questi farmaci, cerca di risolvere in tal modo dei problemi, che nulla hanno a che vedere con una patologia. Basta pensare all’inutilità dei farmaci per la memoria consigliati per migliorare il rendimento scolastico, quando è chiaro che le cause di un cattivo risultato scolastico non sono certo risolvibili con un farmaco (specialmente quando tra le cause vi sono la carenza d’affetto, la disattenzione dei genitori o l’incapacità di certi insegnanti).
2) Alla seconda categoria appartengono i farmaci utilizzati per contrastare le cattive abitudini di vita. Ad esempio, i fumatori fanno spesso uso di farmaci per contrastare mal di gola , tosse, catarro, bronchite, quando è evidente che l’irritazione delle vie respiratorie è causata, in questo caso, dal fumo di tabacco e quindi basterebbe smettere di fumare. A questa categoria appartengono anche i farmaci contro l’obesità, di cui molte persone potrebbero fare tranquillamente a meno con una dieta appropriata ed una maggiore attività motoria.
3) Alla terza categoria appartengono i farmaci utilizzati in modo improprio. Tutti i farmaci hanno infatti precise indicazioni terapeutiche stabilite sulla base di sperimentazioni e regolate dalle autorità di controllo. Pertanto, il loro utilizzo per altre patologie non è opportuno, come nel caso degli antiulcerosi, spesso utilizzati per migliorare la digestione, o contro l’acidità di stomaco o per contrastare l’effetto di altri farmaci. Anche gli ansiolitici come le benzodiazepine e gli antidepressivi possono rientrare in questa categoria, perché spesso prescritti in modo del tutto inappropriato, per tenere tranquilli anziani. Tra l’altro sempre più spesso si fa ricorso a farmaci psicotropi, per tenere a bada i bambini un po’ agitati, senza cercare di approfondire il motivo dei loro disturbi comportamentali. Infine si possono ascrivere a questa categoria gli antibiotici, utilizzati impropriamente nel corso di patologie di origine virale, come l’influenza, quando è certo che tali farmaci non hanno alcuna efficacia contro i virus.
Purtroppo, complici le multinazionali dei farmaci con l’enorme mole di pubblicità per i loro prodotti, la nostra sta diventando una società medicalizzata e farmacocentrica, in cui milioni di persone pensano che esista una pillola magica per tutti i loro problemi e non si rendono conto, in tal modo, di esporsi ad inutili rischi legati ad un esagerato consumo di farmaci.

Rosanna Novara Topino

Rosanna Novara Topino




Non c’è solo il Pil

Il Pil è un indice inadeguato del benessere di un paese. Per questo altri
misuratori (spesso proposti dalla società civile) si fanno strada.

Non se ne parla molto, ma autorevoli istituzioni come la Commissione europea, l’Ocse, l’Istat e altrettanto autorevoli economisti, capeggiati da tre Premi Nobel (Amartya Sen, Jean Paul Fitoussi e Joseph Stiglitz)  riconoscono che il Pil (Prodotto interno lordo) è un indice insufficiente per rendere conto dello stato economico e sociale di un paese.
La semplice misura della produzione di beni e servizi non considera, infatti, fattori che sono cruciali per il progresso di una nazione: il livello di istruzione, lo stato di salute, l’accesso alle conoscenze informatiche, l’apporto delle donne, la valorizzazione del patrimonio ambientale, la distribuzione della ricchezza.

Non che il tema sia recente, basti ricordare che già nel 1968 Robert Kennedy  pronunciava un memorabile discorso in cui affermava che «Il Pil misura tutto eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta». Negli anni Novanta, ad andare oltre il Pil, ci ha provato l’Undp, il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo, con il suo Indice di Sviluppo Umano (Hdi): non solo reddito pro capite, ma aspettativa di vita e indice di istruzione. I Rapporti annuali dell’Undp hanno finalmente chiarito che lo sviluppo non coincide con la crescita economica, ma riguarda altri aspetti della vita umana:  la convivenza pacifica, l’accesso ai beni e ai servizi, la partecipazione democratica, l’equità nelle opportunità.
L’Undp per primo ha lanciato l’allarme sull’aumento della disuguaglianza che accompagna la crescita economica senza regole e la globalizzazione senza diritti, chiedendo agli stati di non preoccuparsi solo dell’incremento della ricchezza ma anche della sua distribuzione; e ancora, grazie all’Undp è, per così dire, tornato di moda l’indice Gini che misura la concentrazione della ricchezza e che ha preso il nome del suo ideatore Corrado Gini, un giurista con il pallino della statistica che 1927 fondò in Italia l’Istat.

