Missione e missionarietà in Giovanni Paolo II
«Papa missionario» è il titolo che meglio definisce personalità e ministero di Giovanni Paolo II; se l’è meritato sul campo, con il ricco magistero missionario e innumerevoli viaggi in tutti i continenti per incoraggiare le comunità cattoliche, dialogare con esponenti delle confessioni cristiane e leaders di altre religioni, lanciare sfide contro la violenza e la guerra e invocare la giustizia e la pace tra tutti i popoli.
Piazza San Pietro, 22 ottobre 1978. Gladioli rossi e bianchi circondano l’altare sul quale Giovanni Paolo II celebra la messa inaugurale del suo ministero di Pastore Universale; durante l’omelia, davanti a più di 300 mila partecipanti e a milioni di persone che seguono il rito dalla Tv, il papa fa risuonare forte e incisivo il suo grido missionario: «Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo!». Lo stesso invito accorato, qualche anno dopo, risuona nella sua enciclica missionaria, Redemptoris missio: «Popoli tutti, aprite le porte a Cristo!» (RM 3 e 39).
Dal primo giorno del suo pontificato, quindi, Giovanni Paolo II rivela il suo slancio missionario e traccia anche gli ambiti in cui vuole esercitare il suo ministero di evangelizzazione, invitando ad aprire a Cristo e «alla sua potenza salvatrice i confini degli Stati, i sistemi economici e politici, i vasti campi della cultura, della civiltà e del progresso. Non temete. Cristo sa che cosa c’è nell’uomo. Egli solo lo sa… Vi chiedo, vi prego con umiltà e fiducia, lasciate che Cristo parli all’uomo. Egli solo ha parole di vita, sì, di vita eterna».
Per aprire le porte a Cristo papa Wojtyla ha calzato i sandali di Pietro e si è fatto missionario itinerante, maestro di fede, testimone del Vangelo.
missionario itinerante
Dopo solo tre mesi dall’inizio del suo ministero, eccolo proiettare la sua missione universale ai quattro punti cardinali: verso il Sud del mondo con il viaggio in Messico (25 gennaio – 1° febbraio 1979), verso Est con il trionfale «ritorno in patria» (2-10 giugno), verso il Nord e l’Ovest con la missione congiunta in Irlanda e negli Usa (29 settembre – 8 ottobre). Appena compiuto un anno di pontificato, già inizia il suo primo viaggio ecumenico: in Turchia (28-30 novembre 1979) incontra il presidente del paese musulmano e il patriarca ortodosso Demetrio I, lanciando così i primi approcci al mondo dell’ortodossia e a quello dell’islam, che tanto spazio occuperanno nello sviluppo del suo pontificato.
Sono «viaggi di fede», come spiega ai giornalisti prima di partire per il Messico: «Il papa va in alcune zone del Nuovo Mondo come messaggero del Vangelo per milioni di fratelli e di sorelle che credono in Cristo; li vuole conoscere, abbracciare tutti e dire a tutti – bambini, giovani, uomini, donne, operai, contadini, professionisti – che Dio li ama, che la Chiesa li ama». «Fin dal giorno dell’elezione a vescovo di Roma, il 16 ottobre 1978 – confessa nell’allocuzione per celebrare il centesimo viaggio (13-6-2003) – è risuonato nel mio intimo con particolare intensità e urgenza il comando di Gesù: “Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo a ogni creatura”. Mi sono sentito in dovere di imitare l’apostolo Pietro che “andava a far visita a tutti”, per confermare e consolidare la vitalità della Chiesa nella fedeltà alla Parola e nel servizio della verità; per dire a tutti che Dio li ama, che la Chiesa li ama, che il Papa li ama; e per ricevere, altresì, da essi l’incoraggiamento e l’esempio della loro bontà, della loro fede».
«Il papa non può rimanere prigioniero del Vaticano -confida in uno dei primi viaggi ai giornalisti che lo accompagnano -. Voglio andare da tutti, da tutti coloro che pregano, dove essi pregano, dal beduino nella steppa, dalla carmelitana o dal monaco cistercense nei loro conventi, dal malato al suo letto di sofferenza, dall’uomo attivo nel pieno della sua vita, dagli oppressi, dagli umiliati… dappertutto… vorrei oltrepassare la soglia di tutte le case».
