Una Chiesa a due polmoni

L’ecumenismo nel ministero di Giovanni Paolo II

«L’impegno della Chiesa cattolica nel movimento ecumenico è irreversibile… è una delle priorità pastorali» del suo pontificato: lo ha detto spesso Giovanni Paolo II e lo ha realizzato concretamente con l’attività magisteriale, pastorale, spirituale.

Tra i milioni di persone accorse a Roma per dare l’ultimo saluto a Giovanni Paolo II (2-8 aprile 2005) c’erano anche migliaia di persone di varie confessioni cristiane e capi di differenti fedi religiose: non c’è dubbio che, agli occhi del mondo, in papa Wojtyla era scomparso un uomo che aveva speso la sua vita per promuovere l’unità e la pace.
Se il suo messaggio di unità era evidente al momento della morte, non era stato altrettanto compreso mentre il papa era ancora vivo. In realtà, Giovanni Paolo II era guardato con opposti sentimenti in fatto di ecumenismo, cioè l’impegno per portare tutte le chiese cristiane all’unità piena e visibile. Alcuni considerano negativamente i suoi 27 anni di cammino ecumenico, caratterizzato, secondo loro da crisi, ritardi, lentezze e immobilità.
Da parte sua, conoscendo bene la critica di coloro che, forse troppo ingenui, si aspettavano una facile riunificazione mediante compromessi, Giovanni Paolo II parlava di fiducia, pazienza, perseveranza, dialogo e speranza che devono caratterizzare il movimento ecumenico. Queste sono le parole chiave della sua enciclica Ut unum sint, destinata a mantenere salda la Chiesa cattolica nel suo cammino e nel suo impegno verso l’unità piena e visibile con le altre chiese cristiane. In tale enciclica egli insegna con chiarezza: «Il movimento a favore dell’unità dei cristiani, non è soltanto una qualche “appendice”, che s’aggiunge all’attività tradizionale della Chiesa. Al contrario, esso appartiene organicamente alla sua vita e alla sua azione e deve, di conseguenza, pervadere questo insieme ed essere come il frutto di un albero che, sano e rigoglioso, cresce fino a raggiungere il suo pieno sviluppo» (Uus 20).
Contributi all’ecumenismo
Giovanni Paolo II riprese gli impegni ecumenici da dove li aveva lasciati Paolo VI e li sviluppò ulteriormente. Nella costituzione apostolica Pastor bonus (28 giugno 1988), papa Wojtyla cambiò il Segretariato per la promozione dell’unità dei cristiani (stabilito da Paolo VI subito dopo il Concilio) in Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani (Pcpuc), conferendogli maggiore stabilità e responsabilità, entrato in vigore il 1° marzo del 1989.
Nelle sue intenzioni, il Pontificio consiglio doveva avere un duplice ruolo: prima di tutto il compito di promuovere nella Chiesa cattolica un autentico spirito ecumenico, in linea con il decreto Unitatis redintegratio del Concilio Vaticano II. A tale scopo era stato pubblicato un Direttorio ecumenico nel 1967-1970; aggiornato nel 1993 col titolo Direttorio per l’applicazione dei principi e delle norme sull’ecumenismo; nel 1995 fu promulgata l’enciclica Ut unum sint per tenere fermamente la Chiesa cattolica sul sentirnero dell’unità cristiana piena e visibile.
In secondo luogo, il Pontifico consiglio, secondo il volere del papa Wojtyla, aveva lo scopo di sviluppare il dialogo e la collaborazione con le altre Chiese cristiane nel mondo. Fin dalla sua creazione, il Pontificio consiglio stabilì anche una cordiale cooperazione con il Consiglio mondiale delle chiese (Cmc), il cui quartiere generale è a Ginevra. Dal 1968, 12 teologi cattolici sono stati membri della Commissione «Fede e ordine», dipartimento teologico del Cmc; così come ci sono membri incaricati di partecipare ufficialmente nelle varie commissioni per il dialogo bilaterale o multilaterale.
Giovanni Paolo II sostenne e incoraggiò dialoghi teologici inteazionali, che continuano con le seguenti chiese e comunioni cristiane mondiali: Chiesa apostolica armena, Chiesa ortodossa, Chiesa ortodossa copta, Chiese malabariche, Comunione anglicana, Federazione luterana mondiale, Alleanza mondiale delle chiese riformate, Consiglio metodista mondiale, Alleanza battista mondiale, Chiesa cristiana Discepoli di Cristo, Alcuni gruppi pentecostali.
I risultati di questi dialoghi sono stati variegati, spaziando dagli accordi dottrinali di vario grado su questioni controverse fino allo stadio finale dell’unione piena e visibile.
Con la Chiesa apostolica armena (che conta circa 3,5 milioni di fedeli), assente al concilio di Calcedonia (451) e per ciò divisa sulla dottrina cristologica, lo sforzo di unificazione è in uno stadio molto avanzato. Il credo cristologico comune è stato professato e sottoscritto; il Papa visitò l’Armenia nel 2001.
Sforzi ufficiali verso l’unità con la Comunione anglicana cominciarono subito dopo il Vaticano II con l’istituzione della Commissione internazionale anglicana-cattolica romana (Arcic). La prima commissione produsse i testi dell’accordo su Eucaristia e ministero ordinato. Tuttavia ci sono altre aree importanti non ancora sottoposte a studio e discussione. Nel 1982 Giovanni Paolo II e l’arcivescovo Robert Runcie stabilirono la seconda commissione «per esaminare, specialmente alla luce dei nostri rispettivi giudizi, le rilevanti differenze dottrinali che ancora ci separano» (La dichiarazione comune, Canterbury 29-5-1982).
Dal 1983 in poi l’Arcic 2 lavorò sulle rimanenti questioni riguardanti l’autorità e altri temi di vita ecclesiale, producendo i testi degli accordi su Salvezza e Chiesa (1986), Chiesa come comunione (1990), Vita in Cristo (1993) e Il dono dell’autorità (1998). Tuttavia, il processo verso l’unità piena e visibile con la Comunione anglicana si è scontrato con reali ostacoli, come l’ordinazione delle donne al presbiterato ed episcopato e in seguito di persone con unioni omosessuali.
Intenso fu pure il dialogo con le chiese luterane, sia negli Stati Uniti che in Europa, che produsse testi di vari accordi reciproci. L’ultimo e più importante è la Dichiarazione congiunta della Chiesa Cattolica e della Federazione Luterana Mondiale sulla dottrina della giustificazione, firmata ad Augusta il 31 ottobre 1999 dalle autorità di entrambe le chiese.
Il dialogo con le chiese ortodosse proseguì con l’aiuto della Commissione internazionale. Nell’ultimo decennio il dialogo continuò a trattare importanti questioni di attualità e produsse nel 1993 a Balamand in Libano il documento: «L’uniatismo, metodo d’unione del passato, e la ricerca attuale della piena comunione». L’uniatismo come via per raggiungere l’unità oggi è stato rigettato, mentre è stata riconosciuta l’esistenza delle Chiese cattoliche orientali come parte della Chiesa cattolica. Papa Wojtyla aveva sperato ardentemente nella piena unità visibile con le Chiese ortodosse per il Giubileo del 2000. Ma non avvenne. Sperava di visitare la Russia, patria della più forte e grande ortodossia, ma neanche questo gli riuscì.
Il dialogo con le chiese riformate è stato particolarmente creativo, in ambiti come la missione, l’ermeneutica, la giustificazione, la riconciliazione della memoria e la revisione storica di certi periodi dolorosi del passato, l’identificazione della Chiesa come sacramento e creatura del mondo. Il frutto del primo dialogo è il documento La presenza di Cristo nella Chiesa e nel mondo (1977); il secondo stadio di tale dialogo ha prodotto la dichiarazione: Verso una comune comprensione della chiesa (1990).
Giovanni Paolo II
apostolo di unità  
Papa Wojtyla è certamente un apostolo dell’unità; cercò e incoraggò l’unità tra le chiese cristiane; la convinzione dell’unità già esistente sia tra i cristiani, in quanto accolgono Cristo come Signore e salvatore, sia tra gli esseri umani, in quanto figli dello stesso Dio creatore, lo spingeva a cercare i leaders di altre religioni nei suoi giri attorno al mondo. In ogni visita pastorale inevitabilmente incontrava i capi religiosi locali. Parlò agli ebrei nel 1986 nella sinagoga di Roma: primo papa a rivolgersi agli ebrei nella loro sinagoga dopo la rottura nel primo secolo; pregò al Muro del pianto a Gerusalemme durante il Giubileo del 2000; visitò la moschea di Damasco nel 2001, spiegando concretamente la comune fede nel Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe. Con questi gesti simbolici ha impresso un chiaro orientamento al cammino ecumenico. L’unità che cerchiamo come cattolici non è un’unione superficiale o semplicemente di lavoro a spese della verità. Infatti, non c’è salvatore all’infuori di Cristo e la pienezza della fede cristiana si trova solo nella chiesa cattolica. Tutto ciò è insegnato è ribadito in modo netto nella dichiarazione Dominus Iesus. L’unità che la chiesa cerca non è un falso «irenismo», ma scaturisce da un onesto desiderio e impegno per la pienezza di fede e verità. Il compromesso, quindi, non è la strada per l’ecumenismo; mentre la ricerca sincera e il dialogo è la via da percorrere.
Il Papa ha evidenziato che l’unità delle Chiese non può essere forzata. I cristiani credono che la piena unità visibile delle Chiese nell’unica Chiesa di Dio è dono di Dio e non può essere imposta solo con sforzi umani. Con tale convinzione, il credente si sente ancorato alla ricchezza spirituale della propria tradizione e, al tempo stesso, sganciato da qualsiasi indebito attaccamento a propri sforzi. Questo ci fa fare maggiore affidamento nella preghiera, così che il dono dell’unità possa essere concesso alle chiese (cf Uus 21-27). Per questo ogni anno a gennaio si celebra la settimana di preghiera per l’unità dei cristiani.

Venerdì 8 aprile 2005, quando il mondo si riunì per seppellire il tanto amato e apprezzato apostolo dell’unità e della pace, assistemmo alla recita di preghiere funebri, dopo la celebrazione eucaristica, da parte dei cardinali cattolici delle chiese orientali. Questo commovente rito come pure la presenza di numerosissimi leaders di altre comunità cristiane mostrò al mondo che l’unità delle Chiese è una possibilità reale.
Forse ciò per cui Giovanni Paolo II aveva tanto sperato, desiderato e pregato – la piena unità visibile delle chiese a Est e a Ovest – diventerà una realtà grazie alle sue benedizioni e preghiere in cielo, così che la Chiesa di Cristo respiri con tutti e due i polmoni, quello orientale e quello occidentale.
Più tardi, secondo i tempi di Dio, la piena unità visibile dell’unica Chiesa sarà resa visibile con l’abbraccio dei cristiani delle comunità della riforma e post-riforma. Intanto, continuiamo a pregare con Gesù «perché siano tutti una sola cosa come tu sei in me e io sono in te» (Gv 17,21), e proseguiamo con «fiducia, pazienza, costanza, dialogo e speranza», parole chiave del nostro cammino ecumenico, lasciateci dal beato Giovanni Paolo II.

George Kocholickal sdb
Professore di ecclesiologia ed ecumenismo
Tangaza College (Nairobi)

George Kocholickal




Papa planetario

Missione e missionarietà in Giovanni Paolo II

«Papa missionario» è il titolo che meglio definisce personalità e ministero di Giovanni Paolo II; se l’è meritato sul campo, con il ricco magistero missionario e innumerevoli viaggi in tutti i continenti per incoraggiare le comunità cattoliche, dialogare con esponenti delle confessioni cristiane e leaders di altre religioni, lanciare sfide contro la violenza e la guerra e invocare la giustizia e la pace tra tutti i popoli.

