110 anni di missione, fedeli cambiando / Africa

Africa

il nostro passato e il nostro futuro

L’ultima immagine del continente africano che ho davanti agli occhi prima di impaginare questo dossier è quella che fa capolino dalle poche righe che padre Willy ci ha inviato dalla Costa d’Avorio: l’immagine di un paese squassato dalla guerra civile, sull’orlo di un conflitto che potrebbe trascendere in una guerra fra etnie con lo spettro di una crisi umanitaria incontrollabile. Ancora una volta il lavoro del missionario è sostanzialmente quello di garantire una presenza di speranza e rifugio per chi scappa e ha dovuto abbandonare ogni cosa. La consolazione si tocca con mano quando ci si trova di fronte a situazioni come questa, in cui ci si chiede perché i padri, i fratelli, le suore scelgono di restare al proprio posto invece di andarsene da una guerra che in molti casi non appartiene loro per una mera ragione anagrafica. Willy è il superiore dei nostri missionari nel paese dell’Africa Occidentale, una delle ultime aperture (1996) dei missionari della Consolata; nato in Congo, guida un gruppo di confratelli provenienti da tre diversi continenti; sa cosa significa essere in guerra perché il suo stesso paese di origine che fa fatica a trovare la pace dai tempi dell’indipendenza.
Anche da quella nazione i nostri missionari hanno storie di sofferenza e di Vangelo da raccontare.
I conflitti in Africa sono all’ordine del giorno e le tensioni che li generano, siano esse di natura politica, economica, religiosa-culturale o tribale (nella maggior parte dei casi queste situazioni coincidono), richiedono un grande dispendio di energie da parte di chi opera come missionario sul territorio. Come dimenticare, del resto, i missionari e le missionarie della Consolata che proprio in Africa, in Kenya, Mozambico e Somalia, hanno dato la loro vita per le persone che il Signore aveva messo sul loro cammino?
Oggi, evangelizzare in Africa significa essere araldi di un messaggio di riconciliazione, che aiuti comunità intere a ritrovarsi, perdonarsi e ricostruire una convivenza distrutta per le ragioni più svariate e continuamente in pericolo.
L’Africa, in tutta la sua complessità, è però anche altro: è novità, innovazione, creatività, sorpresa, potenzialità; lo è per il mondo e, quindi, anche per il nostro Istituto. Analizzando le statistiche che descrivono la nostra geografia vocazionale, viene spontaneo notare come l’Africa rappresenti non soltanto la radice su cui poggia la storia centenaria del nostro Istituto, ma anche la linfa che sta consentendo ai missionari della Consolata di pensare il proprio futuro. Oggi, su poco più di mille missionari professi (contando quindi anche gli studenti in formazione che hanno già superato l’anno di noviziato), più di un terzo è composto da confratelli provenienti da paesi africani. Se si guarda alla carta
di identità, si nota come questa percentuale di
missionari africani abbassi drasticamente la
nostra età media.
Chiaramente questo fattore non riguarda soltanto la missione dell’Istituto in Africa, ma quella in tutti i continenti dove ci troviamo ad annunciare il Vangelo. Da padre Giacomino Camisassa [1892 – 1979], ex-schiavo liberato nel Golfo di Aden e affidato in Kenya ai nostri missionari e primo sacerdote della Consolata africano (ordinato nel 1927), ai giorni nostri la crescita vocazionale di paesi come Kenya, Tanzania e, in parte, Congo, Etiopia e Mozambico ha subito una brusca accelerazione e pone oggi una doppia sfida culturale alla pianificazione del nostro futuro: una sfida ad intra, che tocca l’interno della nostra vita comunitaria ed una ad extra, che si riguarda soprattutto il nostro stile di fare missione.
La «nostra» Africa
Oggi, i missionari della Consolata lavorano in nove paesi africani: Repubblica democratica del Congo, Costa d’Avorio, Etiopia, Gibuti, Kenya, Mozambico, Sud Africa, Tanzania e Uganda; all’interno di essi, operano in una quantità enorme di contesti culturali, linguistici e sociali differenti. Uno degli sforzi che le nostre riviste nel corso degli anni hanno cercato di fare è stato quello di sfatare il più classico dei luoghi comuni: quello di considerare l’Africa come un corpo unico caratterizzato dal fatto che ci vivono persone dalla pelle evidentemente più scura della nostra. Lungi dalle nostre intenzioni, quindi, il voler banalizzare le tante differenze che identificano i vari contesti e offrono un incredibile bacino di ricchezza esistenziale. Vi sono però alcuni fenomeni che interpellano tutta l’Africa e che richiedono a noi missionari soluzioni comuni.
Nati come missionari in contesto prevalentemente rurale (questa era la realtà prevalente nell’Italia in cui siamo nati e nell’Africa a cui siamo stati mandati nel secolo scorso) oggi constatiamo che la missione deve invece spostarsi verso le grandi città, per accompagnare le migrazioni che lì si dirigono. Il fenomeno della desertificazione, l’incremento demografico e la mancanza di sicurezza a causa dei molti micro e macro conflitti che tormentano il continente, rappresentano tre dei motivi principali che spingono masse di persone a rifugiarsi nelle varie periferie metropolitane. Nairobi, Johannesburg, Kinshasa sono tre dei più grandi centri urbani che vedono tentativi di nuove presenze missionarie all’interno delle aree più disagiate. Chiaramente la missione in città richiede un cambiamento di metodo e mentalità; occorrono missionari con preparazione specifica, capaci di fare scelte pastorali adeguate per comunità che normalmente non hanno più nell’identità familiare, culturale e religiosa il loro punto di coesione.
Ma c’è un altro mondo che richiede rinnovamento e impegno nuovo ai missionari. Un tempo l’azione missionaria si identificava soprattutto con la pastorale parrocchiale classica, con il suo immancabile corollario di attività nel campo educativo e sanitario. Oggi questo tipo di impegno non viene sicuramente meno, ma non basta. Emergono nuovi ambiti missionari, come l’animazione missionaria e vocazionale delle giovani chiese locali, l’impegno per la «giustizia, pace ed integrità del creato» (con speciale attenzione alla formazione dei leader comunitari), e l’evangelizzazione attraverso i mezzi di comunicazione sociale (siano essi i classici libri, riviste e radio, che i nuovi media come internet e social networks).
Queste nuove realtà esigono anche un ripensamento della collaborazione con le forze missionarie dei nostri paesi chiamate non solo ad appoggiare finanziariamente, ma anche ad agire con azioni di sensibilizzazione e denuncia di situazioni di grave ingiustizia che non hanno cause e soluzioni solo locali.
Un esempio significativo al riguardo è sicuramente quello inerente al dramma dell’HIV-Aids. Tanti sono gli sforzi per accompagnare le comunità devastate dal virus a livello locale, con programmi di pastorale e di assistenza sociale e medico sanitaria. Ma grande è anche lo sforzo di dare al problema maggior copertura mediatica, di formazione ed informazione per incidere sulla mentalità e la coscienza della gente e stimolare così una buona prevenzione.
Per andare dove?
Infine, un ultimo contesto da tenere in considerazione e su cui molto si giocherà in ambito missionario nel continente africano è quello del dialogo inter-religioso. L’infiltrazione musulmana (in alcune zone paragonabile a un vero e proprio assalto sistematico), la presenza di innumerevoli sette evangeliche, l’arrivo massiccio di comunità asiatiche (come i cinesi) con il loro millenario bagaglio di cultura religiosa… tutto interpella i missionari ad esporsi a questa sfida che presuppone non solo una solida base spirituale ma anche un’apertura nuova all’altro e  una conoscenza profonda delle sue tradizioni religiose.
La missione nel continente sta ripensando se stessa e i nostri missionari stanno, tra mille fatiche, cercando di renderla sempre più viva e attualizzata alle nuove situazioni di cambiamento. Sicuramente il Capitolo generale sarà chiamato a confrontarsi con le attuali presenze, a valutae la rilevanza e lo stile, per verificare se ancora rispondono al nostro carisma ad gentes specifico o se piuttosto potrebbero essere lentamente affidate al clero diocesano o ad altri operatori pastorali. Sono valutazioni difficili, che toccano la vita di persone e comunità e che non possono essere fatte a cuor leggero, senza ben calcolare strategicamente i vantaggi o le complicazioni che ogni scelta comporta. La fattibilità e la sostenibilità dei nuovi progetti sono criteri che vanno tenuti in considerazione se si vuole garantie anche la continuità sul territorio.
è una valutazione che però va fatta, perché un impegno missionario fedele alla sua ragion d’essere deve ribadire, anche nei luoghi dove siamo presenti da più di cent’anni, che alla radice della nostra scelta missionaria c’è la vocazione di dedicarsi soprattutto alla prima evangelizzazione.

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




110 anni di missione, fedeli cambiando / Una storia carismatica

Dal passato al futuro

110 anni di cose che non si possono modificare… «Il mondo sta cambiando e ci dobbiamo adeguare». È questo, in sintesi, il ritornello che anima da tempo i nostri dibattiti sulla missione. Cambiare cosa? Cambiare faccia, pelle, anima? Spirito, strumenti?

Il viaggio intorno al nostro Istituto missionario inizia da un viale alberato alla periferia di Torino. Non è una proiezione sul futuro e neppure una finestra aperta sul mondo; è piuttosto un’immagine che rimanda alle radici, come quelle degli alberi che fanno ombra al passeggiare.
È il viale del tramonto? Per alcuni versi forse lo è,
ma non solo.
Due figure vi camminano lentamente, la prima, più bassa, quasi si appoggia all’altra, alta e slanciata, come a un lungo bastone. Quella piccola parla e l’altra ascolta: un borbottio che non si capisce bene da dove venga e cosa voglia dire, suoni confusi.
Il più piccolo vive ad Alpignano (nella casa dei missionari anziani) da alcuni anni, dopo una vita passata in Colombia e in Ecuador; soprattutto in Ecuador, sulla cordigliera. Il suo passo ha lasciato un’impronta grande, fatta di ricordi, affetti e un ospedale dedicato alla Consolata. Testa dura di sardo Doc, è vissuto e ha lavorato là, spesso da solo, alle prese con una salute sempre più precaria, in una valle all’ombra del Chimborazo, la grande montagna che cresce sulla linea dell’equatore, proprio dove la terra ha la pancia più grande, a contatto con la scontrosità naturale di indios che vivono a tremila metri di altezza, con la pelle rovinata dalla fuliggine di vulcani ancora attivi e da secoli di storia dura, passata a dir di sì a chi sempre trova il modo di essere più furbo.
Quello più alto cammina con lui e ascolta. Nato in Marocco da famiglia bergamasca (scherzi padani che non ti aspetti), quattro calci a un pallone con i giovani dell’Atalanta, missionario in Congo, Spagna e Venezuela, qualche anno di servizio nella Direzione Generale… oggi è superiore ed animatore di quella comunità missionaria “in pensione” (sempre che dalla missione ci si possa mai completamente ritirare), fatta di confratelli anziani, quasi sempre ammalati, che, come il piccolo missionario sardo, hanno bisogno di qualcuno cui appoggiarsi per camminare.
Il futuro di un Istituto missionario si costruisce su immagini come questa, storie di vita vissuta rilette alla luce del nostro presente. Le utopie di cui vogliamo alimentare la nostra missione devono fare i conti con un passato e con delle radici forti, se vogliono raggiungere il regno del reale e non perdersi nell’universo del possibile. L’istantanea dei due missionari è una delle tante che potrebbero descrivere cosa è stata ed è la missione per «quelli della Consolata» da 110 anni a questa parte, da quel 29 gennaio 1901 in cui il beato Giuseppe Allamano diede sfogo all’aspirazione missionaria della chiesa torinese con la fondazione dell’Istituto. Non l’esaurisce certamente, ma ne incastona, come gemme, alcune caratteristiche che da sempre fanno parte del nostro carisma: siamo missionari che hanno la consolazione nel cuore, la portiamo nel nome, ed è come se facesse parte del nostro Dna. Il nostro fondatore non ci volle «allamaniani», ma della Consolata, perché fossimo delle estensioni dell’amore silenzioso, umile ma efficace, di Maria. Ci volle presenti a «fare bene il bene», senza squilli di tromba, per essere Buona Notizia nella vita dei più poveri e sofferenti, di coloro che sono più soli e, soprattutto, di coloro che ancora non conoscono Cristo. «Noi siamo per gli infedeli» dice l’Allamano, con il vocabolario proprio del suo tempo. Siamo per i non cristiani, missionari di prima evangelizzazione.
Con coraggio
Da 110 anni, in quattro continenti diversi, proviamo a vivere così. Lo facciamo tra mille difficoltà e contraddizioni, avvertendo il peso di sentirci come vasi di creta sempre più fragili eppure ancora carichi della responsabilità del tesoro che custodiscono. Cerchiamo di vivere questi valori con spirito di famiglia, una famiglia estesa, culturalmente molto diversificata, ma unita da una parola magica a cui costantemente tentiamo di dare significati nuovi: «carisma». Oggi il nostro Istituto (come molte altre congregazioni religiose) vive una duplice sfida interculturale.
I missionari europei sono anziani e in diminuzione, mentre le forze giovani vengono da altri luoghi, soprattutto dall’Africa (e in modo numericamente più significativo dal Kenya, la nostra prima missione); ci troviamo di fronte a un doppio divario culturale: geografico e generazionale. Come trasformare le differenze in ricchezza? Come riscoprire in un presente così complesso, fluido e variabile le condizioni per continuare a vivere il nostro «carisma» di missionari della Consolata? È questa la sfida più grande e urgente che oggi ci attende.
Il lavoro è molto, sicuramente non facile, ma guai a guardare con rassegnazione e paura a ciò che abbiamo davanti. Siamo in tempi di crisi, ma la crisi è anche la condizione necessaria per nuovi cambiamenti: da sempre la storia dell’uomo è andata avanti così. «Avanti in Domino», verrebbe da dire, usando un’espressione cara al nostro Fondatore: «Avanti nel Signore», perché sua è la missione, suo lo Spirito che la anima.
Oggi le nostre diversità possono rivelare la loro ricchezza, dandoci una marcia in più nel fare quello che abbiamo sempre fatto: andare alle genti più diverse. Un tempo esse erano raggiungibili soltanto a prezzo di lunghi e faticosi viaggi, oggi, invece, sono vicinissime, perché mescolate nello spazio di un solo quartiere, sia esso in una delle nostre città che negli slum delle megalopoli del sud del mondo.
Cosa della storia di ieri dovremmo caricarci sulle spalle per poter essere padroni delle nostre storie di domani? La nostra è una storia segnata dal «carisma della missione». Qualcosa di esso è stato scritto sulla carta, ma molto di più è scolpito nelle esistenze di chi ci ha preceduto o vive al nostro fianco, nelle vite di tanti missionari che ancora credono alla vocazione ricevuta e, seppur nella contingenza dell’umana fragilità, ci provano e vanno avanti… in Domino.
I due missionari stanno finendo la loro passeggiata. Ad Alpignano si mangia presto e bisogna rientrare. Uno parla e l’altro ascolta. C’è missione vissuta anche solo in quel semplice stare insieme a testimoniare il senso profondo della comunione, della gratuità, della consolazione. Sullo sfondo appaiono come in dissolvenza altri paesaggi ed altri volti: storie di missione, anche queste, nascoste nel profondo di una foresta, ai margini di un deserto, nella maleodorante periferia di una metropoli o nel profumo di incenso del Santuario della Consolata da cui siamo partiti.
Storie ad gentes, di ieri, di oggi, di domani.