«Già dall’inizio del mio pontificato ho scelto di viaggiare fino agli estremi confini della terra per manifestare la sollecitudine missionaria» scriverà nella sua enciclica missionaria. Il continuo viaggiare, anche quando gli diviene faticoso, è certamente l’aspetto più vistoso e originale del pontificato di Giovanni Paolo II, un pontificato missionario, con forte proiezione planetaria, messianica e apocalittica, come rivela nel suo viaggio in Canada nel 1984. Egli si scaglia con furore profetico contro un mondo segnato dal male, sganciato da Dio, gonfio di presunzione e orgoglio, pieno di adoratori del potere e del denaro. «La spaccatura tra il Vangelo e la cultura è il dramma della nostra epoca» afferma a Winnipeg. A Montreal papa Wojtyla rivela inconsciamente le ragioni del suo pontificato itinerante, identificandosi con la missione di Mosè: «Dio si rivela a Mosè per affidargli una missione. Deve far uscire Israele dalla schiavitù dei faraoni d’Egitto»; anch’egli, sommo pontefice e rappresentante di Dio, deve percorrere in lungo e in largo questa terra, «possesso di Dio» e quindi «terra santa», per richiamarla alla salvezza, per richiamare l’umanità sulle strade del cielo, per traghettare la Chiesa e il mondo in una nuova epoca, nel «nuovo» millennio.
Per rispondere alla sua triplice responsabilità di vescovo di Roma, primate d’Italia e pastore universale, papa Wojtyla si propone di visitare tutte le parrocchie dell’urbe, tutte le diocesi italiane e tutte le nazioni della terra. Scherzosamente afferma che non gli basta essere Pietro, ma vuole essere anche Paolo, l’apostolo delle genti. Concetto ribadito nel 1980 nel suo primo viaggio in Africa: «In Europa c’è chi pensa che il papa non dovrebbe viaggiare, che dovrebbe stare a Roma, come ha sempre fatto. Così leggo sui giornali e ricevo consigli in proposito. Io dico, invece, che è una grazia di Dio essere venuto tra voi, perché posso conoscervi. Diversamente, come potrei capire chi siete e come vivete? Ciò mi conferma nella convinzione che è giunto il tempo in cui i vescovi di Roma, cioè i papi, non debbano considerarsi solamente i successori di Pietro, ma debbano ritenersi anche eredi di Paolo che, come sappiamo bene, non si è mai fermato, che era sempre in viaggio. E ciò che è vero per il papa vale anche per i suoi collaboratori di Roma».
Una chiesa tutta missionaria
Secondo l’impostazione data nella Redemptoris missio, l’evangelizzazione è fondamentalmente sempre la stessa, ma assume accentuazioni diverse a seconda delle situazioni in cui si svolge: si chiama attività pastorale quando si rivolge a comunità cristiane vive e solide; nuova evangelizzazione o rievangelizzazione quando riguarda ambienti di tradizione cristiana scristianizzati; prima evangelizzazione o attività missionaria in senso specifico quella destinata a popoli che ancora ignorano Cristo (cfr RM 33).
Quest’ultima modalità, la missione ad gentes, nel magistero di Giovanni Paolo II riveste caratteristiche di priorità e urgenza. Dopo due mila anni di evangelizzazione, egli lamenta, «la missione ad gentes è ancora agli inizi». C’è bisogno di un colpo di reni. «Gli uomini che attendono Cristo sono ancora in numero immenso: gli spazi umani e culturali, non ancora raggiunti dall’annunzio evangelico o nei quali la chiesa è scarsamente presente, sono tanto ampi da richiedere l’unità di tutte le sue forze… Non possiamo restarcene tranquilli, pensando ai milioni di nostri fratelli e sorelle, anch’essi redenti dal sangue di Cristo, che vivono ignari dell’amore di Dio. Per il singolo credente, come per l’intera chiesa, la causa missionaria deve essere la prima, perché riguarda il destino eterno degli uomini e risponde al disegno misterioso e misericordioso di Dio» (cfr RM 86). Guidando la Chiesa nel terzo millennio, papa Wojtyla vuole che essa sia animata dallo «stesso entusiasmo che fu proprio dei cristiani della prima ora… Il nostro passo, all’inizio di questo nuovo secolo, deve farsi più spedito nel ripercorrere le strade del mondo» (Novo Millennio Ineunte 58).
