Biopirateria

Commercio e industrie farmaceutiche

Si chiama biopirateria, è una nuova forma di colonialismo perpetrato ai danni del Sud del mondo. Colpisce prevalentemente i paesi più poveri del pianeta, dove preservare la biodiversità per molti governi è assai difficile. Il termine richiama una forma particolare di profitto che le multinazionali, con in testa i colossi farmaceutici, ottengono attraverso lo sfruttamento iniquo delle ricchezze naturali. Asia e Oceania, ma soprattutto Africa e America Latina, con i loro vastissimi ecosistemi, ospitano aree forestali di ricchissima biodiversità, con specie animali e vegetali uniche. È soprattutto là dove prospera questo fervido “saccheggio”.

La lotta alla biopirateria è una sfida globale a salvaguardia sia dell’ecosistema che del sapere ancestrale custodito dalle società tradizionali. C’è una ricchezza che rischia sempre più di scivolare nelle mani delle potenti élite locali, conniventi con le grandi industrie farmaceutiche per affari miliardari. Ma come è organizzata questa ignobile rapina?

Un meccanismo iniquo
Da almeno un ventennio, ricercatori e esploratori, ma anche mercenari e professionisti del profitto, sono impegnati nell’acquisizione di materiali e conoscenze appartenenti a culture indigene. Si tratta per lo più del cosiddetto oro verde, costituito da piante, semi, funghi, ma anche di animali e minerali. Ogni elemento setacciato in queste aree viene spedito nei laboratori di biotecnologia in Europa e America per essere analizzato, manipolato, brevettato e commercializzato, senza che i veri proprietari, le comunità etniche, possano opporvisi o partecipare all’utile derivante. Di fatto rimedi ed empirie tradizionali, testati in laboratorio, diventano fonti di guadagno esclusivo di chi non le possiede in natura. Mentre il 90% della diversità biologica si trova proprio nelle regioni del Sud, il 97% dei brevetti ad essa correlati sono in possesso esclusivo delle aziende del ricco Occidente. Un assurdo paradosso. E così accade che i paesi del Sud del mondo, da cui proviene la maggior parte delle specie vegetali brevettate, stanno perdendo il diritto di utilizzarle. Questo succede perché le normative di controllo a tutela del patrimonio locale sono ancora troppo limitate e demandate all’improbabile capacità coercitiva di molti governi locali.

Salvare le piante che salvano la vita
Troppo spesso, il confine che separa l’ispezione sperimentale degli ecosistemi a scopo scientifico dal puro saccheggio indebito è davvero labile. Purtroppo gli accordi inteazionali sui diritti di proprietà intellettuale (Dpi) siglati negli ultimi anni dai governi nazionali lasciano ancora spazi di ambiguità tali da permettere alle multinazionali dell’agroindustria e della farmaceutica di brevettare sementi e farmaci forzando i limiti normativi che tutelano blandamente le società tradizionali e gli ecosistemi. Eppure le grandi multinazionali farmaceutiche sono sempre più preoccupate di dimostrare che possono contribuire alla conservazione dell’ambiente oltre alla preservazione della biodiversità del pianeta. La chiamano responsabilità sociale dell’impresa, un’espressione di facciata dietro il quale si cela spesso una realtà ben diversa.
Negli ultimi anni la comunità scientifica internazionale sta cercando di proporre alcune linee guida su come intervenire in tema di lotta globale alle biopiraterie. Un impegno congiunto che pone l’attenzione sul legame fra conservazione delle piante medicinali e cura della salute. «Salvare le piante che salvano la vita!». E’ questo il monito e la consapevolezza di fronte al costante depauperamento di molte delle specie più richieste a scopo sanitario. Proprio a causa dell’utilizzo commerciale e della biopirateria, il problema si è aggravato. Anche i numeri parlano chiaro.
Globalmente, il valore corrente del mercato mondiale delle piante medicinali utilizzate secondo le indicazioni delle comunità locali e indigene, viene stimato in circa 43 miliardi di dollari. Di questi solo una piccolissima parte – in alcuni casi – è pagata come tassa di prospezione (cf. Vandana Shiva, Il mondo sotto brevetto, Ed.Feltrinelli). Un contributo ridicolo che rende davvero reale la dimensione smisurata della truffa perpetrata ai danni del Sud. Secondo alcune recenti ricerche elaborate dal WWF, OMS e IUCN (l’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura) il valore commerciale dei prodotti farmaceutici elaborati a partire dalle piante tropicali si aggira intorno ai 147 milioni di dollari. Una cifra enorme di cui, solo lo 0,001% delle cosiddette royalties, arriva alle comunità locali (cf. Davide Ranzini, in http://www.peacelink.it/ecologia/a/9978.html). Ma il rafforzamento della proprietà intellettuale inizia a colpire anche i cittadini del Nord: basti pensare ormai a quanto incide il costo dei farmaci brevettati sulla sanità pubblica occidentale. Inoltre, secondo quanto reso noto dall’organizzazione internazionale No Patents on seeds, l’Ufficio europeo dei brevetti (Ueb) ha brevettato ben 200 specie vegetali nel solo 2010! Mentre dal ’99 ad oggi sono state appena 1500 le specie registrate. L’organizzazione sottolinea come l’Ueb stia pericolosamente concedendo brevetti non solo sulle colture Ogm, ma anche su quelle convenzionali, il che non è contemplato né ammesso dalla normativa comunitaria.

Il brevetto: il vero pericolo della biopirateria
È ormai noto che le industrie farmaceutiche fanno abitualmente tesoro delle informazioni che i guaritori locali si tramandano da millenni, guadagnando così un accesso diretto ad un bagaglio smisurato di informazioni e pratiche che generalmente non sono né regolamentate né ordinate da un corpo di fonti scritte. Questa prassi orienta ogni nuova ricerca scientifica e commerciale con grande risparmio di tempo e di denaro. Con i progressi delle tecnologie modee, infatti, è assai più facile partire da un estratto naturale, isolae i principi attivi, per poi produrre il composto farmaceutico che creare un medicinale partendo da zero.
Il processo potrebbe essere di beneficio a tutti se non ci fossero due fattori molto negativi: la poca o nessuna ricaduta economica sui popoli indigeni e appropriazione indebita ed esclusiva del prodotto grazie al sistema dei brevetti. In pratica le popolazioni indigene ricevono compensi ridicoli e si ritrovano nella condizione di essere espropriati della loro stessa conoscenza: per usare quello che è loro devono pagare altri, gli stessi che li hanno derubati. Il tutto in nome del copyright intellettuale (garantito da agenzie ad hoc, create e finanziate dai grandi lobby industriali) che permette di reclamare un diritto esclusivo anche su una risorsa che di fatto esiste già in natura!

I protagonisti del business e della ricerca
Eludere le normative che impediscono questo meccanismo fraudolento non è impresa difficile per i professionisti del profitto: nella maggior parte dei casi, non sono le grandi case farmaceutiche a lavorare direttamente con i villaggi e i guaritori locali, quanto piuttosto enti e soggetti intermediari, soprattutto istituti di ricerca locali e università, ai quali conferiscono l’incarico di trattare e gestire il business miliardario. Numerose multinazionali, tra cui la Merck & Co., hanno affidato negli ultimi anni la sperimentazione di ben 10mila campioni vegetali in Costarica, all’Istituto Nacional de la Biodiversidad di San José. Per il colosso del New Jersey si tratta di un contratto da oltre un milione di dollari, ma nelle complesse dinamiche che disciplinano la produzione e il lancio di ogni nuovo medicinale sul mercato, l’intermediazione consentirà alla company statunitense un risparmio davvero ragguardevole, visto che, normalmente, la fase di ricerca e di test farmacologico di ogni singolo preparato costa almeno 3milioni di dollari.