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




110 anni di missione, fedeli cambiando / Introduzione

Capitolo generale dei missionari della Consolata

Introduzione
Carissimi amici, lettori e benefattori,

mentre vi accingete a sfogliare le pagine di questo dossier, una cinquantina di missionari della Consolata sono riuniti a Roma, presso la Casa Generalizia del nostro Istituto, impegnati a dare vita al Capitolo Generale, il 12° della nostra storia. È questo un tempo speciale, opportuno e necessario, di riflessione intorno alla missione che i missionari della Consolata svolgono in 24 paesi di quattro continenti. Il Capitolo raduna i rappresentanti delle varie circoscrizioni in cui l’Istituto è organizzato per valutare il lavoro fatto nei sei anni appena trascorsi e per programmare il futuro. Verrà anche eletta una nuova Direzione Generale, che avrà l’incarico di guidare l’Istituto e portare a compimento le scelte che il Capitolo farà.
Ecco descritto lo «scenario» e le ragioni di questo dossier; avremmo potuto attendere la fine dei lavori per darvi un’immagine più completa di cosa vorremmo fare della nostra vita nei prossimi anni alla luce del Vangelo… e lo faremo anche a Capitolo concluso, raccontandovi come avremo deciso di rispondere alle novità con cui la missione ci provoca e ci sfida. Abbiamo invece preferito coinvolgervi da subito, perché ci sembra bello che, nel leggere questa carrellata a volo d’uccello su chi siamo e cosa facciamo, possiate pensare a noi, unendovi innanzitutto nella preghiera a Colui che è l’unico e vero protagonista della Missione. Gesù, missionario del Padre, è, attraverso il suo Spirito, il primo agente del lavoro di evangelizzazione di cui noi, seguendo il carisma del nostro Fondatore, il Beato Giuseppe Allamano, siamo gli strumenti.
In queste pagine accenneremo soltanto a chi siamo e da dove veniamo, lasciando che gli articoli si concentrino sul presente e sul futuro di una famiglia di missionari che anche oggi, nel contesto particolare della società in cui è immersa, vuole continuare ad offrire un rinnovato messaggio di speranza e consolazione al mondo, un messaggio non suo, ma ricevuto in dono.
Buona lettura e benvenuti nella nostra missione.

                                                                 Ugo Pozzoli     

Ugo Pozzoli




Cana (23) «Ecco lo sposo»

Il racconto delle nozze di Cana (23)

«Quando Israele era fanciullo, io l’ho amato e dall’Egitto ho chiamato (meta-kalèô) mio figlio»  (Os 11.1)

Gv 2,2: «Fu chiamato/invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli»
(Eklêthē de kài ho Iēsoûs kài hoi mathētài autoû eis ton gàmon)
Parte seconda
Dall’Esodo a Cana, il verbo della vocazione: «kalèô – io chiamo»
Il capitolo 19 dell’Esodo è il capitolo dell’alleanza sul monte Sinai, dopo l’uscita dall’Egitto: è l’atto di nascita di Israele in quanto popolo che Gv 2 commenta con il racconto delle nozze di Cana: questo intendiamo affermare dicendo che le nozze di Cana sono un midràsh di Es 19,1-2a (Alleanza del Sinai) e di Es 7,14-25 (l’acqua del Nilo cambiata in sangue).
In questo contesto si capisce bene che la prima parola portante del racconto di Cana è lo stesso verbo «kalèō – io chiamo/invito/convoco» che mette in relazione due personaggi: Mosè e Gesù. Il primo perché è il mediatore delle nozze tra Dio e Israele ed «è convocato/chiamato» da Dio a salire sul monte, il secondo perché è lo Sposo dell’alleanza nuova che ha il suo «principio» a Cana di Galilea (cf Gv 2,11), dove «è convocato/chiamato/invitato» per «rivelare» il senso della sua presenza non tanto in un fatterello di un villaggio, quanto piuttosto nel cuore della «Storia»: egli è il Lògos divenuto carne (cf Gv 1,14).
Il rapporto tra Mosè e Gesù non è una forzatura perché è lo stesso evangelista che ci obbliga a leggere in questa chiave il racconto, sia perché è il primo verbo principale che scandisce la narrazione di Cana, sia perché troviamo altri riferimenti supplementari che accenniamo soltanto.
a) Vocazione come rivelazione
Il verbo «kalèō – io chiamo/invito/convoco» ha un valore di rivelazione e di investitura (vocazione) e quindi assume un significato specifico teologico, perché in Gv 2,9, quando il capo del cerimoniale (architriclino) deve riprovare lo sposo anonimo per la questione della scelta tra vino buono e vino gramo, «chiama lo sposo», usando non il verbo «kalèō», ma il verbo che si usa ordinariamente per chiamare qualcuno: «phonèō». È lo stesso evangelista, dunque, a distinguere il significato dei due verbi.
Scrive l’esegeta francese, Marc Girard:
«Fermiamoci su un solo dettaglio: il verbo kalein, “chiamare” (v. 2). Di solito gli si attribuisce un significato banale: invito, convocazione. A fronte del vero “terzo giorno”, quello che è simboleggiato in tutto il racconto, c’è molto di più: l’espressione dell’appello fondamentale di Gesù – la sua vocazione –, consacrato sposo con la sua morte e risurrezione, e anche dei discepoli, rappresentanti e immagine della futura Chiesa-sposa» (M. Girard, Cana ou l’«heure» de la vraie noce …, 108).
Il verbo è nella forma passiva e gli studiosi rilevano che nella Bibbia molte forme di questi verbi vengono definiti come «passivi divini» ovvero «passivi teologici», perché esprimono un pensiero che va oltre il significato ordinario. Giovanni e Paolo sono maestri in questo uso. Il soggetto logico (o agente) del verbo passivo «eklêthē – fu chiamato» è Dio per cui non si tratta soltanto di un «invito» a un banale matrimonio, ma della «chiamata» di Dio che convoca Gesù, il Figlio, appositamente per inviarlo a celebrare le nuove nozze con Israele (sull’uso del «passivo divino» cf altri casi in Mt 5,4.6.7.9; 25,29.32; Lc 6,37-38, Rm 6,4; 11,17-24; Col 3,1.3 ecc.).
In base allo schema giovanneo, a cui siamo ormai abituati, dietro ogni parola vi sono di norma due significati: quello ovvio, ordinario, e quello nascosto, più importante. Le nuove nozze s’impongono perché le prime sono fallite sotto il peso del tradimento (cf Os 2,4-23). Infatti, il rapporto tra le due nozze è dato dal confronto tra i personaggi protagonisti dei due eventi, collocati entrambi «nel terzo giorno»: Mosè e Gesù.
Se la dinamica del «terzo giorno» è lecita, e noi crediamo che sia anche logica, allora il confronto tra Mosè e Gesù non solo è lecito, ma è necessario.
Il ruolo che svolge Gesù è simile a quello del responsabile (architriclino) della festa: è lui che procura il vino, è lui che dà ordini ai servi/diaconi, è lui che consente con il suo intervento lo svolgimento delle nozze. Non occorre più un architriclino, perché adesso è lo stesso sposo che prepara le nozze affinché vadano a buon fine. Mosè è chiamato sul Sinai per ritornare al popolo e consegnare le tavole della Toràh, Gesù è chiamato a Cana per «manifestare/rivelare» da sé la «Gloria – Dòxa/Kabòd» di Dio attraverso i suoi «segni» e il suo volto.
b) Il Padre è la sorgente della vocazione
Al Sinai è Dio che convoca (ekàlesen – chiamò: aoristo/passato remoto indicativo attivo del verbo kalèō) Mosè sulla montagna dell’alleanza (Es 19, 3.20); a Cana è Gesù ad essere invitato (eklêthē – fu chiamato: aoristo/passato remoto indicativo, passivo del verbo kalèō) alle nozze.
Il rapporto tra le nozze del Sinai e quelle di Cana è ancora più stringente se si considera anche che dopo avere ricevuto la Toràh, «Mosè scese verso/dal popolo» (Es 19,25; cf anche vv. 10.21.24); allo stesso modo a Cana, dopo il dono dell’abbondanza del vino nuziale del Messia, anche «[Gesù] scese a Cafàao» non più verso il popolo, ma «insieme a sua madre, ai suoi fratelli e ai suoi discepoli» (Gv 2,12). In tutti e due i testi sia per Mosè sia per Gesù troviamo, in greco, lo stesso verbo: «katèbē – discese».
Gesù era arrivato solo «con i suoi discepoli», ora scende dal monte della nuova alleanza con un popolo numeroso: sua madre, i fratelli e i discepoli. Il confronto con Mosè continua ancora, come vedremo a suo tempo. Qui basti per sottolineare da un lato la convergenza tra Mosè e Gesù e dall’altro anche le grandi differenze che si possono sintetizzare in una: Mosè è sempre e solo il grande mediatore delle nozze, «l’amico dello sposo» che sovrintende alla riuscita del patto nuziale (cf Gv 3,29); Gesù è lo Sposo atteso nella notte e desiderato dalla sposa e finalmente giunto (cf Mt 25,6).
«Mosè è chiamato da Dio, che gli affida una promessa e un compito per il popolo. Gesù, il Figlio di Dio, è mandato da Dio e chiamato dagli uomini in mezzo a loro per adempiere e rivelare tra di loro la promessa e il compito che Dio gli ha affidato… L’arrivo a questo matrimonio non potrebbe essere segno di un nuovo matrimonio, fondato sulla rivelazione della gloria di Gesù e sulla fede obbediente dei suoi discepoli, un nuovo Sinai, il momento della nascita della Chiesa di Gesù Cristo?» (B. Dolna, Le nozze di Cana, 48.49).
c) La vocazione come «progetto di catechesi»
Il primo verbo del racconto sulla linea narrativa, cioè il verbo più importante, lo abbiamo già detto diverse volte, è il verbo «fu chiamato» che è lo stesso di Mosè «chiamato» sul monte Sinai. Il penultimo verbo, sempre sulla linea narrativa, del brano delle nozze di Cana è il verbo «katèbē – discese» (cf Gv 2,12). Abbiamo quindi lo schema: «Fu chiamato – discese / eklêthē – katèbē» corrispondente allo schema identico che descrive la consegna della Toràh a Mosè secondo il binomio «Salì – discese / anèbē – katèbē» (cf Es 19,3.20.25).
Gesù non sale a Cana, ma discende a Cafàao, la città immersa nella «Galilea delle genti» (Mt 4,15). Questi movimenti fanno vedere la natura intrinseca della Parola di Dio, che non è solo una relazione di fatti, ma una chiave di comprensione del senso degli stessi fatti.
In Esodo, «Mosè salì (gr.: anèbē) verso Dio e il Signore lo chiamò (ekàlesen) dal monte» (Es 19,3); a Cana Gesù non deve salire «verso Dio» perché egli è il Lògos che «in principio era presso Dio e il Lògos era Dio» (Gv 1,1).
Ricevuta la missione sul monte Sinai, «Mosè scese – katèbē verso il popolo» (Es 19,25); a Cana, Gesù «sta» in mezzo al popolo e «scese – katèbē» a Cafàao per allargare l’orizzonte dell’alleanza del Sinai.
Sul monte dell’esodo, Mosè è in relazione esclusivamente con il popolo di Israele, il solo eletto per ricevere la Toràh come distintivo della propria identità: nessun altro popolo è presente. A Cana Gesù scende in una città che appartiene ad un territorio che è considerato alla stessa stregua di un territorio pagano, cioè impuro.
Il Sinai è per Israele, Cana è il monte del mondo, perché Gesù «scese» nel cuore dell’impurità per incontrare gli uomini direttamente.
Sul Sinai Mosè «sale e scende» come mediatore tra Dio e il popolo che resta al di fuori del recinto (cf Es 19,21.23); a Cana Gesù «prende in mano» le nozze e le porta a compimento e quando scende non porta le tavole di una legge di pietra, ma compie due fatti: «manifesta» la sua «gloria» ai discepoli, che così diventano testimoni ufficiali della vita del nuovo rabbi Joshuà, e contemporaneamente «consegna» se stesso all’umanità in attesa e ignara in una terra laica, quasi estranea alla religione ufficiale.
La chiamata di Dio a cui Gesù ubbidisce non è nuova nella sua vita, perché egli è intriso della volontà del Padre, di cui ha fatto la struttura portante della sua vita. Come Isacco, secondo la tradizione giudaica, incita il padre Abramo ad ucciderlo per ubbidire al volere di Dio, così Gesù fa dell’obbedienza al Padre la sua pietra angolare, l’asse portante della sua vita: «Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera» (Gv 4,34; 5,30; 6,38); «Non sia fatta la mia, ma la tua volontà» (Lc 22,42; Mt 26,42). Gesù non comunica parole sue, ma quelle del Padre (cf Gv 7,16; 8,26.40; 17,8.14); allo stesso modo le opere che egli compie sono quelle che gli ha affidato il Padre (cf Gv 5,17; 8,28; 10,25.37; 14,10; 17,4).
Ciò non vuol dire che Gesù si trova il progetto della sua vita impacchettato con fiocco, quasi che la sua venuta sia solo un adempiere passivamente la missione ricevuta; al contrario, egli, come chiunque altro vivente che vuole essere in comunione con Dio, deve «cercare» la sua volontà negli avvenimenti della sua vita e nelle persone che incontra, altrimenti non potrebbe crescere «in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,52; cf 2,40), non sarebbe un vero uomo, ma un Dio che finge di fare l’uomo.
È questo il motivo per cui Gesù, specialmente in Lc, a ogni tornante importante della sua vita sta sempre in preghiera (cf Lc 3,21; 5,16; 6,12; 9,18.29; 11,1; 22,41.44; cf Mt 26,36). Egli prega per illimpidirsi lo sguardo del cuore e per capire gli eventi della storia come luoghi dell’incontro con il disegno del Padre.
Gesù corrisponde alla vocazione della sua chiamata cercando il senso della sua vita che il Padre gli ha affidato, ma che lui deve scoprire come ogni altro essere umano nella ricerca, con fatica e spesso anche nel dubbio.
È qui la grandezza della incarnazione che fa di Gesù l’uomo per eccellenza, perché Figlio di Dio. È profeta Pilato nel presentarlo al popolo nella pienezza della sua umanità: «Ecco l’uomo» (Gv 19,5).
Gv non usa il verbo «salire», ma «chiamare/invitare» per sottolineare, oltre alla somiglianza, anche la differenza, pur nel loro reciproco influsso, tra Gesù e Mosè: c’è il paragone, ma anche la «singolarità» di Gesù, che non ha bisogno di «salire» perché già «è disceso» per restare fino alla fine del mondo: «Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo» confida Gesù a Nicodemo nell’incontro notturno (Gv 3,13), perché la logica della «kenòsi – svuotamento/abbassamento» (cf Fil 2,7) esige un «discendere dal cielo» permanente, definitivo: «Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato» (Gv 6,38.41.42.51.58).
Se però in Gv 2,12 Gesù «scese a Cafàao», vuol dire che egli procede dall’alto verso il basso, da Cana a Cafàao per cui l’evangelista considera il villaggio come l’equivalente del monte Sinai, anche per via, come abbiamo già visto, del nome di «Cana» che significa «egli si è acquistato». Al Sinai Dio «si è acquistato un popolo», come cantano Mosè e gli Israeliti (cf Es 15,1.6), a Cana il Padre «acquista» il popolo del Regno nella persona del Signore Gesù che è la nuova Toràh dell’alleanza eterna (Per approfondire il tema della vocazione alla luce delle nozze di Cana e degli altri passi del vangelo [Gesù al tempio in Lc 2; il discorso della montagna in Mt 5, la scelta dei Dodici in Lc 6 e la trasfigurazione sul monte in Mc 9], cf A. Serra, Le nozze di Cana, 208-214).
Oltre Cana: le nozze paradigma della storia
Concludiamo l’esame di Gv 2,2 affermando con certezza che non è lo sposalizio di Cana l’evento di cui si vuole parlare, ma l’annuncio dell’autore che inizia una èra nuova sotto il segno e il sigillo delle «nozze» come  ripresa del tema e dell’esperienza dell’Esodo: come Israele si legò a Dio con un patto nuziale che nulla, nemmeno i tradimenti successivi, avrebbe potuto intaccare, allo stesso modo, «quando giunse la pienezza del “kairòs”» (Gal 4,4), cioè il tempo del Messia, non c’è più bisogno di un intermediario sponsale perché lo Sposo è presente direttamente, di persona per rinnovare le nozze con la Sposa/Israele – Chiesa. Israele infatti resta sempre Israele, ma ora include anche la Chiesa che si apre ai Gentili. La differenza tra l’alleanza del Sinai e quella che inizia a Cana sta in questo: al Sinai si tratta di una alleanza esclusiva con Israele, successivamente inviato ai popoli della terra; a Cana invece, che è già nella «Galilea delle Genti» (Mt 4,15), le nozze di Dio avvengono direttamente con Israele e con i Gentili: «Questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno» (Gv 6,39).
A Cana si compie il desiderio e l’anelito della sposa del Cantico: «Il mio amato è mio e io sono sua» (Ct 2,16), che secondo il Targum a Ct 2,8 è anche l’anelito di Dio che sospira di vedere il volto della sposa orante, presente/chiamata nell’assemblea: «Fammi vedere il tuo volto, fammi sentire la tua voce nella santa Assemblea». Dio non può fare a meno di «vedere e sentire/contemplare e ascoltare» la sposa che «si è acquistato» al Sinai e a Cana nelle nozze dell’alleanza.
In questo contesto, la preghiera non è solo un elevare l’anima a Dio, ma una vera e propria «vocazione» per rispondere al bisogno di Dio di vedere il volto e ascoltare la voce di Israele/Chiesa che si raduna perché Dio possa compiere il suo anelito sponsale.
Quanto deve cambiare la nostra preghiera, confinata e limitata alla lode, alla domanda e al perdono! La Bibbia e la tradizione giudaica ci aprono invece alla preghiera come «vocazione» per consentire a Dio di esercitare il suo diritto di Sposo. Questa visione attraversa tutta la salvezza che cammina nella storia e si proietta nel futuro messianico, quando, al compimento del pellegrinaggio terreno, compiute le nozze e bevuto il vino del Messia, «lo Spirito e la sposa dicono: “Vieni! … Sì, vengo presto! … Vieni Signore Gesù – Maranà thà”» (Ap 22,17.20; 1Cor 16,22).