Piazza San Pietro, 22 ottobre 1978. Gladioli rossi e bianchi circondano l’altare sul quale Giovanni Paolo II celebra la messa inaugurale del suo ministero di Pastore Universale; durante l’omelia, davanti a più di 300 mila partecipanti e a milioni di persone che seguono il rito dalla Tv, il papa fa risuonare forte e incisivo il suo grido missionario: «Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo!». Lo stesso invito accorato, qualche anno dopo, risuona nella sua enciclica missionaria, Redemptoris missio: «Popoli tutti, aprite le porte a Cristo!» (RM 3 e 39).
Dal primo giorno del suo pontificato, quindi, Giovanni Paolo II rivela il suo slancio missionario e traccia anche gli ambiti in cui vuole esercitare il suo ministero di evangelizzazione, invitando ad aprire a Cristo e «alla sua potenza salvatrice i confini degli Stati, i sistemi economici e politici, i vasti campi della cultura, della civiltà e del progresso. Non temete. Cristo sa che cosa c’è nell’uomo. Egli solo lo sa… Vi chiedo, vi prego con umiltà e fiducia, lasciate che Cristo parli all’uomo. Egli solo ha parole di vita, sì, di vita eterna».
Per aprire le porte a Cristo papa Wojtyla ha calzato i sandali di Pietro e si è fatto missionario itinerante, maestro di fede, testimone del Vangelo.
missionario itinerante
Dopo solo tre mesi dall’inizio del suo ministero, eccolo proiettare la sua missione universale ai quattro punti cardinali: verso il Sud del mondo con il viaggio in Messico (25 gennaio – 1° febbraio 1979), verso Est con il trionfale «ritorno in patria» (2-10 giugno), verso il Nord e l’Ovest con la missione congiunta in Irlanda e negli Usa (29 settembre – 8 ottobre). Appena compiuto un anno di pontificato, già inizia il suo primo viaggio ecumenico: in Turchia (28-30 novembre 1979) incontra il presidente del paese musulmano e il patriarca ortodosso Demetrio I, lanciando così i primi approcci al mondo dell’ortodossia e a quello dell’islam, che tanto spazio occuperanno nello sviluppo del suo pontificato.
Sono «viaggi di fede», come spiega ai giornalisti prima di partire per il Messico: «Il papa va in alcune zone del Nuovo Mondo come messaggero del Vangelo per milioni di fratelli e di sorelle che credono in Cristo; li vuole conoscere, abbracciare tutti e dire a tutti – bambini, giovani, uomini, donne, operai, contadini, professionisti – che Dio li ama, che la Chiesa li ama». «Fin dal giorno dell’elezione a vescovo di Roma, il 16 ottobre 1978 – confessa nell’allocuzione per celebrare il centesimo viaggio (13-6-2003) – è risuonato nel mio intimo con particolare intensità e urgenza il comando di Gesù: “Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo a ogni creatura”. Mi sono sentito in dovere di imitare l’apostolo Pietro che “andava a far visita a tutti”, per confermare e consolidare la vitalità della Chiesa nella fedeltà alla Parola e nel servizio della verità; per dire a tutti che Dio li ama, che la Chiesa li ama, che il Papa li ama; e per ricevere, altresì, da essi l’incoraggiamento e l’esempio della loro bontà, della loro fede».
«Il papa non può rimanere prigioniero del Vaticano -confida in uno dei primi viaggi ai giornalisti che lo accompagnano -. Voglio andare da tutti, da tutti coloro che pregano, dove essi pregano, dal beduino nella steppa, dalla carmelitana o dal monaco cistercense nei loro conventi, dal malato al suo letto di sofferenza, dall’uomo attivo nel pieno della sua vita, dagli oppressi, dagli umiliati… dappertutto… vorrei oltrepassare la soglia di tutte le case».
«Già dall’inizio del mio pontificato ho scelto di viaggiare fino agli estremi confini della terra per manifestare la sollecitudine missionaria» scriverà nella sua enciclica missionaria. Il continuo viaggiare, anche quando gli diviene faticoso, è certamente l’aspetto più vistoso e originale del pontificato di Giovanni Paolo II, un pontificato missionario, con forte proiezione planetaria, messianica e apocalittica, come rivela nel suo viaggio in Canada nel 1984. Egli si scaglia con furore profetico contro un mondo segnato dal male, sganciato da Dio, gonfio di presunzione e orgoglio, pieno di adoratori del potere e del denaro. «La spaccatura tra il Vangelo e la cultura è il dramma della nostra epoca» afferma a Winnipeg. A Montreal papa Wojtyla rivela inconsciamente le ragioni del suo pontificato itinerante, identificandosi con la missione di Mosè: «Dio si rivela a Mosè per affidargli una missione. Deve far uscire Israele dalla schiavitù dei faraoni d’Egitto»; anch’egli, sommo pontefice e rappresentante di Dio, deve percorrere in lungo e in largo questa terra, «possesso di Dio» e quindi «terra santa», per richiamarla alla salvezza, per richiamare l’umanità sulle strade del cielo, per traghettare la Chiesa e il mondo in una nuova epoca, nel «nuovo» millennio.
Per rispondere alla sua triplice responsabilità di vescovo di Roma, primate d’Italia e pastore universale, papa Wojtyla si propone di visitare tutte le parrocchie dell’urbe, tutte le diocesi italiane e tutte le nazioni della terra. Scherzosamente afferma che non gli basta essere Pietro, ma vuole essere anche Paolo, l’apostolo delle genti. Concetto ribadito nel 1980 nel suo primo viaggio in Africa: «In Europa c’è chi pensa che il papa non dovrebbe viaggiare, che dovrebbe stare a Roma, come ha sempre fatto. Così leggo sui giornali e ricevo consigli in proposito. Io dico, invece, che è una grazia di Dio essere venuto tra voi, perché posso conoscervi. Diversamente, come potrei capire chi siete e come vivete? Ciò mi conferma nella convinzione che è giunto il tempo in cui i vescovi di Roma, cioè i papi, non debbano considerarsi solamente i successori di Pietro, ma debbano ritenersi anche eredi di Paolo che, come sappiamo bene, non si è mai fermato, che era sempre in viaggio. E ciò che è vero per il papa vale anche per i suoi collaboratori di Roma».
Una chiesa tutta missionaria
Secondo l’impostazione data nella Redemptoris missio, l’evangelizzazione è fondamentalmente sempre la stessa, ma assume accentuazioni diverse a seconda delle situazioni in cui si svolge: si chiama attività pastorale quando si rivolge a comunità cristiane vive e solide; nuova evangelizzazione o rievangelizzazione quando riguarda ambienti di tradizione cristiana scristianizzati; prima evangelizzazione o attività missionaria in senso specifico quella destinata a popoli che ancora ignorano Cristo (cfr RM 33).
Quest’ultima modalità, la missione ad gentes, nel magistero di Giovanni Paolo II riveste caratteristiche di priorità e urgenza. Dopo due mila anni di evangelizzazione, egli lamenta, «la missione ad gentes è ancora agli inizi». C’è bisogno di un colpo di reni. «Gli uomini che attendono Cristo sono ancora in numero immenso: gli spazi umani e culturali, non ancora raggiunti dall’annunzio evangelico o nei quali la chiesa è scarsamente presente, sono tanto ampi da richiedere l’unità di tutte le sue forze… Non possiamo restarcene tranquilli, pensando ai milioni di nostri fratelli e sorelle, anch’essi redenti dal sangue di Cristo, che vivono ignari dell’amore di Dio. Per il singolo credente, come per l’intera chiesa, la causa missionaria deve essere la prima, perché riguarda il destino eterno degli uomini e risponde al disegno misterioso e misericordioso di Dio» (cfr RM 86). Guidando la Chiesa nel terzo millennio, papa Wojtyla vuole che essa sia animata dallo «stesso entusiasmo che fu proprio dei cristiani della prima ora… Il nostro passo, all’inizio di questo nuovo secolo, deve farsi più spedito nel ripercorrere le strade del mondo» (Novo Millennio Ineunte 58).
Egli è convinto che l’attività ad gentes è la cartina al tornasole delle altre due dimensioni missionarie, cura pastorale e nuova evangelizzazione, via obbligata per superare i sintomi di crisi che percorre la Chiesa tutta. «La missione specifica ad gentes sembra in fase di rallentamento… Difficoltà intee ed estee hanno indebolito lo slancio della Chiesa verso i non cristiani… La missione rinnova la Chiesa, rinvigorisce la fede, dà nuovo entusiasmo e nuove motivazioni. La fede si rafforza donandola!» (RM 2). Slogan che è tutto un programma.
Il suo entusiasmo missionario lo trasfonde con foga, quasi gridando, come nella Giornata mondiale della gioventù, a Manila nel 1995: «A ciascuno di voi Cristo dice: “Io mando voi… Vi mando nelle vostre famiglie, nelle vostre parrocchie, nei vostri movimenti e associazioni, nei vostri Paesi, nelle antiche culture e nella civiltà modea, affinché proclamiate la dignità di ogni essere umano, come è stata rivelata da me, il Figlio dell’uomo”» (vedi riquadro pag. 35).
La stessa trasfusione di entusiasmo è destinata alle «giovani chiese», per le quali Giovanni Paolo II scrive: «Siete voi, oggi, la speranza di questa nostra chiesa, che ha duemila anni: essendo giovani nella fede, dovete essere come i primi cristiani e irradiare entusiasmo e coraggio, in generosa dedizione a Dio e al prossimo… E sarete anche fermento di spirito missionario per le chiese più antiche» (RM 91).
Antiche e giovani chiese, in tutti i continenti, devono partecipare alla stessa missione ad gentes, fuori dei propri confini. «La chiesa in America» esorta papa Wojtyla, deve «rimanere aperta alla missione ad gentes… non può limitarsi a rivitalizzare la fede dei credenti abitudinari, ma deve cercare anche di annunciare Cristo negli ambienti nei quali è sconosciuto… estendere lo slancio evangelizzatore oltre le frontiere continentali… Sarebbe un errore non favorire un’attività evangelizzatrice fuori del Continente con il pretesto che c’è ancora molto da fare in America o nell’attesa di giungere prima a una situazione, in fondo utopica, di piena realizzazione della chiesa in America» (Ecclesia in America 74).
La stessa esortazione è rivolta alle giovani chiese nel continente asiatico. «Nel contesto della comunione della Chiesa universale, non posso non invitare la chiesa in Asia a inviare missionari, anche se essa stessa ha bisogno di operai nella vigna. Sono lieto di constatare che sono stati recentemente fondati istituti missionari di vita apostolica in diversi paesi dell’Asia come riconoscimento del carattere missionario della chiesa e della responsabilità delle chiese particolari in Asia di annunciare il Vangelo in tutto il mondo» (Ecclesia in Asia 44).
«Guardare e andare al largo»
A metà degli anni ‘80, Giovanni Paolo II intraprende una serie d’iniziative ispirate, allo scopo di allargare sempre più gli orizzonti della sua missione alle genti, come scrive nell’enciclica Dominum et vivificantem: «Nella prospettiva del terzo millennio, dobbiamo anche guardare più ampiamente e andare al largo, sapendo che il vento soffia dove vuole» (53).
Alcuni gesti sono eclatanti, come la visita alla sinagoga di Roma nell’aprile 1986 e la giornata di preghiera e di digiuno per la pace che si tiene ad Assisi nell’ottobre 1986, con la partecipazione di tutte le principali religioni del mondo. Ricordando quell’evento, 13 anni dopo, ne sottolinea il significato: «Il memorabile incontro ad Assisi, la città di san Francesco, il 27 ottobre 1986, tra la Chiesa cattolica e i rappresentanti delle altre religioni mondiali dimostra che gli uomini e le donne di religione, senza abbandonare le rispettive tradizioni, possono tuttavia impegnarsi nella preghiera e operare per la pace e il bene dell’umanità» (Ecclesia in Asia 31).
«Il dialogo interreligioso fa parte della missione evangelizzatrice della Chiesa» scrive nella Redemptoris missio (55); egli è fermamente convinto che la Chiesa è istituita per stabilire non solo la «comunione tra Dio e l’umanità, ma anche tra tutti gli esseri umani»; essa è chiamata a promuovere l’unità e la concordia tra tutti i popoli e tale «spirito di unità e di comunione» si rafforza con «il dialogo di vita e cuore» con tutte le religioni (Ecclesia in Asia 13.31).
L’invito a guardare lontano e navigare al largo non si limita alle parole, ma è accompagnato da gesti audaci, come l’abbraccio con l’ebraismo culminato nel suo pellegrinaggio in Terra Santa (2000) e la solidarietà con l’«islam autentico», culminata nella visita, per la prima volta, a una moschea a Damasco (2001).
Riportando il suo pellegrinaggio in Terra Santa, un settimanale inglese definisce Giovanni Paolo II «un Papa per tutti i popoli, capace di portare messaggi distinti alla Terra Santa per i suoi inquieti ascoltatori ebrei, musulmani e cristiani e tutti sono stati lieti di ascoltarlo» (The Economist 25/3/2000).
Sulla stessa lunghezza d’onda è il concerto organizzato in Vaticano il 17 gennaio 2004, dedicato alla «Riconciliazione tra ebrei, cristiani e musulmani»; un incontro, come spiega il Papa stesso «per dare concreta espressione a questo impegno di riconciliazione, affidandolo all’universale messaggio della musica… Non possiamo accettare che la terra sia afflitta dall’odio» (Osservatore Romano 18/1/2004).
Una spinta verso il largo è pure l’invito alla purificazione evangelica della memoria che il papa Wojtyla ha rivolto a tutti i cristiani in preparazione del Giubileo del 2000. Il percorso è culminato con il celebre «mea culpa» pronunciato in San Pietro il 12 marzo del 2000, con le 7 richieste di perdono per gli errori compiuti da cristiani e da uomini di chiesa anche rappresentativi, nella persecuzione degli eretici, nei rapporti con gli ebrei, contro la pace e i diritti dei popoli, contro la donna e l’unità del genere umano, contro i diritti fondamentali della persona. È noto come non tutti i suoi collaboratori fossero d’accordo con un simile gesto, quasi che fare atto di pentimento significasse «dare ragione agli avversari della religione». Ma Giovanni Paolo II ha proseguito tenacemente lungo la via imboccata, nella convinzione che la purificazione della memoria è indispensabile per rendere credibile l’annuncio del Vangelo e proseguire il cammino di unità nella Chiesa e di pace tra i popoli.
dialogo ecumenico
L’«andare al largo» comprende naturalmente anche un nuovo slancio ecumenico. Poiché la divisione tra i cristiani è un ostacolo all’evangelizzazione, il dialogo ecumenico «è una sfida e una chiamata alla conversione per tutta la Chiesa» (Ecclesia in Asia 30) e deve caratterizzarsi come «andare insieme verso Cristo… il procedere l’uno verso l’altro e il procedere insieme da cristiani» (RM 55).
Primo sogno ecumenico di papa Wojtyla è la riconciliazione tra la chiesa cattolica e quella ortodossa, che formano «i due polmoni dell’Europa». In occasione delle celebrazioni del millennio del battesimo della Russia (giugno 1988) papa Wojtyla invia come suoi rappresentanti 10 cardinali, insieme a una lettera indirizzata a tutti i cristiani della Russia, che termina con queste parole: «La comunità cattolica, invia alla millenaria chiesa sorella, mediante il vescovo di Roma, il bacio di pace, come manifestazione dell’ardente desiderio di quella perfetta comunione che è voluta da Cristo». Nella stessa occasione, il card. Casaroli realizza un capolavoro diplomatico: prepara la venuta di Gorbaciov a Roma e ottiene dal Cremlino l’invito per il Papa a visitare l’Urss. Paradossalmente la visita di Giovanni Paolo II a Mosca incappa nel veto della «chiesa sorella».
Altro gesto coraggioso, nel 1989, è la sua uscita verso le chiese luterane della Scandinavia. Purtroppo tanto slancio ecumenico non trova rispondenza nei fatti, né a Oriente né a Occidente. Contrariamente alle sue speranze, la caduta del comunismo non facilita l’incontro con le chiese dell’ortodossia; anzi diventa più difficile per la ripresa dei nazionalismi. Altre difficoltà raffreddano il dialogo in Occidente, come l’ordinazione delle donne nelle chiese anglicane.
Sconfitte ecumeniche e ansia apostolica inducono papa Wojtyla a fare passi inauditi, come mettere in questione il primato petrino, pur di raggiungere «la comunione piena e visibile di tutte le comunità»; egli auspica di «trovare una forma di esercizio del primato che, senza danneggiare la sua missione, sia aperta a situazioni nuove», ispirandosi all’unità dei cristiani del primo millennio, che chiedevano l’intervento della «sede romana, qualora fossero sorti fra loro dissensi circa la fede o la disciplina» (cfr Ut unum sint 95).
costruttore di pace
«Giovanni Paolo II: grande apostolo della giustizia e della pace»; la definizione è di Pax Christi Inteational. Nessun papa ha mai predicato la pace con tanta forza né si è opposto alla guerra con inflessibile fermezza come papa Wojtyla. Costruire la pace è una priorità della sua missione e un’urgenza per tutti, non solo per quelli che hanno responsabilità politiche mondiali; per questo egli sprona tutti a compiere «gesti di pace» e ne dà l’esempio, come quando perdona e visita in carcere il suo attentatore, Mahmet Ali Agca.
Magistero dottrinale e azione pratica sono le due dimensioni dei suoi interventi per risolvere i conflitti e promuovere la pace. Il primo aspetto, il magistero del papa, è immenso e multiforme, espresso soprattutto nei 27 messaggi per la Giornata mondiale della pace e negli annuali discorsi al corpo diplomatico presso la Santa Sede. Nei messaggi il papa svolge i grandi temi legati alla costruzione della pace (giustizia, libertà, verità, coscienza, diritti umani, persona, minoranze etniche…); quello del 2002 è «rivoluzionario»: «Non c’è pace senza giustizia; non c’è giustizia senza perdono». Ai due filoni del magistero e interventi diretti, si aggiungono i moniti e appelli alla pace disseminati nelle encicliche e nei discorsi pronunciati durante i suoi viaggi, specie nei luoghi di conflitto, come nel 1979 durante le visita in Irlanda: «Rivolgo un appello ai giovani appartenenti a organizzazioni che fanno ricorso alla violenza. Non ascoltate le voci che parlano la lingua dell’odio, della vendetta, della rappresaglia».
Nell’intero anno 1991 interviene ben 37 volte nella crisi iugoslava, definendo «inutile catastrofe» un eventuale scontro etnico. Il mattino del primo giorno della guerra nel Golfo (17 gennaio 1991) ammonisce: «In queste ore di grandi pericoli, vorrei ripetere con forza che la guerra non può essere un mezzo adeguato per risolvere completamente i problemi esistenti tra le nazioni. Non lo è mai stato e non lo sarà mai». Lo stesso concetto ripeterà ai diplomatici il 13 gennaio 2003, prima della guerra in Iraq: «No alla guerra! La guerra non è sempre inevitabile. È sempre una sconfitta per l’umanità. La guerra non è mai semplicemente un’opzione tra le altre cui far ricorso per risolvere una controversia tra le nazioni». Lo stesso anno, condanna «ogni atto terrorista» in Medio Oriente e afferma con forza che «non di muri ha bisogno la Terra Santa, ma di ponti».
In seguito alle guerre del Golfo e del Kosovo (1991 e 1999) papa Wojtyla matura alcune novità in proposito: egli rafforza la condanna della guerra «totale» (già contenuta nella Gaudium et spes) e la estende alla guerra convenzionale; nella sua dottrina non esiste nessuna «guerra giusta»; parla invece di «ingerenza umanitaria», cioè del dovere della comunità internazionale di fermare le guerre in atto disarmando l’aggressore; ingerenza decisa da «un’autorità superiore» (non da singoli stati), in base a «regole inteazionali certe», «nelle situazioni che compromettono gravemente la sopravvivenza di popoli e interi gruppi etnici» (cfr Messaggio GMP 2000).
Oltre ai gravi focolai di guerra in Terra Santa, Balcani, Africa centrale, Iraq, durante i 27 anni di pontificato di Giovanni Paolo II sono scoppiati una ventina di conflitti preoccupanti nei vari continenti, che noi e altre riviste cattoliche abbiamo presentato come «guerre dimenticate»; dimenticate dall’opinione pubblica, ma non da papa Wojtyla, che ha continuato a proporre a tutti «la civiltà dell’amore» per sconfiggere lo «scontro di civiltà».
gesù cristo al centro
L’asse attorno al quale ruota tutta l’attività e magistero di papa Wojtyla è Gesù Cristo. Egli parla di Lui non in modo distaccato, quasi fosse una dottrina da trasmettere, ma come di una persona viva che egli ha incontrato e di cui si è profondamente innamorato. Come missionario itinerante, egli ama paragonarsi spesso a san Paolo, che diceva: «L’amore di Cristo ci spinge»; non è tanto, spiegano i biblisti, l’amore di Paolo per Cristo, quanto l’amore di Cristo in Paolo a spingerlo. Questo amore è il fuoco, il motore di papa Wojtyla: «L’amore è più forte» grida spesso come un ritornello.
Le sue convinzioni non ammettono dubbi o compromessi: «Cristo è l’unico salvatore di tutti, colui che solo è in grado di rivelare Dio e di condurre a Dio… Per tutti… la salvezza non può venire che da Gesù Cristo… Cristo è l’unico mediatore tra Dio e gli uomini… altre mediazioni partecipate di vario tipo e ordine non sono escluse, esse tuttavia attingono significato e valore unicamente da quella di Cristo e non possono essere intese come parallele e complementari» (RM 5). Da questa convinzione scaturiscono il grido iniziale del suo pontificato («Aprite, spalancate le porte a Cristo!») e i suoi messaggi di fede e gli appelli alla conversione, come quello lanciato a Parigi nel 1980: «Uomini, pentitevi dei vostri peccati e convertitevi a Gesù Cristo». Tali messaggi non sono puramente «spirituali», richiami all’intimismo, ma spinte a trasformare dall’interno persone, famiglie, società, nazioni, per realizzare un modello di sviluppo più umano per tutti.
Nel 1979, il presidente americano Jimmy Carter, ricevendolo alla Casa Bianca, gli dice: «Lei ci ha costretti a riesaminare noi stessi. Ci ha ricordato il valore della vita umana e che la forza spirituale è la risorsa più vitale delle persone e delle nazioni… L’aver cura degli altri ci rende più forti e ci dà coraggio, mentre la cieca corsa dietro fini egoistici, avere di più anziché essere di più, ci lascia vuoti, pessimisti, solitari, timorosi». E l’insospettabile New York Times scrive: «Quest’uomo ha un potere carismatico sconosciuto a tutti gli altri capi del mondo. È come se Cristo fosse tornato fra noi». Non c’è elogio più bello per il successore di Pietro. Tale identificazione con Cristo caratterizza tutto il suo pontificato, fino all’estremo della resistenza fisica, fino all’ultimo respiro.
Negli ultimi anni, la salute del papa Wojtyla registra una lunga serie di sofferenze, non solo per l’avanzare dell’età, ma per una patologia già rilevata nel 1997 come «malattia neurologica, di tipo parkinsoniano», morbo che avanza vistosamente. Spesso i media inquadrano cinicamente insopportabili dettagli: mani tremanti all’elevazione, labbra con un filo di bava, volto contratto. A quanti gli consigliano di ritirarsi, argomentando che la Chiesa ha bisogno di un capo in buona salute, Giovanni Paolo II risponde che è disposto a «servire la Chiesa quanto a lungo Cristo vorrà»; la motivazione è chiara e disarmante: «Gesù è forse sceso dalla croce?».