Anche la comunità non governativa ha detto la sua sull’argomento, il Social Watch, una rete di oltre 200 Ong di 50 nazioni dal 1996 pubblica un Rapporto annuale in cui classifica i paesi in base a due indici: il Gei  e il Bci. Il Gei, (Gender Equity Index), misura quanto le donne vengono istruite, quando sono rappresentate nelle istituzioni pubbliche e quanto partecipano alle attività economiche; il Bci (Basic Capability Index), indice di capacità di base definisce la povertà non solo in termini di reddito, ma considera altri fattori come la percentuale di bambini che riceve un’istruzione elementare, la sopravvivenza fino a 5 anni di età, il numero di nascite assistite da personale qualificato.
Sempre la società civile ha messo a punto gli indici ambientali: come l’impronta ecologica o l’Esi (Enviromental Sustainability Index) che misura la sostenibilità di un’economia in base alla sua capacità di risparmiare risorse energetiche e idriche, riciclare i rifiuti e salvaguardare la biodiversità.
In Italia, un gruppo di ricercatori legati alla campagna Sbilanciamoci da una decina d’anni utilizza il Quars, l’indicatore sintetico della qualità regionale dello sviluppo che mostra come le regioni più sviluppate non sono necessariamente le più ricche se – per contro – hanno un tasso di inquinamento elevato e i loro cittadini si ammalano più degli altri.
Nell’agosto del 2009, la Commissione europea ha diramato una Comunicazione intitolata «Non solo Pil,  misurare il progresso in un mondo in cambiamento» con la quale ha messo in guardia i paesi membri dall’utilizzo del Pil come unico indicatore: «Esistono validi motivi, dice la comunicazione, per completare il Pil con statistiche che riprendano gli altri aspetti economici, sociali e ambientali dai quali dipende fortemente il benessere dei cittadini», per questo entro il 2013 i paesi membri dell’Unione dovranno presentare una contabilità economico-ambientale.
Il clima di ripensamento del modello economico, seguito alla crisi del settembre 2008, ha favorito il dibattito e l’attenzione del mondo politico ed economico su questo tema, basti pensare che all’impegno profuso dal presidente francese Sarkozy che ha promosso e finanziato il gruppo degli economisti guidato da Stiglitz.
Oggi siamo in una fase di normalizzazione: i governi pensano alle elezioni e gli economisti abbandonano il terreno faticoso dell’innovazione. Il processo per andare oltre il Pil rischia di interrompersi. Per fortuna, c’è chi non si da per vinto e continua a ricercare, esplorare, proporre.
Come il presidente dell’Istat Enrico Giovannini che ha il pallino dei nuovi indicatori e ne sfoa in continuazione, aiutandoci a capire cosa succede davvero nel nostro paese sotto il profilo del  benessere reale, delle opportunità,   della   condizione
giovanile.

Sabina Siniscalchi




Vivere per Cristo e per lui morire

Un altro martire cristiano in un paese senza pace

Shahbaz Bhatti, 42 anni, era il ministro per le minoranze religiose in Pakistan, cattolico e unico non musulmano nel governo. È stato assassinato dai talebani a Islamabad, il 2 marzo 2011, colpito da 25 proiettili.
Chi era
Shahbaz Bhatti, il ministro ucciso dai talebani pakistani, nacque il 9 settembre 1968, in una famiglia cristiana originaria del villaggio cattolico di Kushpur, un villaggio fondato dai frati Domenicani in cui «Bhatti ricevette una formazione spirituale molto solida». Nel villaggio la convivenza con i fedeli musulmani (che lì sono in minoranza) è ancora «in perfetta armonia, all’insegna del dialogo di vita, e quell’esempio Bhatti lo portò con sé come modello in tutta la sua esperienza di impegno sociale e politico» – come ricordò l’Arcivescovo di Islamabad, Mons. Anthony Rufin, durante il suo funerale.
Suo padre Jacob, servì a lungo nell’esercito, poi si impegnò nel campo dell’istruzione, insegnando per molti anni, e fu presidente del consiglio delle Chiese di Kushpur. Nell’autunno del 2010 fu ospitalizzato a Islamabad, dove peggiorò dopo la notizia dell’assassinio del governatore del Punjab, Salman Taseer, il 4 gennaio 2011; morì il 10 dello stesso mese. L’importanza di Jacob Bhatti nella vita del figlio è stata grande. Una testimonianza apparsa sui giornali pakistani al momento della morte lo descriveva così: «Era un uomo coraggioso ed era la principale fonte di forza per suo figlio. Lo incoraggiava e lo aiutava a affrontare le situazioni più rischiose e precarie».
Shahbaz Bhatti dopo aver completato i suoi studi intraprese la carriera politica nel Pakistan People’s Party, il partito più riformatore del Paese. Molto rapidamente si impose all’attenzione dei quadri dirigenti del partito, e in particolare di Benazir Bhutto, con cui lavorò a stretto contatto fino al momento dell’assassinio della leader carismatica pakistana. Shahbaz era sul convoglio insieme alla Bhutto al momento dell’attentato e riportò solo ferite leggere.
Bhatti ebbe sempre un’attenzione particolare per la situazione dei gruppi più discriminati del Paese. Era presidente dell’Apma (All Pakistan Minorities Alliance), un’organizzazione rappresentativa delle comunità emarginate e delle minoranze religiose (non musulmane) del Pakistan, che tuttora opera su vari fronti in sostegno dei bisognosi, dei poveri, dei perseguitati. Del motivo del suo impegno egli diceva semplicemente: «Voglio solo un posto ai piedi di Gesù. Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino per me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo».