Egli è convinto che l’attività ad gentes è la cartina al tornasole delle altre due dimensioni missionarie, cura pastorale e nuova evangelizzazione, via obbligata per superare i sintomi di crisi che percorre la Chiesa tutta. «La missione specifica ad gentes sembra in fase di rallentamento… Difficoltà intee ed estee hanno indebolito lo slancio della Chiesa verso i non cristiani… La missione rinnova la Chiesa, rinvigorisce la fede, dà nuovo entusiasmo e nuove motivazioni. La fede si rafforza donandola!» (RM 2). Slogan che è tutto un programma.
Il suo entusiasmo missionario lo trasfonde con foga, quasi gridando, come nella Giornata mondiale della gioventù, a Manila nel 1995: «A ciascuno di voi Cristo dice: “Io mando voi… Vi mando nelle vostre famiglie, nelle vostre parrocchie, nei vostri movimenti e associazioni, nei vostri Paesi, nelle antiche culture e nella civiltà modea, affinché proclamiate la dignità di ogni essere umano, come è stata rivelata da me, il Figlio dell’uomo”» (vedi riquadro pag. 35).
La stessa trasfusione di entusiasmo è destinata alle «giovani chiese», per le quali Giovanni Paolo II scrive: «Siete voi, oggi, la speranza di questa nostra chiesa, che ha duemila anni: essendo giovani nella fede, dovete essere come i primi cristiani e irradiare entusiasmo e coraggio, in generosa dedizione a Dio e al prossimo… E sarete anche fermento di spirito missionario per le chiese più antiche» (RM 91).
Antiche e giovani chiese, in tutti i continenti, devono partecipare alla stessa missione ad gentes, fuori dei propri confini. «La chiesa in America» esorta papa Wojtyla, deve «rimanere aperta alla missione ad gentes… non può limitarsi a rivitalizzare la fede dei credenti abitudinari, ma deve cercare anche di annunciare Cristo negli ambienti nei quali è sconosciuto… estendere lo slancio evangelizzatore oltre le frontiere continentali… Sarebbe un errore non favorire un’attività evangelizzatrice fuori del Continente con il pretesto che c’è ancora molto da fare in America o nell’attesa di giungere prima a una situazione, in fondo utopica, di piena realizzazione della chiesa in America» (Ecclesia in America 74).
La stessa esortazione è rivolta alle giovani chiese nel continente asiatico. «Nel contesto della comunione della Chiesa universale, non posso non invitare la chiesa in Asia a inviare missionari, anche se essa stessa ha bisogno di operai nella vigna. Sono lieto di constatare che sono stati recentemente fondati istituti missionari di vita apostolica in diversi paesi dell’Asia come riconoscimento del carattere missionario della chiesa e della responsabilità delle chiese particolari in Asia di annunciare il Vangelo in tutto il mondo» (Ecclesia in Asia 44).
«Guardare e andare al largo»
A metà degli anni ‘80, Giovanni Paolo II intraprende una serie d’iniziative ispirate, allo scopo di allargare sempre più gli orizzonti della sua missione alle genti, come scrive nell’enciclica Dominum et vivificantem: «Nella prospettiva del terzo millennio, dobbiamo anche guardare più ampiamente e andare al largo, sapendo che il vento soffia dove vuole» (53).
Alcuni gesti sono eclatanti, come la visita alla sinagoga di Roma nell’aprile 1986 e la giornata di preghiera e di digiuno per la pace che si tiene ad Assisi nell’ottobre 1986, con la partecipazione di tutte le principali religioni del mondo. Ricordando quell’evento, 13 anni dopo, ne sottolinea il significato: «Il memorabile incontro ad Assisi, la città di san Francesco, il 27 ottobre 1986, tra la Chiesa cattolica e i rappresentanti delle altre religioni mondiali dimostra che gli uomini e le donne di religione, senza abbandonare le rispettive tradizioni, possono tuttavia impegnarsi nella preghiera e operare per la pace e il bene dell’umanità» (Ecclesia in Asia 31).