Benedetto Bellesi

I NUMERI DI UNA MISSIONE:
146    visite pastorali in Italia (come vescovo di Roma, 317 visite a 333 parrocchie romane attualmente esistenti)
104    viaggi apostolici in 129 differenti paesi e territori e 620 località diverse
1.247.613 km percorsi in tutto (3,24 volte la distanza tra la terra e la luna)
822    giorni (più di due anni) passati fuori dal Vaticano
20.000 e più discorsi e saluti pronunciati
100 e più documenti principali, di cui: 14 encicliche, 15 esortazioni apostoliche, 11 costituzioni apostoliche e 44 lettere apostoliche
147    cerimonie di beatificazione celebrate, dichiarando 1.338 beati
51    canonizzazioni per un totale di 482 santi
9    concistori con 231 cardinali creati (più uno in pectore, noto solo al papa)
6    riunioni plenarie dei cardinali presiedute
15    assemblee del Sinodo dei vescovi convocate
17,6    milioni di pellegrini incontrati in oltre 1.160 udienze del mercoledì a Roma
8 milioni di pellegrini incontrati nel Giubileo del 2000
737    udienze o incontri con capi di stato
245    udienze e incontri con primi ministri

Wojtyla e i giovani
Tra i vari titoli dati a Giovanni Paolo II vi è pure quello di «papa dei giovani». Fin dal 23 novembre 1978, in una delle sue prime udienze nella Basilica vaticana, egli stabilì un rapporto speciale con i giovani, parlando a braccio: «Quanto chiasso! Mi date la parola? – li rimbrottò scherzosamente -. Quando sento questo chiasso penso a San Pietro che sta qui sotto: mi chiedo se sarà contento; ma penso proprio di sì».
Le immagini più spettacolari del suo pontificato, se non le più belle, vengono dagli incontri con i giovani che hanno ritmato non solo i suoi viaggi inteazionali, ma anche la sua vita in Vaticano, le uscite domenicali nelle parrocchie romane, le visite alle diocesi italiane. «Mi piace sempre incontrare i giovani… i giovani mi ringiovaniscono» confessava sinceramente a Catania nel 1994. E ai parroci romani nel 1995 diceva: «Si deve puntare sui giovani. Io lo penso sempre. A loro appartiene il Terzo Millennio. E il nostro compito è di prepararli a questa prospettiva».
È in tale prospettiva che la domenica delle Palme del 1984 Giovanni Paolo II lanciò la Giornata mondiale della gioventù (Gmg), incontro con cadenza biennale tra il Papa e i giovani cattolici di tutto il mondo; l’iniziativa si rivelò un successo straordinario, oltre ogni aspettativa, fino a raggiungere la cifra record di 4 milioni di persone a Manila, nelle Filippine, nel gennaio 1995. 
Se i giovani accorrevano numerosi ed entusiasti, non è certo perché papa Wojtyla li blandisse; egli non ha mai   pronunciato discorsi facili, accomodanti. Tutt’altro. Ha proposto loro traguardi alti, comportamenti controcorrente, impegni coraggiosi e militanti, come ai due milioni di giovani della Gmg 2000 a Tor Vergata, Roma: «Voi difenderete la pace, pagando anche di persona se necessario. Voi non vi rassegnerete a un mondo in cui altri esseri umani muoiono di fame, restano analfabeti, mancano di lavoro. Voi difenderete la vita in ogni momento del suo sviluppo terreno, vi sforzerete con ogni vostra energia di rendere questa terra sempre più abitabile per tutti».
In ogni viaggio piazze, stadi, ippodromi… si riempivano di giovani, che lo acclamavano come star, soprattutto quelli ben presto chiamati «Wojtyla boys & girls»; e Lui stava al gioco: un passo di danza accennato a Sidney, l’acclamazione di «campeon del mundo» a Caracas e «atleta di Dio» al velodromo di Parigi; il mondo sud americano, appassionato di calcio, lo proclamava «Goleador de la Iglesia», «Maradona de la fé», «Trotamundo de la paz»; il mondo nordamericano hollyvudianamente lo definiva «Wojtyla superstar», «Wojtyla superman». Indimenticabile è il botta-e-risposta a Manila: «We kiss you», «Anch’io vi bacio, tutti! Niente gelosie!». Così pure gli scherzi intrecciati con i giovani a Trento nel 1995: «Giovani, oggi bagnati; domani, forse raffreddati… chissà se i padri del Concilio di Trento sapevano sciare».
Un amore reciproco coltivato fino all’ultimo respiro. Con ogni probabilità, le ultime parole di Giovanni Paolo II, pronunciate con gran fatica, sono rivolte ai ragazzi che vegliavano in piazza sotto le sue finestre: «Vi ho cercato, adesso voi siete venuti da me e per questo vi ringrazio».

Benedetto Bellesi




«Santo subito»

Presentazione Dossier

Lo slogan gridato e scritto su striscioni innalzati da un folto gruppo di fedeli, soprattutto giovani, in Piazza San Pietro l’8 aprile 2005, durante il funerale del papa Giovanni Paolo II, non è stato solo folklore: 20 giorni dopo, in deroga alla legge del 1983, papa Benedetto XVI concedeva la dispensa dai cinque anni di attesa dopo la morte di Karol Wojtyla prima di iniziare il processo di canonizzazione. Il 28 giugno dello stesso anno veniva aperta ufficialmente la causa di beatificazione, conclusa dallo stesso papa il 14 gennaio 2011, fissando la data della celebrazione: dal 1° maggio Karol Wojtyla è il beato Giovanni Paolo II.
«Papa santo» non è l’unica qualifica usata da ammiratori e «papa boys» per descrivere la personalità di Giovanni Paolo II; molti altri titoli, espressioni e aggettivi sono stati usati per sottolineare la ricchezza della sua figura e la complessità dell’esercizio del suo pontificato: Karol il Grande, papa carismatico e mediatico, homo viator, papa pellegrino, parroco del mondo, apostolo della giustizia e della pace, papa operaio, poeta e filosofo; alcuni hanno cercato di ingabbiarlo in definizioni contrastanti, come moderno o nostalgico, conservatore o progressista, anticomunista o anticapitalista, di destra o di sinistra… a seconda del punto di vista ideologico da cui veniva guardato. Tutte queste categorie e dimensioni egli le ha comprese, attraversate e superate, lasciando un’immagine non univoca e una eredità ancora aperta.
C’è tuttavia un denominatore comune che qualifica tutti i 27 anni di pontificato di Giovanni Paolo II, un aspetto non sempre evidenziato dai media, ma che ci sta particolarmente a cuore: la sua missionarietà. «Egli ha fatto del suo servizio alla missione e all’evangelizzazione il fondamento e l’asse portante del suo ministero: il suo infaticabile impegno nell’autentica missionarietà e il suo costante magistero sulla missione hanno contribuito a fare acquistare una nuova comprensione dell’identità missionaria della Chiesa, a suscitare un nuovo slancio nell’azione evangelizzatrice, a chiarire principi e criteri per meglio delineare la missione e l’attività missionaria» (Giuseppe Cavallotto).
In occasione della sua beatificazione, sentiamo il dovere, come missionari, di sottolineare questa dimensione fondamentale del suo ministero pastorale, sottolineando l’eredità di pensiero e il dinamismo impresso alla chiesa in 27 anni di pontificato. Il beato Giovanni Paolo è stato e rimane ancora oggi il papa della Redemptoris missio e dei viaggi in giro per il mondo; il papa che ha dato impulso alla realizzazione di molte intuizioni del Concilio, come l’inculturazione, l’ecumenismo, il dialogo interreligioso, il protagonismo missionario della chiesa locale, la giustizia e la pace, la solidarietà tra i popoli e la salvaguardia del creato… Sono tutte facce della stessa missione, sfide che attendono ancora di essere affrontate e portate a soluzione. In tutti i continenti i problemi ancora aperti sono molti e l’eredità lasciata da Giovanni Paolo è già una strada da seguire, uno stimolo a tutta la Chiesa per pensare e ripensare nuove forme di annuncio e testimonianza della Buona Notizia di Cristo.
Sarebbe illusorio pensare che siamo già arrivati là dove il papa ha voluto condurci. Traghettando la Chiesa nel terzo millennio, Giovanni Paolo II l’ha esortata a prendere il largo (Duc in altum); la sua beatificazione rilancia tale invito ad allargare sempre più gli orizzonti. Arrendersi alla difficoltà, rassegnarsi alla mentalità diffusa che favorisce il disimpegno personale, chiudersi nel passato e vivere di rendita sono atteggiamenti non solo poco evangelici, ma il modo peggiore di onorae la memoria e la santità.
L’ammirazione non basta. Per questo, oltre a rievocare la sua figura e i suoi viaggi apostolici per incontrare e incoraggiare i discepoli di Cristo sparsi in tutto il mondo, vogliamo dare spazio alla sua voce sui temi che riguardano «questo dovere supremo: annunziare Cristo a tutti i popoli» (RM 3).
«La missione è ancora agli inizi» afferma Giovanni Paolo II, rimarcandone la sua costante urgenza, sottolineando al tempo stesso i benefici che lo slancio missionario riversa sulla fede e la vita cristiana, nella convinzione che «la missione rinnova la Chiesa, rinvigorisce la fede e l’identità cristiana, dà nuovo entusiasmo e nuove motivazioni. La fede si rafforza donandola!» (RM 2).

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Chiesa nel mondo

PAKISTAN
SHAHBAZ BHATTI MARTIRE
   
La Conferenza Episcopale del Pakistan, riunita in assemblea dal 20 al 25 marzo a Multan, ha deciso di inoltrare ufficialmente alla Santa Sede la richiesta di proclamare Shahbaz Bhatti, il ministro federale per le minoranze religiose ucciso il 2 marzo scorso all’età di 42 anni, “martire e patrono della libertà religiosa”. La richiesta è stata presentata in assemblea dal vescovo di Multan, mons. Andrew Francis, delegato per il Dialogo interreligioso, ed è stata approvata all’unanimità dai vescovi. Essi hanno reso un tributo a Bhatti, riconoscendo la sua opera in favore delle minoranze religiose e dei cristiani e ricordando la sua autentica testimonianza di fede giunta fino al sacrificio della vita. Nella seconda settimana di aprile, invece, i vescovi e i fedeli cattolici si sono riuniti a Islamabad per commemorare Bhatti, a 40 giorni dalla morte. Il Ministro pakistano, di fede cattolica, che si era battuto per la soppressione della legge sulla blasfemia, è stato assassinato nella capitale pakistana per mano di un gruppo di uomini armati, dal volto coperto.
(Zenit)

SVIZZERA
ACQUA E PACE
    
In occasione della Giornata Mondiale dell’Acqua, celebratasi il 22 marzo, la Rete Ecumenica dell’Acqua ha lanciato la campagna “Acqua e Pace Giusta” nel corso della quale, per sette settimane, a partire da lunedì 7 marzo, si sono susseguite riflessioni quaresimali settimanali sulla connessione tra l’accesso all’acqua, i conflitti per questa grande risorsa e la costruzione di una pace giusta. Di settimana in settimana, nella pagina web sono state proposte riflessioni bibliche insieme ad altre iniziative individuali e di congregazioni religiose. La Rete Ecumenica dell’Acqua è una iniziativa di Chiese, organizzazioni e movimenti cristiani che promuovono l’acqua come diritto umano e lavorano a favore dell’accesso di tutti attraverso iniziative a base comunitaria realizzate in tutto il mondo.
(Fides)

ITALIA
IL CROCIFISSO     
NELLE SCUOLE
      
La sentenza emessa dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo a favore dell’esposizione del crocifisso nelle scuole italiane ha ricevuto il plauso della Santa Sede, per la quale si tratta di una decisione che “fa storia” nel riconoscimento della libertà religiosa. La Corte riconosce «ad un livello giuridico autorevolissimo ed internazionale che la cultura dei diritti dell’uomo non deve essere posta in contraddizione con i fondamenti religiosi della civiltà europea, a cui il cristianesimo ha dato un contributo essenziale». Dal canto suo, il cardinale Péter Erdő, Presidente del Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa (CCEE), ha espresso soddisfazione per la sentenza, definendola «un segno di buon senso, di saggezza e di libertà. Oggi è stata scritta una pagina di storia – ha dichiarato -. Si è aperta una speranza non solo per i cristiani, ma per tutti i cittadini europei, credenti e laici, che si erano sentiti profondamente lesi dalla sentenza precedente e sono preoccupati di fronte a procedimenti che tendono a sgretolare una grande cultura come quella cristiana e a minare in definitiva la propria identità. Considerare la presenza del crocifisso nello spazio pubblico come contraria ai diritti dell’uomo sarebbe stato negare l’idea stessa di Europa. Senza il crocifisso l’Europa che oggi conosciamo non esisterebbe. Per questo motivo la sentenza è prima di tutto una vittoria per l’Europa», ha concluso il cardinale.
(Zenit)

INDIA
CARITA’ E CONVERSIONI
   
Quando George Palliparampil, oggi vescovo di Miao, ha iniziato il suo ministero, nella parte nord-orientale dell’India, il suo lavoro missionario era illegale e ha dovuto subire interrogatori da parte della polizia. Nonostante i perduranti ostacoli, questo è il luogo in cui la Chiesa cattolica è cresciuta di più negli ultimi 30 anni, con più di 10.000 battesimi di adulti ogni anno, nonostante il divieto alle conversioni. Oggi, più del 40% dei circa 900 mila abitanti di Arunachal Pradesh è cattolico e il loro numero è in rapida crescita. Secondo mons. Palliparampil ciò che ha favorito la rapida diffusione della fede è stato il «convincimento della gente di poter trovare nella Chiesa qualcuno che cammini con loro. Non qualcuno che viene per imporre programmi o progetti, ma qualcuno che si è lasciato coinvolgere in ogni aspetto della loro vita e loro l’hanno accolto». Un agente di polizia ha confessato: «Non vi sono villaggi in cui questi missionari non siano andati. Hanno dormito nelle loro case tribali, mangiano con i tribali, i loro figli vanno nelle loro scuole in tutta l’India e curano i loro ammalati non per fini di conversione, ma perché queste persone guariscano, per fini puramente umanitari. Quando arrivano queste persone [i missionari cristiani], i tribali vogliono solo far parte del Cristianesimo». «E questo – conclude il vescovo – è ciò che sta avvenendo. Non è una sorta di conversione imposta come alcune persone hanno tentato di far passare. È pura accoglienza».
(Zenit)

KUWAIT
NOSTRA SIGNORA DI ARABIA
   
Il 16 gennaio 2011, il cardinale Antonio Cañizares Llovera, ha proclamato, nella cattedrale del Kuwait, la Beata Vergine Maria Nostra Signora di Arabia, patrona di tutti i Paesi del Golfo, e cioè: Kuwait, Bahrein, Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Yemen e Oman. «Questo “nuovo” titolo della Madonna ha toccato il cuore della gente», dice mons. Camillo Ballin, vicario apostolico in Kuwait. Qui in Kuwait la Madonna non ha fatto apparizioni come a Lourdes, a Fatima e altrove, ma lei è sempre stata presente e qui è riuscita a portare Gesù prima ancora che vi arrivasse l’islam. Infatti, nell’isola di Failaka, appartenente al Kuwait, ci sono i resti di una chiesa, probabilmente nestoriana, del quinto secolo. Come pure altri importanti resti archeologici di chiese di quel tempo si trovano anche in altri Paesi del Golfo. A Lei abbiamo voluto dedicare tutto il Golfo perché preceda e accompagni il nostro ministero. Sono note le varie e complicate situazioni di questi Paesi, dove a volte si può godere di una limitata tolleranza della libertà di culto, ma a volte tale libertà non è assolutamente permessa. In questo intricato labirinto, dove in una sola chiesa dobbiamo celebrare in 5 riti e in 12 lingue, lei ci deve indicare il cammino perché la diversità non sia divisione ma unità».
(Camillo Ballin)

MALAYSIA
SOLO PER CRISTIANI
   
In seguito alla polemica legata all’uso della parola “Allah” per significare “Dio”, il governo aveva proibito l’uso del termine da parte dei cristiani. Essi, hanno fatto ricorso dimostrando che l’uso del termine “Allah” data ancora dal 1600 e la Corte suprema ha dato loro ragione. Ed ora 30 mila bibbie in lingua malay, ferme alla dogana, sono state sbloccate e possono essere distribuite con la sovrascritta: ‘Solo per cristiani’ al fine di evitare confusioni e conversioni.
(Asia news)

Sergio Frassetto




Cari missionari

Troppe riviste da leggere
Salve, sono Alberto del seminario di M…; stiamo ricevendo la vostra rivista senza esserci abbonati e pertanto vi chiediamo di interrompee la spedizione, sia perché in seminario siamo in 10 e ci arrivano 15 riviste a settimana (che pochi riescono a leggere), sia per aiutarvi a risparmiare carta e soldi. Grazie.

Alberto V.
via email

È stata nostra politica, fin quasi dalle origini della rivista, inviae copie a tutti i seminari maggiori d’Italia per aiutare i futuri sacerdoti ad aprire i loro orizzonti alla missione universale. Nei seminari esisteva allora il Circolo Missionario, nel quale le riviste missionarie trovavano lettori entusiasti. Diversi membri di quei circoli hanno poi fatto la scelta missionaria a vita o sono partiti come Fidei Donum.
Ovviamente prendiamo atto che la situazione oggi è cambiata, i circoli missionari non esistono più e il numero dei seminaristi è ridotto.
Cancellare l’invio della rivista è un’azione di pochi secondi sul computer, ma una copia o mille o diecimila in meno non sono un risparmio, quanto piuttosto la condanna ad una morte lenta, relegati nel silenzio. Questa è una morte che non possiamo accettare perché abbiamo «qualcosa d’importante da dire», non per noi stessi ma per coloro a cui prestiamo la nostra voce: i poveri, i piccoli, gli esclusi, i popoli emergenti del sud del mondo e le nuove Chiese vive, spesso martiri, che stanno venendo a maturità. Le riviste missionarie italiane, in trent’anni, hanno subito una flessione tremenda: da oltre sei milioni di copie annue stampate e distribuite a fine anni Settanta, a meno di tre milioni di questi tempi. Un calo inevitabile nel contesto della scristianizzazione progressiva che la nostra nazione sta vivendo e della trasformazione in atto nel mondo della comunicazione. Forse anche un segno della mancanza di interesse ad approfondire la realtà di quello che un tempo era definito il «Terzo Mondo», privilegiando un tipo di informazione più visiva, turistica, veloce e meno responsabilizzante.
Naturalmente le riviste missionarie non stanno subendo passivamente la crisi attuale. Ci si rinnova con creatività e ottimismo affiancando allo stampato le pagine in rete. Molte testate della Fesmi hanno splendidi siti web; basti pensare al nuovo sito della Misna (www.misna.org).
Per quel che ci riguarda, vi invito a visitare il nuovo sito di Amico (http://amico.rivistamissioniconsolata.it) e il popolare www.consolata.org (ex www.ismico.org). I devoti del beato Giuseppe Allamano trovano un sito poderoso e documentatissimo su http://giuseppeallamano.consolata.org/.
In cantiere c’è anche il rinnovamento del sito di questa stessa rivista, a cui metteremo mano molto presto. Speriamo solo che voi, seminaristi della generazione internet, abbiate imparato a far scalo anche nei nostri porti (e nei ricchi siti delle varie riviste missionarie) quando navigate nella world wide web.