(adattato da AsiaNews)

Il suo «testamento»
«Il mio nome è Shahbaz Bhatti. Sono nato in una famiglia cattolica. Mio padre, insegnante in pensione, e mia madre, casalinga, mi hanno educato secondo i valori cristiani e gli insegnamenti della Bibbia, che hanno influenzato la mia infanzia. Fin da bambino ero solito andare in chiesa e trovare profonda ispirazione negli insegnamenti, nel sacrificio, e nella crocifissione di Gesù. Fu l’amore di Gesù che mi indusse ad offrire i miei servizi alla Chiesa. Le spaventose condizioni in cui versavano i cristiani del Pakistan mi sconvolsero. Ricordo un Venerdì Santo quando avevo solo tredici anni: ascoltai un sermone sul sacrificio di Gesù per la nostra redenzione e per la salvezza del mondo. E pensai di corrispondere a quel suo amore donando amore ai nostri fratelli e sorelle, ponendomi al servizio dei cristiani, specialmente dei poveri, dei bisognosi e dei perseguitati che vivono in questo paese islamico.
Mi è stato richiesto di porre fine alla mia battaglia, ma io ho sempre rifiutato, persino a rischio della mia stessa vita. La mia risposta è sempre stata la stessa. Non voglio popolarità, non voglio posizioni di potere. Voglio solo un posto ai piedi di Gesù. Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino per me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo. Tale desiderio è così forte in me che mi considererei privilegiato qualora — in questo mio battagliero sforzo di aiutare i bisognosi, i poveri, i cristiani perseguitati del Pakistan — Gesù volesse accettare il sacrificio della mia vita. Voglio vivere per Cristo e per Lui voglio morire. Non provo alcuna paura in questo Paese. Molte volte gli estremisti hanno desiderato uccidermi, imprigionarmi; mi hanno minacciato, perseguitato e hanno terrorizzato la mia famiglia. Io dico che, fino al mio ultimo respiro, continuerò a servire Gesù e questa povera, sofferente umanità, i cristiani, i bisognosi, i poveri. Credo che i cristiani del mondo, che hanno teso la mano ai musulmani colpiti dalla tragedia del terremoto del 2005, abbiano costruito dei ponti di solidarietà, d’amore, di comprensione, di cooperazione e di tolleranza tra le due religioni. Se tali sforzi continueranno sono convinto che riusciremo a vincere i cuori e le menti degli estremisti. Ciò produrrà un cambiamento in positivo: le genti non si odieranno, non uccideranno nel nome della religione, ma si ameranno le une le altre, porteranno armonia, coltiveranno la pace e la comprensione in questa regione. Credo che i bisognosi, i poveri, gli orfani, qualunque sia la loro religione, vadano considerati innanzitutto come esseri umani. Penso che quelle persone siano parte del mio corpo in Cristo, che siano la parte perseguitata e bisognosa del corpo di Cristo. Se noi portiamo a termine questa missione, allora ci saremo guadagnati un posto ai piedi di Gesù ed io potrò guardarlo senza provare vergogna».

(da www.consolata.org)
A cura di Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Caleidoscopio africano

Uno sguardo sugli abitanti del corno d’Africa

Il Coo d’Africa è popolato da 73 milioni di abitanti che parlano 188 idiomi diversi e sono raggruppati in 4 famiglie linguistiche: un mosaico affascinante per la diversità di usi, costumi e culture, testimonianze di una ricchezza umana inestimabile e di una civiltà antica ricca e raffinata, come quella aksumita.