«Il dialogo interreligioso fa parte della missione evangelizzatrice della Chiesa» scrive nella Redemptoris missio (55); egli è fermamente convinto che la Chiesa è istituita per stabilire non solo la «comunione tra Dio e l’umanità, ma anche tra tutti gli esseri umani»; essa è chiamata a promuovere l’unità e la concordia tra tutti i popoli e tale «spirito di unità e di comunione» si rafforza con «il dialogo di vita e cuore» con tutte le religioni (Ecclesia in Asia 13.31).
L’invito a guardare lontano e navigare al largo non si limita alle parole, ma è accompagnato da gesti audaci, come l’abbraccio con l’ebraismo culminato nel suo pellegrinaggio in Terra Santa (2000) e la solidarietà con l’«islam autentico», culminata nella visita, per la prima volta, a una moschea a Damasco (2001).
Riportando il suo pellegrinaggio in Terra Santa, un settimanale inglese definisce Giovanni Paolo II «un Papa per tutti i popoli, capace di portare messaggi distinti alla Terra Santa per i suoi inquieti ascoltatori ebrei, musulmani e cristiani e tutti sono stati lieti di ascoltarlo» (The Economist 25/3/2000).
Sulla stessa lunghezza d’onda è il concerto organizzato in Vaticano il 17 gennaio 2004, dedicato alla «Riconciliazione tra ebrei, cristiani e musulmani»; un incontro, come spiega il Papa stesso «per dare concreta espressione a questo impegno di riconciliazione, affidandolo all’universale messaggio della musica… Non possiamo accettare che la terra sia afflitta dall’odio» (Osservatore Romano 18/1/2004).
Una spinta verso il largo è pure l’invito alla purificazione evangelica della memoria che il papa Wojtyla ha rivolto a tutti i cristiani in preparazione del Giubileo del 2000. Il percorso è culminato con il celebre «mea culpa» pronunciato in San Pietro il 12 marzo del 2000, con le 7 richieste di perdono per gli errori compiuti da cristiani e da uomini di chiesa anche rappresentativi, nella persecuzione degli eretici, nei rapporti con gli ebrei, contro la pace e i diritti dei popoli, contro la donna e l’unità del genere umano, contro i diritti fondamentali della persona. È noto come non tutti i suoi collaboratori fossero d’accordo con un simile gesto, quasi che fare atto di pentimento significasse «dare ragione agli avversari della religione». Ma Giovanni Paolo II ha proseguito tenacemente lungo la via imboccata, nella convinzione che la purificazione della memoria è indispensabile per rendere credibile l’annuncio del Vangelo e proseguire il cammino di unità nella Chiesa e di pace tra i popoli.
dialogo ecumenico
L’«andare al largo» comprende naturalmente anche un nuovo slancio ecumenico. Poiché la divisione tra i cristiani è un ostacolo all’evangelizzazione, il dialogo ecumenico «è una sfida e una chiamata alla conversione per tutta la Chiesa» (Ecclesia in Asia 30) e deve caratterizzarsi come «andare insieme verso Cristo… il procedere l’uno verso l’altro e il procedere insieme da cristiani» (RM 55).
Primo sogno ecumenico di papa Wojtyla è la riconciliazione tra la chiesa cattolica e quella ortodossa, che formano «i due polmoni dell’Europa». In occasione delle celebrazioni del millennio del battesimo della Russia (giugno 1988) papa Wojtyla invia come suoi rappresentanti 10 cardinali, insieme a una lettera indirizzata a tutti i cristiani della Russia, che termina con queste parole: «La comunità cattolica, invia alla millenaria chiesa sorella, mediante il vescovo di Roma, il bacio di pace, come manifestazione dell’ardente desiderio di quella perfetta comunione che è voluta da Cristo». Nella stessa occasione, il card. Casaroli realizza un capolavoro diplomatico: prepara la venuta di Gorbaciov a Roma e ottiene dal Cremlino l’invito per il Papa a visitare l’Urss. Paradossalmente la visita di Giovanni Paolo II a Mosca incappa nel veto della «chiesa sorella».
Altro gesto coraggioso, nel 1989, è la sua uscita verso le chiese luterane della Scandinavia. Purtroppo tanto slancio ecumenico non trova rispondenza nei fatti, né a Oriente né a Occidente. Contrariamente alle sue speranze, la caduta del comunismo non facilita l’incontro con le chiese dell’ortodossia; anzi diventa più difficile per la ripresa dei nazionalismi. Altre difficoltà raffreddano il dialogo in Occidente, come l’ordinazione delle donne nelle chiese anglicane.