Elisabetta
Leggendo le righe scritte su Missioni Consolata da Elisabetta Borda sono rimasto entusiasta da quanto renda reale tutto ciò che descrive. La conosco da 20 anni e non l’ho mai più vista. Felice però che abbia proseguito nella/e missioni di cui mi aveva tanto parlato e che il suo enorme bene verso il prossimo si sia giustamente espresso. Un ringraziamento a tutti coloro che partecipano ad aiutare le persone e culture bisognose, cariche di foga per migliorare e non per soffocare il prossimo con tante inutilità! Vi sarei grato se le mie parole potessero giungere a lei che con tanta passione e sacrificio ci aiuta a tenere i piedi per terra e a valutare quanto ognuno di noi potrebbe fare per gli altri. Un saluto a Elisabetta e un arrivederci. Grazie.

Lucio Pierandrei
via email, 18.02.2011

«Le righe» a cui lei si riferisce sono state pubblicate nel marzo 2006, un bel dossier dedicato all’Albania in cui Elisabetta contribuiva con diversi scritti e belle foto. Elisabetta ha finito da tempo il suo servizio volontario  e fa ora l’insegnante in un paese del Piemonte. Non sono sicuro che sia tra i nostri lettori, ma abbiamo amici comuni che certamente le faranno avere copia di questo numero della rivista.

ECOSOFIA
Ho letto la lettera “Tigri e leoni” di Francesco Rondina (MC 03/2011). Finalmente qualcuno che si occupa del male fatto dall’uomo a tanti esseri senzienti! Le estinzioni aumentano, splendidi esseri viventi scompaiono per sempre, le foreste vengono abbattute, e la Chiesa non dice quasi niente, o veramente troppo poco. Un avvicinamento alle posizioni del movimento dell’ecologia profonda (o ecosofia) non guasterebbe, anche se si vogliono mantenere chiare le differenze. Non mi risulta che sia mai stato detto che abbattere una foresta è “un peccato”.
Ben pochi sanno che sul quotidiano La Repubblica del 14 maggio 2007 è stato pubblicato un articolo dell’esponente vaticano Navarro-Vals intitolato “La questione ecologica”. Poco prima era stato richiesto dal Vaticano all’Associazione Eco-Filosofica di Treviso il testo in italiano del “Manifesto per la Terra” redatto da Mosquin e Rowe, eminenti studiosi canadesi di biodiversità. Pur ribadendo con (troppa) forza la posizione antropocentrica, che assegna all’uomo un ruolo del tutto speciale su questa Terra, l’esponente vaticano manifestava una certa possibilità di avvicinamento alle posizioni dell’ecologia profonda, sulla base di un comune rifiuto dello scientismo-materialismo cartesiano e del riconoscimento di una profonda spiritualità, presente anche nel movimento ecosofico. C’era tuttavia anche una giustificazione dello sfruttamento della natura da parte dell’uomo: il dualismo veniva conservato, o confermato. Comunque nessuno ne ha più parlato, o quasi.
Auspico comunque un avvicinamento e un colloquio fra la Chiesa cattolica e le posizioni ecocentriche, come opposizione comune al materialismo e al meccanicismo.
Invito poi vivamente a leggere e meditare il “Manifesto per la Terra” sul sito www.ecospherics.net.
Grazie per l’attenzione.

Albino Fedeli, Milano
via email, 11.03.2011

FILATELIA
MISSIONARIA

Vorrei farvi conosce il sito www.filateliareligiosa.it che raccoglie articoli scritti a commento di vari francobolli – annulli postali di natura religiosa.
C’è un capitolo specifico che raccoglie numerosi articoli relativi ai santi piemontesi con particolare riguardo alle ricorrenze – manifestazioni che hanno ricordato le iniziative dei Missionari della Consolata in tutto il mondo. Riteniamo che queste notizie possano essere gradite specie nei Paesi di missione dove sono presenti numerose suore e missionari (che abbiamo anche avuto occasione di incontrare nei viaggi in Kenya, Tanzania e ora in Etiopia con Padre Adolfo De Col).
Certo che potrà essere gradito conoscere l’interesse, anche filatelico, nei confronti della Vostra Opera missionaria. Con simpatia,

Angelo Siro
via email

La malga di
Kizabavra

Gentile Sig.ra Bianca Maria Balestra,
vorrei complimentarmi in primo luogo con il suo articolo (MC 02/2011) che mi pare una sintesi perfetta di quello che è la Georgia di oggi. Ci fa inoltre molto piacere che lei abbia apprezzato l’intervento di cooperazione realizzato che è in primo luogo un vero scambio di esperienze e di conoscenze per entrambe le parti. Abbiamo cominciato nel 2005 a fare questo piccolo caseificio con i partner finanziari che lei conosce, ma non avremmo avuto la fortuna di arrivare ai risultati che lei ha potuto toccare direttamente con mano se le persone che hanno partecipato volontariamente alla successiva formazione in loco non fossero andate ogni anno a parlare, consigliare e spingere gli operatori locali verso nuove forme e metodi di produzione. Speriamo che l’iniziativa continui, noi certamente anche quest’anno avremo due nostri esperti presso la malga per circa 10 giorni, inoltre per la fine di maggio abbiamo organizzato un viaggio di studio con l’Associazione degli Agronomi e Forestali di Belluno proprio a Kizabavra. (La ringrazio) a nome di tutto il gruppo di bellunesi per l’articolo che ha scritto. Siamo a disposizione comunque se volesse approfondire altri aspetti di questo progetto.
Con i più cordiali saluti.

Dr. Agronomo
Giuseppe Pellegrini
Via email, 17.03.2011

FONTANE SENZ’ACQUA
Caro Gigi,
da settembre 2010 stiamo razionando l’acqua perché non piove dal giugno scorso. Sono sei mesi che questo problema mi angoscia. Sto preparando un terzo invaso in foresta, della capacità di 120 milioni di litri d’acqua, anche se non so dove e come trovare i soldi, ma la Divina Provvidenza ha sempre provveduto.
Grazie per gli aiuti che i lettori mi stanno mandando per le fontane (dopo l’articolo pubblicato su MC 09/2010). Ma il problema è avere l’acqua da dare alle fontane.
Grazie.

Fratel Peppino Argese, Mukululu, 28.02.2011

Questo laconico messaggio è arrivato accompagnato da alcune foto, tra cui questa foto della diga numero due: quasi vuota! (vedi qui sotto).
 Per fortuna il 19 marzo scorso sono ricominciate le piogge, speriamo siano abbondanti, ma non troppo. Grazie Peppino!

IL SIGNIFICATO DI MISSIONE OGGI
Fin da bambini sogniamo l’Africa e le opere dei missionari. Siamo partiti a settembre e l’impatto con la realtà ha purtroppo tradito le attese. Veniamo ospitati presso il Catholic Hospital of Wamba, opera della Consolata nel nord del Kenya. Il fulcro della missione è l’ospedale, ben integrato nel difficile territorio dei Samburu, che garantisce assistenza adeguata mediante personale prevalentemente locale. Il contrasto è provocato dai vertici della missione e dallo stile di vita che hanno imposto nella guesthouse. Questi “cattolicissimi missionari”, figure poco preparate alla gestione di un progetto nel Terzo mondo, hanno fatto dell’Africa la loro America. La contraddizione è lampante: dentro giardini fioriti, campo da tennis privato, viali ordinati, fuori strade polverose e abitazioni fatiscenti. Dentro tre piatti per pasto, quattro ricche portate italianissime, bibite americane e birra keniota, fuori bambini scalzi, giovani ubriachi e vecchi affamati. Sono queste le cose che ci hanno scandalizzato, più che le criticate tradizioni delle popolazioni autoctone.
Il nostro viaggio si è infine concluso a Korogocho dove abbiamo vissuto pezzi di “missione vera”,  conoscendo persone che quotidianamente si spendono a fianco di poveri e emarginati. Oggi il significato di missione impone, secondo noi, innanzitutto di andare alle radici della povertà per abbattere i sistemi che la provocano. Scrive Zanotelli: “ Per me è fondamentale il legame inscindibile tra fede e vita, fede ed economia, fede e politica…”.

Alberto e Romina
Cuneo, 21.03.2011

Mi piace che abbiate sentito il bisogno di scrivere le vostre impressioni, e proprio su quell’ospedale di Wamba al quale abbiamo già dedicato parecchi interventi su questa rivista. Quel che mi dispiace è che non abbiate avuto in loco un interlocutore che vi aiutasse a chiarire i dubbi e lo «scandalo» che vi hanno fatto dare giudizi pesanti sui missionari di Wamba in confronto a quelli di Korogocho. Conoscendo bene sia la realtà di Wamba che di Korogocho, mi permetto di fare alcune precisazioni.
1. Wamba è a oltre 300 km di distanza da Nairobi, e fino a pochi mesi fa gli ultimi 100 km erano sterrati (oggi lo sterrato è solo di circa 50 km); Korogocho è alla periferia di Nairobi.
2. Per fare gli acquisti di cibo e materiale necessario per l’ospedale, da Wamba si va a Isiolo (100 km) o Meru (140) o Nanyuki (150) o Nairobi (300 e rotti) con il rischio di essere fermati a mitragliate dai banditi di strada. A Korogocho il primo supermercato e/o centro commerciale è solo alla periferia dello slum.
3. A Wamba l’acqua viene da un pozzo scavato dalla missione, è molto salmastra e per essere potabile va bollita e filtrata. Tutta l’acqua usata viene poi riciclata per i servizi igienici, l’orto e i giardini. A Korogocho l’acqua arriva dall’acquedotto municipale, anche se a singhiozzo e non dovunque, ed è potabile.
4. La Coca Cola bevuta a Wamba è prodotta in Kenya e, se avete notato, ha un sapore più forte della nostra. La birra del Kenya è tra le migliori del mondo. Bibite e birra si trovano in abbondanza in ogni angolo del Paese, compreso Korogocho, e una coca, all’ingrosso, costa circa 15 centesimi di euro, probabilmente a Wamba un po’ di più visti i problemi di trasporto.
5. Wamba si trova a circa 1.200 m di altezza, in una regione semiarida, calda e prona alla siccità, dove temperature sopra i 30° sono normali. Korogocho è a 1.700 m, con un clima fresco, piogge relativamente abbondanti e temperature medie attorno ai 20-25°.
6. Il campo da tennis privato, che tanto vi ha scandalizzato, è stato costruito dal medico che ha fondato l’ospedale e lo ha gestito per quasi quarant’anni, come aiuto per mantenere la sua sanità mentale e fisica, visto che l’ospedale gli richiedeva una presenza «24/7» senza sostituti, tui e ferie.
7. I giardini sono frutto del buon gusto e dell’amore al bello che ci caratterizza; rendono l’ospedale un ambiente accogliente e rasserenante, combattono la polvere dilagante nei periodi di siccità e offrono una scusa per dare lavoro ai locali. Sono costituiti soprattutto da siepi di buganvillea che tutti potrebbero coltivare, anche gli abitanti del villaggio, se non fosse che nella tradizione dei pastori nomadi Samburu l’idea del giardino proprio non esiste.
A Korogocho i giardini di Wamba non sono possibili, ma la missione è una struttura solida e sicura, certo non precaria come le baracche che la circondano.
8. La casa dove voi siete stati è normalmente usata dai medici che si recano a servizio dell’ospedale per brevi, intensi periodi di interventi specializzati. Venendo dall’Italia, oltre alle medicine necessarie, si portano anche ogni ben di Dio, che viene poi usato per tutti gli ospiti. In più a Nairobi si trova con molta facilità ogni prodotto italiano. I medici che fanno dieci ore o più di interventi ogni giorno, hanno bisogno anche di una nutrizione adeguata che non può essere garantita dalla dieta locale a base di té e latte al mattino e mezzogiorno, e polenta e cavoli o granoturco e fagioli la sera.
A Korogocho, in pochi minuti di macchina si può raggiungere una pizzeria,  un ristorante italiano o la casa provinciale dei missionari.
9. Se dopo quarant’anni di esistenza l’ospedale e le strutture ad esso connesse fossero nelle stesse condizioni delle case del villaggio o delle manyatte Samburu, sarebbe un fallimento. Quanto alle critiche a certe tradizioni delle popolazioni autoctone, bisognerebbe forse spenderci dentro qualche anno, aver visto centinaia di bambini morti per malaria perché «curati» a casa e portati all’ospedale quando è troppo tardi; aver ricucito ferite, curato fratture o estratto pallottole; aver speso tempo, soldi ed energie per curare le conseguenze della circoncisione femminile; aver visto il muto dolore di tante donne e madri; aver sepolto giovani promesse – uccise dall’Aids -, che avevano ottenuto una qualifica professionale a spese della missione; aver fatto una visita al cimitero dell’ospedale; mettersi nei panni dell’amministratore diocesano che ogni anno fa miracoli per trovare i fondi necessari a far funzionale quel giorniello di ospedale; aver sentito un medico africano dire, quando gli ho portato dei giovani neo circoncisi con emorraggia inarrestabile, «benedetta (non era proprio questa la sua espressione!) gente, pagano per farsi rovinare e poi noi, qui, dobbiamo ricucirli gratis!».
10. Wamba è al centro di un’area vasta come Lombardia e Piemonte messi insieme, con una popolazione di poco più di 200.000 persone, in gran parte nomadi, che nelle case come le nostre non si trovano a proprio agio. Korogocho è un piccolo spazio densissimamente popolato, dove le distanze sono irrisorie.
11. Potrei andare avanti con molte altre differenze, ma non è corretto contrapporre Wamba a Korogocho. Sono realtà diverse e, come tali, hanno suscitato risposte molto diverse, dove i missionari che vi hanno prestato servizio hanno pagato di persona. Il rischio è quello di lasciarsi ingannare dalle apparenze. Se ci toerete, pur senza perdere il vostro senso critico, provate a guardarci dentro con occhi nuovi.

Gigi Anataloni




Guerra libica / Odissea dalla politica

Mentre parlano solo le armi, si resta senza parole. Ammutoliti, sconcertati. Anche noi di Pax Christi, come tante altre persone di buona volontà.
Il regime di Gheddafi ha sempre mostrato il suo volto tirannico. Pax Christi, con altri, ha denunciando le connivenze di chi, Italia in testa, gli foiva una quantità enormi di armi senza dire nulla, anche dopo la sua visita in Italia «sui diritti umani violati in Libia, sulla tragica sorte delle vittime dei respingimenti, su chi muore nel deserto o nelle prigioni libiche. Il dio interesse è un dio assoluto, totalitario, a cui tutto va immolato. Anche a costo di imprigionare innocenti, torturarli, privarli di ogni diritto, purché accada lontano da qui. In Libia.» (Pax Christi 2 settembre 2010).
Il Colonnello era già in guerra con la sua gente anche quando era nostro alleato e amico!
Non possiamo tacere la triste verità di un’operazione militare che, per quanto legittimata dal voto di una incerta e divisa comunità internazionale, porterà ulteriore dolore in un’area così delicata ed esplosiva, piena di incognite ma anche di speranze. Le operazioni militari contro la Libia non ci avvicinano all’alba, come si dice, ma costituiscono un’uscita dalla razionalità, un’ «odissea» perchè viaggio dalla meta incerta e dalle tappe contraddittorie a causa di una debolezza della politica.
Di fronte a questi fatti, vogliamo proporre cinque passi di speranza e uno sguardo di fede.
1) Constatiamo l’assenza della politica e la fretta della guerra. È evidente a tutti che non si sono messe in opera tutte le misure diplomatiche, non sono state chiamate in azione tutte le possibili forze di interposizione. L’opinione pubblica deve essee consapevole e deve chiedere un cambiamento della gestione della politica internazionale.
2) Si avverte la mancanza di una polizia internazionale che garantisca il Diritto dei popoli alla autodeterminazione.
3) Non vogliamo arrenderci alla logica delle armi. Non possiamo accettare che i conflitti diventino guerre. Teniamo desto il dibattito a proposito delle azioni militari, chiediamo che esse siano il più possibile limitate e siano accompagnate da seri impegni di mediazione. Perché si sceglie sempre e solo la strada della guerra? Ce lo hanno chiesto più volte in questi anni i tanti amici che abbiamo in Bosnia, in Serbia, in Kosovo, in Iraq.
4) Operiamo in ogni ambito possibile di confronto e di dialogo perché si faccia ogni sforzo così che l’attuale attacco armato non diventi anche una guerra di religione. In particolare vogliamo rivolgerci al mondo musulmano e insieme, a partire dall’Italia, invocare il Dio della Pace e dell’Amore, non dell’odio e della guerra. Ce lo insegnano tanti testimoni che vivono in molte zone di guerra.
5) Come Pax Christi continuiamo con rinnovata consapevolezza la campagna per il disarmo contro la produzione costosissima di cacciabombardieri F-35. Inoltre invitiamo tutti a mobilitarsi per la difesa della attuale legge sul commercio delle armi, ricordiamo anche le parole accorate di don Tonino Bello: «dovremmo protenderci nel Mediterraneo non come “arco di guerra” ma come “arca di pace”».
Giovanni Paolo II per molti anni ha parlato dei fenomeni bellici contemporanei come «avventura senza ritorno», «spirale di lutto e di violenza», «abisso del male», «suicidio dell’umanità», «crimine», «tragedia umana e catastrofe religiosa». Per lui «le esigenze dell’umanità ci chiedono di andare risolutamente verso l’assoluta proscrizione della guerra e di coltivare la pace come bene supremo, al quale tutti i programmi e tutte le strategie devono essere subordinati» (12 .01.1991).*
In questa prospettiva Pax Cristi ricorda ai suoi aderenti che il credente riconosce nei mali collettivi, o strutture di peccato, quel mistero dell’iniquità che sfugge all’atto dell’intelligenza e tuttavia è osservabile nei suoi effetti storici. Nella fede comprendiamo che di questi mali sono complici anche l’acquiescenza dei buoni, la pigrizia di massa, il rifiuto di pensare. Chi è discepolo del Vangelo non smette mai di cercare di comprendere quali sono state le complicità, le omissioni, le colpe. E allo stesso tempo con ogni mezzo dell’azione culturale tende a mettere a fuoco la verità su Dio e sull’uomo.