Viaggio tra le popolazioni del Coo
Tra gli storici, inviati e giornalisti noi preferiamo l’uomo all’antica, che si avvicina all’Africa con timore reverenziale. Ci scontriamo con il giornalista che percorre l’Africa sorvolandola in aeroplano o osservandola da una vettura lanciata ad alta velocità, per poi pubblicare affrettate impressioni per altrettanto superficiali lettori: noi stiamo con chi predilige viaggiare da solo, a dorso di mulo o meglio a piedi, inoltrandosi in sentirneri non riportati dalle carte, scalando picchi arditi, affrontando le paludi, trascorrendo lungo tempo a contatto con le popolazioni per studiae i comportamenti, la storia, gli usi e i costumi. Diamo la nostra stima a chi cerca di leggere profondamente negli uomini e nella natura, a chi mette per iscritto ciò che ha elaborato, solleticato nel suo inconscio da stimoli veri, onesti, reali.
Solo così il visitatore del Coo potrà cogliere e poi riferire la vera realtà di ciò che rappresenta ancora oggi quella parte d’Africa nelle sue peculiari varietà climatiche, geografiche ed etnografiche. In particolare, solo così il nostro uomo riuscirà a farsi un’idea esatta dei rapporti interumani che esistono fra le numerose etnie che popolano quei luoghi e sarà in grado di distinguere la popolazione abissina, dominante, fra tutte le altre che non sono mai riuscite ad emergere; avrà la capacità di comprendere i tanti aspetti della religiosità professata nel Coo, tanto singolare quanto può esserlo un credo che si è espanso in un territorio vasto tre volte l’Italia, dove la tolleranza religiosa è un fatto reale che può destare solo tanta meraviglia.
È un mondo molto distante da quello europeo, fortunatamente e, almeno per ora, volutamente mantenuto ancorato alle proprie tradizioni. Unico neo, ma immenso, è la guerra, da ritenersi ormai endemica, che purtroppo colpisce la natura e le popolazioni e assorbe linfa vitale dai magri bilanci statali anche nei brevi periodi di tregua.
Il nostro ideale e solitario viaggiatore dovrà necessariamente avere un’unica preoccupazione: evitare le zone minate che interessano vaste aree del Coo. Non esistono mappe indicative, non esistono cartelli di segnalazione; è indispensabile chiedere lumi agli abitanti, che conoscono bene le zone anche perché ciascuno di loro, disgraziatamente, vi ha avuto un familiare ferito o ucciso. Se saprà comportarsi correttamente, lo straniero troverà, nelle genti del Coo, ospitalità e tutto quell’aiuto che può servire a un viandante, indipendentemente dal colore della pelle o dalla sua nazionalità.
Chi sono gli abitanti dell’Acrocoro, o meglio, chi vive nel Coo? Non si può parlare delle popolazioni che occupano l’Acrocoro senza ricordare quelle che vivono nel medio e bassopiano. Ci vuole un po’ di pazienza perché l’elenco è lungo e la superficie del Coo è tanto vasta.
quattro classi linguistiche
Si sostiene che solo in Etiopia vivono 178 popolazioni diverse: differenti per colore, lingua e costumi; in tutto raggiungono 60 milioni di individui; in Eritrea, abitata da 3 milioni di persone, ci sono 8 etnie ben distinte fra loro, alle quali vanno aggiunti i rashaida, che non sono autoctoni ma beduini arabi stabilitisi sulla costa eritrea nel 1869 con la migrazione di alcune centinaia di individui; la Somalia è popolata da 10 milioni di somali e da alcune centinaia di migliaia di bantu, presenti nel Giuba e nel basso Scebeli, introdotti nel Coo nel XIX secolo come schiavi dall’Africa centrale; 4 milioni di somali poi abitano l’Ogaden etiopico, il meridione della Repubblica di Gibuti, alcune zone della Dancalia etiopica e del Kenya orientale, territori che confinano tutti con l’Etiopia.
In conclusione il Coo è popolato da circa 73 milioni di abitanti che parlano 188 lingue diverse.
Ma non è finita! All’interno di ognuna di queste popolazioni, infatti, si possono trovare differenze di colore: gli afar, ad esempio, abitano la Dancalia e l’arcipelago delle Dahlac e si dividono, secondo una loro classificazione, in adomarà, assamarà e tatamarà, cioè uomini bianchi, uomini rossi e uomini neri, caratteristica derivante probabilmente dai diversi periodi nei quali si sono mescolate popolazioni negre locali con immigrazioni camitiche e poi semitiche.
Va ricordato che con il termine «semita» (da Sem, figlio di Noè) vengono indicate genti diverse, ma discendenti da antenati linguistici comuni. Il dibattito sull’esatto significato di «semita» è ancora aperto ma vi è un largo consenso nell’accettare che, da un punto di vista linguistico, il termine si riferisce oggi ad ebrei, arabi e alle genti che parlano le lingue tigrina, amarica e aramaica. La forma negativa del termine antisemita è invece usata nell’accezione di «anti-ebreo».
Il termine «camita» proviene da Cam, altro figlio di Noè. Cam, fra i suoi tanti figli, ebbe anche Cus e Put, dalla pelle di colore scuro; da loro deriverebbe anche il termine «cuscita», che in gergo significa «camita orientale».