Paolo Farinella
(23 – continua)

Paolo Farinella




I «lunghi capelli» della democrazia

Reportage / Il «miracolo» di Hong Kong

I «megagrattacieli», la borsa valori, le luci perenni non debbono ingannare. La ex colonia inglese tornata alla Cina popolare sotto lo slogan «un Paese, due sistemi» non è quello che appare. Incontro con Leung Kwok-hung, detto «Lunghi Capelli», rappresentante politico della metropoli e colorito oppositore di Pechino.

Hong Kong. Mentre la Cina celebrava, con il consueto sfarzo e un sempre presente nazionalismo, la sua festa nazionale per i sessantuno anni della Repubblica Popolare, lo scorso ottobre a Hong Kong un manipolo di attivisti manifestava di fronte ad una stazione di polizia contro l’arresto di alcune persone che, nel giugno 2010, avevano celebrato i ventuno anni dal massacro di Tiananmen. A guidarli c’era Leung Kwok-hung, un personaggio celebre a Hong Kong, autoproclamatosi Lunghi Capelli («non me li taglierò finché da queste parti non ci sarà una vera democrazia»), da tempo impegnato in un continuo confronto con il gigante asiatico. Non c’era tanta gente al presidio, ma un discreto schieramento di forze dell’ordine, vagamente preoccupate dalla presenza di uno straniero, tanto più se armato di macchina fotografica. Leung si è avvicinato a loro e dopo un rapido conciliabolo, la normalità è stata ristabilita. Toando sui suoi passi, ha offerto sigarette ai manifestanti, con il sorriso tra le labbra e l’aria di chi sembra sempre avere tutto sotto controllo. Il suo lavoro di una vita, una tela di relazioni politiche costanti, ha fatto diventare Leung un personaggio noto. Pur rimanendo un ottimista, a Lunghi Capelli non manca il cinismo: «Hong Kong è un miraggio», mi ripeterà più volte durante la giornata trascorsa insieme.
La Cina lo deve sopportare perfino in visite ufficiali, perché Lunghi Capelli, anima della politica locale, è da tempo passato dal movimento alle tribune del Consiglio legislativo di Hong Kong, dopo un’elezione che ha fatto scuola: «A parte le occasioni date dalle visite ufficiali, io non posso mettere piede in Cina. Sono stato interdetto».  
Eletto nel 2004 con circa 61 mila voti, è divenuto celebre tempo fa in Occidente per le sue numerose battaglie democratiche, sempre accompagnato dalla immancabile maglietta di Che Guevara («Ne ho più di quaranta», precisa). È lui una delle anime più importanti del movimento che a Hong Kong ricorda il giugno 1989, la rivolta di Piazza Tiananmen. Qualche tempo fa di Lunghi Capelli ha fatto un ritratto politico e umano struggente Yu Jie, scrittore cinese recentemente messo ai domiciliari – come il Premio Nobel Liu Xiaobo -, per avere pubblicato proprio a Hong Kong un libro molto critico verso il premier cinese Wen Jiabao.

LA «CASINO ECONOMY»
Incontro Lunghi Capelli in una calda mattinata di Hong Kong, dopo un numero esagerato di telefonate per trovarci nel posto giusto, come fosse impossibile riuscire a trovarlo in un luogo per più di cinque minuti. Lunghi Capelli è ipercinetico e presume che la conoscenza di uno straniero di Hong Kong sia la stessa che ha un locale. Finalmente concordiamo un punto comune, accanto a un Inteet Point (con bibita gratis, schermo gigante, pulitissimo a circa 10 centesimi di euro all’ora).
Arriva a bordo di un minivan con foto del Che e la scritta Power to People. Mi carica rapidamente, neanche avessimo gli scagnozzi di qualche Hong Kong movie alle spalle e ci dirigiamo all’università, dove Lunghi Capelli è invitato a tenere un seminario alla facoltà di giurisprudenza. Oggetto: l’economia cinese e quella di Hong Kong, un modello che Leung chiama la casino economy: «Si basa su speculazioni e scommesse finanziarie, ma la differenza tra chi possiede molto e chi niente, non farà che creare gravi conseguenze alla Cina».
Poi andiamo nel suo ufficio nei palazzi governativi di Hong Kong, dove entra tra i saluti e gli abbracci di ogni addetto all’interno del mega insediamento di Ice House Road, cuore della city di Hong Kong.

VERRÀ IL TEMPO (ANCHE IN CINA)
Leung si definisce socialista e costituisce una novità politica nella palude di Hong Kong, perché rappresenta una sorta di anti politica, concepita come movimento delle persone, contro il potere dei partiti (qualcosa di avvicinabile al grillismo italiano, benché con altro retroterra storico e culturale). Da quando è stato eletto versa 4mila euro circa del suo compenso nelle casse di diverse organizzazioni della società civile di Hong Kong, dopo essee stato per molto tempo un loro rappresentante, sempre presente e molto acclamato dai media: «La politica è fatta dalla gente e io sono ottimista circa il futuro. D’altronde anche prima del crollo dell’Unione Sovietica nessuno credeva a quella possibilità. La Cina in questo momento appare molto forte, ma le disuguaglianze e la mancanza dei diritti prima o poi creeranno dei problemi alle autorità. Non è questione di leader. Io sono semplicemente uno che aiuta la gente a dire “basta”, perché alla fine a muoversi sono le persone, quando capiscono che si è arrivati ad un livello limite di sopportazione. Per questo sono ottimista».
Chiacchierare con Leung – completamente ispirato dal Novecento – è un continuo rimando al passato, anche europeo, con un occhio di riguardo alla storia cinese. «Mao era uno che quando aveva freddo si metteva il cappotto del comunismo, ma in realtà il suo modello restava quello confuciano», precisa. Spiegando poi il suo personale approccio alla politica cinese: «Ci sono stati i recenti scioperi in Cina che mostrano una situazione che potrebbe diventare più calda, nonostante la potenza esibita da Pechino. Io credo che la gente, quando il regime autoritario non sarà in grado di farla mangiare quotidianamente, si ribellerà».
Saliamo ancora sul minibus, di fretta, verso la stazione di polizia di Quarry Bay, dove finiscono tutti gli attivisti che hanno problemi con la giustizia della città: «In teoria la polizia di Hong Kong non ha grossi problemi con noi, ma le pressioni cinesi ormai si fanno sentire».
Dopo la dimostrazione finiamo in un piccolo ristorante di quella zona, prima popolare e abitata da operai, ora finita nel progetto di costruzione di una nuova sfavillante parte della città finanziaria. Mentre mangiamo noodles e tofu, gli chiedo come ci si senta a combattere un governo, nominalmente socialista, con la maglia di Che Guevara: «È molto semplice in realtà, specie se ritieni che la Cina non sia comunista. Il Che non sarebbe sopravvissuto in Cina». Hong Kong e Cina: impossibile uscire dal dualismo, come se per spiegare uno dei due fattori, fosse obbligatorio parlare dell’altro.
Che sentimento, che aria si respira ad Hong Kong rispetto alla Cina? «Frustrazione, in primo luogo. Combattiamo contro un gigante, con ben poche possibilità di vincere, ma almeno noi dobbiamo resistere. È difficile. La forza economica della Cina ha scelto Hong Kong come centro finanziario. Quindi tutte le persone che hanno legami con il Partito a Hong Kong ormai fanno valanghe di soldi. Questo crea molta confusione, perché la gente vede questi fenomeni e pensa che la Cina gioverà a Hong Kong. È pur vero che noi, per molto tempo, non abbiamo avuto uno straccio di società civile, ma piano piano qualcosa sta nascendo. In Europa c’è voluto molto tempo prima di affermare alcuni diritti, anche in Cina, più conservatrice e tradizionalista, saranno necessari molti anni. Ma i cambiamenti arriveranno, ne sono certo».
E Hong Kong in tutto questo? «Qui dopo il passaggio cinese al capitalismo ormai la gente non ha più un senso politico. Il socialismo viene visto come il demonio, c’è una grande confusione. Il problema vero è che sono trent’anni che manca completamente una discussione critica e politica».

HONG KONG NON ESISTE
Mentre usciamo dal ristorante, di fronte ai megagrattacieli di questa ex area operaia, Leung mi indica con il dito il centro di Hong Kong, da cui siamo partiti in mattinata: «Hong Kong non esiste – spiega -, è un miraggio: la maggioranza delle persone può solo guardare le vetrine splendenti, senza comprare nulla. Per questo prima o poi le cose cambieranno».

Simone Pieranni

ALCUNE DATE
1842 Hong Kong viene ceduta dalla Cina alla Gran Bretagna, dopo la prima guerra dell’oppio.
1941 – Viene occupata dai giapponesi fino al 1946, quando viene liberata dalle truppe inglesi.
Anni ’70 Dopo la seconda guerra mondiale comincia una crescita economica che porterà Hong Kong ad essere considerata la prima tra le «tigri asiatiche».
1997-2046 Nel 1984 viene deciso il passaggio alla Cina, attraverso un accordo tra quest’ultima e la Gran Bretagna, formalizzato ufficialmente nel 1997. Nasce la politica di «un paese due sistemi» come cardine politico della Regione amministrativa speciale di Hong Kong, in attesa del passaggio totale alla Cina, che avverrà solo nel 2046.

LA PRESENZA RELIGIOSA

La libertà religiosa è uno dei diritti fondamentali garantiti dalla Basic Law di Hong Kong. Nella regione amministrativa autonoma sono presenti credenti di molte correnti religiose, orientali e occidentali, tra buddisti, induisti, confuciani, taoisti, cristiani e musulmani. I cattolici sono circa 350 mila, con 291 sacerdoti, 41 chiese e 30 cappelle che permettono di celebrare messe sia in lingua cantonese, sia in inglese. Ci sono anche 283 scuole e asili cattolici, con circa 220 mila studenti. Non mancano i servizi sanitari: 12 ospedali, 39 centri per famiglie, 18 ostelli, 13 case per anziani, 20 centri di riabilitazione. La Caritas è una delle principali associazioni di aiuto della Chiesa di Hong Kong, strettamente in contatto con Roma e gli altri centri religiosi asiatici.

UN PARADISO… FISCALE
Con circa 7 milioni di abitanti, Hong Kong da un’economia basata sulle esportazioni di beni legati all’elettronica e all’industria dell’abbigliamento, è diventata ormai un centro finanziario, sede di attività di multinazionali e banche. È considerato un paradiso fiscale. Hong Kong politicamente è governata dalla «Basic Law», la costituzione locale. Il potere esecutivo è nelle mani del primo ministro e il Consiglio Esecutivo, mentre le leggi sono approvate dal Consiglio Legislativo, metà del quale è eletto a suffragio universale, mentre l’altra metà è nominato dalle «functional costituencies», le corporazioni professionali che il governo cinese ha deciso di non abolire perché favorevoli alla sua politica.

Simone Pieranni




Sotto una montagna di tecnorifiuti

LA INARRESTABILE CRESCITA DEI «RIFIUTI ELETTRONICI»

Cellulari, computer, macchine fotografiche, televisori diventano obsoleti sempre più rapidamente. Non c’è dunque da stupirsi se ogni persona produce in media 14 chilogrammi di rifiuti elettronici all’anno. Sono rifiuti riciclabili ma, contenendo varie sostanze tossiche, è costoso trattarli in maniera adeguata. Ecco perché si è individuata una soluzione più semplice:
esportarli nel Sud del mondo…


Quasi quotidianamente la nostra cassetta delle lettere contiene materiale pubblicitario di qualche grande catena di distribuzione di prodotti elettronici e di elettrodomestici. Nei depliant vengono magnificate le qualità delle ultime novità tecnologiche, magari con l’immagine di un simpatico robottino, che da un altoparlante dice «fuoritutto», per farci capire che questo è il momento giusto per acquistare il nuovo computer, il cellulare di ultima generazione, che fa tutto, ma proprio tutto, il televisore ultrapiatto che, appeso ad una parete, potrebbe essere scambiato per un quadro. Un’occhiata a volantini di questo genere ed ecco che, in molti, si scatena l’irrefrenabile desiderio di passare al nuovo e così il computer utilizzato fino al giorno prima, il cellulare, la macchina fotografica dalle modeste prestazioni, anche se ancora perfettamente funzionanti, vengono sostituiti. Ma tutto questo «vecchio» materiale elettronico dove va a finire? E quanto se ne produce?

AUMENTANO LE VENDITE,
SI RIDUCE LA VITA MEDIA

Secondo il rapporto dell’Unep (il programma dell’Onu per l’ambiente), presentato a Bali il 22 febbraio 2010, dal titolo Recycling from E-Waste to Resources, ogni anno si accumulano sulla Terra circa 40 milioni di tonnellate di rifiuti hi-tech (più del 5% dei rifiuti solidi urbani generati nell’intero pianeta), 3 milioni dei quali prodotti negli Stati Uniti d’America e 2,3 milioni prodotti in Cina (di cui 1,3 milioni, in questo Paese, è rappresentato da vecchi televisori e 300.000 computer usati). E questi valori sono destinati ad aumentare. Secondo uno studio condotto dall’American Chemical Society, nel 2016 i Paesi in via di sviluppo arriveranno a produrre il doppio dei rifiuti elettronici (definiti anche e-waste, oppure Raee, cioè rifiuti delle apparecchiature elettriche ed elettroniche), rispetto ai Paesi sviluppati. C’è infatti un vertiginoso aumento del numero di persone in possesso di un pc o di altri dispositivi elettronici sia nei Paesi sviluppati, che in quelli in via di sviluppo. Peraltro i progressi tecnologici stanno riducendo moltissimo la durata dei prodotti elettronici di consumo, in modo che la gente ritenga obsoleti pc ed altre apparecchiature già dopo qualche mese dall’acquisto e li scarti, per dotarsi delle ultime novità. Del resto, secondo la legge di Moore, dal nome di uno dei cofondatori dell’Intel, ogni 2 anni la capacità di calcolo dei processori raddoppia. Gli sviluppatori di software si adeguano e così il computer acquistato oggi, domani sarà vecchio e dopodomani pronto per la discarica. Si è passati da 183 milioni di nuovi computer immessi sul mercato nel 2004 a 352 milioni nel 2010, mentre si stimano 409 milioni di computer venduti nel 2011. Ultimamente c’è stata una lieve flessione nelle vendite dei computer, ma solo perché talvolta, al loro posto, vengono preferiti i tablet di nuovissima generazione. La vita media dei pc è passata da 6 anni nel 1997 a 2 anni nel 2005 e si stima che sarà di un anno soltanto nel 2014. Per i telefoni cellulari va anche peggio. Nel 2004 ne sono stati venduti 674 milioni in tutto il mondo, nel 2010 si è arrivati ad 1,4 miliardi, un cellulare ogni 5 persone, con un aumento del 16-18% rispetto all’anno precedente ed una vita media per cellulare di 4 mesi. Questo fa sì che in ogni famiglia restino abbandonati nei cassetti da 2 a 4 cellulari. Che fine fanno i prodotti tecnologici scartati?