Sua Ecc.za Mons. Giovanni Giudici
presidente di Pax Christi Italia

Pavia, 21 marzo 2011
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* Vedi il nostro dossier su Giovanni Paoli II in questo stesso numero.

Giovanni Giudici




Al potere, per cambiare

Incontro con mons. Alvaro Ramazzini, vescovo di San Marcos

Finita la guerra, in Guatemala è rimasta la violenza. Una violenza che trova alimento nella diseguaglianza. La ricchezza è nelle mani di poche famiglie. Le multinazionali minerarie devastano il territorio senza apportare benefici. Il latifondo produce per l’esportazione schiavizzando la manodopera locale, soprattutto indigena. In questa situazione, molti tentano di emigrare negli Stati Uniti, correndo il rischio del sequestro o della deportazione. Di tutto ciò abbiamo parlato con mons. Alvaro Ramazzini, molto duro nei confronti del governo e del Congresso guatemaltechi, deboli e lontani dalla gente.

In Guatemala cambiano i presidenti, ma non cambia la situazione per l’80 per cento della popolazione. Impoverimento, diseguaglianze, violenza, distruzione ambientale, emigrazione continuano ad essere le caratteristiche dominanti del paese centroamericano.
In vista delle elezioni presidenziali di settembre 2011, abbiamo incontrato mons. Alvaro Ramazzini, dal 1988 vescovo di San Marcos, dipartimento guatemalteco al confine con il Messico.

DA UNA VIOLENZA ALL’ALTRA

Mons. Ramazzini, come descriverebbe il Guatemala del 2011?
«Direi che è una società molto violenta. Abbiamo un tasso di omicidi altissimo: sono 16 le persone uccise ogni giorno. Si tratta di una situazione diversa da quella che abbiamo sofferto durante il conflitto. È una violenza legata alla presenza del narcotraffico, che occupa la parte Nord del paese ed anche la zona dove io vivo. È una violenza legata anche ai gruppi che noi chiamiamo las maras. Molti dei giovani che compongono queste bande sono il risultato di famiglie disintegrate. Essi non hanno avuto l’esperienza di essere amati e quindi hanno un odio molto profondo nei confronti della società, una società molto impoverita. Prova di questo impoverimento è il fenomeno dell’emigrazione. Sono migliaia i guatemaltechi che cercano di andare negli Stati Uniti attraverso il Messico. Con tutti i rischi che questo viaggio comporta.
A parte la questione della violenza, quella del Guatemala è una società molto polarizzata, fondata su un modello economico che non riesce a superare la disuguaglianza economica, con la ricchezza concentrata nelle mani di pochi. È una società che non ha avuto il coraggio di promuovere una riforma agraria nel senso più profondo ed integrale. Una società con un vergognoso tasso di malnutrizione infantile: su 100 bambini da 1 a 5 anni di età, 49 soffrono di malnutrizione cronica. Tra le popolazioni indigene questo tasso aumenta fino al livello del 59%. Per questi bambini il futuro è buio».
A proposito di emigrazione, quali sono i rischi a cui lei si riferisce?
«Nel 2010 ci sono stati oltre 10mila guatemaltechi sequestrati mentre cercavano di passare per il territorio messicano1. Ci sono bande che fanno pagare riscatti di 5-10 mila dollari. Senza dire delle donne violentate.
Un solo fatto: lo scorso anno, a Tamaulipas, in Messico, furono ammazzati 72 migranti, dei quali 14 erano del Guatemala e tra questi 3 appartenevano alla mia diocesi.
E poi c’è il problema delle deportazioni. Soltanto nel 2010 ci sono stati 135mila guatemaltechi deportati dagli Stati Uniti e dal Messico. Anche in termini economici questo dato è devastante, considerando che le rimesse dall’estero sono la seconda entrata per il Guatemala. Negli Usa ci sono circa un milione di guatemaltechi: immagini cosa accadrebbe se tutti questi venissero rimpatriati».

In Guatemala, i presidenti sembrano tutti eguali. Anche gli ultimi due, Oscar Berger e Alvaro Colom, non hanno agito diversamente. È così?
«I loro governi hanno portato avanti una politica neoliberale. Questo significa privilegiare gli investimenti stranieri, favorendo la presenza delle compagnie transnazionali. Prendiamo la multinazionale canadese dell’oro Goldcorp, una delle più grandi del mondo, che opera proprio nel territorio di San Marcos. Loro pagano soltanto l’1 per cento di royalties. Nel frattempo, l’oncia d’oro, in soli 3 anni, è passata da 420 dollari agli attuali 1.460 dollari. Loro continuano a darci l’1 per cento, usando tutta l’acqua che vogliono con il rischio perenne dell’inquinamento. Insomma, i vantaggi per il Guatemala sono inesistenti. E ancora oggi si firmano accordi per l’estrazione del petrolio2.
Comunque, a parte la questione delle multinazionali, tutte le politiche governative favoriscono la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi. Recenti studi dicono che in Guatemala 56 famiglie detengono tutte le ricchezze».

LATIFONDO, BIOCOMBUSTIBILI E PAPAVERI

A proposito di concentrazione, anche le terre sono nelle mani di pochissimi proprietari. La piaga del latifondo è ancora un problema irrisolto?
«Assolutamente sì! Il problema del latifondo c’è ancora oggi, nel 2011. Oltre a ciò vige un sistema – io lo vedo personalmente anche nella mia zona – quasi feudale per  i lavoratori, i quali non hanno diritto all’assistenza sociale né alle vacanze né alla pensione. Addirittura non sono padroni del pezzo di terra dove abitano all’interno della finca. In qualsiasi momento possono essere espulsi e cacciati via. Quindi, in Guatemala, il sistema latifondista persiste ed ora con una caratteristica in più: molta terra viene utilizzata per la coltivazione della palma africana per produrre biocombustibili. È qualcosa di inaudito ed incomprensibile che, in un paese dove i bambini non ricevono cibo sufficiente, si usi la terra per coltivare palma africana o canna da zucchero per produrre biocombustibili! Ancora una volta si dimostra che abbiamo governi deboli o incapaci di affrontare il potere economico dei latifondisti.   Stando così le cose, nella mia regione i contadini hanno iniziato a coltivare i papaveri da oppio. Dicono che è il solo modo di sopravvivere per essi e le loro famiglie».

Nulla di nuovo sotto il sole: i problemi sono quelli di sempre. Che fare per uscire da una situazione che pare perpetuarsi senza soluzione di continuità?
«Molti di noi nella Pastorale sociale ci facciamo questa domanda. Cosa possiamo fare? Cosa dobbiamo fare? Siamo arrivati alla conclusione che soltanto arrivando al potere politico si possano cambiare le cose. Certamente non vogliamo tornare alle sofferenze che ha significato il conflitto armato. Abbiamo sofferto tanto che preferiamo non ripetere quell’esperienza.
Tra parentesi, una cosa interessante. Poco tempo fa è stata fatta un’inchiesta tra i giovani. La domanda era: voi sareste d’accordo se ci fosse un colpo di stato? La risposta è stata sì, siamo d’accordo con il colpo di stato.
La cosa non mi stupisce. Adesso abbiamo un Congresso della repubblica che è un disastro. Abbiamo un governo che non ascolta le grida della popolazione. Per esempio, sul tema delle miniere, sullo sviluppo rurale e così via. Per questo molti non credono più nel sistema dei partiti politici.  
In questo momento, stiamo discutendo su come articolare i movimenti sociali di diverso genere e tendenze. Credenti o non credenti non importa, la cosa importante è che le persone abbiano il desiderio di un Guatemala diverso, molto diverso da quello che abbiamo adesso. Vogliamo fare una proposta pubblica ai candidati delle elezioni di settembre dicendo loro: noi vorremmo che il Guatemala fosse così e così, che il presidente avesse questo profilo, eccetera. Tuttavia, l’idea principale è di costruire un grande movimento sociale che si presenti non a queste ma alle successive elezioni. Perché, lo ripeto, noi siamo convinti che soltanto arrivando al potere politico si possano cambiare le cose».

Che pensa del «Trattato di libero commercio» (Tlc) cui anche il suo paese ha aderito?
«Il Trattato di libero commercio con gli Stati Uniti – il Cafta3 – non ha avuto un’influenza positiva. Tutte le analisi dicono che finora i risultati sono stati negativi per il paese. Io ero contrario al Tlc con gli Stati Uniti perché vedevo che non conveniva al paese».

E con l’Europa?
«L’Unione europea ha cominciato a parlare di un accordo di libera associazione dallo scorso anno. Purtroppo, ci siamo accorti che – invece di un accordo di associazione che favorisca lo sviluppo del paese – si tratta anche in questo caso di un trattato di libero commercio4. Per molti di noi è stata una delusione.
Due anni fa sono stato a Bruxelles con una delegazione per parlare dell’accordo. Ci dissero che loro avrebbero agito in modo diverso dagli Usa: prima ci sarebbe stata una discussione a livello nazionale sull’argomento, ma non è stato fatto; poi sarebbero stati formulati criteri per sviluppare programmi in favore del Guatemala, ma non è stato fatto; da ultimo, ci sarebbe stato un patto di libero commercio. Questo sì che è stato fatto!».

RIGOBERTA E IL GENERALE

I popoli indigeni costituiscono la maggioranza della popolazione. Com’è la loro condizione nella società guatemalteca?
«La maggioranza di essi è esclusa ed emarginata.
Oggi c’è una legge che punisce la discriminazione. Ad esempio, Rigoberta fu insultata (9 ottobre 2003) quando andò a testimoniare contro Rios Montt. Le persone sono state condannate ma se la sono cavata pagando una multa.
C’è anche una legge per la quale nelle scuole elementari si dovrebbe insegnare nella lingua locale. Adesso abbiamo professori che potrebbero farlo, ma che non hanno un posto dove insegnare perché lo stato dice di non avere i soldi necessari. Dunque, la situazione degli indigeni continua ad essere di sfruttamento ed emarginazione.
Anche noi siamo stati criticati. Come mai – ci è stato detto – nella chiesa cattolica non c’è un vescovo di etnia indigena? È vero. Noi abbiamo cercato di avere un vescovo indigeno, ma i candidati presentati sono risultati non idonei alla carica.
Si consideri che, fino al 1950, gli indigeni non potevano entrare in seminario. Non erano accettati. Dunque, finora non abbiamo formato sacerdoti indigeni con un’esperienza pastorale sufficiente per diventare vescovi. Ma stiamo cercando di rimediare.
Anche i membri indigeni del Congresso della repubblica sono pochissimi. Come sono pochissimi gli indigeni che rivestono cariche pubbliche».

I numeri dicono questo. Tuttavia, quando – nelle presidenziali del 2007 – Rigoberta Menchú Tum, maya e premio Nobel, si presentò come candidata, ottenne un misero risultato. Come mai?
«Quando Rigoberta rese pubblico il suo desiderio di presentarsi come candidata alle presidenziali, uno dei nostri collaboratori le scrisse una lettera in cui si diceva che non era ancora il momento per un passo di questo tipo. Aspetta – le disse -; preparati, comincia a percorrere le zone intee del paese, fatti conoscere di più e così avrai un appoggio maggiore. Rigoberta pensò che noi della diocesi fossimo contro di lei. Io le spiegai che era nostra intenzione appoggiarla, ma che le cose si debbono fare in un certo momento, quando si è sicuri di avere dei risultati.  
Il fatto è che Rigoberta è stata tanto tempo fuori del paese. In molte comunità indigene dell’interno non è conosciuta. In ogni caso, adesso lei è impegnata con la formazione indigena Winaq5.
A parte il caso di Rigoberta, spesso il protagonismo di alcuni non permette un ricambio generazionale. Lo vedo con formazioni di sinistra e contadine che non si rinnovano e che presentano sempre gli stessi leader. Arriva un momento in cui un vecchio leader dovrebbe dire: io mi metto fuori e appoggio i nuovi».

A settembre di quest’anno ci saranno le elezioni presidenziali. Lei cosa prevede?
«Si parla molto del Partido patriota6 del generale ritirato Otto Pérez Molina. Si dice anche che la moglie del presidente Colom, la signora Sandra Torres, voglia presentarsi come candidata. Lei è stata promotrice di alcuni programmi sociali, che aiutano la gente senza però risolvere i problemi sostanziali. Secondo le leggi attuali, la signora non potrebbe presentarsi, ma vediamo cosa decideranno i magistrati della Corte costituzionale. Successe anche con Rios Montt quando si presentò come candidato. Venne ammesso, ma poi per fortuna fu sconfitto.
Credo che la partita si giocherà tra la coalizione del presidente Alvaro Colom e il Partido patriota di Molina. Quando ho incontrato quest’ultimo, gli ho fatto presente che lui aveva il problema di essere stato un membro dell’esercito. Il generale mi ha risposto: “Sì, ma in quello dei buoni, non dei cattivi”».

Il Guatemala ha un’altissima percentuale di giovani. Per chi votano costoro?
«Molti giovani non partecipano alla vita politica nazionale, soprattutto quelli delle aree rurali. Quelli che vivono fuori del paese, in particolare negli Stati Uniti, non possono votare. Altri hanno tali problemi di sopravvivenza che certo non si preoccupano di andare a votare».

E cosa pensano del conflitto armato costato al Guatemala migliaia di vite e tanta sofferenza?
«Non ne so il motivo, ma purtroppo i popoli dimenticano molto in fretta ciò che hanno vissuto. Noi adulti dovremmo avere l’attenzione di trasmettere alle generazioni giovani ciò che abbiamo vissuto.  
Occorre insistere che negli istituti scolastici pubblici venga insegnata la storia del conflitto armato. Purtroppo, neppure nei nostri collegi cattolici, siamo riusciti a farlo, anche perché il ministero è molto rigido rispetto ai programmi scolastici. Neppure il rapporto “Nunca más” è conosciuto, nonostante sia costato la vita ad un vescovo7 e la persecuzione a molte delle persone che vi avevano lavorato».

LE MULTINAZIONALI E LA RESISTENZA DELLE COMUNITÀ

A San Marcos, la sua diocesi, ci sono conflitti ambientali pesanti. Lei si è schierato pubblicamente dalla parte delle popolazioni locali. Ci racconti come stanno le cose…
«In base alla direttiva 169 della Organizzazione internazionale del lavoro, lo Stato, prima di iniziare qualsiasi progetto, dovrebbe fare una consultazione con le popolazioni indigene coinvolte8. In altri termini, una popolazione deve essere ben informata, per poter decidere se un progetto sia o meno conveniente. Tuttavia, anche quando le consultazioni vengono svolte, i governi negano che l’eventuale giudizio negativo sia vincolante per il via ai progetti.
L’anno scorso a San Marcos sono state assassinate 3 persone che si opponevano ai progetti idroelettrici della multinazionale spagnola Unión Fenosa. Erano persone vicine al Frena, il Frente de Resistencia en Defensa del Pueblo y de los Recursos Naturales. Non dico che la multinazionale spagnola sia responsabile di quelle morti, ma certamente i fatti sono collegati.
Eppure, le popolazioni dicono cose di buon senso: se l’energia elettrica sarà prodotta con l’acqua del fiume che passa nei nostri territori, noi vogliamo essere beneficiari del progetto».
La vicenda – drammatica – di Unión Fenosa non è l’unica che vede coinvolte imprese transnazionali. È nota la lotta tra i residenti di Sipacapa e San Miguel (in gran parte indigeni) e la multinazionale canadese Goldcorp (Montana Exploradora). Com’è oggi la situazione?
«La resistenza in Sipacapa è diminuita. Il consiglio comunale ha preso una posizione non favorevole alla popolazione, accettando un’offerta della Goldcorp di circa un milione di dollari. È stato un colpo duro anche per i catechisti, molto coinvolti in questa lotta di resistenza. Inoltre, qualcuno dei residenti ha venduto la terra perché aveva bisogno di soldi.
D’altra parte, dato che il governo non ha la forza per fronteggiare il potere economico e i rappresentanti del Congresso pensano solo ai benefici personali, l’opposizione alle attività delle multinazionali minerarie può venire soltanto dalle comunità9. Noi stiamo ripetendolo nelle nostre zone: dobbiamo continuare con la resistenza pacifica, non possiamo mollare. La loro lotta è la nostra lotta!».

Dopo battaglie tanto lunghe ed estenuanti, è difficile mantenere viva la resistenza…
«È così difficile che noi, come diocesi, stiamo lavorando su una “spiritualità della resistenza”. Anche se tanti cattolici non comprendono le nostre scelte. Non capiscono che non si può vivere in pace se non c’è una promozione di alcuni principi quali la giustizia e la verità, la libertà e la solidarietà».