L’Acrocoro è abitato in parte da individui di caagione molto chiara e da altri il cui colore della pelle è molto scuro. Tali variazioni possono ritrovarsi anche nello stesso ambito familiare. I tratti somatici degli individui possono variare drasticamente per la continua mescolanza delle genti, ma mentre è facile riconoscere l’eritreo, che presenta in genere un bel viso dai tratti marcati, o il somalo che ostenta invece lineamenti molto più dolci, non sempre è agevole distinguere un amara da un oromo o da un guraghe. E spesso non sono d’aiuto neppure gli usi e i costumi, perché esistono degli amara mussulmani e degli oromo cristiani.
In generale il Coo è quindi caratterizzato dalla eterogeneità delle sue genti, ma non è nostro compito elencare le caratteristiche fisiche o culturali delle varie popolazioni. Ci limiteremo ad elencare la loro classificazione e indicare i territori che attualmente occupano. Gli studiosi suddividono le popolazioni del Coo su base linguistica in quanto questo è l’unico criterio oggettivo per raggruppare tanti popoli con idiomi e costumi differenti (vedi riquadro pag. 64).
Tigrè o Tigrai?
Sidamo o Sidama?
Prima di procedere è necessario chiarire alcune incertezze che si riscontrano sui nomi delle popolazioni, anche da parte di eminenti studiosi.
Gli amara rappresentano la popolazione dominante dell’Acrocoro e abitano il cuore dell’Etiopia. Di statura alta, hanno in genere la pelle abbastanza chiara e lineamenti simili a quelli europei. I loro sorrisi sono belli e mostrano dentature bianche e perfette. Fieri della loro genealogia, hanno sempre un portamento altezzoso e trattano ancora oggi con sufficienza tutte le altre popolazioni.
Amara furono la maggior parte dei re e imperatori dell’Etiopia. Erano eccellenti guerrieri e spesso organizzavano spedizioni militari nel basso Omo e nella  regione dei laghi della Rift Walley con l’unico scopo di razziare bestiame e catturare i giovani migliori per fae degli schiavi.
Nelle loro passate conquiste, hanno spesso modificato i nomi delle popolazioni sottomesse, sostituendoli con termini dal significato dispregiativo, o addirittura con un nome che indicava  lo stato di schiavitù. Ad esempio, la provincia più settentrionale dell’Etiopia, che oggi fa parte della Federazione Etiopica, si chiama Tigrai. Molti studiosi continuano a chiamarla Tigrè (che è il nome con cui gli amara chiamano i tigrini) non sapendo che tigrè in amarico significa «sotto il mio piede», cioè «servo». Tigrè è anche il nome di una popolazione dell’Eritrea settentrionale, nella cui struttura sociale i tigrè (servi) sono governati da un’aristocrazia di capi detti sciumaghillè (anziani).
Un altro esempio ce lo foiscono i nara dell’Eritrea che sono meglio noti come baria, un antico termine aksumita che significa schiavo.
I somali poi, chiamavano gli oromo galo, che in senso dispregiativo vuole dire non mussulmano. Nell’antica lingua gheez il termine galla significa «schiavo» e gli amara hanno approfittato di questa somiglianza per chiamare galla gli oromo.
Gli uolaita sono stati chiamati uolamo, che deriva da uoi lam, la cui traduzione letterale è «oh! una mucca». Un ulteriore esempio di questo sarcasmo lo si ritrova nella provincia del Beghemedìr, regione di Gondar: Beghemedìr significa «terra di pecore». Dai beni-shangùl della regione di Asossa, vicino al confine sudanese, gli amara hanno derivato il nome scianchilla, o sciangalla, col significato di «negro», e lo hanno assegnato ai gumùz, abitanti lungo il confine sudanese e nel Uollega occidentale.
L’usanza di sbeffeggiare i vinti, indicandoli con nomi offensivi, era diffusa anche fra altre popolazioni del Coo. Gli oromo hanno chiamato giangerò, «scimmione», gli iama che abitano la valle dell’Omo, mentre gli agnuaa di Gambella sono chiamati iambo, «schiavo».
I caffini chiamano surma, «negro», le tribù ciai, tirma, zilmamo e altre nei dintorni di Maji.
A tal proposito una menzione  particolare merita il nome sidama. In lingua oromo (seconda lingua etiopica dopo l’amarico) sidama significa «straniero», termine riservato dagli oromo agli amara confinanti, con i quali spesso combattevano ferocemente.
I viaggiatori europei del XIX secolo, dopo aver attraversato le terre degli oromo, giunsero nel Caffa, all’altezza del medio corso dell’Omo, e constatarono che queste popolazioni non oromo erano chiamate sidama, e con tale nome continuarono a chiamarle. Oggi queste popolazioni sidama sono comprese nel gruppo omotico (vedi riquadro). Va precisato che una popolazione del gruppo cuscitico di nome sidamo, che abitava un tempo tutto l’altipiano del Bale, è stata spinta dagli oromo verso ovest e oggi abita una piccola regione a sud del lago Auassa.
Per complicare la confusione dei nomi, l’Amministrazione etiopica chiama sidama i sidamo, mentre chiama Sidamo tutta la provincia compresa fra i laghi della Rift Valley a ovest, e il corso del Ghennale (poi Giuba) a est, regione abitata prevalentemente da oromo.
Per ultimo citiamo gli abitanti di Harar, che molti continuano a chiamare aderè: chiamare gli abitanti di Harar aderè, anziché harari, è come chiamare galla un oromo, cioè è un insulto.