Il caso sudafricano
Il casus belli sul quale ci soffermiamo stavolta è legato alle denunce di appropriazione indebita di copyright inoltrate nei confronti del colosso farmaceutico tedesco Willmar Schwabe, reo di aver brevettato l’uso del Pelargonium sidoides, utilizzato da sempre dall’etnomedicina delle popolazioni aborigene del Lesotho e del Sudafrica. È stata proprio la comunità sudafricana della cittadina di Alice (non lontano da Port Elizabeth) che ha contestato all’industria farmaceutica di Karlsruhe (Germania) i brevetti relativi all’utilizzo di due specie indigene di gerani ascritti tra l’altro tra le specie protette e in via di estinzione. La controversia è stata presentata all’Ufficio europeo dei brevetti di Monaco di Baviera dalla comunità della città sudafricana e dal Centro africano per la sicurezza biologica (Acb), con la collaborazione di due associazioni non governative tedesche e una svizzera. I brevetti contestati riguardano il metodo d’estrazione del principio attivo dei fiori e il diritto esclusivo di utilizzare il medicamento per trattare l’Aids. Gli estratti delle radici di pelargonium sidoides e di pelargonium reniforme sono infatti usati da millenni nella medicina tradizionale, nonché scambiati liberamente tra le popolazioni Zulu, Basuto e Xhosa per curare le infezioni respiratorie e altre malattie, tra cui anche la tubercolosi. Le proprietà di questi gerani sono conosciute in Occidente da un centinaio di anni; ma dal 2007, la Schwabe ha brevettato e messo in commercio in Svizzera e in Germania uno sciroppo chiamato Umckaloabo (nome zulu del geranio) per il trattamento delle affezioni respiratorie, introitando circa 30 milioni di euro.
Mariam Mayat, direttrice dell’Acb, ha detto che l’utilizzo industriale di queste radici rappresenta una chiara violazione della Convenzione per la salvaguardia della biodiversità: «Non solo hanno usato la conoscenza tradizionale zulu senza aver chiesto il loro consenso – ha precisato Mayat – ma senza neanche farli partecipare ai profitti: è evidente biopirateria».

Una disputa infinita. Vent’anni di controversie Nord-Sud
Intanto, nel maggio 2008, superata l’indifferenza della comunità internazionale, il tema della biopirateria è stato ufficialmente affrontato a Bonn, proprio alla IX Conferenza della Convenzione sulla biodiversità dell’ONU, come una delle più pericolose dispute ambientali su cui fare chiarezza. E i casi da cui avviare una riflessione globale e responsabile di certo non mancavano.
Un precedente famoso è stato il caso dell’albero del neem (Azadirachta indica) le cui proprietà mediche (soprattutto antifungine) erano riconosciute da millenni in India. Una ditta farmaceutica agroalimentare statunitense, la W. R. Grace, insieme al governo americano ha ottenuto un brevetto sulla la tecnica di estrazione, limitando così gli usi futuri di questo albero sacro. Dopo dieci anni di battaglie legali il brevetto numero 436257e, in un primo tempo accettato, fu revocato. In risposta al rischio di biopirateria, l’India ha iniziato così a tradurre e pubblicare in forma elettronica gli antichi manoscritti che descrivono i rimedi tradizionali indiani. I testi, tradotti dal sanscrito, urdu, persiano ed arabo, saranno resi disponibili agli uffici brevetti in varie lingue. Lo scopo è proteggere, in corposi records bibliografici digitali, gran parte del patrimonio locale dalle rapaci compagnie occidentali. Il progetto è stato criticato aspramente da Mark Grayson, portavoce della Pharmaceutical Researchers and Manufacturers of America, che ha definito il progetto governativo di Nuova Delhi come “una soluzione forzata alla ricerca di un problema inesistente”. Ma a quindici anni di distanza, oggi come allora, l’esigenza è di non ignorare le diverse forme di neocolonialismo ambientale e di impedire che col pretesto della sperimentazione scientifica si realizzino appropriazioni indebite e monopoli a vantaggio di pochi.

Massimo Ruggero

Massimo Ruggero




Quando le donne bevono

Viaggio nel mondo dell’alcol (seconda puntata)

 In Italia, ci sono 13mila alcoliste e 24mila donne ricoverate ogni anno a causa dell’alcol.
Tra le consumatrici ci sono ragazze sempre più giovani (l’alcol contro l’inibizione), ma anche donne anziane (l’alcol contro la solitudine).  Occorrerebbe sapere che l’organismo femminile smaltisce l’alcol con maggiore difficoltà rispetto a quello maschile ed è quindi più soggetto a patologie o problematiche alcol-correlate.E per una donna in gravidanza i rischi sono ancora maggiori.

Tra i miei ricordi di bambina c’è quello di una donna del mio stesso quartiere, a Torino, che per la sua dedizione all’alcol veniva soprannominata, senza troppi giri di parole, la ciuca, termine che in dialetto piemontese significa «ubriaca». Si trattava peraltro di una povera donna, che cercava di dimenticare con l’alcol le proprie peripezie familiari. Tuttavia quell’immagine di ebbrezza, che spesso si portava addosso, era servita a stigmatizzarla impietosamente. A quei tempi, le donne che si ubriacavano erano messe all’indice dalla società. A dispetto di questo modo di pensare, nel giro di qualche decennio, l’immagine della donna che beve alcolici è stata non solo accettata dall’opinione pubblica, ma addirittura vista come uno dei segni dell’emancipazione femminile, insieme all’abitudine di fumare.

IN CONTINUO AUMENTO LE DONNE BEVITRICI
Del resto, a rafforzare quest’immagine hanno contribuito sia il cinema, che la televisione. Come non ricordare la fortunatissima serie televisiva Dallas degli anni ‘80, in cui i protagonisti, uomini e donne, non perdevano mai l’occasione di bere un drink? L’abitudine di bere alcolici, nel corso degli ultimi anni, si è talmente diffusa tra le donne, che, secondo l’Oms, l’Europa presenta il più alto numero di bevitrici al mondo. Come già visto nella precedente puntata (MC novembre 2011), il vecchio continente detiene il primato mondiale del consumo di bevande alcoliche. Per quanto riguarda l’Italia, secondo le indagini annuali  multiscopo dell’Istat relative a Stili di vita e condizioni di salute, attualmente il 67% delle donne consuma bevande alcoliche, contro il 43% degli anni ’80 (la percentuale maschile è dell’86,6%). Ovviamente l’incremento del numero di consumatrici di alcolici ha portato ad un aumento delle patologie e delle problematiche alcol-correlate tra le donne. Si stima, infatti, che il 9,4% degli uomini ed il 19,2% delle donne ecceda le quantità di alcol considerate a minore rischio, rappresentando quindi la porzione di individui potenzialmente a rischio. Nel conteggio sono peraltro considerati anche gli alcol-dipendenti, che comunque vi contribuiscono in maniera molto limitata, cioè 0,9% gli uomini e 0,4% le donne. La percentuale dei consumatori a rischio riceve un grosso contributo dal numero delle consumatrici, che presentano una probabilità  di ammalarsi doppia rispetto a quella dei soggetti di sesso maschile. Per quanto riguarda la distribuzione dei consumatori a maggiore rischio di patologie alcol-correlate, per i differenti target di popolazione, si è visto che l’incidenza del rischio aumenta con l’età in entrambi i sessi e presenta i valori più elevati nella fascia tra i 65-74 anni, a cui fanno seguito i valori registrati per l’intervallo tra i 45-64 anni. Per le donne, in Italia, il picco di consumo problematico di alcol si colloca attualmente tra i 35 ed i 44 anni. Del resto è questa la fascia d’età, che può presentarsi come la più critica per il sesso femminile poiché possono esserci timori per la perdita della giovinezza, oppure per la riduzione della fertilità e della capacità procreativa. Può essere presente un senso di frustrazione per la mancata realizzazione di progetti giovanili oppure la vita sentimentale può risultare insoddisfacente, o addirittura distrutta dalla rottura di un legame importante. In questi casi, il ricorso all’alcol rappresenta un modo per sfuggire, sia pure temporaneamente, alla propria realtà. Tutte queste sono forse le motivazioni più classiche, che spingono le donne a bere. Certamente non sono le sole. In particolare, per quanto riguarda le bevitrici adolescenti, che bevono prevalentemente birra e superalcolici fuori dal contesto domestico e che concentrano il consumo o l’abuso soprattutto  nei fine settimana, il ricorso all’alcol ha una funzione disinibente che permette una maggiore disinvoltura nelle relazioni. In questo caso l’alcol viene visto come mezzo per farsi accettare dal gruppo dei coetanei, anch’essi dediti all’alcol. Da qui il sempre più elevato numero di casi di binge drinking tra gli adolescenti. In particolare, per quanto riguarda le ragazze, si è rilevato che, in Italia, il 10% si ubriaca almeno una volta all’anno, consumando più di 5 bevande alcoliche in un’unica occasione (binge drinking), mentre per i ragazzi la percentuale sale al 22,1%.