CHI RECUPERA
GLI SCARTI ELETTRONICI

Attualmente si raccolgono in modo differenziato meno di 2 chilogrammi di Raee pro-capite all’anno in Italia, contro i 5 chilogrammi della media europea ed una produzione di rifiuti elettronici di circa 14 chilogrammi per abitante. Greenpeace ha stimato che il 75% dei rifiuti elettronici europei e l’80-90% di quelli statunitensi non venga riciclato in loco, ma segua flussi nascosti, eludendo il controllo delle autorità competenti, per poi riapparire come d’incanto in discariche incontrollate in Africa, Ghana in primis, in Cina, India, Pakistan, Filippine, spesso persino con il pretesto delle donazioni caritatevoli.  A livello internazionale sono Cina, India e Pakistan, che ricevono la maggior parte dell’e-waste  prodotto nel mondo. Nelle discariche finisce per lavorarci la gente disperata, soprattutto bambini, a mani nude e senza alcuna precauzione, che recupera principalmente l’alluminio ed i cavi di rame dagli scarti elettronici, dopo avere bruciato questi ultimi oppure avere utilizzato degli acidi, per eliminare le parti in plastica. Dai roghi vengono esalate grandi quantità di piombo e di mercurio, che entrano nella catena alimentare. I cocktail di veleni a cui vengono continuamente esposti i ragazzi, che svolgono questo lavoro determinano spesso la loro prematura scomparsa; molti di loro non riescono infatti a superare i 25 anni d’età. Tra le sostanze tossiche presenti negli scarti tecnologici ci sono, oltre al piombo e al mercurio, il cadmio, l’antimonio, i ritardanti di fiamma bromurati.
Il piombo, presente nelle batterie e nei tubi catodici dei pc causa danni al sistema nervoso, al sistema circolatorio ed a quello riproduttivo. Il cadmio, contenuto nei semiconduttori e nei tubi elettronici di vecchio tipo, provoca danni irreversibili ai reni ed al sistema scheletrico. Il mercurio degli interruttori è alla base di danni ingenti al cervello, in particolare al sistema visivo, al cornordinamento motorio ed al bilanciamento. L’antimonio, che viene usato come agente antifiamma e per produrre un’ampia gamma di leghe metalliche, agisce come l’arsenico, cioè a piccole dosi provoca mal di testa, confusione e depressione, mentre elevati dosaggi determinano violenti e frequenti attacchi di vomito e portano alla morte in pochi giorni. I ritardanti di fiamma bromurati, usati nei rivestimenti plastici e nei circuiti elettrici, oltre a gravi danni ambientali permanenti, provocano danni alla tiroide ed interferiscono con lo sviluppo fetale. I roghi inoltre generano ingenti quantità di diossine, furani, policlorobifenili, cioè sostanze altamente cancerogene.

IL CASO DEL GHANA

È emblematico il caso della discarica di Accra, la capitale del Ghana, dove vivono e lavorano al recupero degli scarti elettronici circa 4.000 persone, prevalentemente bambini e ragazzi provenienti dal nord del paese, una regione particolarmente povera. La discarica è situata vicino al mercato alimentare di Agbogbloshie e viene definita «Sodoma e Gomorra» dagli abitanti.
I container che arrivano dalla Germania sono misti, cioè contengono sempre computer funzionanti, altri da riparare ed il 30% da buttare, che viene dato ai ragazzi di Agbogbloshie. I container inglesi contengono invece molta più spazzatura elettronica. Il tutto in barba alla Convenzione di Basilea, un trattato internazionale del 1989, che vieta al Primo mondo di scaricare i propri rifiuti elettronici nel Terzo, senza autorizzazione (possono essere esportati i computer funzionanti, non i rifiuti. Ma come vanno considerati i pc guasti, però riparabili facilmente e quelli obsoleti, su cui non gira più alcun programma? Nel dubbio i giudici decidono a favore degli esportatori). Questo trattato è stato approvato da 172 Paesi, ma 3 dei firmatari – Afghanistan, Haiti e Stati Uniti – non l’hanno mai ratificato, mentre Canada e Nuova Zelanda hanno rifiutato di firmare l’accordo.
Dopo la Convenzione di Basilea, l’Unione Europea ha varato due direttive: la 2002/95/EC denominata Restriction of hazardous substances (Rohs) e la 2002/96/EC, detta Waste electrical and electronics equipment (Weee). La prima direttiva impone restrizioni sull’uso di sostanze pericolose nella costruzione dei vari dispositivi elettrici ed elettronici, mentre la seconda regolamenta l’accumulo, il riciclaggio ed il recupero di tali dispositivi.
Trattare un pc secondo gli standard previsti dalla normativa europea Weee è un’operazione poco remunerativa, quindi buona parte dei rifiuti elettronici viene esportata verso i Paesi del Sud del mondo, dove spesso i protocolli di sicurezza sono inferiori e le normative a tutela dei lavoratori sono inadeguate o assenti. Smaltire in Germania un vecchio monitor a tubo catodico costa 3,5 euro, mentre portarlo in Ghana in un container costa solo 1,5 euro. Qui, nella discarica di Accra, dopo una giornata di lavoro vicino ai roghi ed essere riusciti a recuperare una mezza borsa di residui metallici, i ragazzi guadagnano circa 2 cedi ghanesi, pari ad un euro, con cui possono pagarsi un posto dove dormire al sicuro per una notte, oppure un pasto, ma non entrambe le cose.

THE STORY OF ELECTRONICS
Le ricadute sull’ambiente e sulla salute dell’e-waste sono descritte in The story of electronics (La storia delle apparecchiature elettroniche, reperibile sul sito: www.storyofstuff.org), un documentario realizzato da Annie Leonard, in collaborazione con il programma di ritiro Electronic Coalition, un’organizzazione americana, che promuove il riciclaggio dei rifiuti elettronici.
Tra i paesi in via di sviluppo, il Kenya sembra destinato a diventare la prima nazione dell’Africa orientale a dotarsi di normative sulla gestione dei rifiuti elettronici. A seguito di una conferenza nazionale tenutasi alla sede del Programma Onu per l’ambiente (Unep) di Nairobi, è stata tracciata una via comune da seguire, per il trattamento e la gestione dell’e-waste, in linea con la Convenzione di Basilea. Secondo l’Unep, l’e-waste rappresenta, per i paesi in via di sviluppo, anche un’opportunità economica, attraverso il riciclo ed il ripristino degli scarti dei prodotti elettronici e la raccolta dei preziosi metalli, che contengono. Un esempio è dato dall’attività di recupero svolta dagli allievi del Crc (Centro di recupero computer), sorto a Porto Alegre, nel Brasile meridionale; in questo centro sono stati ripristinati 1.700 computer nel giro di 3 anni, mentre i residui elettronici, che non possono essere recuperati, vengono utilizzati per produrre particolari forme d’arte. Questo centro fa parte del «Programma brasiliano d’inclusione digitale» ed è il risultato di una collaborazione tra il Ministero della pianificazione e la Rete marista di educazione e di solidarietà, un ramo della congregazione cattolica dei fratelli maristi. Oltre a quello di Porto Alegre, centri analoghi sono nati negli stati di Minas Gerais e di San Paolo, nel sud-est e nel sud del Paese, e nel distretto federale di Brasilia.
La materia prima di questi centri è rappresentata dalla spazzatura elettronica gettata dal governo federale, da banche, imprese e utenti privati, che si disfano degli apparecchi obsoleti per macchine più evolute.

IN EUROPA E IN ITALIA
Come vanno le cose in Europa e in Italia?
Secondo una ricerca commissionata dalla Dell alla società Research Now risulta che in Europa 7 persone su 10 preferiscono mettere in ripostiglio i vecchi pc, stampanti, cellulari ed altre apparecchiature elettroniche, piuttosto che recuperarle. I campioni dell’accantonamento sono gli inglesi e gli italiani. La ricerca ha coinvolto 5.000 persone intervistate in Italia, Spagna, Francia, Gran Bretagna e Germania ed ha dimostrato che solo il 5% degli europei ricicla i vecchi computer. Sono emerse discrepanze di sesso, età e nazionalità, in tema di riciclo. I più attenti sono risultati i tedeschi (riciclano 4 su 5), a differenza dei britannici (1 su 2). Inoltre gli uomini europei sono più informati in materia di riciclo dei vecchi pc, ma questo non vuole dire che siano dei perfetti riciclatori. Le donne invece risultano meno informate sulle procedure di riciclo, ma più attente al rispetto dell’ambiente, per cui si preoccupano maggiormente della destinazione dei rifiuti e dei consumi energetici dei prodotti da acquistare. In Italia va un po’ meglio per il ritiro dei televisori usati, da parte dei consorzi di riciclo, che nel 2009 ne hanno recuperato il 78% (78 chili recuperati su 100 chili venduti), a fronte di una vendita di 7 milioni di televisori, per un totale di 80.000 tonnellate di peso.
In Italia, la direttiva europea 2002/96/CE o Weee è stata recepita nel 2005 con il Decreto legislativo 151, mentre il 18 giugno 2010 è entrata in vigore la legge nota come decreto uno contro uno (D.M. n. 65 dell’8 marzo 2010), il cui scopo era quello di introdurre misure necessarie a semplificare l’applicazione della direttiva europea.

L’INCHIESTA DI GREENPEACE
TRA LE GRANDI CATENE

Greenpeace ha condotto una doppia inchiesta, a luglio ed a dicembre 2010, per verificare presso 5 tra le maggiori catene di distribuzione di materiale elettrico ed elettronico (Euronics, Eldo, Mediaworld, Trony ed Unieuro) se e come questa legge viene rispettata. La prima parte dell’inchiesta, condotta a luglio, è stata un piccolo test condotto presso i rivenditori di Milano, Roma e Napoli (12 negozi in totale), ad un mese dall’entrata in vigore del decreto legge, ed ha dimostrato che il 75% degli intervistati non rispettavano del tutto la normativa. A dicembre sono stati esaminati 107 negozi in 31 città italiane, mediante la compilazione di questionari in forma anonima e l’uso di telecamere nascoste. In contemporanea le 5 catene sono state contattate per capire se fossero a conoscenza dei risultati della prima indagine e solo due, cioè Trony ed Unieuro hanno risposto. Dalla seconda indagine risulta un miglioramento per quanto riguarda l’adeguamento alla normativa, in quanto il 49% dei rivenditori ha dimostrato di rispettare l’obbligo del ritiro dell’usato, al momento dell’acquisto del nuovo, tuttavia resta ancora il 51% di rivenditori, che non rispetta la legge, in parte o del tutto. Inoltre è emerso che nel 25% dei casi, il costo di consegna a casa del prodotto nuovo è stato aumentato per mascherare il ritiro non gratuito dell’usato. Nel 14% dei casi il ritiro gratuito avviene solo se il vecchio prodotto è portato in negozio dall’acquirente, mentre nel 12% dei casi non viene proprio effettuato. Ci sono poi i casi limite, in cui il ritiro a casa dell’usato è gratuito solo se l’elettrodomestico si trova al piano terreno, altrimenti il costo sale a 2,5 euro per piano. L’inchiesta ha inoltre dimostrato che, sebbene la legge preveda l’informazione obbligatoria da parte del commerciante nei confronti del cliente, circa la gratuità del ritiro dell’usato, tale informazione non viene data nel 63% dei casi. Sulla base dei risultati dell’inchiesta, Greenpeace ha stilato una classifica delle catene di distribuzione, che ritirano l’usato gratuitamente. Troviamo perciò il 60% dei negozi Eldo, che ritirano l’usato, seguiti da Mediaworld (50%), Trony (48%), Unieuro (47%) ed Euronics (45%). In tutti gli altri casi, i clienti sono invitati a portare l’usato nei centri di raccolta comunali, che dovrebbero accogliere i rifiuti dei privati cittadini e dei distributori, ma che nella realtà sono insufficienti e non sempre accessibili alla grande distribuzione (perché non autorizzati a ricevere rifiuti elettronici dai negozi, o perché hanno orari di apertura limitati. Su circa 3.000 centri di raccolta, circa il 70% si trova in sole 4 regioni italiane, cioè Emilia Romagna, Lombardia, Piemonte e Veneto. Già con un’inchiesta del 2009, però, Greenpeace aveva documentato che molti di questi centri (80% di quelli visitati) avevano problemi di gestione, oppure la loro struttura non era a norma. Il 30 giugno 2010 è scaduto il termine ultimo per l’adeguamento da parte dei comuni dei centri di raccolta rifiuti privi dei necessari requisiti, ma nulla è stato fatto dal governo per garantire un’ulteriore proroga. La mancanza di adeguamento ha comportato la sospensione del servizio di ritiro dei rifiuti, quindi la riduzione del numero dei centri di raccolta a disposizione sul territorio italiano. Ancora una volta si dimostra che in Italia si legifera, ma l’applicazione della legge è un’altra cosa.

Rosanna Novara Topino

LA VITA BREVE DEGLI OGGETTI
L’obsolescenza programmata e quella percepita sono una follia
che produce pesanti conseguenze.

Ormai quasi tutto ciò che compriamo ha vita breve, se non addirittura brevissima. Cellulari, che dopo pochi mesi smettono improvvisamente di funzionare, elettrodomestici, che paiono coalizzarsi contro i proprietari, per cui può capitare di trovarsi con la lavatrice, il frigorifero ed il televisore, che nel giro di pochi giorni si rompono. Automobili nuove, eppure già in panne sul ciglio della strada, perché la loro centralina elettronica si è messa a fare le bizze. Per non parlare della vita ancora più breve dei capi d’abbigliamento, molti dei quali sono programmati per essere indossati solo una o due decine di volte, dopodiché perdono inesorabilmente la loro bellezza perché stingono, infeltriscono, si rompono le cerniere, perdono gli strass. E sempre più spesso, quando qualcosa si guasta, ci sentiamo dire che farlo riparare costa più che comprarlo nuovo. I pezzi di ricambio spesso non si trovano e sono sempre meno anche i tecnici riparatori di elettrodomestici. Addirittura nel campo informatico si dice che i magazzini non servono, perché tanto un computer, dopo circa un anno è già considerato vecchio, quindi esce di produzione, per fare posto ai nuovi modelli, quindi non vale la pena riempire i magazzini di pezzi di ricambio. E così, sempre più spesso ci ritroviamo a ricomperare le stesse cose, per sostituire ciò che si è rotto. Per non parlare di quando comperiamo oggetti, che andranno a sostituie di analoghi, ancora funzionanti, ma che ai nostri occhi sono diventati vecchi, perché la pubblicità sempre più martellante ci dice che è uscito l’ultimo modello e ci fa sentire inadeguati, se non lo acquistiamo. Siamo insomma nell’era del ricambio, del consumismo più sfrenato, in cui le aziende produttrici delle più svariate merci, per convincerci ad acquistare sempre di più, ricorrono all’obsolescenza programmata ed a quella percepita. In pratica l’obsolescenza programmata consiste proprio nel programmare la rottura degli oggetti dopo un certo numero di giorni, mesi o anni di funzionamento. Un oggetto fatto per durare a lungo, secondo i produttori, uccide il mercato. L’obsolescenza percepita è ancora peggio, perché mediante la pubblicità ed i mass media, i produttori ci inducono a comprare nuovi oggetti, perché quelli che abbiamo, anche se perfettamente funzionanti, sono improvvisamente diventati vecchi, fuori moda. E a proposito di moda, quest’ultima fa la parte del leone nell’indurci a gettare il vecchio per il nuovo. Per non parlare della pubblicità, che ha l’evidente scopo di farci sentire infelici, se non entriamo in possesso di tutto ciò che viene messo in mostra e che, inesorabilmente, verrà gettato poco dopo per altre novità. Tutto questo folle consumismo comporta gravissime ripercussioni sia sull’ambiente, che sulle persone. Produrre continuamente nuove merci comporta la ricerca ed il consumo di materie prime, per le quali si arriva sempre più spesso a scatenare nuove guerre. Basta pensare alle guerre, che le multinazionali si fanno in Congo, attraverso le etnie locali, per appropriarsi del coltan, un preziosissimo minerale utilizzato nella costruzione dei cellulari, che peraltro vengono dismessi dopo pochi mesi dal loro acquisto. La produzione sempre più spinta di merci comporta poi esagerati consumi energetici, quindi consumi di carburanti fossili ed il ricorso all’energia nucleare, con le tragiche conseguenze delle guerre per il petrolio e delle possibili esplosioni delle centrali nucleari, come nel caso di Cheobyl e di Fukushima. Il rovescio della medaglia dell’iperproduzione di merci è poi l’enorme produzione di rifiuti, che stanno ormai invadendo tanto la terra, quanto il mare. Per eliminare queste montagne di rifiuti spesso vengono costruiti inceneritori, le cui velenose esalazioni sono causa di tumori e di gravi malattie respiratorie e cardiocircolatorie nelle popolazioni, che vivono nelle zone limitrofe. Le ripercussioni sulle persone sono altrettanto gravi, perché grazie alla pubblicità viene creata, nei soggetti psicologicamente più deboli, una vera e propria dipendenza dallo shopping, che non si differenzia molto da altre forme di dipendenza, per cui si giunge ad acquistare cose inutili in modo compulsivo, per colmare in realtà un vuoto esistenziale. La sensazione indotta da questo mercato globalizzato è che, nella società attuale, le persone abbiano valore solo finché possono essere consumatori. Una volta perso il loro potere d’acquisto possono essere loro stesse trasformate in merci (pensiamo al traffico d’organi, alle nuove forme di schiavitù, agli anziani spostati da un ospizio all’altro, come pacchi postali). Non è forse il caso di dire «no» a tutto questo, cambiando i nostri stili di vita e riducendo i consumi?