Dopo la conquista di Harar (1887), Menelik assegnò al cugino Maconnèn il governatorato di Harar e chiamò aderè, che significa «protetti», gli abitanti di Harar, che erano i discendenti di un’antica colonia aksumita e parlavano l’harari, una lingua derivata dal gheez. Oggi gli abitanti di Harar vogliono essere chiamati harari.
Come si sono formate
le popolazioni del Coo?
È interessante vedere come si sono formate queste popolazioni, che indicheremo complessivamente col nome biblico di «etiopici», ad eccezione dei rashaida che, come abbiamo detto, sono arabi, e dei bantu della Somalia, che sono i discendenti degli schiavi negri razziati dagli arabi nell’Africa equatoriale.
Sembra che la prima migrazione di popolazioni verso l’Africa si sia verificata alcune decine di migliaia di anni fa: genti negre si sono spostate dall’Asia all’Africa attraverso l’istmo di Suez; tale migrazione si è svolta molto lentamente, durando secoli se non addirittura millenni.
Queste popolazioni si diressero verso sud lungo il Nilo, costeggiarono a occidente il massiccio etiopico e si sparsero nell’Africa centro-meridionale dando origine al gruppo bantu. La retroguardia di questa migrazione si stabilì più a nord, nel Sahara centrale, insediandosi in parte anche sull’altipiano etiopico e dando origine ai nilo-sahariani: masai, nuba, dinka, scilluk, nara, cunama, gumùz e altre popolazioni oggi stanziate nell’ovest dell’Etiopia e in Kenya.
Successivamente si ebbe, a diverse ondate, sempre dall’Asia, una migrazione di genti dalla pelle più chiara, i camiti, che si divise in due rami: camiti settentrionali (berberi, egizi), e camiti orientali, detti anche cusciti, da Cush, nome biblico dell’Etiopia; parte di questi ultimi occupò l’altipiano etiopico: gli agau (pronuncia agò) a nord del Nilo Azzurro, i sidama a sud, oggi facenti parte del gruppo omotico; un’altra parte si stanziò a oriente del massiccio, lungo le coste del Mar Rosso e del Golfo di Aden, dando origine agli afar, agli oromo e ai somali.
La coda dei cusciti si fermò nel Sudan orientale, dando origine ai begia e ai beni-amer. Il colorito della pelle, oggi tendente al nero, indica che dopo il loro insediamento nell’Acrocoro ci furono ibridazioni con popolazioni negre.
Nel 1° millennio a.C. si ebbe una migrazione di popolazioni sudarabe, di pelle chiara, che avevano raggiunto un grado di civiltà elevatissimo, con un’agricoltura molto sviluppata, eserciti potenti, corti fastose e un sistema di scrittura. I minei e i sabei attraversarono il Mar Rosso, si attestarono sull’Acrocoro e fondarono, su un substrato di genti agau, il regno di Aksum. I sudarabi sono stati, nel corso dei secoli, assorbiti etnicamente dagli agau di pelle più scura; ma imposero la loro superiore cultura, dando vita al gruppo di popolazioni semitiche. Anche in questo caso la colorazione molto scura della pelle indica una mescolanza con popolazioni negre preesistenti, la frangia orientale dei nilo-sahariani.
Una successiva influenza araba si esercitò dopo l’avvento dell’islam, e interessò non solo la costa del Coo, ma gran parte dell’Africa, soprattutto sotto l’aspetto linguistico e religioso.
assetto geografico attuale
L’attuale assetto geografico delle popolazioni del Coo, dopo le importanti migrazioni che stabilirono gli insediamenti originari, ebbe inizio con l’espansione del regno di Aksum, che arrivò ad estendersi dalla Nubia fino ai confini della Somalia.
Nel VII secolo, dopo la conquista araba dell’Egitto, venuti a mancare i traffici importanti fra Egitto e Oriente, Aksum decadde rapidamente; tentò di risollevarsi, ma nel X secolo, quando era quasi ritornato all’apice della sua potenza, fu distrutto dalle orde sanguinarie di Essato, o Gudit, una regina agau che portò morte e distruzione nel regno e uccise 400 principi aksumiti, relegati, secondo un’antica tradizione, sull’amba di Debra Damo.
Le popolazioni minori del gruppo semitico, gli argobba, gli harari e i guraghe (originari dalla regione di Gura in Eritrea) sono discendenti di antiche colonie militari aksumite. Dalle distruzioni di Essato si salvò un solo principe, che si rifugiò nel sud del paese e diede origine alla stirpe degli amara, che ebbero il loro natale nell’alta valle del Bascillò nell’Uollo.
I somali vengono alla storia per la prima volta a partire dal 1536, quando Ahmed Gragn, sultano di Harar, invase l’Etiopia con un esercito di dancali e di somali, distrusse chiese e monasteri, bruciò tutti i testi antichi e depredò l’Etiopia di tutti i suoi tesori. I somali, una piccola tribù dislocata fra Harar e Giggiga, si espansero successivamente verso est e verso sud, scacciando dalla Somalia gli abitanti negri e oromo ed arrivarono, come si è già detto, fino al Kenya orientale. Sono quindi un’unica popolazione con un’unica lingua e molti dialetti.
Gli oromo, che stanziavano nella Somalia orientale e nell’Etiopia meridionale, spinti dalla pressione somala, si diressero a est nel Kenya orientale e a nord in Etiopia, dove si sparsero in gran parte del paese. Dialetti diversi oromo sono parlati nel Uollo, negli Arussi, nel Caffa, nello Scioa, nel Tigrai meridionale.