Monsignore, lei parla di lotta per la terra, dice che per cambiare qualcosa occorre andare al potere, è contro i trattati di libero commercio e le multinazionali minerarie… Una curiosità: i suoi colleghi vescovi sono tutti come lei?
«Non lo so. Sarebbe meglio che lo domandasse a loro. Mi fanno spesso questa domanda mettendomi un po’ in imbarazzo. Io dico sempre che ciascun vescovo risponde ai problemi che vede nella propria diocesi. Il fatto poi di correre più rischi, di avere più protagonismo (nel senso buono del termine), ciò dipende dalla scelta personale di ognuno. Tuttavia, pur non osando dare giudizi sugli atteggiamenti dei miei fratelli, io posso dire che sulle cose fondamentali – come l’opzione preferenziale per i poveri, l’inculturazione del vangelo, la difesa dei diritti umani- tra di noi c’è unità. Quando poi non si trova l’accordo di tutti, si ricorre alla votazione e vince chi ha la maggioranza. In questi casi occorre lavorare su chi non è convinto. Occorre un’opera di persuasione, soprattutto sui temi sensibili, come il problema agrario o un modello di sviluppo rurale in favore delle grandi maggioranze contadine».

TANTI FEDELI, POCHI CRISTIANI

Chiudiamo parlando di religione. In Guatemala, ci sono molte sette evangeliche (chiese pentecostali). Come sono i rapporti tra queste e la chiesa cattolica?
«Fallimentari. Non vogliono sapere nulla di ecumenismo. Loro promuovono questa “teologia della prosperità”: se tu verrai con noi, Dio ti benedirà e avrai soldi e successo negli affari.
Poi ci sono i predicatori che riescono a raccogliere moltitudini con la promessa di guarigioni (va ricordato che il paese ha un servizio sanitario gravemente carente). Questi toccano molto i sentimenti, facendo aggio sul senso di insicurezza e di frustrazione della gente».

A parte la questione delle sette, come giudica i cattolici guatemaltechi?
«Personalmente considero inaccettabile che in un paese con una popolazione al 98 per cento cristiana ci siano i problemi che abbiamo. Siamo un popolo molto religioso, ma non lo dimostriamo nei fatti, lottando per una trasformazione della società.
C’è un divorzio tra fede e realtà. Molti vengono a messa, fanno la comunione ma poi… Per esempio, troppi guatemaltechi non pagano le tasse, sono ingiusti nei rapporti di lavoro, trattano male le persone, sono razzisti. La Bibbia dice: “Per i vostri frutti vi conosceranno”. Oggi i frutti della società guatemalteca sono in contraddizione assoluta con il cristianesimo. Sarebbe meglio che noi ci dichiarassimo atei piuttosto che cristiani di questo tipo».

Paolo Moiola

NOTE AL TESTO:

1 – Si veda il reportage sul sito della televisione CNN-Mexico: http://mexico.cnn.com.
2 – Nel Petén, con la multinazionale francese Perenco: www.perenco-guatemala.com.
3 – Catfa: «Central America Free Trade Agreement».
4 – Acuerdo de asociación, firmato il 19 maggio 2010.
5 – Il sito web di Winaq: www.winaq.org.gt.
6 – Il sito web del partito di Molina: www.partidopatriota.com.
7 – È il drammatico rapporto finale del progetto Recuperatión de la memoria histórica (Remhi), redatto dalla chiesa cattolica guatemalteca attraverso il lavoro dei gruppi pastorali di undici diocesi. Due giorni dopo la presentazione di Nunca más, mons. Juan Gerardi, cornordinatore del progetto, venne assassinato.
8 – Convenzione Ilo/Oit 169 sui Popoli indigeni e tribali adottata il 27 giugno 1989, entrata in vigore il 5 settembre 1991.
9 – Un sito web sulle lotte contro le miniere in America latina: www.noalamina.org.

Paolo Moiola




Una vita da profugo

Libano-Palestina / Viaggio nell’inferno dei campi profughi palestinesi

In Libano, vivono circa 400mila rifugiati palestinesi. Alcuni dal 1948. I campi sono privi di tutto e i rifugiati non godono gli stessi diritti dei libanesi. Ma il mondo, sembra, essersi dimenticato di loro. Reportage.

Dicembre 2010, Beirut. Nella hall dell’hotel ci danno il benvenuto un enorme abete e altri addobbi natalizi. La struttura, tuttavia, non appartiene a proprietari cristiani, bensì a sciiti. Questo è il Libano, multireligioso e multietnico. E pieno di conflitti interni e indotti dall’esterno. La città, molto vasta, è un susseguirsi di quartieri appartenenti a «comunità» etnico-religiose e politiche diverse: sciiti di Amal, sciiti di Hezbollah; sunniti (anch’essi divisi in varie appartenenze politiche), cristiani di diverse confessioni.
Zone visibilmente ricche, con edifici modei ed eleganti, hotel lussuosi e magazzini ricolmi di merci, si alternano ad altre povere e a vere e proprie baraccopoli. Dovunque sono riconoscibili i segni dei bombardamenti israeliani e dei passati e recenti conflitti interlibanesi.
Il nostro  viaggio in Libano ha come obiettivo la visita ai campi profughi dove vivono circa 400 mila rifugiati palestinesi, generazione dopo generazione, da sessant’anni.
Sono sparsi in 12 campi ufficiali e 25 clandestini. Non hanno diritti, né cittadinanza, non possono esercitare una lunga lista di professioni, hanno scarsi mezzi per curarsi e per studiare, sono spesso il capro espiatorio delle tensioni e dei conflitti interni libanesi, ma anche uno degli obiettivi privilegiati dei piani di destabilizzazione dei governi israeliani e statunitensi.
Un recente studio congiunto tra l’Unrwa (United Nations Relief and Works Agency, agenzia delle Nazioni Unite specifica per questi campi) e l’Università americana di Beirut ha rivelato che il 67% dei profughi vive al di sotto della soglia di povertà.
Tutte le persone che abbiamo incontrato – gente comune e dirigenti politici – hanno affermato che l’Anp (Autorità nazionale palestinese guidata dal presidente Mahmud Abbas) – ha cessato completamente di interessarsi alla loro situazione.
Essi, tra l’altro, sono avversati da tutte le componenti politiche libanesi, che gestiscono il potere in base a fattori etnico-religiosi, mantenendo un difficile e spesso instabile equilibrio.
Per evitare di ritrovarsi nuovamente coinvolti in conflitti inter-palestinesi e in guerre civili, come è successo fino a un passato piuttosto recente, le varie fazioni palestinesi si sono impegnate a mantenere una totale neutralità nei confronti delle lotte intee libanesi.

Campo di Mar Elyas, Beirut
È il «centro» della vita politica palestinese in Libano, in quanto è sede delle rappresentanze di tutti i partiti.
Veniamo ricevuti dal leader locale del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp), Marwan Abdel ‘Aal, che ci parla della difficile condizione di vita dei suoi connazionali in Libano: «La situazione sta peggiorando, sia socialmente, sia a livello lavorativo e scolastico. Il rispetto dei nostri diritti, qui, è molto scarso. Siamo il punto più debole delle leggi libanesi, che ci escludono da tutto, anche dalla possibilità di ottenere la cittadinanza».    
Usciamo dall’ufficio del Fplp e giriamo per i vicoli del campo: un labirinto di case, cortili, magazzini, uno addossato sull’altro, e sviluppato in verticale, a causa del divieto di edificare nuove abitazioni. La mancanza delle più basilari condizioni di igiene e sicurezza sono evidenti.
Ci dirigiamo verso la casa di Mohammad, uno dei 5.000 palestinesi senza documenti, cioè, persone che per il governo libanese «non esistono». Si tratta di una sorta di «clandestini», anche se risiedono nel paese da decenni. Non hanno carta d’identità e quindi appena lasciano il campo sono arrestati. Sono la categoria più bassa della già tragica scala umana del profugo.
«Io sono di Yafa (la Giaffa dell’occupazione israeliana, ndr) – ci racconta Mohammad – e, dopo la Nakba1, con la famiglia mi sono rifugiato in Giordania, dove sono stato registrato come profugo. Sono andato in Libano, a studiare, a metà degli anni ’70. Nel 1982, durante l’invasione sionista, ho abbracciato la resistenza. È questa la mia colpa, che pago con la mancanza di un qualsiasi documento che attesti la mia residenza e identità. Avevo un passaporto giordano, che non mi è stato più rinnovato.
Nel 1983 mi sono sposato e ho avuto cinque figli che avevano bisogno di certificati anagrafici per poter frequentare le scuole, viaggiare, lavorare.
Nel 2008 mi era stato detto che c’era la possibilità di regolarizzare me e tutti i miei familiari, così mi sono presentato per richiedere finalmente i documenti, ma mi hanno arrestato in quanto “clandestino”.
Ai miei figli hanno dato permessi provvisori, di un anno, con cui non possono fare nulla. Uno di loro, che si trovava negli Emirati Arabi con visto scaduto, è stato fermato in aeroporto prima di partire per il Libano, e trattenuto lì dentro per otto mesi. È stato rilasciato a seguito di pressioni inteazionali, e poi, appena ha potuto, se n’è andato in Norvegia, dove ha chiesto asilo politico».
Le autorità libanesi rifiutano intenzionalmente di trovare soluzioni al caso dei 5.000 palestinesi senza documenti. Sanno bene che se vengono respinti alla frontiera, nessuno stato arabo li accoglierà, e che non possono tornare in patria, in Palestina.
Mohammad ci spiega che esistono tre categorie di profughi: quelli registrati dall’Onu, nel ’49, quelli non registrati e i senza documenti. I primi sono in possesso di documenti libanesi che hanno validità di tre o cinque anni; i secondi hanno documenti (con scadenza annuale), ma non risultano nell’elenco dei profughi, mentre gli ultimi sono persone inesistenti per il governo del Libano.

Un km quadrato per 25mila
Proseguiamo il nostro viaggio tra i campi. Burj el-Barajneh è un luogo inquietante: una gabbia di un km quadrato per 25mila esseri umani che vivono sotto un vasto reticolato di fili elettrici e tubi per l’acqua pericolosamente intrecciati sopra le loro teste.  Visitiamo la Al Ghawth, Humanitarian Relief for development society, un’associazione caritatevole – una delle tante, dentro e fuori dai campi – che si occupa del sostegno agli orfani, di adozioni a distanza, assistenza medico-sanitaria attraverso diversi ambulatori e centri per disabili, e di formazione professionale.
Parallelamente all’erogazione dei molti, troppi, servizi che il governo libanese non garantisce, il centro ha promosso un progetto di microcredito per sviluppare piccole attività commerciali, in modo da rendere la gente più autonoma e meno dipendente dall’assistenza.
I nostri ospiti ci portano nell’asilo da loro gestito: sono diverse classi di bambini in età tra i tre e i cinque anni. I piccoli ci accolgono sorridenti, intonando teneri cori di benvenuto.
Continuiamo il giro per i vicoli del campo, attraversando vere e proprie foreste di cavi e tubi, che ogni mese, spiegano gli abitanti, provocano la morte per folgorazione di ragazzini e adulti.
Fango, immondizia e assenza di una qualsiasi forma di raccolta dei rifiuti contribuiscono a creare un clima insalubre in tutta l’area.
Entriamo nella sede del Comitato popolare: è un’istituzione attiva in tutti i campi profughi e rappresenta tutte le forze politiche palestinesi. Essa ha lo scopo di tutelare la sicurezza, arrestando i criminali e consegnandoli alla polizia libanese, e di mediare i conflitti interni.
«I nostri diritti civili e di proprietà non esistono – ci spiega uno dei responsabili -. Non possiamo comprare immobili e la costruzione delle abitazioni si sviluppa in verticale, con finestre che si specchiano in altre, negando ogni privacy e creando tensioni tra vicini di casa. Non abbiamo il permesso neanche di allacciare la corrente e l’acqua, ed è per questo che ci sono ragnatele di fili dovunque. La quantità di energia elettrica concessa dal governo libanese è rimasta invariata rispetto a decenni fa, quando l’area era meno popolata. Ogni 48 ore le famiglie hanno diritto a mezz’ora per riempire serbatorni da 200 litri. Questo avviene in condizioni normali, ma quando manca la corrente per le pompe, si rimane a secco. Inoltre, l’acqua contiene il 60% di sale e per essere bevuta necessita di filtri, che non sono foiti dalle autorità libanesi, ma devono essere comprati da privati. Pochi, dunque, possono permetterseli».
Discriminazione professionale: «Noi palestinesi siamo autorizzati dallo stato libanese a svolgere soltanto alcune professioni, prevalentemente umili. Ben 72 ci sono proibite – tra cui quelle del medico, ingegnere, architetto… La maggior parte di noi lavora nei campi, occupandosi di piccole attività di commercio, o come manovale, in nero e mal pagato. Non ci sono contributi previdenziali e assicurativi.
Per ciò che riguarda l’educazione scolastica, l’Unrwa garantisce la primaria, le medie e le superiori. Le aule sono poche e sovraffollate, e spesso il livello di preparazione non è adeguato. Qui a Beirut ci sono 65mila studenti e una sola scuola superiore.
L’università è a pagamento e chi non ottiene le borse di studio, non può accedervi: su 500 che passano l’esame di maturità, soltanto 100 trovano posto. La maggioranza è costretta ad abbandonare gli studi.
Prima del 1982 (l’invasione israeliana del Libano), il 90% dei palestinesi si iscriveva all’università. Dall’83 in poi, a causa delle continue e prolungate chiusure delle scuole, sono iniziati i problemi, e la mancanza delle rimesse dall’estero, soprattutto dai paesi del Golfo, dopo il 1990 (prima guerra del Golfo), ha notevolmente impoverito i profughi. Per tutti noi questa è una vita piena di rinunce».

Mala-sanità?
Entriamo nell’ospedale Haifa, uno dei cinque istituiti nei campi profughi in Libano. È una struttura della Mezzaluna Rossa palestinese, appartenente all’Olp (l’Organizzazione per la liberazione della Palestina) e finanziata dall’Unione Europea, con 42 posti letto destinati a circa 50mila palestinesi.
Il direttore dell’ospedale ci spiega che i bambini soffrono di problemi gastro-intestinali causati dall’alta concentrazione di sale nell’acqua, di allergie e malattie polmonari provocate dall’umidità e dall’aria malsana. Molto alta è la percentuale di persone affette da diabete da eccesso di zuccheri.
Molto diffusi sono anche lo stress e problemi psicologici dovuti alla drammatica condizione in cui le persone del campo sono costrette a vivere.
Per gravi malattie tipo il cancro, l’ospedale Haifa garantisce solo la diagnostica e non le cure, e ai pazienti che non possono permettersi di andare in un ospedale libanese, a pagamento, non restano molte possibilità di sopravvivenza.

Ricordo dei martiri
Il cimitero dei martiri di Sabra e Shatila è un giardino desolato, con una grande tomba, dentro alla quale sono state sepolte, in una enorme fossa comune, circa 1.000 persone, vittime dell’eccidio che si consumò nel 1982, ad opera delle falangi libanesi, aiutate dall’esercito israeliano.
Il campo di Shatila è a un chilometro dal cimitero. Per raggiungerlo bisogna percorrere una strada affollata che passa dentro un mercato frequentatissimo, sporco e pieno di mercanzie.
Ci lasciamo Beirut alle spalle e costeggiamo per qualche chilometro una distesa di slum: edifici fatiscenti, con persone poverissime che lavorano davanti a negozi sporchi e ad officine altrettanto malsane.
Qualche chilometro più in là, iniziano le cittadine con case e villette e campi coltivati. Sembra di essere passati da un mondo all’altro, in poco tempo. Tutto il Libano è così.
Oltrepassiamo Sidone attraverso un check-point militare.
Lungo il percorso, sfilano ai due lati della strada chiese e moschee, istituti islamici e cristiani, uno a fianco all’altro.
Arriviamo a Tiro, dove ci aspetta il direttore locale dell’Unrwa, dalla quale dipendono per la sopravvivenza tre campi profughi e 12 raggruppamenti illegali, per un totale di 95 mila profughi.
«I perimetri dei campi sono rimasti quelli degli anni ’50 – ci spiega il dirigente -. All’epoca ospitavano 7.000 rifugiati, ora invece ne hanno 29mila ciascuno. Ecco perché hanno dovuto svilupparsi verticalmente e in aree illegali, non riconosciute, dove vivono 73 famiglie (circa 300 persone).
La restrizione nell’entrata di materiali edili, mobili e del transito stesso dentro e fuori dal campo, crea gravi difficoltà per i palestinesi. Una recente ricerca svolta dall’Unrwa in collaborazione con l’università americana di Beirut, evidenzia un aumento esponenziale della povertà tra i profughi, in particolare a Tiro».
Lasciamo l’ufficio dell’Unrwa e ci rechiamo a visitare il campo di Burj el-Shamaliy.
All’ingresso troviamo un check-point di forze libanesi. Durante l’occupazione israeliana la postazione era un avamposto militare, ma ora è utilizzato dall’esercito libanese per monitorare i residenti palestinesi.
Ci fermano mezz’ora, per controllare i nostri passaporti.
Finalmente, dopo un’ispezione accurata delle pagine e dei nostri nomi, ci lasciano andare.
Entriamo in un asilo costruito nel 1967 dall’associazione Assumud, finanziata dall’Olp. Tre classi accolgono circa 80 bambini e 4 insegnanti.
La giovane direttrice, Hiba, ci conduce in giro per la struttura e ci presenta i piccoli, tutti vestiti di azzurro, lindi e ordinati, e molto educati.
Nei piani superiori ci sono locali per la formazione professionale dei giovani, con laboratori di informatica e di altre discipline.
Burj el-Shamaliy è stato soprannominato «Campo dei Martiri», per l’alto numero di vittime durante il massacro del 1982: 96 morti.
Qui ci sono 20mila abitanti e un solo ambulatorio con due medici che lavorano quattro ore. Ricevono 400 pazienti al giorno. Danno solo calmanti, per qualsiasi patologia. Il 95% delle medicine è a pagamento. Per le malattie croniche è concessa solo una dose al mese, le altre devono comprarsele.
Le convenzioni con gli ospedali prevedono solo alcuni interventi chirurgici, ma le strutture meno care hanno posti limitati. Per gli interventi cardiaci, l’Unrwa passa 3.000 dollari, ma il costo è di 6.000. Paradossalmente, dopo i 60 anni, la cifra si abbassa a 2.000.
Il 66,4% dei poveri del campo viene sfamato da associazioni caritatevoli e dall’Unrwa. Questa dà 110 dollari all’anno al 12% di loro. Quindi, poco o nulla.