Sconfitte ecumeniche e ansia apostolica inducono papa Wojtyla a fare passi inauditi, come mettere in questione il primato petrino, pur di raggiungere «la comunione piena e visibile di tutte le comunità»; egli auspica di «trovare una forma di esercizio del primato che, senza danneggiare la sua missione, sia aperta a situazioni nuove», ispirandosi all’unità dei cristiani del primo millennio, che chiedevano l’intervento della «sede romana, qualora fossero sorti fra loro dissensi circa la fede o la disciplina» (cfr Ut unum sint 95).
costruttore di pace
«Giovanni Paolo II: grande apostolo della giustizia e della pace»; la definizione è di Pax Christi Inteational. Nessun papa ha mai predicato la pace con tanta forza né si è opposto alla guerra con inflessibile fermezza come papa Wojtyla. Costruire la pace è una priorità della sua missione e un’urgenza per tutti, non solo per quelli che hanno responsabilità politiche mondiali; per questo egli sprona tutti a compiere «gesti di pace» e ne dà l’esempio, come quando perdona e visita in carcere il suo attentatore, Mahmet Ali Agca.
Magistero dottrinale e azione pratica sono le due dimensioni dei suoi interventi per risolvere i conflitti e promuovere la pace. Il primo aspetto, il magistero del papa, è immenso e multiforme, espresso soprattutto nei 27 messaggi per la Giornata mondiale della pace e negli annuali discorsi al corpo diplomatico presso la Santa Sede. Nei messaggi il papa svolge i grandi temi legati alla costruzione della pace (giustizia, libertà, verità, coscienza, diritti umani, persona, minoranze etniche…); quello del 2002 è «rivoluzionario»: «Non c’è pace senza giustizia; non c’è giustizia senza perdono». Ai due filoni del magistero e interventi diretti, si aggiungono i moniti e appelli alla pace disseminati nelle encicliche e nei discorsi pronunciati durante i suoi viaggi, specie nei luoghi di conflitto, come nel 1979 durante le visita in Irlanda: «Rivolgo un appello ai giovani appartenenti a organizzazioni che fanno ricorso alla violenza. Non ascoltate le voci che parlano la lingua dell’odio, della vendetta, della rappresaglia».
Nell’intero anno 1991 interviene ben 37 volte nella crisi iugoslava, definendo «inutile catastrofe» un eventuale scontro etnico. Il mattino del primo giorno della guerra nel Golfo (17 gennaio 1991) ammonisce: «In queste ore di grandi pericoli, vorrei ripetere con forza che la guerra non può essere un mezzo adeguato per risolvere completamente i problemi esistenti tra le nazioni. Non lo è mai stato e non lo sarà mai». Lo stesso concetto ripeterà ai diplomatici il 13 gennaio 2003, prima della guerra in Iraq: «No alla guerra! La guerra non è sempre inevitabile. È sempre una sconfitta per l’umanità. La guerra non è mai semplicemente un’opzione tra le altre cui far ricorso per risolvere una controversia tra le nazioni». Lo stesso anno, condanna «ogni atto terrorista» in Medio Oriente e afferma con forza che «non di muri ha bisogno la Terra Santa, ma di ponti».
In seguito alle guerre del Golfo e del Kosovo (1991 e 1999) papa Wojtyla matura alcune novità in proposito: egli rafforza la condanna della guerra «totale» (già contenuta nella Gaudium et spes) e la estende alla guerra convenzionale; nella sua dottrina non esiste nessuna «guerra giusta»; parla invece di «ingerenza umanitaria», cioè del dovere della comunità internazionale di fermare le guerre in atto disarmando l’aggressore; ingerenza decisa da «un’autorità superiore» (non da singoli stati), in base a «regole inteazionali certe», «nelle situazioni che compromettono gravemente la sopravvivenza di popoli e interi gruppi etnici» (cfr Messaggio GMP 2000).