Alberto Vascon  e Nicky Di Paolo

Alberto Vascon e Nicky Di Paolo




Rischio o ricchezza?

Dialogo tra le religioni

«Siamo nell’era della globalizzazione. Le religioni e i credenti non possono più ignorarsi a vicenda. L’attualità dimostra ogni giorno quanto peso abbiano i rischi dei conflitti religiosi. Per evitarli, per liberarci dei nostri pregiudizi, è assolutamente necessario dialogare» (rabbino Rivon Krygier).

In un’intervista pubblicata sul settimanale cattolico «Paris Notre-Dame», il rabbino Rivon Krygier, responsabile della comunità Adath Shalom (Assemblea della Pace), ha chiaramente indicato l’importanza e la necessità del dialogo tra le religioni: «Siamo nell’era della globalizzazione. Le religioni e i credenti non possono più ignorarsi a vicenda. L’attualità dimostra ogni giorno quanto peso abbiano i rischi dei conflitti religiosi. Per evitarli, per liberarci dei nostri pregiudizi, è assolutamente necessario dialogare. Credo inoltre – ha continuato – che tutti noi siamo consapevoli che esiste una certa relatività della verità. Non si tratta d’indifferentismo o di relativismo. Diciamo semplicemente che in ogni religione esistono autentici valori spirituali e che possiamo arricchirci con la spiritualità dell’altro proprio grazie al dialogo. La spiritualità degli altri credenti ci aiuta a comprendere la nostra religione e a costruire insieme quella frateità universale insita nel progetto stesso delle nostre rispettive religioni».
Oggi le librerie traboccano di libri e riviste sulle religioni, tanto da indurci a parlare di rivincita del sacro. Anzi, si può dire che non si può comprendere il mondo senza le religioni. Le religioni però fanno anche paura, perché vengono percepite come un pericolo. È il paradosso che stiamo vivendo. Fondamentalismo, fanatismo, terrorismo sono spesso associati a una forma pervertita di islam e ora anche di induismo, come dimostra l’uccisione di cristiani nell’Orissa, uno Stato dell’India. Naturalmente non si tratta del vero islam o del vero induismo praticato dalla maggioranza dei suoi seguaci. Le religioni – lo sappiamo bene dalla storia – sono capaci di bene o di male. Possono predicare la pace o la guerra. Va comunque precisato che non sono le religioni e il loro messaggio che provocano e scatenano la violenza o la guerra, bensì i loro seguaci e la cattiva interpretazione che essi danno del messaggio originale contenuto nelle religioni.
cristiani:
dialoganti per natura
Nel dialogo tra le religioni i cristiani, per la natura stessa del messaggio evangelico, sono direttamente implicati. Il nostro Dio è infatti un Dio che dialoga con le tre persone della Trinità e dialoga con gli uomini mediante la venuta tra noi di suo figlio, Cristo Gesù, fatto uomo come noi e per noi. Pietro negli Atti ricorda che «Dio non fa eccezioni di persone e che ogni nazione che lo teme e pratichi la giustizia trova accoglienza presso di Lui» (10, 35). Gli fa eco il Concilio Vaticano II nel preambolo del decreto Nostra Aetate: «Gli uomini attendono dalle varie religioni la risposta agli enigmi nascosti della condizione umana, che ieri, come oggi, turbano profondamente il cuore umano».
I cristiani perciò non possono disinteressarsi degli altri credenti, di qualsiasi religione essi siano. Per i cristiani il dialogo si fonda su un Dio trino e unico, rivelato agli uomini come un Dio che dialoga con la Trinità e con gli uomini. Ogni cristiano è perciò invitato a imitare questo dialogo di comunione e di amore. Paolo lo ricorda bene nella prima lettera a Timoteo: «Dio vuole che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla conoscenza della verità». A questo scopo egli ha inviato il Figlio unigenito Gesù come «l’unico mediatore tra Dio e gli uomini» (2, 4-5). Ecco perché Gesù occupa un posto unico nella storia religiosa. Egli è più di un saggio, è più di un profeta. Nella sua stessa persona egli è «vero Dio e vero uomo». È unico poiché è il Figlio di Dio e perché è vissuto in un luogo e in un’epoca specifica, condividendo la nostra condizione umana.
COME VIVERE IL DIALOGO?
Se il dialogo interreligioso fa parte del messaggio di Gesù e della fede del cristiano, che cosa si deve fare per viverlo giorno per giorno? Vi è dialogo quando persone o gruppi di persone in disaccordo fra loro su un determinato argomento che ritengono essenziale tentano di dirimerlo con dimostrazioni, prove e ragioni, invece di usare la violenza, la derisione, lo scherno e il disprezzo.
Il dialogo religioso consiste allora nel promuovere tutte le possibili relazioni positive con persone e comunità «allo scopo – come spiega Dialogo e annuncio, documento pubblicato il 19.10.1991 dal “Consiglio Pontificio per il dialogo interreligioso” – di imparare a conoscersi e ad arricchirsi vicendevolmente, pur obbedendo alla verità e rispettando la libertà di ciascuno» (n. 9). Ciò significa che il dialogo interreligioso inizia sempre dal rispetto dell’altro, della sua persona, delle sue convinzioni, della sua formazione, della sua cultura. Il dialogo vissuto in questo modo diviene anche occasione per approfondire le nostre convinzioni umane e religiose, per rivedere le nostre idee preconcette e spogliarci dei nostri pregiudizi inveterati.
DAL CUORE
La fede religiosa è vissuta soprattutto nelle profondità del proprio cuore. Ce lo insegna la Sacra Scrittura: «JHVH parla al cuore» di Israele (Os 2, 16), Gesù è «mite e umile di cuore» (Mt 11, 29), Maria «conserva nel suo cuore quanto ha visto e udito» (Lc 2, 19.51). Il cuore è una delle parole più importanti tra quelle che definiscono l’uomo biblico, immagine e somiglianza di Dio. E poiché gli uomini sono stati creati liberi di cercare Dio, essi sono liberi di sceglierlo o non sceglierlo. Lo afferma l’enciclica Redemptoris missio di Giovanni Paolo II quando «sottolinea che il dialogo interreligioso non è la conseguenza di una strategia o di un interesse, ma un’attività che ha le sue motivazioni, le sue esigenze e la sua propria dignità. Esso è richiesto dal rispetto che occorre avere verso tutto quello che lo Spirito ha operato nell’uomo». Grazie al dialogo la Chiesa intende scoprire «i semi del Verbo, le scintille di quella verità che illumina tutti gli uomini», semi e scintille che si trovano nelle persone e nelle diverse tradizioni religiose dell’umanità.