Rosanna Novara Topino

Rosanna Novara Topino




Guardando con occhi da indio

Amazzonia: una diversa prospettiva (2.da parte)

I popoli non indigeni dell’Amazzonia, gli invasori venuti da fuori, da sempre guardano a quell’immenso territorio, terra di inesauribili risorse, con gli occhi dell’avere.
Ma coloro che nella foresta nascono e vivono da millenni, guardano ad essa con occhi diversi, quelli dell’essere, perché la vita dell’uomo e della foresta sono inscindibilmente unite. Nell’Amazzonia le due culture si incontrano e scontrano. Qualcuno, come i missionari della Consolata, è presente perché prevalga
l’incontro vero sullo scontro.

Nell’articolo precedente (MC aprile 2011, pp. 53-57) abbiamo visto le conseguenze devastanti che l’approccio agro-industriale, basato sulla «cultura occidentale», ha sulla foresta amazzonica. In contrapposizione ad esso sta prendendo sempre più vigore un modo antico ed alternativo di relazionarsi con la foresta, quello basato sulla «cultura india», ben descritta da Daví Kopenawa, sciamano e capo politico degli Yanomami. «I nostri vecchi – ha detto Daví in un incontro internazionale di giovani -, i nostri avi hanno conservato la natura, la montagna, la foresta, l’acqua e non hanno mai pensato di distruggere questi elementi. Io sto lavorando e lottando perché non muoia, assieme alla foresta, la nostra cultura: i nostri canti cerimoniali, lo sciamanesimo e le altre attività tradizionali che continuiamo a praticare. Noi Yanomami siamo molto preoccupati; io sono molto preoccupato perché (nella nostra terra) stanno venendo molti non indios, molti bianchi, da altre parti del Brasile, e perché i governanti di qui incitano alla distruzione della natura per l’estrazione dei minerali e delle altre risorse. [Rivolgendosi a europei e nordamericani:] i vostri avi non hanno riflettuto, non hanno pensato prima di distruggere la terra. Adesso voglio parlare a voi; mandarvi un messaggio che vi chiedo di portare ai vostri popoli affinché comprendano almeno un po’ il nostro modo di pensare e le nostre esigenze. Il mio messaggio vorrei che fosse diretto in particolare ai giovani e alle giovani, adolescenti e anche a quelli un po’ più grandi, perché pensino e riflettano. I bianchi ora sono preoccupati per i cambiamenti climatici. Vorrei che questi giovani capissero che bisogna rispettare la terra, rispettare la foresta, rispettare i popoli indigeni. Io vorrei che si comprendesse l’anima della foresta, lo spirito della foresta; che i giovani capissero l’importanza di questo: noi siamo fratelli e la terra è la nostra madre». Gli Yanomami non nascondono l’ambizione – non priva di un filo di supponenza – di voler educare i bianchi per evitare l’autodistruzione dell’umanità verso la quale i bianchi stessi – se non cambiano modello di vita – sono destinati ad andare.
Ma noi bianchi perché dovremmo farci educare dagli indios? Perché gli indios hanno nella loro cultura lo «spirito della foresta», della foresta amazzonica in particolare, che insegna all’uomo che ogni essere vivente, anche se piccolo e ritenuto di poco valore, è utile e positivo in qualche campo specifico.

ECOSISTEMA IMMENSO
E parliamo di un ecosistema enorme (7 milioni di km2, che corrisponde al 5% dell’intera superficie terrestre e al 40% della superficie dell’America del Sud), con la diversità biologica più ricca della Terra: oltre 60.000 specie di piante, circa 100.000 specie di invertebrati, 3.000 specie di pesci, 400 specie di anfibi, quasi 400 specie di rettili, 1.300 specie di uccelli, più di 400 specie di mammiferi, fra cui oltre un centinaio di primati; cioè il 30% di tutte le specie di flora e fauna del mondo.
La nostra società ha da imparare molto dalla foresta amazzonica e dagli indios che la abitano. Innanzitutto la cultura della diversità. Gli indios hanno da insegnare agli europei – che dopo aver distrutto le proprie risorse naturali hanno esteso questa loro capacità all’intero mondo – a convivere con la foresta amazzonica, traendone risorse senza distruggerla; hanno da insegnarci valori che l’uomo moderno ha smarrito, a cominciare dal valore della vita, valori che sono passati in secondo piano per cedere il posto all’ansia del possesso individuale senza limiti, all’avidità, all’ingordigia. Quando questi prendono il dominio, si crea uno scompiglio esistenziale: è la crisi dell’uomo moderno, della nostra società.

MACUXI: IL RECUPERO
Quando parliamo di indios occorre però distinguere quelli, come gli Yanomami, entrati in contatto con i bianchi circa mezzo secolo fa, da quelli, come i Macuxì, in contatto con i bianchi da alcuni secoli; Yanomami e Macuxì che ho avuto modo di visitare di recente (nel dicembre 2010).
Ai secondi si può applicare in gran parte il quadro descritto sopra riguardo agli effetti provocati dalla colonizzazione più o meno recente dell’Amazzonia. Per essi l’urgenza è quella di arginare la perdita della loro identità culturale, prodotta dal prolungato contatto con i non indios, il recupero della stessa e il riconoscimento effettivo dei loro diritti politici, sanciti dalla Costituzione brasiliana del 1988, ma al momento ancora lontani dalla loro piena applicazione. La Costituzione riconosce come «terre indigene» quelle occupate tradizionalmente e in maniera continuativa dagli indios, utilizzate per le loro attività produttive, indispensabili per la preservazione delle risorse ambientali, e necessarie per la loro riproduzione fisica e culturale, secondo i loro usi, consumi e tradizioni. Queste terre non sono di proprietà degli indios, bensì dell’Unione Brasiliana, e vengono concesse in possesso ai gruppi indigeni che ci vivono; terre inalienabili e indisponibili. Gli indigeni mantengono – in modo imprescrittibile – il diritto esclusivo allo sfruttamento delle risorse, delle ricchezze presenti nei fiumi, nei laghi e nel sottosuolo, salvo autorizzazioni a favore di non indios, da parte del Congresso Nazionale Brasiliano, le quali comunque devono prevedere la consultazione previa degli indios residenti e una loro partecipazione ai profitti.
Questa è la legge, ma la sua applicazione è stata finora assai travagliata. Prova ne è la vicenda dell’area indigena di Raposa Serra do Sol, nello Stato di Roraima, della quale il Supremo Tribunale Federale solo nel 2009, dopo trent’anni di lotta, ha riconosciuto il possesso ai Macuxì che l’abitavano da millenni. Ma questo possesso non è ancora completo, poiché sussistono alcune condizioni limitative da rispettare.
Nel corso di questa lotta, assai rilevante è stato l’apporto dei missionari e delle missionarie della Consolata operanti a Bõa Vista e nell’Amazzonia in generale: colonne portanti della campagna intea e internazionale Nos Existimos, fondata sul movimento comune dei tre segmenti sociali deboli (indios, contadini senza terra e lavoratori delle periferie urbane) per il riscatto dei diritti di cittadinanza basati sulla giustizia e lo sviluppo sostenibile, e articolata sul riconoscimento legale delle terre indigene. Il che richiede l’allontanamento dalle medesime terre di ogni persona estranea, la concessione di titoli di proprietà o di possesso ai piccoli coloni delle terre da essi lavorate, e interventi economici e sociali a favore dei coloni stessi, il blocco dello sviluppo dei latifondi e delle industrie con impatto ambientale devastante, politiche dell’occupazione a favore degli emarginati urbani nonché la lotta contro la violenza, la corruzione e l’impunità a tutti i livelli.
La partecipazione alla lotta per creare una coscienza comune nelle fasce deboli ha avuto come risultato finora, in modo evidente, solo il predetto rispetto della Raposa Serra do Sol. Ciò è costato ai missionari della Consolata, oltre a numerose intimidazioni e minacce, il sequestro per alcuni giorni di tre missionari, nel 2004, e l’incendio doloso del Centro Indigeno di Formazione e della scuola di Surumú, nel 2005.
Come si vede, si tratta di una situazione in cui gli indios Macuxì, assai faticosamente, cercano di riacquistare una totale libertà e rispetto della loro esistenza e delle loro tradizioni. Per ottenere questo stanno mettendo al centro del loro progetto un’ambiziosa azione di formazione culturale e professionale, consci del fatto che non si può uscire da nessuna situazione di emarginazione economica e sociale senza un grande investimento in capitale educativo e umano, che per loro significa anche recupero della loro cultura ancestrale. Punto centrale della cultura Macuxì è l’approccio comunitario. Sono le singole comunità che inviano i giovani e le giovani più promettenti alla scuola di Surumú, ed essi – formati anche attraverso il contatto con comunità diverse dalle loro di origine – diventeranno capaci di lavorare per la comunità di appartenenza. Infatti è la comunità che investe mantenendo agli studi i giovani e che quindi avrà i primi benefici dell’investimento fatto.
Una chiara lezione che possiamo trarre noi europei: l’istruzione è un bene pubblico che dev’essere finalizzato al bene comune e non trattato come un affare privato. È un modello di economia comunitaria, non di comunismo, poiché ognuno può lavorare e godere i frutti oltre che per la comunità, anche per se stesso, lavorando nelle terre che gli sono assegnate.

YANOMAMI: LA DIFESA
L’approccio comunitario è assai diffuso anche nella cultura degli Yanomami, che si trovano in una situazione differente rispetto ai Macuxì. Entrati in contatto da poco con i non indios, il loro problema contingente è la difesa della loro cultura dalle influenze inevitabili che il contatto con altre culture comporta. Così, mentre le donne tutte, di qualsiasi età, rigorosamente indossano solo il pessimaki – una frangetta di cotone rosso vivo che copre la vulva e avvolge i fianchi al di sopra delle natiche –, solo gli uomini di una certa età vanno in giro nudi con il pene legato da una cordicella di cotone (xenarú-ukú) che, cingendo i fianchi, glielo tiene alto e appoggiato al ventre; i giovani e molti bambini indossano invece variopinti e stinti calzoncini bermuda. Gli sciamani continuano ad applicare i riti volti a guarire uomini, donne e bambini, ma gli abitanti delle yano o xabono (nomi yanomami che corrispondono al guaraní maloca) ricorrono anche alle cure dei centri di assistenza medica della Funasa (Fundação Nacional de Saúde), specie per la cura delle malattie che essi ritengono acquisite dai non indios (malaria, tubercolosi, influenza, morbillo, sifilide e altre). Gli Yanomami sono disponibili a iniziare nuovi percorsi di inculturazione loro proposti dai non indios, a condizione che l’azione culturale sia circoscritta e includa anche l’insegnamento dello scrivere la loro lingua. Questa è sempre stata trasmessa esclusivamente in forma orale e la riduzione alla forma scritta è stata fatta solo di recente ad opera di missionari e missionarie ed è considerata dagli Yanomami come utile strumento per comunicare con l’esterno in posizione di eguaglianza e reciprocità.
Il grande problema oggi è in effetti la difesa della loro identità culturale, impeiata sulla credenza che esiste uno stretto parallelismo fra comunità degli uomini e comunità degli spiriti buoni (xapuri). Punto nodale è lo sciamano (pajé o xapuri lui stesso), che tiene i contatti con il mondo degli xapuri ed è la chiave per mantenere l’armonia dell’Universo. Gli xapuri sostengono il cielo e la morte dell’ultimo di essi significherebbe la fine del mondo. Essi si occupano della trasmissione dei miti e delle conoscenze e sono in grado di guarire le persone: non sono le medicine che guariscono, ma lo sciamano che fa in modo che lo xapuri (spirito buono) scacci quello cattivo. Tutte le disgrazie sono provocate da gesti che rompono l’armonia; è quindi fondamentale mantenere l’armonia per impedire che il mondo parallelo degli xapuri, che sta sopra, crolli.

NUOVI PERICOLI
Quest’identità culturale è in pericolo per la presenza dei garimpeiros e dei militari che uccidono gli animali, devastano la terra, abusano delle donne, portano malattie (che sono segno lampante, per gli Yanomami, del disturbo arrecato dai garimpeiros e dai militari alla comunità degli spiriti). Le singole comunità (le singole yano) non sono in grado di fronteggiare gli intrusi operando ognuna per sè; per questo occorre un’unione delle diverse comunità.
Assai apprezzata è quindi l’opera dei missionari e missionarie della Consolata che, negli ultimi anni, hanno concorso a organizzare incontri ripetuti degli sciamani di un’ampia zona con popolazione yanomami, sostenendo gli ingenti costi per il trasporto aereo degli sciamani delle diverse yano. Sono assai apprezzati perché permettono l’operare comune degli sciamani – e, quando gli sciamani operano insieme, le malattie se ne vanno – e la formazione di nuovi sciamani.
Ad essi, e ai loro amici e sostenitori, è stato anche richiesto di sostenere e finanziare pure le riunioni zonali dei taxaua (capi politici) delle diverse yano al fine di dar luogo ad un’assemblea dei capi politici che faccia massa critica per l’impostazione e la realizzazione di un’efficace azione politica a livello locale, statale e federale che respinga la presenza dei garimpeiros, limiti l’azione dei militari e contrasti l’avanzata dei fazendeiros nelle terre yanomami. Come si vede, esigenze e richieste molto precise e concrete!

LA MONETA
Un altro problema delicato è il contatto con la moneta. Alcuni Yanomami ricevono un salario dalla Funasa poiché lavorano presso un centro medico allestito presso una yano all’interno della Missione Catrimani; ma mancano di un’adeguata preparazione sull’impiego del denaro ricevuto. Che cosa significano i soldi in una cultura che non ha soldi? Per molti indios le conseguenze sono state disastrose: la loro identità culturale s’è disgregata e hanno presto imparato a mendicare per acquistare alcolici.
Questo è ciò che gli xapuri e i taxaua degli Yanomami che vivono nelle zone più intee della foresta vogliono fermamente evitare e per questo sentono la necessità di operare congiuntamente e intravedono l’azione positiva che può essere svolta da coloro che avvertono come amici, come i missionari e le missionarie della Consolata, i figli e le figlie del beato Giuseppe Allamano.