Oltre ai gravi focolai di guerra in Terra Santa, Balcani, Africa centrale, Iraq, durante i 27 anni di pontificato di Giovanni Paolo II sono scoppiati una ventina di conflitti preoccupanti nei vari continenti, che noi e altre riviste cattoliche abbiamo presentato come «guerre dimenticate»; dimenticate dall’opinione pubblica, ma non da papa Wojtyla, che ha continuato a proporre a tutti «la civiltà dell’amore» per sconfiggere lo «scontro di civiltà».
gesù cristo al centro
L’asse attorno al quale ruota tutta l’attività e magistero di papa Wojtyla è Gesù Cristo. Egli parla di Lui non in modo distaccato, quasi fosse una dottrina da trasmettere, ma come di una persona viva che egli ha incontrato e di cui si è profondamente innamorato. Come missionario itinerante, egli ama paragonarsi spesso a san Paolo, che diceva: «L’amore di Cristo ci spinge»; non è tanto, spiegano i biblisti, l’amore di Paolo per Cristo, quanto l’amore di Cristo in Paolo a spingerlo. Questo amore è il fuoco, il motore di papa Wojtyla: «L’amore è più forte» grida spesso come un ritornello.
Le sue convinzioni non ammettono dubbi o compromessi: «Cristo è l’unico salvatore di tutti, colui che solo è in grado di rivelare Dio e di condurre a Dio… Per tutti… la salvezza non può venire che da Gesù Cristo… Cristo è l’unico mediatore tra Dio e gli uomini… altre mediazioni partecipate di vario tipo e ordine non sono escluse, esse tuttavia attingono significato e valore unicamente da quella di Cristo e non possono essere intese come parallele e complementari» (RM 5). Da questa convinzione scaturiscono il grido iniziale del suo pontificato («Aprite, spalancate le porte a Cristo!») e i suoi messaggi di fede e gli appelli alla conversione, come quello lanciato a Parigi nel 1980: «Uomini, pentitevi dei vostri peccati e convertitevi a Gesù Cristo». Tali messaggi non sono puramente «spirituali», richiami all’intimismo, ma spinte a trasformare dall’interno persone, famiglie, società, nazioni, per realizzare un modello di sviluppo più umano per tutti.
Nel 1979, il presidente americano Jimmy Carter, ricevendolo alla Casa Bianca, gli dice: «Lei ci ha costretti a riesaminare noi stessi. Ci ha ricordato il valore della vita umana e che la forza spirituale è la risorsa più vitale delle persone e delle nazioni… L’aver cura degli altri ci rende più forti e ci dà coraggio, mentre la cieca corsa dietro fini egoistici, avere di più anziché essere di più, ci lascia vuoti, pessimisti, solitari, timorosi». E l’insospettabile New York Times scrive: «Quest’uomo ha un potere carismatico sconosciuto a tutti gli altri capi del mondo. È come se Cristo fosse tornato fra noi». Non c’è elogio più bello per il successore di Pietro. Tale identificazione con Cristo caratterizza tutto il suo pontificato, fino all’estremo della resistenza fisica, fino all’ultimo respiro.
Negli ultimi anni, la salute del papa Wojtyla registra una lunga serie di sofferenze, non solo per l’avanzare dell’età, ma per una patologia già rilevata nel 1997 come «malattia neurologica, di tipo parkinsoniano», morbo che avanza vistosamente. Spesso i media inquadrano cinicamente insopportabili dettagli: mani tremanti all’elevazione, labbra con un filo di bava, volto contratto. A quanti gli consigliano di ritirarsi, argomentando che la Chiesa ha bisogno di un capo in buona salute, Giovanni Paolo II risponde che è disposto a «servire la Chiesa quanto a lungo Cristo vorrà»; la motivazione è chiara e disarmante: «Gesù è forse sceso dalla croce?».