PERCHé ALLA DONNA FA PIù MALE
La conseguenza dell’aumento del consumo di bevande alcoliche tra le donne è rappresentata dalla diffusione delle patologie alcol-correlate nel genere femminile. Attualmente sono circa 13.000 le alcoliste in trattamento, presso le strutture pubbliche del Servizio sanitario nazionale, mentre, secondo i dati più recenti, sono circa 24.000 all’anno i ricoveri di donne negli ospedali italiani, per cause attribuibili al consumo di alcolici.
Ma perché le donne sono più vulnerabili all’alcol rispetto agli uomini? Assumendo medesime quantità di alcol, a parità di condizioni, la concentrazione di alcol nel sangue (Bac, Blood alcohol concentration: il termine scientifico dell’alcolemia) è più elevata nelle donne che negli uomini. Il motivo è che l’organismo femminile ha in primo luogo una capacità dimezzata di smaltire l’alcol ingerito, perché la dotazione dell’ADH (alcoldeidrogenasi, un enzima epatico) è la metà di quello maschile ed in secondo luogo la donna ha una minore massa corporea e una quantità inferiore di liquidi totali con una conseguente minore capacità di diluizione dell’alcol. Questo vuole dire che le donne raggiungono l’intossicazione acuta da alcol, cioè lo stato di ebbrezza, assumendone quantità inferiori rispetto a quelle necessarie per raggiungere lo stesso stato nell’uomo.

I PERICOLI  DURANTE LA GRAVIDANZA
In Italia, le linee guida nutrizionali raccomandano che una donna adulta ed in buona salute non superi mai la quantità giornaliera di 1 o al massimo 2 bicchieri di una qualsiasi bevanda alcolica. Nel caso che il rischio possa estendersi a terzi, come durante la gravidanza, è da evitare anche il consumo moderato di alcol. Non dimentichiamo che un bicchiere contiene circa 12 g di alcol e che richiede, più o meno, un paio d’ore per essere completamente smaltito.
Qual è il motivo, per cui le linee guida nutrizionali vietano di assumere bevande alcoliche in gravidanza? Il motivo risiede nel potere teratogeno dell’alcol, cioè nella sua capacità di causare malformazioni fetali. Organi vitali come il cuore, il cervello, lo scheletro, per citae alcuni, si formano molto precocemente durante la gestazione, cioè tra i 10-15 giorni dopo il concepimento, quindi è fondamentale smettere di bere già quando si sta programmando la gravidanza, senza attendere che sia iniziata. Le donne che bevono abitualmente (mediamente 3 o più bicchieri al giorno) presentano un’aumentata frequenza di aborti, soprattutto nel terzo trimestre di gravidanza. Questo fatto probabilmente è dovuto all’azione tossica esercitata dall’alcol sul feto, anche nel caso dell’assunzione di dosi modeste (come 2 bicchieri nella gravidanza avanzata). L’alcol è in grado di attraversare la placenta e di raggiungere il feto, che non possiede enzimi capaci di metabolizzarlo, per cui ne subisce gli effetti dannosi a livello cerebrale e dei tessuti in formazione. Dato il suo potere teratogeno, l’alcol interferisce sui normali processi di sviluppo fisico, provocando malformazioni, e sullo sviluppo intellettivo, causando ritardo mentale, in maniera più o meno grave, a seconda delle quantità assunte dalla gestante. Inoltre elevate quantità di alcol assunte durante la gravidanza determinano carenze vitaminiche, con gravi ripercussioni sullo sviluppo del nascituro. Il primo ed il terzo trimestre di gravidanza sono i periodi più rischiosi, per quanto riguarda i danni provocati dall’alcol sul feto. Il bambino, nato spesso prematuro, può presentare condizioni generali variabili: dalla presenza di sintomi o disturbi definiti alcolici, fino ad una conclamata «sindrome feto-alcolica» (Fas) irreversibile e progressiva. Quest’ultima è caratterizzata dalla presenza nel bambino sia di sintomi fisici, che di disturbi neurologici e neuropsicologici. I sintomi fisici si manifestano soprattutto a carico della testa, del volto, dello scheletro e del cuore. La testa può presentare microcefalia; nel volto possono essere presenti pieghe agli angoli degli occhi, fessure oculari strette, strabismo, naso corto e piatto, labbro superiore assottigliato e vermiglio, solco naso-labiale allungato ed appiattito, fronte stretta ed allungata. Può essere presente ipoplasia del nervo ottico. Per quanto riguarda lo scheletro, si manifesta un ritardo marcato nell’età ossea media, che si traduce in una statura inferiore alla media, in un ridotto peso corporeo ed in una ridotta circonferenza cranica. Spesso sono presenti malformazioni cardiache, soprattutto a carico del setto ventricolare. Le disfunzioni neurologiche e neuropsicologiche presenti nella «sindrome feto-alcolica» sono rappresentate da disturbi del sonno, riflesso della suzione ridotto, ritardo dello sviluppo mentale, deficit intellettivo, disturbi dell’attenzione e della memoria, disturbi della motricità fine, iperattività ed impulsività, disturbi dell’eloquio e dell’udito. Non tutte le gestanti con un forte consumo di alcol sono destinate a partorire un neonato affetto da Fas. La percentuale di neonati con Fas varia tra il 30-40% delle gestanti forti bevitrici. I fattori di rischio, che possono influenzare la comparsa o meno della Fas, sono molteplici: la quantità di alcol consumato durante la gravidanza, la tipologia del consumo di alcol (cronico od occasionale), l’intensità dell’esposizione, il periodo dell’esposizione, l’interazione con altre sostanze (tabacco, droghe, medicinali), fattori alimentari, predisposizione genetica, condizioni di vita, ceto sociale, livello d’istruzione e stato civile della madre. Le donne fertili e sessualmente attive, che consumano più di 7 bevande alcoliche alla settimana, in caso di gravidanza rischiano di avere un figlio con deficit cognitivi, intellettivi e psicosociali. E la probabilità di danneggiare il feto aumenta all’aumentare dell’alcol assunto. I bambini, la cui madre ha consumato almeno 80 g di alcol puro al giorno, sono ad alto rischio. Tuttavia, anche il consumo di alcolici abbondante, ma sporadico può rappresentare un serio pericolo per il feto, dato che l’alcol può essere dannoso in ogni momento della gravidanza. Certamente i difetti congeniti più gravi si manifestano a seguito dell’esposizione all’alcol durante il primo trimestre di gravidanza, cioè nel periodo della formazione degli organi vitali. È stato rilevato che più di 12 drinks alla settimana aumentano il rischio di una nascita prematura e sottopeso. I fenomeni appena descritti possono riguardare tanto i figli di donne bevitrici in gravidanza, quanto quelli di donne, che si sono astenute dal bere durante la gestazione, ma che prima bevevano. Inoltre è stato dimostrato che i figli di donne, che hanno continuato a bere alcolici in gravidanza presentano una maggiore frequenza, in età adulta, di problematiche alcol-correlate ed una più frequente predisposizione al deficit cognitivo consistente in una memoria ridotta. Recentemente è stato condotto uno studio, da parte dell’Istituto superiore di sanità, per rilevare la percentuale dei neonati esposti all’azione dell’alcol, durante la gestazione. Per ottenere questo dato, è stata valutata la presenza nel meconio, cioè nelle feci delle prime 48 ore di vita del neonato, di etilglucuronide, un marcatore dell’esposizione all’alcol durante la vita fetale. Lo studio è stato effettuato su 607 neonati ed è emerso che il 7,6% di loro presentava un’esposizione all’alcol. Attualmente sono pochissimi gli studi di questo tipo. Uno di essi, condotto a Barcellona, ha rivelato un’esposizione all’alcol nel 45% dei neonati. È evidente che questo problema è stato finora molto sottovalutato.
Per quanto riguarda la sfera riproduttiva femminile, l’alcol può essere responsabile della minore produzione di ormoni femminili e di insufficienza ovarica, che si manifesta con irregolarità mestruali (fino alla scomparsa del ciclo), presenza di cicli anovulatori ed infertilità.
L’abuso di alcolici tra le donne le rende, tra l’altro, maggiormente a rischio di subire violenze sessuali, poiché in stato di ebbrezza risultano più indifese.