METODO ALLAMANIANO
Sarei quasi per dire, parafrasando l’esclamazione sopra riferita agli indios: «Lasciamoci educare dai missionari e dalle missionarie della Consolata!». Educare dal metodo allamaniano (come ebbe a dire Papa San Pio X) di evangelizzazione, che non procede abbattendo una parte della foresta, costruendo una chiesa e cominciando poi a contare i battezzati, più o meno spontanei, nella fede cattolica; che non procede accelerando l’assimilazione degli indios nella società brasiliana e la loro evangelizzazione, bensì ponendo al centro della propria azione l’attenzione alla persona. Era convinzione del beato Allamano che per avviare alla religione cristiana fosse opportuno passare attraverso «l’elevazione dell’ambiente» perché la promozione umana è parte integrante dell’evangelizzazione.
Nel caso particolare dell’opera missionaria nei confronti degli indios della selva amazzonica, essa si articola sui seguenti punti:
1. tutelare la loro salute fisica;
2. rispettare e fortificare la cultura, i valori, le tradizioni, la lingua e il modo di vivere delle comunità indigene;
3. promuovere l’alfabetizzazione nella loro lingua, oltre che nella lingua veicolare portoghese;
4. aiutarli ad adattarsi ai cambiamenti sociali ed economici che inevitabilmente deriveranno dai contatti con gli estranei.

FORMAZIONE DI LEADER
Un esempio illuminante di azione di evangelizzazione in atto presso le comunità yanomami dell’interno è il progetto di formazione di professori e leader di comunità, in grado di svolgere attività d’insegnamento nei confronti dei membri delle comunità, ma anche attività di organizzazione e di animazione, di traduzione portoghese-yanomans (o altro idioma yanomami), di mediazione con le autorità pubbliche brasiliane, e di interazione con le associazioni che appoggiano la causa indigena. Queste sono attività che portano sia al rafforzamento interno dell’identità della comunità sia al miglioramento della capacità politica della stessa per essere messa in condizione di affrontare le inevitabili sfide con la società circostante in modo autonomo e consapevole, potendo contare su strumenti di comunicazione basati su adeguate conoscenze del proprio mondo e di quello esterno.
Salvare innanzitutto la loro vita personale e comunitaria; se poi i buoni risultati ottenuti nello sviluppo delle attività predette porteranno al sorgere di un’atmosfera di comprensione reciproca, sarà possibile, all’interno di essa e su richiesta dello sciamano o del singolo indio, aprire un colloquio riguardante anche gli aspetti spirituali e religiosi, preludio all’evangelizzazione. Percorso che non sarà sicuramente facile.

UN CASO DIFFICILE
Un caso emblematico: l’infanticidio, che è pratica diffusa presso gli Yanomami e che è la diretta conseguenza della loro concezione della nascita di una nuova vita. Per gli Yanomami la vita non inizia con il concepimento né con il distacco della nuova creatura dalla madre, ma con l’accoglimento da parte della comunità (che, accettandola, se ne fa carico); il che è espressamente indicato con l’inizio dell’allattamento del neonato; questo diventa una persona solo se è accettato dal gruppo, dalla comunità. La mancata accettazione può essere dovuta a difetti fisici (ma, a volte, bambini con gravi difetti fisici sono ugualmente accettati e vivono) o a un parto gemellare (è ritenuto impossibile, per mancanza di risorse, allevare contemporaneamente due nuove creature: il maschio viene tenuto e la femmina soppressa). Altre ragioni sono l’eccessiva vicinanza del neonato a un fratello ancora poppante (e lo svezzamento inizia, al più presto, a due anni dalla nascita) o l’abbandono della donna gravida da parte del padre del bambino o comunque in assenza del padre (senza un uomo che sappia cacciare, la donna non potrà allevare il figlio, che viene quindi soppresso) o il fatto che il neonato sia di genere femminile, quando invece la famiglia desiderava avere un maschio.
L’eliminazione della nuova creatura può avvenire o per aborto procurato con erbe o con pugni e calci sul ventre della puerpera o, più di frequente, con la frattura del collo e l’abbandono del corpicino nella foresta. Si può stimare che il tasso d’infanticidio oscilli fra il 15 e il 30 per cento.
Si tratta di una questione assai problematica per un cristiano, e i missionari e le missionarie della Consolata cercano di intervenire spiegando che con l’infanticidio si sopprime una vita o cercando di promuovere atti di adozione da parte della comunità, con l’intervento di donne diverse dalla madre naturale (eventualmente foendo il latte in polvere necessario per l’allattamento), ma in definitiva la decisione spetta soltanto alla comunità indigena e i missionari e missionarie non possono che prendee atto.
È questo il punto sicuramente più arduo, su cui i missionari e le missionarie lavorano con grande attenzione e cautela, come d’altra parte richiede ogni azione di evangelizzazione secondo l’approccio allamaniano. Con la pratica dei principi cristiani quali la carità paziente, il perdono che pone fine a odî antichi, il superamento delle barriere di parentela e lignaggio, il servizio a tutti per il benessere di tutti, la valorizzazione di tutte le forme di vita, l’istruzione che apre la mente e stimola la volontà, i missionari e le missionarie della Consolata suggeriscono agli Yanomami cambiamenti comportamentali e indicano nuovi orizzonti culturali e morali.

Daniele Ciravegna
Docente di Economia politica e ricercatore universitario dell’Università degli Studi di Torino e dell’Universitad Nacional de Córdoba; presidente della Fondazione Don Mario Operti di Torino.

Daniele Ciravegna




Un Eden in mezzo all’oceano

Reportage dalle isole Raja Ampat, Papua occidentale

Epicentro mondiale di biodiversità, paradiso perduto, nuova Micronesia, ultima frontiera del diving, culla della creazione nel mezzo dell’oceano… sono alcune
definizioni dell’arcipelago Raja Ampat, a ovest della Papua occidentale (indonesia).

Il primo a tuffarsi in questo mare fu un olandese amante dell’avventura, alla ricerca di relitti dell’ultima guerra mondiale. Era il 1990, otto anni dopo accompagnò uno scienziato australiano che, dalla prima immersione, intuì di trovarsi in un ecosistema unico al mondo. È il mare di Raja Ampat, arcipelago all’estremo nord ovest dell’isola di Papua, la seconda più grande al mondo, la più misteriosa e inaccessibile.
Raja Ampat significa «quattro re»: nome risalente al 15° secolo, quando il sultano di Tidore, nelle Molucche, concesse il governo delle isole maggiori a quattro raja locali.
A causa della situazione politica in Indonesia, si dovette aspettare il 2001 per fare un primo sopralluogo, cui seguirono spedizioni scientifiche sotto l’egida di Conservation Inteational. Dal 2006 si sono avuti i primi risultati sorprendenti: nel mare di Raja Ampat sono state individuate 450 specie di corallo duro (più della metà delle specie esistenti al mondo), 600 specie di molluschi, più di 950 pesci di barriera. Forme di vita marina sono state recentemente scoperte dagli scienziati che si alternano sul posto e premono affinché la zona venga tutelata dall’Unesco.

L’eden In fondo all’oceano
Partiamo sotto la pioggia su un veliero in legno, costruito dai maestri d’ascia di Sulawesi, uguale a quelli usati un tempo da pirati e commercianti del sud est Asiatico. I primi giorni sono durissimi: odore di nafta del motore, mare mosso, fumo dei compagni a bordo mi fanno star male. Unico sollievo è tuffarsi in un mare che ogni giorno regala spettacoli di vita marina; ma prima conviene fare un sopralluogo e valutare i rischi, poiché le correnti marine a volte sono forti come fiumi in piena.
Finalmente mi immergo nel mare di Raja Ampat. Doveva essere una prova a 5-10 metri e invece rimango per quasi un’ora tra i 25 e i 30 metri. L’acqua è azzurra e limpida; a tratti è verde scuro, densa di plancton. La visibilità qua e là è scarsa, ma i colori e le forme dei coralli sono sorprendenti. Spettacolari sono le vaste lagune che racchiudono centinaia di isolotti calcarei, ricchi di vegetazione.
Vedo colori e forme di vita che mi riempiono di gioia. Subito mi passa accanto un napoleone gigante, poi altri pescioni, mentre una tartaruga fugge veloce. Coralli dalle forme stravaganti, tra cui il broccolo, col gambo bianco e fiore bordato di azzurro, le spugne tubolari verde acido e molti nudibranchi, la mia passione, piccoli e coloratissimi. Indescrivibile.
Adesso capisco quando dicono che Raja Ampat è il primo posto per la biodiversità e l’immersione.
Ciò che rende questo mare così ricco è lo straordinario habitat, fatto da estese barriere coralline, forti correnti, praterie di erbe marine, mangrovie intatte, lagune e baie tranquille con spiagge sabbiose dove si accumulano i principi nutritivi. L’estremo isolamento finora lo ha preservato. Però, purtroppo, sulle spiagge si sono accumulati rifiuti di plastica, portati dalle correnti da chissà dove; sul mare galleggiano isolotti formati da tali rifiuti non degradabili.
Raja Ampat comprende 2.500 tra isole e barriere coralline, dove i rari villaggi sono abitati per lo più da gente di Papua. Scuri di pelle, hanno capelli crespi, che nei bambini sfumano in biondo. Pare che questo scolorire dei capelli sia dovuto a una carenza di proteine. Gli uomini sono dediti alla pesca, che oggi non si pratica più con cianuro o dinamite.

Papua: paradiso a rischio
Sorong è il capoluogo della Papua occidentale. Dall’alto pare un esteso villaggio immerso nel verde con tante chiese; in realtà ha 247 mila abitanti ed è al centro dello sfruttamento di gas e petrolio, ovviamente da parte di compagnie straniere.
I missionari cattolici vi sono arrivati dalle isole Kei negli anni ‘30 del secolo scorso, in seguito alla scoperta di questo immenso territorio, che si credeva disabitato. Sorvolando per la prima volta la Nuova Guinea, protetta da coste alte e dirupate e da foreste impenetrabili, i primi esploratori si stupirono nel trovarvi fertili vallate, una civiltà contadina evoluta e un habitat di eccezionale interesse scientifico.
Papua si trova a est della linea Wallace e costituisce la transizione dalla regione asiatica a quella relativa all’Oceania, basata su elementi di tipo biologico. Per questo a Papua si trovano una flora e una fauna molto simili a quelle australiane, tra cui l’echidna, mammifero che depone le uova, e marsupiali come il wallaby e il canguro.
Compagnie straniere hanno scoperto ben presto i ricchi giacimenti minerari e hanno aperto grandi miniere che hanno modificato l’ambiente. La maggiore si trova sotto un ghiacciaio a 4 mila metri. Il materiale viene incanalato verso il mare, dove viene caricato su navi dirette in Islanda. L’energia geotermica di cui è ricca l’isola consente la lavorazione a costi bassi, con personale polacco, a beneficio delle grandi imprese.
Lo sfruttamento del sottosuolo, (minerali, gas e petrolio), attira lavoratori da isole lontane, dove mancano possibilità di lavoro. È gente di tutti i colori, come si può vedere nel grande e affollatissimo mercato di Sorong. Molti visi dicono che ci sono stati incroci di popoli: cinesi, malesi, arabi, europei.

Indipendenza:
Un sogno proibito

I nativi sono molto scuri di pelle, con capelli crespi e naso grosso. Curiosi e gentili, sono stupiti di incontrare degli stranieri. Clementina e Josephina sono due robuste signore cattoliche, dai lineamenti tipici di Papua, venute a Sorong per un corso di aggioamento. Insegnano religione a Fak Fak, città portuale a sud est di Sorong. Ci rivediamo la sera prima di partire, presso la cattedrale di Kristus Raja (Cristo re).
Il sole è tramontato, il parroco Paul Tan mi accoglie, sorridente e bonario. «I miei nonni erano cattolici e arrivarono dalla Cina il secolo scorso approdando a Kaimana, cittadina della costa sud, dove avviarono un piccolo commercio. Ora vi è un aeroporto dove atterrano gli aerei che trasportano i tecnici delle compagnie petrolifere, che vengono poi trasferiti in elicottero sulle piattaforme in mare».
Paul mi conferma che le grandi risorse di Papua vanno in minima parte a beneficio della popolazione locale. Lungo la costa e nei profondi fiordi è presente anche la BP (la compagnia petrolifera del disastro nel golfo del Messico) e altre multinazionali, cui il governo corrotto di Jakarta ha concesso lo sfruttamento. Motivo di inquietudine è anche la continua immigrazione, che ha lo scopo evidente di far diventare sempre più indonesiana questa regione, di cultura e tradizioni molto diverse da Giava.
La popolazione si è sempre opposta alla penetrazione indonesiana. Dopo il conflitto mondiale si schierò a fianco dell’Olanda, che nel 1962, però, dovette ritirarsi dalla sua ex colonia su pressione americana. I movimenti di opposizione continuano a rivendicare la loro indipendenza, nonostante alcune recenti concessioni da parte del governo. Ma troppi sono gli interessi in gioco. Dure sono le repressioni da parte dell’esercito indonesiano: si parla di torture e orribili prigionie per chi sogna ancora l’indipendenza.
Padre Paul incontra e congeda un drappello di fedeli. «Questi parrocchiani – mi spiega – si rivolgono a me perché imponga loro le mani per guarirli dai loro mali, sovente di origine psichica; ma stasera non mi sento bene. Questo è un paese molto interessante. Devi ritornare e fermarti più a lungo: ti farò visitare le comunità cattoliche dei villaggi immersi nella giungla» mi promette salutandomi.
le mitiche isole Banda
Il volo di ritorno da Sorong a Jakarta fa scalo ad Ambon, capitale delle Molucche del sud. Ne approfitto per visitare l’arcipelago delle Banda, una decina di isole bellissime, delle quali solo cinque abitate: Banda Neira, Banda Besar, Ai, Run, Hatta. Disposte ad arco intorno al vulcano Api, suolo ideale per la noce moscata e altre spezie, un tempo erano un vero paradiso tropicale. Mercanti da tutto il mondo rifoivano gli abitanti di tutti i beni di cui le isole erano sprovviste, in cambio delle spezie, usate fin dal medioevo come farmaci e conservanti.
Le cose cambiarono con l’arrivo dei portoghesi nel 1512; fu peggio con i mercanti olandesi: presentatisi armati e minacciosi, imposero il monopolio commerciale delle spezie. I loro interessi furono poi insidiati dagli inglesi che, in loro assenza, si accaparrarono i commerci con le isole Ai e Run. Toarono gli olandesi e, per riprendere il monopolio, uccisero tutti gli abitanti di Banda Neira, salvo poche centinaia di persone fuggite nelle isole Kei. La forza lavoro fu sostituita da schiavi, provenienti anche da Papua, al servizio di coloni olandesi, detti perkeniers.
L’isola di Run rimase in mano inglese fino 1621, quando venne attaccata dagli olandesi, che distrussero tutti gli alberi di noce moscata. Nel 1667 gli inglesi accettarono di andarsene, in cambio di una piccola isola nel nord America, New Amsterdam, subito ribattezzata New York.
Nell’attesa dell’aereo per Banda Neira leggo l’autobiografia di Des Alwi, nipote di Said Baadilla, appartenente alla famiglia più influente di Banda, almeno fino al 1930. «Des era mio padre, è stato sepolto due mesi fa a Banda Neira» mi dice una signora, che mi invita nell’albergo di famiglia. Tania, questo è il suo nome, ci ospita in un edificio che sembra uscito da un album di foto del secolo scorso e ci guida alla visita dell’isola.
Banda Neira è un’isola molto piccola con eleganti edifici coloniali olandesi e strade tranquille ombreggiate da alberi frondosi. Accanto alla moschea sorge la scuola per bambini indigeni, fondata da Hatta e Syahrir, due nazionalisti esiliati in quest’isola nel 1936 dal governo coloniale olandese, ma che nell’esilio continuarono la loro lotta per l’indipendenza dell’Indonesia: nel 1945 Hatta divenne il primo vice presidente nel governo repubblicano, guidato da Sukao, e Syahrir divenne primo ministro l’anno seguente.