Al «bambino felice»
Ci rechiamo alla scuola matea «Bambino felice». È una struttura costruita nel 1992, che ospita 200 bimbi tra i 3 e i 6 anni, divisi in 8 classi.
Il nome dell’asilo non deve trarre in inganno: qui manca tutto. Non ci sono giochi, non c’è nulla. Le famiglie devono portare frutta e verdura per la mensa. La retta è di 75 dollari all’anno, ma il 30% dei bambini è esente, perché troppo povero.
Un piano della struttura è senza finestre, e d’inverno fa freddo.
Entriamo nelle aule, semispoglie, con bimbi seduti intorno a un tavolo, con un pezzetto di pongo ciascuno che girano e rigirano tra le dita, mentre ci osservano con occhioni sgranati, cantando canzoncine di benvenuto. Non hanno nulla, nemmeno l’essenziale, e ripetono a memoria storie e canti per passare il tempo.
Quando, un’ora dopo, usciamo per strada, abbiamo ancora impressa negli occhi l’immagine delle loro manine che impastano un pezzo quasi invisibile di pongo, e non riusciamo a non pensare che generazioni e generazioni di bambini sono accomunati dalla stessa miseria e ingiustizia, che li vede prigionieri in campi profughi dove non c’è neanche l’indispensabile.
A Sidone i rifugiati sono 120mila: 5.000 vivono a Mi’eh w Mi’eh; 40 mila sono suddivisi tra un quartiere della città e raggruppamenti illegali; 75mila, nel campo di Ein el-Helweh. La maggior parte di loro viene dall’Alta Galilea ed è qui dal 1948.
Il campo di Ein el-Helweh ci colpisce per il «clima», caratterizzato dalla mancanza di luce naturale, da molta sporcizia e caos, e da tanta gente, per lo più miliziani, che se ne va in giro armata.
L’area destinata ai campi è la stessa di 60 anni fa, anche se la popolazione è triplicata. Le case sono una addossata all’altra, il sole non riesce neanche a entrare. Ci sono vicoli completamente bui. Tutto ciò provoca gravi problemi psico-fisici. Appena possono, i ragazzi scappano da qui.
Ein el-Helweh ha poco del nome che si porta appresso, «L’occhio (o la fonte) della bella». Come tutti i campi, è un posto di grande sofferenza, di prova concreta, visibile, dell’ingiustizia subita dai palestinesi 63 anni fa, quando a centinaia di migliaia vennero espulsi dalla Palestina attraverso massacri e pulizia etnica, e si rifugiarono in campi profughi allestiti qua e là nel mondo arabo. Libano compreso.
Questo luogo, tuttavia, ha una tristezza e una cupezza maggiori: le persone ci guardano con diffidenza, ci salutano in inglese e non in arabo, come fossimo degli intrusi, e non degli ospiti.
In questo campo ci sono stati molti conflitti interni tra le varie fazioni palestinesi, e la presenza di paramilitari palestinesi armati di tutto punto ne è un effetto, e forse pure una causa.
Anche qui, come negli altri campi, visitiamo ospedali dove manca quasi tutto, centri assistenziali, e incontriamo esponenti di Fatah e di Hamas, i due principali movimenti politici palestinesi.
I campi profughi sono un esempio di come si possa tenere una popolazione in uno stato di miseria calcolata, voluta, per indurla ad andarsene quanto prima, ed indubbiamente è stata una strategia vincente, poiché da 400mila il numero di rifugiati è sceso a 250mila. Gli altri sono fuggiti da questo inferno, per cercare accoglienza in Occidente e in altri paesi arabi e islamici.

Angela Lano

1- La catastrofe che portò alla cacciata dei palestinesi dalla loro terra nel 1948.

Angela Lano




Pelle (s)fortunata


La loro condizione è estremamente allarmante: gli albini, donne e uomini, bambine e bambini, sequestrati e fatti a pezzi per fare amuleti con la loro pelle e altri organi; crimini causati da credenze tribali ed enormi interessi economici. Ma qualcosa sta cambiando: un albino è stato eletto membro del parlamento tanzaniano nel partito di opposizione.

1-appena-nato-avvolto-nella-kangha-mbagala (Romina Remigio)
1-appena-nato-avvolto-nella-kangha-mbagala (Romina Remigio)

Fatti a pezzi, ammazzati, mutilati, scuoiati… solo per fae dei portafortuna. Questo è quello che accade quotidianamente da anni agli albini in Tanzania.
Le foto del mio reportage «I AM ALBINO» (che ha vinto il terzo premio al 38° Portfolio Internazionale Ateum) mostrano la vita degli albini nella loro cruda realtà, dalla paura di essere ammazzati ai tumori che li colpiscono; ma sono anche un inno alla forza e al coraggio che essi hanno nell’affrontare la vita. Lavorano, amano, si sposano, fanno figli che curano amorevolmente. In Tanzania c’è addirittura una squadra di calcio formata da albini; hanno un’associazione nazionale che si occupa di sensibilizzare la popolazione sulle loro condizioni, ma soprattutto sul fatto che essi sono africani, tanzaniani e vogliono vivere la loro vita liberamente come tutti i loro fratelli.
Ma non fanno notizia
Mentre l’informazione nazionale, europea, internazionale è impegnata a sgomitare per proporci ogni giorno un nuovo scornop, in Tanzania degli esseri umani sono ammazzati brutalmente per riti magici. Come può l’informazione mondiale chiudere gli occhi davanti a situazioni del genere, e turarsi le orecchie di fronte a chi chiede aiuto e a quei giornalisti locali che denunciano tale mattanza? Come giornalista, non posso che provare vergogna quando i grandi direttori dei nostri giornali, davanti alla denuncia di una situazione aberrante e allo sforzo di sensibilizzare l’opinione pubblica su ciò che accade ancora nel 2011 in una parte del mondo, mi rispondono che il mio reportage è ben fatto fotograficamente, ma non fa notizia!
L’Africa, come da anni viene ribadito, non fa notizia. I massacri di albini, grandi e piccoli, la pelle dei quali e altre parti del corpo vengono utilizzate per realizzare amuleti, gli enormi introiti economici dietro tali delitti, per non parlare di casi limitati a riti magici-tribali, non fanno notizia!
Mi vergogno di svegliarmi in un paese dove il giornalismo sociale è ormai così marginale.
Non dimenticherò mai le parole di Enzo Biagi: qualche mese prima che morisse, ebbi la fortuna di incontrarlo per la mia tesi di laurea; prima ancora di rivolgergli una domanda, mi chiese cosa volessi fare da grande. Orgogliosa e decisa, risposi: «La foto-giornalista! Voglio raccontare cosa accade nel mondo dalla prospettiva di chi non ha voce». E lui, dopo aver osservato la mia convinzione, mi disse: «Sarà difficile. Sarà il mestiere più duro del mondo. Non potrai mai farlo per guadagnare, ma solo per passione! Deve essere una passione! Io ho sempre detto che questo lavoro lo farei anche gratis».

Il primo parlamentare albino del Tanzania: Salum Khalfan Barwany - AFP PHOTO/Yasuyoshi CHIBA
Il primo parlamentare albino del Tanzania: Salum Khalfan Barwany – AFP PHOTO/Yasuyoshi CHIBA

Primo albino in parlamento

Era il 2007 quando sentii parlare per la prima volta che due albini in un villaggio erano stati trovati ammazzati, dopo essere stati scuoiati vivi. Mi sembrava così assurdo. In Tanzania?!
Si tratta di un’antica credenza tribale ancora persistente, anzi in forte aumento. Negli ultimi due anni, albini uomini e donne, bambini e bambine sono stati sequestrati, massacrati, fatti a pezzi, scuoiati per fare amuleti con la loro pelle bianca e altre parti del corpo.
Il fenomeno è esploso nella parte più povera e arretrata del Tanzania, nelle regioni di Singida, Mwanza, Shinyanga, al confine con il lago Vittoria, dove vivono minatori e pescatori convinti dagli stregoni locali che avere un amuleto fatto di pelle o parti di albino porti fortuna nel lavoro e nella vita.
Di fronte ai continui servizi giornalistici e alle pressioni di attivisti dei diritti umani, nel 2008 il governo ha dichiarato illegali tutte le licenze degli stregoni del nord e vietato qualsiasi loro attività. «Sotto la nostra spinta il governo ha iniziato anche azioni di tutela degli albini» mi dice la presidente dell’Associazione albini del Tanzania, signora Shymaa Kway-Geer; per la sua determinazione nella lotta alle discriminazioni contro gli albini, il presidente Jakaya Kikwestern l’ha chiamata in Parlamento, primo membro albino in tale istituzione.
Non esiste una stima precisa, ma sembra che in Tanzania gli albini siano più di 300 mila. La malattia che li colpisce più frequentemente è il cancro alla pelle. Per essere curati devono recarsi a Dar es Salaam, presso l’Ocean Road, l’unico ospedale per la cura del cancro in tutto il Paese. Per chi vive al nord questo significa affrontare un viaggio di due, tre giorni.
«Noi siamo terrorizzati. Il governo ha predisposto schiere di poliziotti che scortano gli albini durante questi lunghi viaggi. Abbiamo paura di girare da soli, di essere aggrediti. Quando non vediamo tornare a casa i nostri bambini la preoccupazione aumenta. Io vivo con mio marito e i miei quattro figli. Di notte, se qualcuno bussa alla porta, io inizio già ad agitarmi; e i miei figli mi dicono: mamma, andiamo noi, tu non andare».
La presidente con il resto del consiglio direttivo e alcuni membri dell’Associazione mi ricevono nel loro ufficio: una stanza che l’Ocean Road ha messo a loro disposizione, anche per la massiccia presenza di albini in cura all’ospedale. Il mio sguardo fotografa articoli di giornali che arredano la stanza. Enormi raccoglitori traboccano di carte, documentazione e casi di aggressione ad albini.
Shymaa è seduta al tavolo di fronte a me, scrive il suo numero di telefono piegata e incollata su un foglio di carta. È molto miope, come la maggioranza degli albini. Vede pochissimo e, nonostante le grosse lenti montate sugli occhiali, ha bisogno di avvicinarsi al foglio quasi fino a toccarlo con il naso. Una delle tante conseguenze dell’albinismo, insieme ai tumori alla pelle, è proprio la miopia, che si sviluppa fin da bambini, causando loro enormi difficoltà a scuola: non tutti possono permettersi il lusso di un paio di occhiali.

(Photo Romina Remigio)
(Photo Romina Remigio)

A casa di Victor

(Photo Romina Remigio)
(Photo Romina Remigio)

Arrivo nella scuola del villaggio mentre il muezzin chiama alla preghiera. Victor è sulla porta della scuola, accecato dalla luce abbagliante di mezzogiorno. Ha gli occhi socchiusi, arriccia il naso e cerca di farsi ombra con la mano come per voler mettere a fuoco. Non mi conosce, ma sa di dover aspettare una mzungu (bianca) che vuole conoscere lui e la sua famiglia.
Mi avvicino e mi sorride solo quando sono a pochi centimetri da lui. Non sapendo cosa dire mi prende per mano. La sua mano è porosa, sembra di carta vetrata, mi graffia. È talmente ustionata dal sole da essere coperta da bolle indurite e fastidiose.
È un bel bambino. I lineamenti sono delicati; la pelle del viso e del collo è bianchissima, morbida, sembra curata o ancora troppo giovane.
Prendiamo una strada sterrata; si toglie le scarpe, ne lega i lacci tra loro e le appende al collo. I quadei e i libri li mette sulla testa e cammina spedito, ma si sente osservato. Timidamente inizia a farmi qualche domanda in inglese. Gli piace studiare. E mi dice che l’inglese è la sua materia preferita.

(Photo Romina Remigio)
(Photo Romina Remigio)

Passiamo in mezzo a bambini che giocano a pallone, accanto a donne che attizzano il fuoco per cucinare l’ugali (polenta). Tutti ci guardano e lui sorride e saluta, contento di essere importante agli occhi del villaggio perché ha con sé la mzungu.
Arriviamo finalmente a casa sua. La mamma è fuori che lava i panni e lui le si avvicina, gli sorride e subito si mette ad aiutarla. La casa di fango è immersa nel villaggio di Kibiti, accerchiata da alberi di mango che ne delimitano il perimetro.
Alla spicciolata arriva una squadra di ragazzine e bambini: sono i fratelli e le sorelle di Victor. La mamma mi dice di avere sette figli, due dei quali albini: Victor, che mi accompagna, e Oliver, il primo figlio, che lavora a Dar es Salaam.
Suo marito, molto malato, non è albino. «Lo era suo nonno – mi anticipa quasi a voler spiegare come due figli siano nati albini e gli altri cinque no -. Non ho mai pensato, nemmeno per un secondo, che Victor o Oliver potessero essere una disgrazia. Amo tutti i miei figli allo stesso modo. Mio marito e io li abbiamo allevati senza pregiudizi; anzi, gli altri cinque sono istintivamente diventati più protettivi nei confronti di Victor, soprattutto in questi anni. Se ne sentono tante. Meno male che noi viviamo in un piccolo villaggio e la gente vuole bene a Victor, lo aiuta e lo protegge. Non credono a queste superstizioni. Victor è un bimbo buono, generoso, molto dolce ed è ben voluto da tutti. Lui va a scuola con gli altri bimbi del villaggio, li aiuta a fare i compiti, gioca con loro, va al catechismo ed è stato anche scelto dal parroco come chierichetto. Gli piace studiare e dice che da grande vuol fare il medico per guarire tutti i bambini. Io sono orgogliosa di Victor e di Oliver come di ognuno dei miei sette figli. Quello che sta accadendo in Tanzania è vergognoso; ognuno di noi tanzaniani deve reagire e aiutare le famiglie dove ci sono albini, affinché finisca questa tragedia assurda. I nostri albini sono figli del Tanzania come gli altri. Sono africani bianchi e il governo deve impegnarsi nel far capire alla gente che sono esseri umani e che è assurdo pensare che possiamo vincere la nostra povertà con un amuleto fatto con le parti di una persona, un loro fratello per giunta».

(Photo Romina Remigio)
(Photo Romina Remigio)

Vita da fantasma

Too a Dar es Salaam e incontro il segretario generale dell’Associazione albini del Tanzania, Samuel Mugo, che mi mostra la bozza di una proposta di ricerca che l’associazione ha elaborato, per stabilire le cause che sono all’origine delle uccisioni e ha fatto appello al governo perché questo dichiari la situazione come emergenza nazionale. Stanno facendo pressione su leaders religiosi, giornalisti e attivisti dei diritti umani affinché facciano sentire la loro voce e convincano i membri del governo che la strage degli albini è socialmente e moralmente ingiustificata.

(Photo Romina Remigio)
(Photo Romina Remigio)

«Inoltre un’altra sfida che gli albini devono affrontare – continua Samuel – è la discriminazione sul posto di lavoro, poiché sono disprezzate le loro qualifiche e competenze. Meno male che all’Ocean Road ci sono albini che lavorano come infermieri e negli uffici. Ma nei villaggi dell’interno i bambini albini non vengono mandati a scuola; sono emarginati e condannati a un futuro di lavori manuali spesso sotto il loro peggior nemico: il sole bollente che cuoce la loro pelle».
Gli domando come, secondo lui, si possano uccidere e scuoiare delle persone come fossero animali, per fae degli amuleti magici. «Forse per istinto o per nostra cultura: quando una persona si trova davanti a privazioni,  per prima cosa cerca spiegazioni e consigli dai guaritori tradizionali con la speranza di scoprire la causa dei problemi e delle sfortune e i relativi rimedi. Il più delle volte la soluzione consiste nel cercare scorciatornie che possano risolvere i mali, causando però maggiori problemi alla società. Di recente nel Paese sono venuti a galla 2 mila casi di commercio di organi umani. E in Africa, l’albinismo suscita da sempre pregiudizio. Un africano bianco è considerato e definito uno zeru zeru, fantasma o spettro. E si è trasmessa la convinzione che un albino sia dotato di poteri soprannaturali».
«Ero in giro per le strade di Dar es Salaam, mi hanno bloccato in tre e hanno provato a tagliarmi un dito del piede; per fortuna è arrivata una donna che si è messa a gridare» mi racconta Musa mentre mi mostra i segni dell’aggressione.
superstizioni e crudeltà
All’Ocean Road incontro Veronica mentre sta allattando il suo bellissimo Fredy, subito dopo il trattamento di chemioterapia: un tumore alla pelle la sta disintegrando fisicamente; ma Fredy, di cinque mesi, è bene in salute. Le dico che è pericoloso allattarlo a causa della sua chemioterapia. Mi risponde che tra il farlo morire di fame o per danni dovuti alla sua chemio, non sa cosa sia peggio. Come tante altre donne, è stata abbandonata dal marito quando aveva iniziato a stare male e l’unica eredità lasciatagli è questo bimbo che ama. Ma lei sta morendo. E non è la sola.