ANZIANI: ALCOL, MEDICINE  E SOLITUDINE
Un altro tipo di consumo problematico dell’alcol è quello riguardante le persone anziane e in particolare le donne anziane che in gioventù non hanno ricevuto alcuna educazione al consumo di alcolici. Queste persone spesso bevono in un contesto domestico, mantenendo nascosta l’abitudine per timore di riprovazione da parte dei familiari, per cui le problematiche alcol-correlate sono riscontrate tardivamente. Nelle bevitrici anziane sono spesso frequenti episodi di compromissione della sfera neurologica e psichica, come difficoltà motorie, disturbi della memoria e comportamenti insoliti. Spesso gli anziani assumono farmaci di vario tipo e le donne, mediamente, consumano quantità di farmaci maggiori degli uomini tra prodotti ormonali, antidolorifici, prodotti per ridurre i grassi nel sangue, sedativi, prodotti contro l’insonnia e la depressione. L’associazione tra farmaci ed alcolici dovrebbe essere assolutamente bandita, ma spesso le persone anziane, specialmente se sole, non ne tengono conto o probabilmente non lo sanno, rischiando così l’effetto di pericolose interazioni.
Da quanto appena descritto, appare evidente la necessità di affrontare al più presto a livello educativo il problema dell’alcolismo femminile (e dell’alcolismo in generale, data la sua sempre maggiore diffusione tra i giovani), viste le gravi implicazioni a livello sociale (aumento dei costi sanitari, cause legali, assenze dal lavoro per malattia) e considerato il ruolo occupato dalla donna sia nell’ambito familiare, che sociale.
Si dovrebbe pensare a lezioni mirate sia in ambito scolastico che in ambito sanitario (ad esempio, con pubblicazioni prodotte dal ministero della Salute e rese facilmente reperibili presso il proprio medico curante o presso le farmacie).
Oltretutto non dobbiamo dimenticare che gli effetti dell’alcol, a differenza di quelli del fumo, si manifestano subito, non dopo anni. Quindi, questa estensione dell’abitudine di consumare alcolici rappresenta un serio pericolo sociale, purtroppo già attuale. Una donna bevitrice può generare figli malati, ma quand’anche i figli nascessero sani, che esempio potrebbero ricevere da genitori alcolisti?

Rosanna Novara Topino


Rosanna Novara Topino




Resistere per esistere

Dalle lettere di padre Beppe Svanera da Marialabaja

Padre Beppe continua a scrivere agli amici della vita forse un po’ «patealista» ma vera della missione di Marialabaja, tradizionale terra di rifugio di schiavi fuggitivi, ora minacciata dall’invasione delle monoculture per produrre bioenergia.

VIVERE COI MORTI
(2 Novembre 2008)
Non mi era mai successo di scrivere agli amici nelle giornate dedicate ai defunti, ma francamente mi sembra bello perché a queste altezze della vita sono molti di più gli amici morti che quelli vivi! Qui siamo ancora vivi e contenti e felici di camminare con il nostro popolo afro-contadino che vive con intensità queste giornate. Noicorriamo da un cimitero all’altro per celebrare la messa, ricordare i defunti e offrire una catechesi di vita e risurrezione. Qui la morte è ancora centrale e marca profondamente la famiglia e la società. Un anziano in punto di morte è accompagnato costantemente da famigliari e amici che aspettano con rassegnazione la morte che arriverà quando «Dio si ricorda di lui», mentre il malato spesso ripete che ormai «vuole riposare». Questo non succede con persone giovani perché, cito un antropologo che ha vissuto qui per anni, «la morte di un giovane in piena vitalità, che non ha potuto compiere la sua finalità generativa, è assurda, non può venire da Dio» e, quindi, deve essere stata causata da qualche malefizio.
Sono molte le manifestazioni legate al culto dei morti, non sempre comprensibili per noi perché sono il risultato della tradizione africana profondamente influenzata e modificata dal cattolicesimo. Nelle nostre comunità il primo famigliare che si rende conto della morte di un congiunto lancia un grido e la notizia si sparge di strada in strada attraverso il pianto caratteristico delle donne. Mentre in casa, presso la parete di fronte alla porta principale le donne preparano l’altare che servirà da sfondo per le celebrazioni religiose, gli uomini sbrigano le pratiche burocratiche e portano la cassa dove è sistemata la salma lavata, ordinata e vestita accuratamente. Quando poi il defunto viene portato in chiesa, fa una certa impressione la preoccupazione quasi ossessiva affinché i piedi siano sempre rivolti in avanti, in chiesa verso l’altare e, uscendo, verso il cimitero, per paura che lo spirito del morto, ritualmente maltrattato, si vendichi poi sui presenti.
Il rituale più caratteristico è il velorio: nove notti di veglia per il commiato definitivo del defunto. Due ne sono i centri rituali: l’altare per la preghiera e il cortile per i giochi. I riti dell’altare, guidati dal rezandero, sono rivolti direttamente allo spirito del morto considerato immortale, ma anche potenzialmente pericoloso, e culminano con la partenza definitiva dello spirito all’aurora dell’ultima notte dopo una celebrazione carica di paure ancestrali. I giochi nel cortile della casa durante la novena servono per intrattenere i famigliari e amici che si ritrovano magari dopo molto tempo e hanno tanto da raccontare. Lì fanno esperienza di «famiglia» e ritrovano la forza per continuare superando le difficoltà e la stessa morte. Un miscuglio di tradizione, solidarietà e fede che assicura la continuità della vita. Lo spirito del defunto si allontana dopo il velorio ma il suo ricordo rimane e si rinnova soprattutto con la celebrazione della messa del mese, dei sei mesi e dell’anno.