Baadilla
Tania è nata a Hong Kong e vive a Jakarta, come tutti i ricchi delle Molucche. Ha studiato in Svizzera e in America, come i suoi fratelli, che dovrebbero arrivare a giorni: è in gioco l’eredità di Des, un uomo d’affari che ha visto la sua vita prendere una decisa svolta quando, bambino di Banda Neira, ebbe la fortuna di conoscere Hatta e Syahrir: quest’ultimo lo adottò insieme ad altri bambini.
Il bisnonno di Tania si chiamava Said Baadilla, nome andaluso di famiglia marocchina. Era chiamato «re delle perle» del mare di Aru, per aver fatto fortuna con tale commercio insieme a quello delle spezie. Era stato nominato cavaliere della corona olandese, per aver regalato alla regina Guglielma una perla grande come un uovo di piccione.
«Le mie nonne erano cinesi – mi spiega Tania, che ha l’aspetto e la grinta delle donne che hanno in mano l’economia del sud est asiatico -. Dicono che tutti veniamo dalla Cina e il colore della pelle dipende dal secolo in cui sono arrivati i nostri avi».
Baadilla è un nome che ricorre spesso a Banda Neira, dove vivono cugini rivali in affari e in lotta per le eredità. Alcuni di essi stanno lavorando giorno e notte per ultimare la costruzione del primo distributore di benzina, in un terreno accanto alla villa di Des, appena restaurata per ospitare il Presidente tra due settimane.
Finora la benzina viene venduta in bottiglie.

All’ombra del vulcano api
L’isola si risveglia dal torpore tropicale, due volte al mese, quando giunge la grande nave che collega Banda Neira con Ambon e Papua. Allora si scatenano le moto, che passano nelle vie ingombre dai carretti dei facchini, dalle bancarelle di cibo, dagli scaricatori e dai viaggiatori che salgono e scendono spingendosi senza pietà.
Quando la nave riparte deve girare su se stessa nel bacino del porto, chiuso dal vulcano Api: un cono perfetto, che fa da sfondo a tutte le immagini dell’isola. L’ultima eruzione avvenne 20 anni fa e sulla colata che sprofonda in mare sono cresciuti coralli giganteschi, dalle strane forme.
Anche le isole Banda sono un paradiso per le immersioni, dove si scoprono fondali e pesci preziosi, che si possono vedere solo qui. Il pesce mandarino, per esempio, tutti i giorni alle 11 e alle 17 risale dalle acque del porto, strisciando sulle rocce nere fino al bordo del molo, per farsi ammirare nella sua livrea elegante a disegni blu e arancione.
Ai è un’altra bellissima isola dove la famiglia Baadilla passava le vacanze. Qui si ricorda lo sterminio dei suoi abitanti, perpetrato nel 1615 dagli olandesi, dopo la sconfitta subita ad opera degli isolani, addestrati dagli inglesi per contrastare i rivali. Gli abitanti che non poterono fuggire, come nel caso di Banda Neira, vennero sostituiti da schiavi e prigionieri.
L’abitato si allunga a breve distanza dalla spiaggia di sabbia fine e le case sono circondate da giardini fioriti e piante tropicali. Vicino ai ruderi di un antico forte inglese incontro una donna anziana, che presenta un grosso tumore tra gola e petto. Non vi è assistenza medica di stato in Indonesia, nessuno si prende cura di chi non può pagare; l’aspettativa di vita è molto bassa.
Ritoo a Banda Neira e passo a salutare la dottoressa che tiene un ambulatorio nella sua casetta. Qualche anno fa fu coinvolta in un incidente aereo. Il bimotore si schiantò sulla breve pista dell’aeroporto durante un forte temporale. Tra i feriti solo la dottoressa, di origine giavanese e appassionata di sport subacqueo, rimase colpita alla spina dorsale e ora presta servizio seduta in carrozzella.

Claudia Caramanti

Claudia Caramanti




Transizione: missione compiuta

Marzo 2010 – Aprile 2011: ritorno alla democrazia

Dopo tredici mesi di giunta militare, il Niger ritrova la via della democrazia. I soldati hanno deposto il presidente Tanja, che si era arroccato al potere. Poi hanno gestito la transizione e le elezioni e si sono ritirati.
Il nuovo presidente, attento al sociale, ha di fronte a sé una sfida enorme: migliorare le condizioni di vita in uno dei paesi più poveri del mondo. L’inizio di una nuova era?

Il 7 aprile 2011 il Niger volta pagina. Mahamadou Issoufou, oppositore storico, diventa il primo presidente della VII Repubblica. Issoufou, presidente del partito Pnds – Tarayya (Partito nigerino per la democrazia e il socialismo) ha 59 anni ed è in politica dal 1991. È membro del comitato Africa dell’Internazionale socialista. Ha tentato tre volte di accedere alla presidenza (1992, 1999 e 2004) ma solo lo scorso 12 marzo, al ballottaggio, con un verdetto delle ue del 57,95%, la speranza di un cambiamento nel poverissimo paese saheliano si è concretizzata. Il percorso per giungere al cambiamento non è però stato indolore. E, soprattutto, il futuro non sarà privo di incertezze e difficoltà. Ma occorre fare un passo indietro.

Transizione militare
«morbida»

Il presidente Mamadou Tanja, giunto al potere nel 1999 e rieletto per un secondo mandato di cinque anni, pensa che sia bene continuare a dirigere il paese. Così lancia la tazartché (ovvero continuità, in lingua haussa), una campagna per modificare la Costituzione (che prevede al massimo due mandati) e potersi ricandidare. Ma fa di più. Scioglie l’Assemblea Nazionale e la Corte costituzionale (maggio e giugno 2009) e si mantiene al potere affidando a un comitato ristretto di fedeli la scrittura di una nuova carta costituzionale che prevede, tra l’altro, il prolungamento del suo mandato. La fa approvare il 4 agosto dello stesso anno per referendum (con bassissima partecipazione). Si tratta, di fatto di un golpe istituzionale. La Cedao (Comunità economica degli stati dell’Africa dell’Ovest) sospende il Niger.
In gioco c’è soprattutto il mega giacimento uranifero di Imurarene, che entrerà in funzione nel 2013 e farà raddoppiare la produzione di uranio del paese, facendolo diventare il secondo produttore mondiale dopo il Canada. Va notato che nel 2007 il prezzo del minerale era schizzato da 60 a 138 dollari la libbra, mentre oggi, dopo il disastro di Fukushima (Giappone) è nuovamente sceso a 60.
Ma a parte alcuni settori che lo sostengono, le manovre di Mamadou Tanja creano malcontento anche all’interno del paese. Il 18 febbraio 2010 un gruppo di militari della 5a compagnia di appoggio e servizio della capitale, lo destituisce e si crea il Consiglio supremo per il ripristino della democrazia (Csrd), presieduto dal giovane generale Salou Djibo. Il colpo di stato avviene senza spargimenti di sangue (come è consuetudine in Niger) e, in questo caso, senza coinvolgere gli alti dirigenti dell’esercito: lo stato maggiore non è implicato.
I putschisti si prefiggono di «sanare le finanze pubbliche, riconciliare i nigerini e riportare la democrazia». Programma ambizioso per dei militari che hanno preso il potere con la forza.
«La giunta ha avuto il merito di aver condotto il processo fino alla fine, avere organizzato le elezioni e mantenuto il programma. Questo è tutto. Ma non li presenterei come degli eroi» ricorda Moussa Tchangari, giornalista e segretario generale di Alteative Espace Citoyens, un’associazione della società civile nigerina, molto attiva nel campo dell’educazione alla cittadinanza e della promozione dei diritti umani. «Se guardiamo alla gestione dei fondi pubblici, molti nigerini sono delusi: i militari non hanno fatto alcuna bonifica e molti grandi “ladri” sono ancora in circolazione».

Tempi rispettati
La giunta aveva promesso una transizione di un anno. E così è stato. Dopo aver promulgato una nuova Costituzione (adottata per referendum il 31 ottobre 2010) che ha dato origine alla VII Repubblica, hanno organizzato le consultazioni elettorali amministrative, legislative e presidenziali, senza però candidarsi (cosa che invece aveva fatto il colonnello Ibrahim Baré Mainssara nel 1996, che dopo aver fatto il colpo di stato divenne presidente per via elettorale).
«La transizione è andata bene, i testi che sono stati adottati sono all’altezza, le elezioni si sono svolte nella calma generale e senza brogli. C’è stata la vittoria di un candidato, subito riconosciuta dal suo avversario. Tutto questo è molto positivo» continua Moussa Tchangari.
Ma «c’è stata anche qualche difficoltà: alcuni partiti sono stati respinti, e i militari hanno fatto molte pressioni, affinché il risultato fosse quello che abbiamo raggiunto oggi; hanno influenzato in diversi modi. Globalmente il candidato ha comunque vinto, ma ha beneficiato di un certo appoggio dell’esercito».

I settori sociali
Dato importante: i militari hanno associato la società civile nella transizione. «La società civile ha partecipato in certe strutture, come ad esempio nel Consiglio consultativo nazionale (Ccn) del quale hanno fatto parte un grande numero di organizzazioni sociali e che è stato presieduto da un membro di queste. Io ho preso parte ai lavori sulla Costituzione e a molti altri. C’è stata quindi una partecipazione nell’elaborazione dei documenti e al dibattito sul futuro del paese».
Il generale Djibo ha creato nell’aprile 2010 il Ccn con lo scopo di rielaborare i testi fondamentali del paese: Costituzione, codice elettorale, carta dei partiti politici e statuto dell’opposizione. Presieduto da Marou Amadou, presidente del Fronte unito per la salvaguardia della democrazia (Fusd), associazione che si opponeva alla tazarché, era composto da 131 membri che hanno lavorato ai vari testi.
«Ci sono state persone della società civile associate alla gestione stessa della transizione» continua Moussa. Anche a livello di scrutini – i militari ne hanno organizzati ben cinque – tutto si è svolto in modo molto tranquillo e partecipato. Un esempio per l’Africa. «Da quello che ho visto tutto è andato molto bene, c’è stata anche una certa euforia, non esagerata, alla nigerina. Comunque tutti non vedevano l’ora che si voltasse pagina. A parte qualche nostalgico, che non manca mai» racconta Remo Zulli, agronomo, cornoperante che da tempo lavora nel paese. «Al primo tuo c’è stata una buona partecipazione, al secondo meno perché molti dicevano che ormai con le alleanze che si erano formate i giochi erano fatti». E continua: «Dopo la proclamazione dei risultati a Niamey e a Tahoua, zona di origine del presidente, l’atmosfera era ottima. A Tahoua si sono formati cortei di macchine che festeggiavano». Ora le attese sono enormi. «Molti dicono che le cose andranno meglio, ma più in generale c’è un clima d’attesa, anche perché Issoufou ha fatto molte promesse durante la campagna elettorale, citando cifre secondo me esagerate per alcuni settori d’intervento» conclude Remo Zulli.

La Politica dei numeri
Molti parlano di svolta democratica o di ritorno alla democrazia. Le sfide per il nuovo governo sono tuttavia enormi.
Il Pnds, arrivato in testa al primo tuo (31 gennaio), ha saputo giocare bene sulle alleanze per il ballottaggio. In particolare si è aggiudicato l’appoggio di Hama Amadou, uno degli uomini più potenti del Niger, già primo ministro di Mamadou Tanja e poi silurato dallo stesso. Il neonato partito di Amadou, Movimento democratico nigerino per una federazione africana (Modem) è arrivato al terzo posto al primo tuo. Altro sostegno Issoufou l’ha avuto da due partiti tradizionalmente legati a Tanja, l’Rdp e l’Udr. Anche l’Andp – Zaman Lahiya ha dato il suo sostegno (vedi box). In questo modo, oltre alla vittoria alle presidenziali, la coalizione di Issoufou, Coordinazione delle forze per la democrazia e la repubblica (Cfdr), può contare su 78 deputati sui 107 assegnati all’Assemblea Nazionale.
«La coalizione al potere è stata raffazzonata in pochi giorni, alla vigilia delle elezioni. Questo è un altro problema: non sappiamo se sia solida e quanto durerà» commenta Moussa Tchangari. «Hama Amadou continuerà ad appoggiare il presidente?». Il Modem può contare infatti su 23 seggi in parlamento. L’ex partito di Tanja (e di Amadou), l’Mnsd –  Nassara (Movimento nazionale per la società di sviluppo), che ha presentato Seini Oumarou, è retrocesso a seconda forza politica, con 23 deputati rispetto ai 47 che aveva nel 2004.

Sfide e compromessi
Il Niger, con i suoi 15 milioni di abitanti, occupa sempre uno degli ultimi tre posti della classifica mondiale delle Nazioni Unite, basata sull’indice di sviluppo umano. Si confronta a carestie cicliche (circa ogni cinque anni) che causano crisi alimentari e morti. Le fredde statistiche dicono che due terzi dei suoi abitanti vivono con meno di 1,25 dollari al giorno.
La popolazione è all’85% rurale e vive in grande maggioranza di agricoltura e allevamento. Ma il problema dell’accesso all’acqua è ancora fortissimo.
Così il presidente ha promesso di investire 9 miliardi di euro in progetti strutturali. In particolare 1,8 miliardi su agricoltura e acqua e altrettanti per l’educazione. Anche sull’accesso alle cure mediche il programma di Mahamadou Issoufou prevede forti investimenti.
«Il paese vive una situazione difficile, la popolazione versa in una povertà estrema: la più grande sfida è di assicurare ai nigerini cibo e i servizi di base» ricorda Moussa Tchangari.
«Occorre che la gente inizi a vedere delle ricadute della democrazia nei propri piatti, nella vita di tutti i giorni. Altrimenti la popolazione dovrà sempre confrontarsi con situazioni come quella della fame, della salute, e inizierà a chiedersi a cosa serve la democrazia».
E, riferendosi al problema del terrorismo, Al Qaeda nel Maghreb Islamico (Aqmi, vedi MC dicembre 2010): «Occorre poi preservare la pace e la sicurezza nel paese, in un contesto regionale molto agitato…».
Nel programma politico di Issoufou ci sono molte promesse difficili da realizzare, «soprattutto quando si fa conto su finanziamenti estei – sostiene il giornalista -. È previsto che il 50% dei finanziamenti siano estei. Innanzitutto nel contesto attuale di crisi, bisogna vedere se potrà reperire così tante risorse. In secondo luogo, i finanziatori imporranno le loro condizioni, che non necessariamente andranno d’accordo con la politica sociale promessa da Issoufou. Chi finanzia dall’estero vuole delle politiche di tipo liberale, come fare allora a promuovere delle politiche sociali? È una contraddizione. Un esempio: il governo investe oggi dei miliardi nell’accesso all’acqua potabile, ma se poi i partner finanziari impongono di affidare la gestione dell’acqua ai privati, l’accesso sarà limitato, di fatto, dai prezzi».

Voglia di uranio
E di petrolio

Parlando di compromessi, il Niger è il serbatornio di uranio della Francia, uno dei paesi che ha più investito in centrali nucleari al mondo. Nel 2006 Mamadou Tanja aveva spezzato il quarantennale monopolio dei transalpini nello sfruttamento dell’oro grigio nigerino, facendo entrare canadesi, australiani, indiani e cinesi. Così aveva ottenuto una rinegoziazione del prezzo, mantenuto dalla Francia molto più basso di quello del mercato. Areva, il gigante mondiale del nucleare civile (francese), aveva comunque ottenuto la concessione dell’importante giacimento di Imourarene.  «Un altro aspetto importante rispetto alla transizione è stato il braccio di ferro tra il presidente Tanja e Areva» sostiene Tchangari. «Il regime (di Tanja, ndr) ha difeso gli interessi del paese e questo ha fatto sì che in appoggio (esterno) del colpo di stato la Francia abbia inviato i suoi militari. È come se il cambiamento si traducesse anche in un rafforzamento dell’influenza transalpina». Il rischio è elevato: «Le forze speciali francesi sono ancora in Niger e sembra che vogliano installarvi una base. I militari della giunta non hanno accettato, ma aspettiamo di vedere come il governo civile gestirà la cosa. Se darà la possibilità all’esercito francese di essere presente, sarà molto grave. Anche per quello che sta succedendo in Libia, di cui il Niger è un paese confinante».
La questione della Francia ha diviso gli stessi militari della giunta. Alcuni di loro sono ancora in prigione per questo. Un dossier difficile da gestire per il neo presidente sarà la creazione di una coesione all’interno dell’esercito, che è diviso, ma anche «come fare in modo che i militari non entrino più nella gestione della vita pubblica».
Con Mamadou Tanja, il Niger era entrato in pieno nella sfera di influenza cinese. La Cina si appresta a sfruttare il nuovissimo giacimento di petrolio di Agadem (centro – Est), che farà entrare il Niger, entro il 2011, nella cerchia di paesi produttori. Il giacimento è di tutto rispetto: le riserve stimate sono di oltre un miliardo di barili e ne dovrebbe produrre circa 100.000 al giorno. La China National Petroleum Corporation (Cnpc, vedi MC luglio-agosto 2008) ha anche realizzato una raffineria nei pressi di Zinder, che dovrebbe entrare in funzione nei prossimi mesi. Ancora aperta la questione dell’oleodotto che dovrà portare il greggio nel golfo di Guinea.