Benedetto Bellesi
I NUMERI DI UNA MISSIONE:146 visite pastorali in Italia (come vescovo di Roma, 317 visite a 333 parrocchie romane attualmente esistenti)
104 viaggi apostolici in 129 differenti paesi e territori e 620 località diverse
1.247.613 km percorsi in tutto (3,24 volte la distanza tra la terra e la luna)
822 giorni (più di due anni) passati fuori dal Vaticano
20.000 e più discorsi e saluti pronunciati
100 e più documenti principali, di cui: 14 encicliche, 15 esortazioni apostoliche, 11 costituzioni apostoliche e 44 lettere apostoliche
147 cerimonie di beatificazione celebrate, dichiarando 1.338 beati
51 canonizzazioni per un totale di 482 santi
9 concistori con 231 cardinali creati (più uno in pectore, noto solo al papa)
6 riunioni plenarie dei cardinali presiedute
15 assemblee del Sinodo dei vescovi convocate
17,6 milioni di pellegrini incontrati in oltre 1.160 udienze del mercoledì a Roma
8 milioni di pellegrini incontrati nel Giubileo del 2000
737 udienze o incontri con capi di stato
245 udienze e incontri con primi ministri
Wojtyla e i giovani
Tra i vari titoli dati a Giovanni Paolo II vi è pure quello di «papa dei giovani». Fin dal 23 novembre 1978, in una delle sue prime udienze nella Basilica vaticana, egli stabilì un rapporto speciale con i giovani, parlando a braccio: «Quanto chiasso! Mi date la parola? – li rimbrottò scherzosamente -. Quando sento questo chiasso penso a San Pietro che sta qui sotto: mi chiedo se sarà contento; ma penso proprio di sì».
Le immagini più spettacolari del suo pontificato, se non le più belle, vengono dagli incontri con i giovani che hanno ritmato non solo i suoi viaggi inteazionali, ma anche la sua vita in Vaticano, le uscite domenicali nelle parrocchie romane, le visite alle diocesi italiane. «Mi piace sempre incontrare i giovani… i giovani mi ringiovaniscono» confessava sinceramente a Catania nel 1994. E ai parroci romani nel 1995 diceva: «Si deve puntare sui giovani. Io lo penso sempre. A loro appartiene il Terzo Millennio. E il nostro compito è di prepararli a questa prospettiva».
È in tale prospettiva che la domenica delle Palme del 1984 Giovanni Paolo II lanciò la Giornata mondiale della gioventù (Gmg), incontro con cadenza biennale tra il Papa e i giovani cattolici di tutto il mondo; l’iniziativa si rivelò un successo straordinario, oltre ogni aspettativa, fino a raggiungere la cifra record di 4 milioni di persone a Manila, nelle Filippine, nel gennaio 1995.
Se i giovani accorrevano numerosi ed entusiasti, non è certo perché papa Wojtyla li blandisse; egli non ha mai pronunciato discorsi facili, accomodanti. Tutt’altro. Ha proposto loro traguardi alti, comportamenti controcorrente, impegni coraggiosi e militanti, come ai due milioni di giovani della Gmg 2000 a Tor Vergata, Roma: «Voi difenderete la pace, pagando anche di persona se necessario. Voi non vi rassegnerete a un mondo in cui altri esseri umani muoiono di fame, restano analfabeti, mancano di lavoro. Voi difenderete la vita in ogni momento del suo sviluppo terreno, vi sforzerete con ogni vostra energia di rendere questa terra sempre più abitabile per tutti».
In ogni viaggio piazze, stadi, ippodromi… si riempivano di giovani, che lo acclamavano come star, soprattutto quelli ben presto chiamati «Wojtyla boys & girls»; e Lui stava al gioco: un passo di danza accennato a Sidney, l’acclamazione di «campeon del mundo» a Caracas e «atleta di Dio» al velodromo di Parigi; il mondo sud americano, appassionato di calcio, lo proclamava «Goleador de la Iglesia», «Maradona de la fé», «Trotamundo de la paz»; il mondo nordamericano hollyvudianamente lo definiva «Wojtyla superstar», «Wojtyla superman». Indimenticabile è il botta-e-risposta a Manila: «We kiss you», «Anch’io vi bacio, tutti! Niente gelosie!». Così pure gli scherzi intrecciati con i giovani a Trento nel 1995: «Giovani, oggi bagnati; domani, forse raffreddati… chissà se i padri del Concilio di Trento sapevano sciare».
Un amore reciproco coltivato fino all’ultimo respiro. Con ogni probabilità, le ultime parole di Giovanni Paolo II, pronunciate con gran fatica, sono rivolte ai ragazzi che vegliavano in piazza sotto le sue finestre: «Vi ho cercato, adesso voi siete venuti da me e per questo vi ringrazio».
Benedetto Bellesi