(Photo Romina Remigio)
(Photo Romina Remigio)

Le sue amiche vogliono fermamente essere fotografate per far vedere al mondo come è ridotto un albino aggredito dagli uomini o dal tumore alla pelle. Sono letteralmente sfigurate, eppure si mettono in posa con i loro bimbi in braccio. «Voi giornalisti dovete dirlo, dovete raccontarlo al mondo – mi grida Greta -. Ci sono antiche credenze ancora diffuse come quella che si possa guarire dall’aids avendo rapporti sessuali con ragazze albine, non facendo altro che aumentare gli stupri e il contagio. I bambini, che sono la maggioranza poiché la vita media di un albino è 40 anni, rischiano continuamente di essere uccisi e mutilati dei genitali, che i sicari rivendono a prezzi altissimi per riti tribali».
Di fronte alle loro storie, non posso fare a meno di domandarmi se sia giusto che questi sfortunati, che passano tutta la vita a difendersi dal sole, oltre alle sofferenze provocate da piaghe, scottature, tumori della pelle, dopo l’emarginazione e le difficoltà sempre maggiori, siano costretti a vivere la loro quotidianità nel terrore di essere mutilati e scuoiati vivi!
Greta, prima di finire il suo sermone, avvicina i suoi occhi ai miei, raccontandomi quanto devono soffrire soprattutto negli attimi prima di morire; leggenda vuole che le parti dei loro corpi utilizzate nei riti magici, siano tanto più efficaci quanto più forti siano state le urla durante la mattanza.

(Photo Romina Remigio)
(Photo Romina Remigio)

Affari e riscatto

Si calcola che in Africa ci sia un albino ogni 5 mila abitanti (in Europa uno ogni 60 mila). In alcuni paesi, come Congo, Uganda, Malawi, Kenya, Mozambico la percentuale degli albini è maggiore che in Tanzania e le credenze e pratiche magiche nei loro riguardi non sono meno drammatiche.
Dietro i crimini contro gli albini, non ci sono solo pregiudizi e superstizione. Sembra che gli introiti derivanti da tale mattanza siano troppo grandi per essere fermati. Secondo fonti della polizia tanzaniana un cadavere di albino può essere venduto per una somma che va dai 75 ai 400 mila dollari.

(Photo Romina Remigio)
(Photo Romina Remigio)

Proprio in Tanzania, nel mese di agosto 2010, un cittadino keniano è stato catturato e condannato per direttissima a 17 anni di carcere per aver cercato di sequestrare un giovane albino (subito messo sotto scorta) allo scopo di rivenderlo per 220 mila euro.
Una giornalista tanzaniana, Vicky Ntetema, corrispondente della Bbc, è costretta a vivere sotto scorta perché minacciata di morte per aver denunciato il coinvolgimento di stregoni e poliziotti nelle uccisioni di albini.
Le denunce sono giunte anche al Parlamento europeo che, con una risoluzione del 4 settembre 2008, ha sollecitato le autorità tanzaniane ad avviare un’indagine su tali crimini e ha invitato il governo a «tutelare i diritti degli albini tanzaniani attraverso politiche d’inclusione, parità di accesso a istruzione e assistenza medica di qualità, a offrire loro una protezione sociale e giuridica adeguata; promuovere una migliore formazione degli operatori sanitari e seminari per insegnanti e genitori per far capire come sia importante che i bambini albini siano protetti dal sole».

(Photo Romina Remigio)
(Photo Romina Remigio)

Il presidente tanzaniano Kikwestern, come presidente anche dell’Unione africana e quindi maggiormente sollecitato dalle associazioni di diritti umani, è stato «costretto» ad adottare forti misure di sicurezza a favore degli albini.
Ma il riscatto maggiore per l’Associazione nazionale degli albini e di tutti gli albini del Tanzania è arrivato il 3 novembre 2010: per la prima volta nella storia, per volontà popolare, alle elezioni presidenziali è stato eletto in Parlamento un albino 52enne, Salum Khalfani Bar’wani, candidato del partito di opposizione Fronte civico unito (Cuf). Nonostante i tanti brogli elettorali denunciati, ha battuto alle ue l’avversario della maggioranza che da 15 anni ricopriva il seggio. «Questa è stata decisamente una vittoria rivoluzionaria per tutti gli albini di questo Paese» ha commentato Bar’wani.

Romina Remigio



Cana (22) «Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli»

Il racconto delle Nozze di Cana (22)

Gv 2,2: «Fu chiamato/invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli»
(Eklêthē de kài ho Iēsoûs kài hoi mathētài autoû eis ton gàmon)»
Parte prima

Il versetto 2 del capitolo 2 di Gv è molto importante dal punto di vista narrativo perché si colloca sul primo livello del racconto e vuole darci una informazione decisiva, molto più importante di quella contenuta nel versetto precedente, che parla di un matrimonio dove «c’era là anche la madre»; capiremo il motivo più avanti. Il vangelo di Giovanni inizia con il grande prologo (Gv 1,1-18) in cui si descrive non la nascita carnale, come fanno i Sinottici (Mt 1-2 e Lc 1-2), ma la «preesistenza» del Lògos, considerato in se stesso, cioè nella sua eternità che però si relativizza nel mondo in cui «il Lògos carne fu fatto» (Gv 1,14). Poi prosegue con l’attività di Giovanni il battezzante che culmina nel battesimo nel Giordano (cf Gv 1,19-34) e prosegue con la presentazione dei discepoli di Giovanni, che sono curiosi di conoscere chi è Gesù fino al punto che alcuni lo frequentano e infine lo seguono (cf Gv 1,35-51).
Prepararsi a un ingresso
Per tutto il capitolo primo del quarto vangelo, Gesù appare nello sfondo, dapprima come invisibile nella condizione di «Lògos» e poi nella storia come figura incerta, non definita: è un assente presente. Tutto il capitolo primo, infatti, è solo una preparazione all’ingresso ufficiale di Gesù che viene a inaugurare la sua attività di rabbi itinerante, portatore di una novità e un senso nuovo. Gesù infatti entra in scena, anzi irrompe nel racconto evangelico in Gv 2,2: «Fu chiamato/invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli». Ecco il primo passo della rivelazione nuova della nuova alleanza che, a sua volta, è ancora preceduto da Gv 2,1, che ci offre due informazioni circostanziali, cioè secondarie, per predisporci più profondamente e intimamente al solenne ingresso di Gesù nella storia della salvezza.
L’autore indugia a lungo, parte da lontano, quasi avesse timore di precipitare gli eventi e rallenta la scena perché vuole mettere in contrasto due presenze e due funzioni: da una parte lo sposalizio e la madre, dall’altra il Figlio con i discepoli. Il greco usa il verbo aoristo indicativo passivo, che in italiano corrisponde al passato remoto passivo: «Fu chiamato/invitato anche Gesù». È la prima notizia importante che l’autore vuole comunicarci dall’inizio del vangelo. Qualcuno potrebbe obiettare che anche in Gv 2,1 c’è un aoristo indicativo medio che in italiano si rende sempre con il passato remoto. Anche qui il verbo dovrebbe indicare la linea principale della narrazione: «Nel terzo giorno uno sposalizio avvenne a Cana di Galilea» (Bibbia-Cei 2008: «vi fu»). L’obiettore avrebbe ragione se non fosse per il fatto che il passato remoto di Gv 2,1 non è a inizio di frase, ma in greco è collocato esattamente dopo «sei» parole e quindi perde il valore di narrativo verbo principale, cioè non si colloca nella linea primaria del racconto che avrebbe mantenuto, se fosse stato collocato all’inizio della frase. La notizia dello sposalizio pertanto è di natura secondaria e si pone sullo stesso piano di quella che descrive la presenza della madre per la quale si usa il verbo all’indicativo imperfetto: «C’era là la madre».  
L’importanza della lingua e delle parole
Dal punto di vista linguistico, il passato remoto «avvenne», posto dopo sei parole e l’imperfetto «c’era» hanno lo stesso valore temporale, perché le due notizie hanno lo scopo di preparare l’esplosione del primo verbo principale assoluto che fa entrare solennemente in scena Gesù come agente principale: «eklêthē de kài ho Iēsoûs – fu chiamato poi anche Gesù»: è questa l’affermazione solenne e principale a cui l’autore vuole arrivare. Tutto il capitolo primo è una preparazione per questo ingresso che è l’inizio formale del Nuovo Testamento. Sia l’informazione che a Cana si stava celebrando uno sposalizio sia quella che lì c’era anche la madre servono a circostanziare, a spiegare, a rendere più chiara e anche contrastante la presenza di Gesù: le due notizie sono cioè a servizio dell’irruzione di una presenza che nessuno poteva immaginare.
Poiché questo è un punto importante per capire il racconto di Cana, facciamo un esempio, forse più evidente, tratto dai primi tre versetti della Genesi con cui si apre la Bibbia. Se prendiamo le traduzioni in italiano noi leggiamo così:

«1In principio Dio creò il cielo e la terra. 2La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. 3Dio disse: “Sia la luce!”. E la luce fu» (Gen 1,1-3).
Da questo testo così tradotto, emerge che le informazioni principali sono tre: «Dio creò il cielo e la terra»,  «Dio disse» e «la luce fu»; invece Gen 1,1-2 è solo circostanziale per spiegare le condizioni dell’intervento di Dio perché la vera notizia è «disse Dio». La traduzione ordinaria, anzi banale e letterariamente anche piatta e senza sentimento, travisa il testo ebraico e snatura anche il senso del messaggio teologico, perché l’autore sacerdotale che ci informa sulla creazione, in verità vuole mettere in evidenza e in modo forte e solenne che la creazione avviene attraverso la «Parola» e non con azioni materiali per cui è molto importante che la prima parola narrativa del testo arrivi con Gen 1,3 con l’energico e dirompente: «Disse Dio». Solo in Dio la Parola diventa Fatto e per questo al «disse Dio» corrisponde una esecuzione immediata: «E fu luce». Non è un caso che in ebraico si usa il verbo «’amàr – dire» che nella forma sostantivata «dabàr» significa tanto «detto» quanto «fatto». Per esprimere questa impostazione che solo la linguistica può mettere in evidenza, è necessario, nel rispetto del testo ebraico, tradurre in questo modo:

«1Quando “nel principio del-Dio-creò-il cielo-e-la-terra” 2e la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque, 3disse Dio: “Sia la luce!”. E la luce fu».
Il punto di partenza del racconto è Gen 1,3 e deve essere messo in evidenza perché tutto il resto, cioè le quattro informazioni che formano il contesto dei vv. 1-2, potrebbero non esserci e il racconto filerebbe lo stesso dal punto di vista della narrazione principale.
L’autore del quarto vangelo usa lo stesso sistema: prepara il terreno, narra le circostanze, espone le condizioni, crea il contesto per portarci al momento iniziale che coincide emozionalmente con il primo incontro con la persona del Signore Gesù, sulla cui identità tutto il vangelo si interroga: «Chi è Gesù?». Anticipiamo la risposta: Gesù è lo Sposo dell’alleanza nuova, perché egli giunge a Cana, terra pagana (cf Mt 4,15), per annunciare la nuova alleanza, come Israele giunse nel deserto ai piedi del Sinai per ricevere l’alleanza nelle tavole di pietra. Un grande evento sta avvenendo davanti a noi e noi abbiamo il privilegio di essere protagonisti insieme ai discepoli che sono la sorgente dei nuovi credenti.
Uno schema di linguistica testuale
Se consideriamo il testo greco dal punto di vista della linguistica testuale, cioè della narrazione come l’ha concepita l’autore e delle informazioni che intende darci, ci accorgiamo subito che la presenza della madre è una notizia complementare, secondaria, che serve come informazione di supporto per mettere in evidenza la linea principale del racconto che è scandita dai verbi al passato remoto o dal presente indicativo (spesso usato nel racconto come «presente storico», cioè al posto del passato remoto, come vedremo). Usando però il presente, l’autore rende ciò che comunica immediatamente contemporaneo al lettore che così è più coinvolto anche emotivamente. Se proviamo a sistemare in forma grafica questa struttura teologica, mettendo a sinistra la linea narrativa principale e in rientro, più a destra, le frasi secondarie con un verbo finito, abbiamo il seguente schema:

    1° livello    2° livello    3° livello     
linea principale    linea secondaria    discorso diretto (imperativo)
        «1E nel terzo giorno, quando uno sposalizio             avvenne in Cana della Galilea ed era
        la madre di Gesù là,    
2allora fu chiamato/invitato anche Gesù e i suoi discepoli allo sposalizio.    
Allo stesso modo se usiamo lo schema per l’esempio che abbiamo preso dalla Genesi, vediamo il seguente schema, che è copia perfetta di quella del vangelo:

    1° livello    2° livello    3° livello     
linea principale    linea secondaria    discorso diretto (imperativo)
        «Quando “nel principio del-Dio-creò-il     
        cielo-e-la-terra”, e la terra era informe
        e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso
        e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque,
3disse Dio:         “Sia la luce!”. E fu luce ».    

Se dallo schema di Gv 2,1-2 che abbiamo presentato, togliamo il versetto 1, il senso del racconto scorre pieno perché la notizia che interessa è che Gesù fu invitato. Per capire la portata di questo invito, al lettore si foiscono alcune notizie di corredo che servono ad ambientare l’azione e a metterla in contrasto con le altre due notizie: l’occasione di un matrimonio e la madre di Gesù che era già presente «prima» dell’arrivo di Gesù. Traduciamo il testo come abbiamo fatto per l’esempio della Genesi, al fine di fae capire i problemi di linguistica che ci permettono di cogliee il senso profondo:

«Nel terzo giorno, mentre a Cana di Galilea si celebrava uno sposalizio e c’era la madre sua, fu invitato alle nozze anche Gesù insieme ai suoi discepoli».
Discepoli, non apostoli
Tutti comprendono subito che l’intento dell’autore è mettere in contrasto e stridore le nozze già in corso e la presenza della madre da una parte con l’arrivo e la presenza di Gesù con i suoi discepoli dall’altra. Per la prima volta infatti, dal vangelo di Giovanni, veniamo a sapere che Gesù ha alcuni discepoli perché nel capitolo precedente non è detto da nessuna parte, mentre sappiamo che alcuni discepoli di Giovanni il battezzante vanno da Gesù e s’interessano alla sua vita (cf Gv 1,35-51). È interessante questa osservazione perché l’autore parla di «discepoli – mathētài» e non di «apostoli – apòstoloi», termine che per altro Gv nel vangelo non usa mai tranne una volta (cf Gv 13,16), a differenza degli altri Sinottici, specialmente Luca per il quale invece è un termine abituale (cf Lc 6,13; 9,10; 11,49; 17,5; 22,14; 24,10).
Il vocabolo «discepolo» in tutto il NT ricorre almeno 266 volte di cui 77 volte solo nel vangelo di Giovanni, cioè quasi un terzo. L’uso di questo termine è una spia che l’evangelista si colloca sul versante della storia, perché intende raccontarci non una riflessione, ma un «fatto», perché il termine «apostolo» è di uso postpasquale, mentre il discepolo è una realtà storica molto diffusa al tempo di Gesù, che pullulava di rabbi seguiti da discepoli: il termine «apostolo» pertanto appartiene alla funzione del dopo pasqua che i discepoli riceveranno dal Cristo risorto (cf Brown, Giovanni, 127).
In questo modo è evidente che il personaggio principale è Gesù e che entra per la prima volta in scena con la solennità quasi di un ingresso trionfale. La frase infatti mette bene in evidenza che sposalizio e madre sono momenti di contorno alla figura centrale di Gesù e, come vedremo fra poco, diventa il peo attorno a cui tutto ruota. È questo il punto centrale del racconto: come il Lògos ha fatto irruzione nella Storia, diventando «carne» cioè fragilità e debolezza, così ora Gesù di Nàzaret entra nella storia di Israele alla guida di un popolo rinnovato, simboleggiato dai «discepoli». In questo modo l’autore mette in evidenza per contrasto un altro fatto: la madre era già «nello» sposalizio che appartiene al tempo dell’AT.
L’arrivo di Gesù è uno spartiacque tra un «prima» e un «dopo». Ciò che è «prima» era una preparazione, perché quello che accade «dopo», cioè adesso, è una novità che dà inizio a una svolta irreversibile. La madre vive e agisce «dentro» le antiche nozze perché appartiene all’alleanza sinaitica, simbolo ed emblema di Gerusalemme, «vedova» dello sposo. Nel racconto non si fa alcun accenno a Giuseppe che probabilmente era già morto, per cui la madre è «veramente vedova», senza sposo, in attesa della redenzione del suo popolo.
Gesù è il Messia che entra nelle nozze del popolo d’Israele, le nozze dell’alleanza del Sinai che sono state tradite innumerevoli volte. Egli non appartiene a queste nozze perché «è chiamato/invitato», è solo un ospite che non viene dal passato, ma giunge dal futuro, insieme ai suoi discepoli che assumono la simbologia del nuovo popolo nuziale che si prefigura nei Gentili che lo accoglieranno, a differenza dei «suoi» che lo rifiuteranno (cf Gv 1,11), mentre Gesù viene a portare «una nuova ed eterna alleanza» (Ger 31,31) che non avrà mai fine. La madre rappresenta la sposa/popolo che ha finito il vino del patto e della speranza, vedova e con i figli lontani dal cuore della Toràh, anche se pieni di precetti e di osservanze e rituali. Gesù invece viene da un «altro mondo», il mondo del Padre che lo ha «mandato alle pecore perdute della casa di Israele» (Mt 15,24).
Bisogna stare attenti quando leggiamo la Scrittura perché in essa anche «uno iota» ha 70 significati che non devono essere lasciati cadere nella banalità o peggio nel vuoto (cf Mt 5,18). Per questo è necessario prestare attenzione anche alla collocazione delle singole parole del testo se vogliamo cogliere l’intenzione dell’autore. Quanto abbiamo espresso nello schema non è un capriccio, ma è provato da altri elementi che lo stesso autore ci suggerisce, perché per introdurre Gesù nella scena della storia della nuova alleanza non usa un verbo qualsiasi, ma lo prende in prestito dalla Bibbia greca della LXX, quando presenta Mosè che «il Signore chiamò/convocò» sul monte Sinai e che abbiamo già illustrato nella 7a puntata (MC 9/2009, p. 21) e che riprenderemo in parte per comodità.

Paolo Farinella
 (22 – continua)

Paolo Farinella