Ci sarà un futuro?
(Natale 2008)
Abbiamo terminato anche quest’anno l’anno scolastico degli asili, iniziativa nata otto anni fa con il P. Salvatore Mura che dal 2006 è di nuovo con noi. Abbiamo avuto la soddisfazione di chiudere l’anno con più di trecento bambini dai due anni e mezzo ai sei, con una novità molto importante e significativa: la gestione 2008 è stata totalmente a carico della Fondazione A partir de los niños (a partire dai bambini) aiutata da alcune persone del paese che hanno dimostrato grande interesse e capacità. Naturalmente noi siamo stati al loro fianco con il consiglio, l’animazione e l’appoggio economico assicurato da tanti amici italiani. Una bella iniziativa da continuare e sviluppare sempre più.
Ci preoccupa comunque il futuro. Ci sarà un futuro qui per i nostri bimbi? La nostra è una terra meravigliosa dove la gente vive di agricoltura, ma la proprietà della terra è sempre stata un problema, come nel resto della Colombia. Alcuni grandi proprietari si sono accaparrati le terre migliori, mentre contadini dispongono solo di piccoli appezzamenti su cui vivere in povertà dignitosa. Anche i braccianti a giornata hanno potuto sopravvivere con il misero salario e l’aiuto di familiari o amici che prestavano o affittavano a basso prezzo un pezzo di terra dove seminare. Molte persone, soprattutto donne sole con figli a carico, sono riuscite a difendersi con il tongueo o la «spigolatura» seguendo pazientemente i raccoglitori di riso. In questa terra c’è sempre stata povertà, mai la fame. Adesso per molti è fame!
Il sistema tradizionale solidale e autosufficiente è saltato a causa delle nuove politiche del governo che favoriscono solamente l’agroindustria che qui da noi si concentra sulla coltivazione della palma da olio africana per produrre biocombustibili. Abbiamo realizzato due «forum» per studiare il problema e creare coscienza, ma la politica agraria del governo non cambia e diventa sempre più aggressiva. Nel nostro comune si parlava inizialmente di cinquemila ettari, adesso si prospettano diecimila e addirittura diciassettemila destinati a questa coltivazione, che favorisce certamente alcune persone, ma obbliga moltissime famiglie ad emigrare. Di fatto la coltivazione della palma ha una serie di conseguenze nefaste. La monocoltura è sempre disastrosa per l’ecosistema. Le aree destinate a palma non permettono nessun’altra coltivazione. Zero cibo! La palma produce per circa venticinque anni e il terreno rimane poi infecondo per diversi anni. La manodopera viene drasticamente ridotta e il contadino perde la sua identità e i mezzi di sussistenza.
Noi missionari viviamo ormai con angustia questo problema anche se la maggioranza della gente sembra non accorgersi della gravità della situazione. D’altra parte non si vedono soluzioni. La politica del governo è questa e nuotare controcorrente non è facile. La nostra gente è pacifica e si dimostra addirittura indifferente e passiva di fronte a qualsiasi situazione. Cultura africana? Conseguenza della schiavitù? Rifiuto al cambiamento? Paura dopo gli ultimi dieci anni di violenza che hanno segnato la vita della nostra gente con tanti morti e migliaia di sfollati? O un forse grande amore per la vita che ha comunque sviluppato mille forme di resistenza per poter sopravvivere nonostante tutto? C’è «qualcosa» di incomprensibile per noi e sempre da rispettare, studiare e approfondire… Quello che appare e preoccupa è comunque il disinteresse di fronte al problema, la mancanza di organizzazione e solidarietà per affrontarlo, la passività cronica di fronte a mille ingiustizie.
Forse la nostra gente ha scelto di continuare ad amare la vita e di resistere con la musica e la danza e per questo continua a ballare nonostante tutto. In questi giorni si è svolto ancora una volta il Festival nazionale del Bullerengue, il giornioso ballo tipico della nostra regione. Ci salveremo anche questa volta? Speriamo! Intanto tentiamo di accompagnare con alcune piccole iniziative il nostro popolo annunciando il Signore Gesù che nasce nuovamente per noi e nasce in ogni bimbo per assicurarci che «Dio non si è ancora stancato degli uomini».

Dopo la schiavitù…
(Pasqua 2009)
Anche il nostro popolo afrocolombiano aspetta la sua Pasqua dopo lunga e penosa schiavitù, iniziata tanti anni fa quando cristiani senza scrupoli hanno deciso di utilizzare milioni di africani per i loro sporchi interessi economici e li hanno violentemente strappati dalla loro terra. Milioni di persone sono state stipate, peggio delle bestie, nelle navi europee e hanno solcato l’Oceano Atlantico nella più completa disperazione. Tanti, troppi sono morti durante il lungo viaggio, i più fortunati sono giunti a destinazione per essere venduti come schiavi per i lavori più duri e umilianti. Mescolati tra loro per cancellare ogni contatto con i familiari e il gruppo di provenienza, hanno perso lingua, cultura, identità e sono diventati macchine anonime per il profitto dei dominatori. Gli schiavizzatori non hanno potuto comunque distruggere la vitalità di queto nuovo popolo che ha trovato la forza di ribellarsi e continuare a credere nella vita e nella possibilità di un futuro per i suoi figli in questa nuova terra.
Il fenomeno dei «Palenques», i tipici villaggi fortificati costruiti da schiavi fuggiti dalle grandi fazendas e dalle miniere, è stato la risposta a questa domanda di libertà che può essere garantita solamente da una terra propria da coltivare per sopravvivere e sviluppare nuove relazioni e una nuova cultura. Ma anche quelliche non ha potuto fuggire dalla schiavitù hanno escogitato mille forme di resistenza con il canto, la danza, i racconti e le tradizioni trasmesse, e soprattutto con le donne che hanno continuato a mettere al mondo figli e ancora figli. C’é chi afferma che il futuro non è di chi attacca ma di chi resiste, e gli afro, la nostra gente, continua a resistere e a mettere al mondo figli, grave minaccia per i faraoni di tuo.
La storia afro in Colombia e in America è un’epopea di resistenza: prima agli spagnoli e poi ai loro discendenti. Nonostante abbiano costruito, con il lavoro nelle grandi fattorie e nelle miniere, la ricchezza di questo paese e siano stati protagonisti nella lotta per l’indipendenza, gli afro non hanno mai partecipato alla divisione delle terre con i generali della repubblica, dovendosi così accontentare di dissodare terre incolte e malsane. Nel 1821 hanno avuto un minimo riconoscimento con la «libertad de vientre» che dava la possibilità ai nuovi nati di non essere considerati schiavi. Il decreto di abolizione della schiavitù, firmato il 21 maggio 1851 ed entrato in vigore il 2 gennaio dell’anno seguente, non ha modificato comunque la situazione in modo sostanziale, perché sono poi nate inedite forme di schiavitù e di emarginazione.
Tra il 1960 e 1970 nuovi venti sono soffiati a livello internazionale e anche nel popolo afrocolombiano sono sorti movimenti culturali che lo hanno aiutato a prendere coscienza della propria storia e identità da assumere con umiltà, ma anche con orgoglio. Sono sorte quindi organizzazioni popolari, soprattutto sulla costa pacifica, che hanno lottato per il riconoscimento degli afro come gruppo etnico e della proprietà collettiva della terra. Solo la nuova Costituzione del 1991 ha offerto i primi veri strumenti giuridici per applicare i diritti politici del popolo negro, come la possibilità di avere autorità proprie attraverso i «Consigli comunitari», di ottenere il titolo di proprietà collettiva della terra e di partecipare alla vita pubblica con «rappresentanti propri». Resta da vedere fino a che punto questa legge si stia realizzando nella pratica, ma non c’è dubbio che per il popolo afrocolombiano la nuova Costituzione ha aperto nuovi orizzonti in questo grande paese «multietnico e multiculturale».
Come missionari ci sentiamo identificati con il nostro popolo in questo lungo e faticoso esodo dalla schiavitù alla libertà nel nome del Signore Gesù morto e risorto perché tutti, anche gli afrocolombiani, abbiano vita e vita in abbondanza. È un cammino entusiasmante, lungo e faticoso, senza pretese di grandi risultati. Come affermava una suora austriaca che ha lavorato da queste parti per tanti anni: «Seminare, seminare, seminare e… seminarsi». Ricordando il Maestro: «Se il chicco di frumento non muore…».