Primi passi
Come prima mossa il neo presidente nomina, il giorno stesso della sua investitura, primo ministro il tuareg Brigi Rafini di Iférouane. Una  mossa simbolica ma anche pragmatica. È il primo tuareg ad accedere a questo posto in Niger. Un modo per coinvolgere questo gruppo, da sempre ai margini. Rafini, 58 anni, è conosciuto per umiltà, dedizione al lavoro e capacità di ascolto.    
Dopo 10 anni di governo Tanja, un presidente socialista e una nuova Costituzione, il Niger si sta forse aprendo a una nuova era. Ma le sfide e i problemi restano quelli di sempre.

Marco Bello

Testimoni: incontro con l’onorevole A.Malam Issa
L’entusiasmo di chi comincia

Le legislative di inizio 2011 hanno fornito una nuova fisionomia al parlamento nigerino alla 49sima legislatura. Missioni Consolata ha raggiunto telefonicamente il deputato Assoumana Malam Issa. Al suo primo ingresso all’Assemblea Nazionale, l’onorevole Issa è vice presidente del gruppo parlamentare Pnds – Tarayya, prima forza politica e maggioranza parlamentare.

La coalizione al potere è molto varia, con il Pnds troviamo il Modem di Hama Amadou e anche alcuni partiti legati a Ibrahim Baré Mainassara. Pensa che questa alleanza possa durare?
«Dopo i fatti del 2009, ovvero il tentativo di annullare le conquiste democratiche degli ultimi due decenni, i nigerini, di tutti i partiti politici sono coscienti della grande necessità di mettere in primo piano l’interesse del paese, per non rischiare di ricadere in regimi non democratici. Questo costituisce il cemento che salda gli alleati, compresi i partiti di opposizione. Ed è ancor più dimostrato dall’elezione, il 19 aprile scorso, a presidente dell’Assemblea Nazionale, di Hama Amadou. L’ex primo ministro ha raccolto 103 voti a favore e uno contrario. L’altra ragione che garantirà il successo di questa alleanza è che il Pnds è un partito che funziona sulla base di principi solidi e il Presidente della Repubblica tiene conto di questo. È chiaro che evitare la rottura della governance, la preoccupazione di far rinascere un Niger nuovo saranno la bussola di questo regime».

Una delle sfide del governo saranno le misure in campo sociale, per migliorare le condizioni di vita della popolazione. Sarà possibile con i ricavi delle risorse naturali del paese (uranio e petrolio)? O ci sarà bisogno di cospicui finanziamenti stranieri?
«Il presidente Mahamadou Issoufou ha proposto un programma al popolo nigerino ed è su questo che è stato eletto. Certo, le risorse nazionali non saranno sufficienti per finanziare tutte le azioni a breve termine, ma è chiaro che il Niger ha enormi potenzialità in termini di ricchezze minerarie e petrolifere e noi scommettiamo sul fatto che, a medio e lungo termine, il ricorso a finanziamenti dall’estero sarà limitato».

Un’altra sfida importante è quella di mantenere la sicurezza della popolazione. Il Niger ha conosciuto due ribellioni tuareg. Oggi c’è la minaccia di Aqmi (Al Qaeda) a livello regionale. Che programma politico ha la coalizione al potere per far fronte a questo? Il fatto che il presidente abbia nominato, per la prima volta nella storia del paese, un tuareg al posto di primo ministro, è legato a una strategia in questo senso?
«Uno degli assi del presidente Issoufou è proprio la sicurezza e un grande numero di azioni saranno prese per far fronte a questa sfida. Ma al contrario di una interpretazione errata della nomina di Brigi Rafini a primo ministro, la principale ragione è che si tratta di una persona di molta esperienza, con una grossa conoscenza della realtà del Niger, un temperamento federatore e una grande saggezza».

I rapporti con la Francia. Sotto Mamadou Tanja sono stati tesi. Oggi ci sono militari francesi delle forze speciali in Niger e vorrebbero installarvi una base permanente. Secondo lei come va gestita la questione?
«Preferisco non rispondere a questa domanda. Ma sappiate che il Niger agisce in una logica di partenariato di tipo “vincente – vincente”!».

Pensa che con la VII Repubblica si inizia un nuovo periodo di speranza nella storia del paese?
«Certamente. Tutte le premesse sono buone: nuovo leader, nuovi attori, contesto favorevole, prospettive economiche radiose, volontà mostrata di rottura a tutti i livelli per favorire un cambiamento di mentalità».

Ma.B.


    CRONOLOGIA ESSENZIALE

1960 3 agosto:    proclamazione dell’indipendenza dalla Francia. Diori Hamani diventa presidente.
    1974 15 aprile:    colpo di stato di Seyni Kountché.
    1987 10 novembre:    muore Kountché di emorragia cerebrale. Il colonnello Ali Saibou diventa presidente del consiglio militare.
    1989 dicembre:    Saibou eletto presidente nel corso delle prime elezioni dall’indipendenza.
    1990 maggio:    iniziano gli scontri tra tuareg ed esercito regolare.
    1990 dicembre:    Saibou vuole portare il paese al multipartitismo, istituisce la Conferenza nazionale per regolamentare il cambiamento.
    1992 dicembre:    una nuova Costituzione è adottata per referendum.
    1993 27 marzo:    prime elezioni presidenziali pluraliste. Mahamane Ousmane, del partito di opposizione, è il primo presidente eletto democraticamente.
    1995:    firma dell’accordo di Ouagadougou, fine della ribellione tuareg.
    1996 27 gennaio:    il colonnello Ibrahim Baré Mainassara prende il potere con un colpo di stato. Nel luglio si fa eleggere presidente.
    1999 9 aprile:    il colonnello Mainassara Baré è assassinato. Caos istituzionale. In seguito a pressioni inteazionali sono organizzate elezioni a ottobre e novembre. Mamadou Tanja eletto presidente della repubblica.
    2003:    i servizi segreti americani e inglesi denunciarono che il Niger aveva venduto uranio all’Iraq. Il direttore della Cia, George Tenet, dovette in seguito ammettere che le accuse erano false.
    2004 dicembre:    Tanja è rieletto per un secondo e ultimo mandato con il 65,5% dei voti.
    2005:    crisi alimentare nei paesi del Sahel. Il Niger è il più colpito. Intervengono le Ong inteazionali di emergenza.
    2007 febbraio:    attacco a Iférouane, rivendicato dal Movimento dei nigerini per la giustizia (Mnj), composto da giovani tuareg. È la prima manifestazione del Mnj che attacca successivamente le imprese minerarie e postazioni dell’esercito nel nord del paese.
    2007 1 giugno:    crisi del governo Hama Amadou per lo scandalo al Ministero dell’educazione di base (Meba), 6,1 milioni di euro scomparsi.
    2008 24 giugno:    arresto dell’ex premier Hama Amadou, sospettato di furto di denaro pubblico.
    2009 25 maggio:    la Corte costituzionale respinge l’organizzazione del referendum per prolungare il mandato del presidente. Il giorno seguente Mamadou Tanja scioglie l’Assemblea Nazionale.
    2009 5 giugno:    decreto presidenziale per indire il referendum sulla nuova Costituzione il 4 agosto.
    2009 12 giugno:    la Corte costituzionale annulla il decreto presidenziale del 5 giugno.
    2009 27 giugno:    il presidente Mamadou Tanja assume poteri eccezionali e due giorni dopo scioglie la Corte costituzionale.
    2009 4 agosto:    vittoria dei “si” al referendum che prolunga il mandato presidenziale.
    2009 inizio ottobre:    i ribelli tuareg del Fronte patriottico nigerino e dell’Mnj depongono le armi.
    2009 20 ottobre:    la Cedeao (organizzazione regionale) sospende il Niger.
    2010 18 febbraio:    colpo di stato militare. Tanja è deposto e arrestato. Il potere è assunto dal Consiglio supremo per la restorazione della democrazia con a capo il generale Salou Djibo. Sospensione della Costituzione.
    2010 31 ottobre:    adozione per referendum della nuova Costituzione, inizia la VII Repubblica.
    2011 31 gennaio     Mahamadou Issoufou vince le elezioni presidenziali. Entra in carica il 7 aprile. Si svolgono anche le amministrative e le legislative. Il 19 aprile Hama Amadou è eletto presidente dell’Assemblea Nazionale.

Marco Bello




Giovanni Paolo l’Africano

Papa Wojtyla e il Continente Nero

Papa Wojtyla ha dedicato all’Africa una grandissima e appassionata attenzione, tanto che il cardinale senegalese Hyacinthe Thiandoum (1921-2004) lo ha definito: «Giovanni Paolo l’Africano». L’appellativo è ripreso da mons. Giovanni Tonucci in questo articolo, scritto per la nostra rivista The Seed, quando era nunzio apostolico per il Kenya e firmato con lo pseudonimo di Mzee Mwenda (l’amato, in kemeru).

I libri di storia parlano di personaggi importanti definiti con titoli corrispondenti alle loro imprese o al modo con cui le hanno realizzate. Ai tempi di Roma uno fu chiamato il «Temporeggiatore» perché era calmo e prudente nel prendere le decisioni; un altro il «Censore» perché criticava la condotta altrui; il generale che conquistò l’Emilia fu detto «l’Emiliano» e un altro generale che vinse un’importante battaglia in Nord Africa, nell’attuale Tunisia, fu soprannominato «l’Africano».
Quest’ultimo titolo mi è venuto in mente riflettendo sulla morte di papa Giovanni Paolo II; egli ha visitato tante volte l’Africa e ha impresso la sua impronta nella chiesa di questo continente: ha aumentato il numero di vescovi e diocesi, così pure quello di cardinali africani; ha incoraggiato l’intera Chiesa africana a ricercare una specifica identità africana.
Naturalmente ogni tipo di definizione è limitata e limitante. Chiamando Giovanni Paolo II «l’Africano» non si intende negare l’importanza del ruolo da lui giocato per la Chiesa nell’America latina o in qualsiasi altro continente o subcontinente. Ma fermiamoci su questo appellativo e guardiamo a papa Wojtyla da una prospettiva africana senza togliere niente alle altre. Lo chiamiamo «Santo Padre» e l’amore di un padre non è limitato dal numero dei figli che condividono tale amore. Anzi, in questo modo esso è aumentato e fatto anche più forte.
Una considerazione mi viene da fare quando studio le statistiche: in 27 anni di pontificato Giovanni Paolo II ha visitato tutti i continenti e moltissime nazioni; ma il primato spetta all’Africa, con 42 stati visitati, cinque dei quali due volte e, altri due, tre volte. Voglio ricordare che Nairobi lo ha accolto tre volte.
In una delle mie prime udienze in Vaticano, dissi al Papa che avevamo fatto alcune riparazioni nella sua casa, la residenza della nunziatura, perché fosse più adatta per riceverlo; e che quindi sarebbe potuto tornare per riposarvi qualche giorno se avesse voluto. Egli sorrise e sollevò lo sguardo come per dire: «Mi piacerebbe, ma solo Dio sa se sarà possibile».
Durante i primi anni del suo pontificato ero a Roma e ricordo bene ciò che avvenne quando toò da un viaggio africano: insieme al piccolo gruppo che lo accompagnava, il Papa si recò nella basilica di San Pietro per pregare sulla tomba del primo apostolo. Tutti gli altri sembravano stanchi ed esausti, lui invece era pieno di energia, il volto abbronzato dal sole africano, ringiovanito come se fosse ritornato da un periodo di riposo.

La realtà è che egli si trovò a suo agio in Africa e con gli africani. Lo si poteva sentire e capire ogni volta che il Papa parlava agli africani o parlava dell’Africa; in essa trovava alcuni dei grandi valori che gli stavano più a cuore: egli seppe capire i valori della cultura e delle tradizioni africane e vedervi la loro apertura al vangelo e riconoscervi l’amore per la vita. «Queste tradizioni – disse nella sua omelia per l’inaugurazione del Sinodo per l’Africa – sono ancora l’eredità della maggioranza degli abitanti dell’Africa. Sono tradizioni aperte al vangelo, aperte alla verità»; e più avanti: «I figli e le figlie dell’Africa amano la vita».
Questo rispetto sincero per le tradizioni locali era tipico di Giovanni Paolo II e può essere apprezzato a pieno se pensiamo alla sue radici culturali. Era nato e cresciuto in Polonia, in tempi veramente difficili per il suo paese; costretto a fronteggiare le sfide lanciate in molti modi dalle più crudeli e più inumane dittature sperimentate nel secolo scorso: nazismo e comunismo; entrambe imbevute della cultura dell’oppressione e della morte. Proprio perché fedele alle sue radici polacche, papa Wojtyla riuscì a diventare il pastore universale della chiesa universale, totalmente dedicato a proclamare un vangelo universale di salvezza.
Molti cercano di sottolineare il fatto che egli era di nazionalità polacca, come se questo elemento fosse un limite alla sua personalità. Egli era veramente polacco, ma tale aspetto non costituiva un motivo di chiusura ad altre esperienze; anzi, la sua nazionalità fu uno strumento che lo rese capace di aprirsi a differenti culture e tradizioni. L’orgoglio per le sue radici lo fece capace di capire l’importanza vitale delle radici di altre tradizioni.
Proprio questo egli voleva vedere in Africa: apertura all’universalità, ma a partire dalle radici profonde delle secolari tradizioni religiose, che egli giudicò in modo positivo, riconoscendo in esse il «seme della parola di Dio», come afferma il Concilio Vaticano II. E ciò che gli piaceva dell’Africa era «l’amore per la vita», che egli sperimentò in tantissime manifestazioni di gioia e di rispetto, nell’entusiasmo e nell’accoglienza espressi in modo così lontano dall’«egoismo dei ricchi»; un egoismo contagioso, che potrebbe portare l’Africa ad accettare e favorire pratiche ostili alla vita.

Un concetto questo ribadito spesso e riportato anche nella lettera apostolica Ecclesia in Africa: «Io vi lancio una sfida oggi, una sfida che consiste nel rigettare un modo di vivere che non corrisponde al meglio delle vostre tradizioni locali e della fede cristiana. Molte persone in Africa guardano al di là dell’Africa, verso la cosiddetta “libertà del modo di vivere moderno”. Oggi io vi raccomando caldamente di guardare in voi stessi. Guardate alle ricchezze delle vostre tradizioni, guardate alla fede che abbiamo celebrato in questa assemblea. Là voi troverete la vera libertà, là troverete il Cristo che vi condurrà alla verità» (48).
Verso la fine della sua omelia per l’apertura del Sinodo, il Papa concluse con questa esortazione: «Africa, giornisci nel Signore». Nell’omelia per la chiusura del Sinodo egli menzionò ancora «la gioia del popolo di Dio, che porta freschezza così vivace in ogni celebrazione liturgica», e finì con questa acclamazione: «Africa, l’eterno Padre ti ama; Cristo ti ama! Rimani in questo amore».
Come non riconoscere lo spirito africano in queste frasi? Bisogna essere orgogliosi di essere figli e figlie di questa generosa madre, il continente africano. So che lo siete e so che insieme a voi il Santo Padre è stato orgoglioso e felice di essere «Giovanni Paolo l’Africano».

Mzee Mwenda

Mzee Mwenda