QUATTRO “DIALOGHI”
Questo dialogo si attua secondo quattro modalità. In primo luogo il «dialogo della vita», imparando a condividere le giornie e le sofferenze dell’esistenza umana con i membri di altre religioni. In secondo luogo il «dialogo delle opere», collaborando con gli altri a favore delle necessità fondamentali per la vita: cibo, pace, salute, ecc. La terza modalità di dialogo, quello «teologico», spesso riservato a specialisti, ci fa comprendere meglio la nostra eredità religiosa e ci permette di approfondire le Scritture delle altre religioni. Infine, il «dialogo tra differenti spiritualità» ci fa condividere le ricchezze che nascono dalla preghiera e dalla contemplazione di Dio.
UTOPIA?
Non è, questa, una visione semplicemente utopica, immaginaria, impossibile. Esistono uomini e nazioni che considerano il rispetto delle religioni come un valore essenziale per la pace nel mondo, per le proprie popolazioni e per tutta l’umanità. Benedetto XVI ha, per esempio, lodato l’apertura del popolo mongolo verso le altre religioni, definendolo un modello per l’intera umanità. Nel ricevere le credenziali del nuovo ambasciatore presso la Santa Sede (venerdì 29 maggio 2009), ha ricordato che l’attuale costituzione della Mongolia riconosce la libertà religiosa come «un diritto fondamentale», nonostante il regime comunista sia rimasto in carica per quasi 70 anni, fino al 1990, e la popolazione mongola di circa 3 milioni di abitanti sia per lo più composta di buddisti tibetani. Questa convivenza religiosa si può far risalire a Gengis Khan (1162-1227), il capo leggendario di tutti i mongoli, che estese il suo dominio fino a Pechino, al Tibet e al Turkestan invitando in Mongolia musulmani, cristiani e buddisti.
«Le persone che praticano la tolleranza religiosa – ha ricordato il papa – hanno il dovere di condividere la saggezza di questo principio con l’umanità intera, cosicché tutti gli uomini e tutte le donne possano percepire la bellezza della coesistenza pacifica e abbiano il coraggio di edificare una società rispettosa della dignità umana».
FRUTTI BUONI
Questa coesistenza è certo un bene per tutti gli uomini e tutte le nazioni. Alcune di esse, come quelle dell’Europa, l’hanno raggiunta dopo anni di guerre di religione o di laicismo esasperato; altre oggi sono un modello interessante di dialogo interreligioso, come per esempio la Bosnia-Erzegovina, dove, dopo un conflitto e una campagna di «pulizia etnica», convivono croati cattolici (17,3%), serbi ortodossi (13,3%) e musulmani bosniaci (49,2%). Nella sola Sarajevo, la capitale, coabitano musulmani, croati, serbi e una nutrita comunità di rom.
Gli accordi inteazionali degli anni Novanta hanno contribuito al progresso di questo paese dell’ex-Jugoslavia, introducendo nei loro ordinamenti una visione giuridica e religiosa ispirata ai principi della dignità della persona umana, che ha superato quella nazionalistica, parziale e strumentale. Segno che il dialogo è sempre possibile, anche in situazioni difficili e per alcuni aspetti ancora instabili.
Visitando la Terra Santa, la Palestina e la Turchia, il papa Benedetto XVI ha voluto incontrare i leader musulmani. Ha fatto lo stesso con gli esponenti della religione ebraica per favorire il dialogo interreligioso. Anche durante il suo ultimo viaggio in Africa (marzo 2009) ai rappresentanti musulmani del Camerun ha detto con evidente convinzione che «la ragione rifiuta ogni violenza religiosa». Egli sa che il futuro dell’umanità dipende dai nostri sforzi in questa direzione.
Qual è ora il nostro
compito?
Il cardinale Jean Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il dialogo tra le religioni, in un suo intervento a Malta, lo ha riassunto nei seguenti tre punti. Prima di tutto avere idee chiare sul contenuto della propria religione. L’ignoranza e l’ambiguità non permettono il dialogo. Ognuno di noi deve possedere una chiara identità e conoscenza di quello di cui e su cui vuole dialogare.
In secondo luogo è importante vivere seguendo le proprie convinzioni. Si deve essere dei credenti credibili. Nel dialogo interreligioso ci viene sempre chiesto «chi è il tuo Dio e come vivi la tua fede?». Questo tipo di dialogo avviene non tra le religioni, ma sempre tra credenti. Infine, non si deve aver paura di dire la verità circa la propria fede. Facendo così, il credente è onesto verso se stesso e verso gli altri. Non si può barare per arrivare a una facile conciliazione. Nello stesso tempo il messaggio religioso non è da conservare in una scatola chiusa. Lo si deve comunicare e testimoniare con coraggio.
Dialogo è dono
Dialogare è sempre una ricchezza e una grazia, un dono che viene da Dio. Tutti siamo chiamati a collaborare in diversa maniera con coloro che si sforzano di assicurare il rispetto della dignità della persona e dei suoi diritti fondamentali. Senza dubbio esistono anche dei rischi. Uno è quello del sincretismo, ma rimane un rischio relativo, nel senso che ogni credente che dialoga è portato ad approfondire la propria fede per rendersene ragione. Una grazia è invece la convinzione di poter dialogare, così come dialoga Dio con noi. Tutte le religioni possono aiutarci a raggiungere una migliore conoscenza della nostra identità cristiana. Nel documento Dialogo e annuncio, già citato, ci viene ricordato che «la pienezza della verità ricevuta in Gesù Cristo non dà al cristiano la garanzia di aver pienamente assimilato quella verità… Attraverso il dialogo i cristiani possono essere condotti ad accettare che la comprensione della loro fede debba essere purificata» (n. 49). E questo «per essere sempre pronti – come dice Pietro nella sua prima lettera – a spiegare meglio e a rendere ragione della speranza che è in noi». Tutti siamo cercatori di Dio e tutti possiamo aiutarci vicendevolmente a conoscerlo e amarlo.

Giampietro Casiraghi

Gianpietro Casiraghi