Speranze e progetti
(NATALE 2009)
Come discepoli e missionari proponiamo Gesù di Nazareth, nel rispetto della religiosità del nostro popolo, tentando insieme alcune risposte concrete ai bisogni spesso elementari del territorio senza la pretesa di risolvere problemi che esigerebbero prima di tutto un cambiamento di mentalità, mentre invece si continua a sopportare pazientemente i governanti di tuo che fanno solo i propri interessi.
Questa situazione ha portato la missione a proporre e realizzare alcune iniziative di tipo sociale che voglio ricordare perché sono diventate una realtà solamente grazie a tanti amici che ci hanno sostenuto.
1. La prima iniziativa è stata quella degli asili di cui ho già ampiamente scritto.
2. Con i giovani, dopo aver ristrutturato alcuni saloni vicino alla chiesa parrocchiale, stiamo adeguando due aree urbane (Alto Prado e Montecarlo) per la formazione, lo sport e la ricreazione.
3. Con i contadini, gli sfollati e la popolazione in generale abbiamo dato vita, fuori paese, al «Centro di formazione la Consolata» dove realizziamo continui incontri di formazione sui più diversi temi per creare coscienza, partecipazione, organizzazione e sviluppo.
4. Attenzione particolare è stata data al fenomeno degli sfollati (desplazados) a causa della violenza della guerriglia. Li abbiamo seguiti in tutta la trafila burocratica per ottenere dei terreni su cui ricostruire le loro case e li abbiamo aiutati nell’autocostruzione di ottantadue mini case in muratura.
5. Nella Comunità di Nueva Esperanza è nato il «Centro Afro-Allamano» per favorire maggiore aggregazione delle comunità contadine. In questo spazio realizziamo attività ricreative e formative con bambini, giovani, adulti e donne in particolare, approfittando di ampi spazi ben distribuiti con la possibilità di coltivazioni di ogni tipo e allevamento di animali da cortile, pesci, maiali…
6. Ultima nata, a cinquecento metri dal Centro Afro-Allamano, è la fattoria «Gente del Campo»: sette ettari che vogliono essere modello di agricoltura e allevamento soprattutto per i giovani e risorsa per finanziare le diverse iniziative della parrocchia in vista di una progressiva e completa autonomia dei progetti.
Rispetto dell’ambiente, sicurezza e sovranità alimentare sono per noi valori inalienabili anche se purtroppo è sempre più difficile resistere all’aggressione delle coltivazioni estensive di palma africana per produrre biodiesel. Con piccole iniziative da qualche tempo vogliamo inoltre non solamente «educare» ma anche «appoggiare» concretamente i nostri contadini che ancora producono cibo.
Sogniamo adesso di acquistare uno o più trattori per sostenere i contadini che ancora producono cibo e non possono permettersi di far arare i loro campi perché i costi sono impossibili, e trasportare poi i loro prodotti fino ai mercati più vicini. Con i trattori potremo anche trasportare gruppi di bambini e giovani ai nostri centri per le attività ricreative e formative nei fine settimana.
Per alcuni è molto quello che tentiamo di fare, per altri è troppo poco; altri invece non sono per niente d’accordo e parlano di «missione superata», «colonialismo», «eurocentrismo» e prospettano «missione nuova», «nuovi aeropaghi», «missione virtuale»…
La verità è che noi ci sentiamo bene, contenti e felici con la nostra gente condividendo timori e speranze, facendo quel poco che si può e senza rumore, aspettando con estrema serenità, come un dono, il Regno di Dio che il Bimbo di Betlemme ha inaugurato e assicurato.

BIODIESEL PIGLIATUTTO
(Natale 2010)
Mi faccio vivo dopo tanto tempo al termine di un lungo e interminabile periodo di piogge. Da queste parti nessuno ricorda un «inverno» così lungo e intenso, anche se la temperatura si è sempre mantenuta attorno ai trenta gradi e non sono mancate mezze giornate splendide per mantenere la speranza di un tempo migliore. Dovremmo comunque essere usciti dal tunnel invernale e tra un po’ ci lamenteremo del caldo e della troppa polvere lungo le nostre strade sterrate, adesso quasi impraticabili.
C’è un altro tunnel comunque che si allunga sempre di più e di cui non vediamo per ora nessuna fine e che, anzi, sta diventando una vera ossessione: l’invasione della palma Visitando le comunità ogni giorno vedo crescere le coltivazioni della palma africana mentre diminuisce inesorabilmente il terreno destinato a produrre alimenti. Fino a quando? Difficile dirlo, perché il governo appoggia solo ed esclusivamente chi semina palma e i contadini che resistono sono emarginati ed abbandonati a se stessi. È una scelta «politica» con criteri esclusivamente capitalisti che sta portando a un autentico disastro ecologico e sociale. Tutto è iniziato circa trent’anni fa quando alcune persone hanno messo gli occhi su queste terre dove si stava tentando una timida riforma agraria da parte dello stato che aveva legalizzato l’occupazione da parte di senzaterra di alcuni latifondi del territorio e che aveva costruito delle dighe e una serie di canali per l’irrigazione. Ci voleva poco per capire che questo dava dei vantaggi straordinari: terra fertilissima con acqua e sole a volontà a due passi dal mare per esportare qualsiasi prodotto senza costi aggiuntivi.
L’unica difficoltà allo sfruttamento di queste terre era la presenza delle comunità afro discendenti dagli antichi schiavi che qui avevano organizzato dei centri di libertà e resistenza agli spagnoli (palenques) o che vivevano nei grandi latifondi di proprietà dei soliti signori locali. La riforma agraria diede la possibilità ai contadini di diventare proprietari, ma la grande maggioranza non era preparata e così molti hanno svenduto la terra o hanno accumulato debiti tali con le banche da essere stati obbligati a vendere.
A completare il quadro è scoppiata la violenza. Gruppi armati sono apparsi un po’ dovunque. Sulle montagne hanno preso forza i guerriglieri di sinistra. Nelle piane si sono organizzati i gruppi paramilitari di destra (finanziati dai grossi possidenti) che hanno compiuto stragi incredibili di civili per «togliere l’acqua al pesce» e isolare la guerriglia. E l’esercito… stava a guardare la gente che abbandonava la sua terra mentre cominciavano le prime coltivazioni di palma, considerata unica e magica «soluzione» di tutti i problemi. Il progetto continua ad espandersi e oggi puntano decisamente ai ventimila ettari, compromettendo seriamente la sicurezza alimentare degli abitanti del territorio che ancora una volta sembrano passivi.
Eppure qualcosa si è mosso. Due Forum organizzati dalla parrocchia, tre centri modello di coltivazioni e allevamenti e, soprattutto, un costante accompagnamento delle diverse organizzazioni popolari sembra stiano stimolando a far nascere qualcosa di diverso dopo trecento anni di schiavitù e duecento di indipendenza.
Noi missionari continuiamo a crederci, confortati da una minoranza sempre più numerosa di persone sfollate, povere in canna, emarginate da sempre, ma che sognano e lottano contro corrente di fronte a politiche sfrontate e a una mentalità generale cronicamente passiva e rassegnata.
In tutta la Colombia continua a piovere: centinaia di morti, frane e smottamenti dovunque, strade interrotte, inondazioni senza limiti, paesi interi portati via dalle acque torrenziali. Una vera calamità nazionale, riconosciuta anche dal governo centrale che si dichiara impotente di fronte alla tragedia. Noi ci consideriamo fortunati: solo due paesini della missione sono sott’acqua. La gente ha perso tutto, ma ha salvato la vita che in fin dei conti è l’unica cosa veramente importante. Come dice il salmo: «Il vivente, il vivente ti loda Signore». La nostra gente lo ripete sempre, come un ritornello, con la sicurezza assoluta che il Dio della vita non abbandona i suoi figli. E allora noi continuiamo a credere con loro che il tunnel della palma come quello dell’inverno avrà pur sempre uno sbocco finale radiante di luce.
(2a puntata – continua; la prima parte è apparsa su MC 2011/04 pp. 22-29)

Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Liberi sì, convertiti no

A colloquio con monsignor Henri Teissier

Nell’Algeria di oggi la libertà religiosa è una realtà. Ma non si può mostrare la propria fede troppo apertamente. La situazione di chi si è convertito al cristianesimo resta delicata. Alcune riflessioni dell’arcivescovo emerito di Algeri.

Monsignor Henri Teissier è arcivescovo emerito di Algeri. Nato a Lione (Francia) nel 1929 e ordinato prete nel 1955, il papa Paolo VI lo nomina vescovo di Oran nel 1972. Dal 1980 è arcivescovo coadiutore del Cardinal Duval ad Algeri e otto anni più tardi lo sostituisce. Monsignor Teissier vive gli anni duri del terrorismo islamico integralista in Algeria: 19 religiosi sono assassinati tra il ’94 e il ’96, tra cui il vescovo di Oran e i monaci di Tibhirine. Lui resta al suo posto, nonostante le minacce e le difficoltà. Si ritira per raggiunti limiti di età nel maggio del 2008, continuando a servire il suo popolo nella città di Tlemcen.
Lo abbiamo incontrato durante una sua breve visita in Italia.

Monsignor Teissier, ha conosciuto dei problemi di libertà religiosa in Algeria e come questo ha influenzato il suo essere pastore e vescovo?
«In Algeria c’è libertà religiosa per i cristiani che sono cristiani “di origine”. Per esempio adesso sono nella città di Tlemcen, nell’Ovest dell’Algeria. La comunità cristiana è composta quasi interamente da studenti africani venuti da 40 paesi diversi. All’università tutti i loro compagni sono musulmani. Quando arrivano gli stranieri i ragazzi algerini chiedono loro se sono musulmani e si stupiscono della risposta, ma poi la cosa diventa normale. Noi facciamo le celebrazioni, loro possono venire senza problemi. La libertà religiosa esiste ma ci sono difficoltà per i cristiani convertiti dall’Islam. Questo non è accettato nella società algerina dopo l’indipendenza, perché c’è l’idea che chi lascia l’Islam lascia la nazione, entrando in quella dei cristiani che hanno fatto la colonizzazione.
È successo che negli ultimi 15 anni si siano costituiti gruppi di evangelici. A differenza dei cattolici, per gli evangelici, fa parte della fedeltà a Cristo proclamare. Anche noi abbiamo dei convertiti, ma domandiamo loro di essere prudenti, di non avere problemi con la società. Gli evangelici sono algerini convertiti attraverso corsi di bibbia per corrispondenza, o trasmissioni radio e televisive da Cipro, Monte Carlo, Malaga. Poco per volta si è costituita una comunità cristiana algerina, con origini musulmane. Questo ha acceso un dibattito sulla stampa con posizioni diverse. La stampa di lingua francese, ricordava che la Costituzione algerina riconosce la libertà di coscienza. I giornali in lingua araba scrivevano: «L’Islam è la religione dello stato, questo ha la responsabilità di difendere l’Islam, non può lasciare la possibilità a questi gruppi di creare comunità …».
Pur non interpellati, noi abbiamo detto che una scelta religiosa viene dalla coscienza umana e che bisogna rispettarla, ma che si fa tenendo in conto la società in cui si vive, la famiglia.
Nel 1986 è stata fatta una legge contro il proselitismo con pena di reclusione in prigione. Ma di fatto non è mai stata applicata.
L’anno scorso, a febbraio 2010, il ministero degli Affari religiosi ha organizzato un incontro di due giorni sul tema del proselitismo. Penso fosse la prima volta, che in un paese arabo musulmano, si facesse una riflessione su questo.
In genere si dice che un musulmano non ha diritto di lasciare la sua religione, anzi, il diritto musulmano dice che chi lascia l’Islam deve essere ucciso.
Ma con le conversioni degli evangelici i dibattiti che si sono moltiplicati sulla stampa, la questione ha avuto uno spazio pubblico. Le conclusioni sono state: l’Islam è la religione dello stato e  non viene accettato il proselitismo organizzato, però la Costituzione riconosce la libertà di coscienza, se una persona fa una scelta, questa è personale, però l’importante che non si faccia propaganda.
Questa è la posizione dello stato, ma non è la posizione della società. Nelle famiglie è inconcepibile che un membro nato musulmano diventi cristiano. La conversione è più accettata dalle famiglie berbere, piuttosto che da quelle arabe, specialmente della Kabilia (Nord-Est) dove la popolazione non ha cultura araba. I kabili cercano le origini della nazione prima dell’Islam, sostengono: “Noi prima dell’Islam eravamo cristiani, eravamo ebrei, di religioni diverse, allora anche l’Isalm è venuto da noi in una forma di conquista”. In Kabilia si può trovare una famiglia che accetti la conversione di uno dei suoi membri. I Kabili sono il 10% della popolazione, poi c’è una altro 10% berberi, ma meno aperti dei primi. L’80% sono arabi musulmani e tra loro è più difficile la conversione. Gli ebrei sono andati via tutti: erano in Algeria prima dell’Islam, da venti secoli.

Oggi sarebbe possibile come missionari, andare in Algeria?
«Questo è il problema nato dopo lo sviluppo delle comunità di evangelici. Lo stato ha capito che c’era il rischio di aumento delle conversioni, allora ha chiuso l’ingresso ai missionari. E questo non solo per gli evangelici, che sarebbero venuti a incontrare i convertiti, ma anche per la chiesa cattolica e le altre chiese protestanti. Così oggi abbiamo molte difficoltà per ottenere i visti. Se non riusciamo a rinnovare in modo regolare la presenza, poco a poco, ci si estingue. Per noi è un grande problema. È difficile soprattutto il primo ingresso per un missionario anche per congregazioni già presenti, poi il rinnovo si fa normalmente. È una situazione nuova da 4-5 anni».

La cosiddetta primavera araba, questa rivoluzione anche culturale che ha toccato il Nord Africa, con i giovani che fanno sentire di più la loro voce, dal punto di vista religioso può portare un rinnovamento o è solo una questione politica?
«In Algeria abbiamo lo stesso partito politico, il Fronte di liberazione nazionale (Fnl), al potere da 50 anni. I giovani vogliono cambiare il sistema e chiedono libertà, responsabilità, possibilità di associarsi, ecc. Ma fino ad adesso non hanno parlato di libertà religiosa. Non in questo contesto».

Oggi c’è fondamentalismo come ai tempi del massacro di Tibherine, c’è pericolo che possa rinascere la violenza in Algeria?
«Grazie a Dio no. La gente ha sofferto molto, si parla di 150.000 morti tra il 1992 e il 2000. Oggi quelli che vogliono utilizzare la violenza sono piccoli gruppi sparsi, che fanno degli attacchi contro l’esercito. Ma ciò che chiedevano i gruppi armati da oltre 20 anni, di fare una società più musulmana, è avvenuto. Questo sia sul piano del velo per le donne, che sul ritorno alla conoscenza dell’Islam, alla preghiera, ad un’attenzione alla formazione musulmana dei bambini. Possiamo dire che adesso la società algerina è più legata all’Islam che prima della crisi. Gli algerini non hanno accettato l’Islam della violenza, ma il ritorno a una vita sociale più musulmana. Attraverso questo sviluppo si può segnalare una corrente dei sufisti, più attaccati alla esperienza personale religiosa e spirituale e per questo si sono interessati al cristianesimo come esperienza spirituale dell’incontro con Dio. Sono più aperti a rispettare lo sviluppo spirituale delle persone. Non accettano le conversioni, però si interessano a sapere chi sono i cristiani, qual è il cammino per la preghiera, la bibbia e ci invitano a incontri».

Come movimenti dal basso, è possibile creare iniziative comuni su alcuni principi ci sia un inizio di dialogo che possa portare a una maggiore condivisone anche dei valori religiosi?
«Questo è il nostro scopo. Se noi siamo in Algeria è per cercare quelli che vogliono essere nostri amici e condividere con loro tutto quello che si può, sia il lavoro sociale, sia una ricerca culturale sul futuro della nazione, sia un’interazione sui temi della globalizzazione. Abbiamo amici e con questi facciamo tante cose. Attraverso l’amicizia c’è un rispetto che esiste per quelli che sono cristiani da sempre, anche se per i convertiti è diverso. Bisogna che lo sviluppo porti verso un cambio totale, verso l’accettazione della conversione. Se uno di origine musulmana è cristiano perché i suoi genitori erano cristiani, è più facile per lui avere un posto nella società. Il parroco nel duomo di Algeri è algerino e suoi nonni furono cristiani. La gente è orgogliosa di dire che la responsabilità della cattedrale è data a un algerino. C’è questa contraddizione.
Io ho avuto due vicari generali di origine algerina, totalmente accettati. Nei ministeri sono sempre andato con loro senza problema, ma non sarei mai andato in un inconntro ufficiale con un musulmano convertito. Sarebbe una mancanza di rispetto.

a cura di Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Cana (27) Ubbidire è imitare

Il racconto delle nozze di Cana (27)

Gv 2,5: [e] dice sua madre ai diaconi/servitori: «Quello che vi dirà, fate[lo]»

Riprendiamo il versetto cinque che abbiamo iniziato ad analizzare nella puntata precedente, dove abbiamo visto che il rapporto tra Sinai e Cana è intenso e profondo, ma non si esaurisce, perché l’autore del vangelo vuole portarci a spaziare anche nella storia prima dell’esodo: la storia dei patriarchi, che è come il preambolo all’epopea dell’Esodo e quindi anche premessa della rivelazione di Gesù Cristo «figlio di Davide, figlio di Abramo» (Mt 1,1).

«Vergine madre, figlia del tuo Figlio»
Dopo la risposta di Gesù («Donna, che c’è tra te e me», Gv 2,4) che abbiamo spiegato a lungo, la madre non si rivolge a Gesù per supplicarlo di intervenire, ma ai «diaconi». Ella sa di non avere alcun potere sul figlio, perché da questo momento mutano i rapporti precedenti e la relazione di sangue lascia il passo a quella della fede: «Che c’è tra me e te?». O meglio, il rapporto naturale madre-figlio si trasforma, arricchendosi, nel rapporto tra Figlio e madre/figlia, tra il Signore e la Chiesa. La fede, infatti, non elimina la natura, ma, inglobandola, la trasforma: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli? … chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre» (Mc 3,33-35). Solo Dante Alighieri, ispirato dallo Spirito Santo, ha colto la profondità di questa relazione unica: «Vergine madre, figlia del tuo Figlio» (Par. XXXIII,1).
Le parole che la madre rivolge ai diaconi/servi sono prese alla lettera dalle parole che il faraone di Egitto rivolge al suo popolo all’inizio della siccità che durerà sette anni. Al popolo che ha fame e chiede da mangiare, il faraone non dà pane, ma un invito ad andare oltre di lui. L’onnipotente faraone si mette in seconda fila e lascia il posto a Giuseppe, l’ebreo schiavo divenuto governatore, che aveva previsto la carestia e aveva indicato la soluzione per superarla (Gen 41,53-57).
La madre conosce la Scrittura e, forse, è a Giuseppe che volge lo sguardo del cuore quando garantisce alla parente Elisabetta che il Signore «ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili» (Lc 1,52). La madre non è il faraone, ma la voce di un popolo affamato del Messia e della sua liberazione, è la figlia di Israele che geme nella morsa della fame, dell’emarginazione e dell’impurità cultuale; la madre è il simbolo dell’abbandono desolato in cui versa il suo popolo:

«6Dalla figlia di Sion è scomparso ogni splendore…7Gerusalemme ricorda i giorni della sua miseria e del suo vagare… 9 e nessuno la consola… 11Tutto il suo popolo sospira in cerca di pane; danno gli oggetti più preziosi in cambio di cibo, per sostenersi in vita… 17Gerusalemme è divenuta per loro un abominio… 19cercavano cibo per sostenersi in vita. 20Guarda, Signore, quanto sono in angoscia; le mie viscere si agitano, dentro di me è sconvolto il mio cuore» (Lam 1,6.7.9.11.17.19.20).
La figura di Giuseppe è l’àncora di salvezza che viene in soccorso dal passato e indica la prospettiva futura. Davanti alla madre che invoca i giorni della salvezza per il suo popolo, ora c’è il nuovo patriarca Giuseppe, «colui che aggiunge/aumenta» e che inaugura il nuovo tempo, il «kairòs» dell’abbondanza senza fine, come il patriarca antico salvò Israele dalla carestia, salvando l’Egitto dalla fame: «Tutta la terra d’Egitto cominciò a sentire la fame e il popolo gridò al faraone per avere il pane. Il faraone disse a tutti gli egiziani: “Andate da Giuseppe; fate quello che vi dirà”» (Gen 41,55). L’autore di Genesi ci tiene a sottolineare che «Giuseppe aveva trent’anni quando entrò al servizio del faraone, re d’Egitto» (Gen 41,46). Anche Gesù ha circa la stessa età quando la madre invita i servitori a ubbidirgli.
Purtroppo nella lingua italiana non si coglie il nesso stretto tra le parole, che invece per l’autore ha un’importanza capitale, perché fa vedere e sentire il rapporto stretto tra le parole dette e le idee e i personaggi che stanno dietro.
A questo scopo, per rendere più comprensibile il testo e per farlo gustare in tutta la sua profondità, riportiamo lo schema in greco della LXX, traslitterato, con relativa traduzione (il testo ebraico della Genesi dice esattamente il contenuto letterale del testo greco):

Come può vedere anche chi non conosce il greco, dalla trascrizione emerge che la corrispondenza tra i due testi è totale: siamo certi che l’autore metta «apposta» le parole del faraone in bocca a Maria.
Nella colonna 2a la particella dell’eventualità (an/ean) esprime indeterminatezza e quindi apertura a ogni evenienza (le due forme an o ean sono equivalenti): «Qualunque cosa vorrà dirvi, fatelo».
Nella colonna 3a si ha lo stesso verbo (lègō – dire) con due radici diverse perché le due forme sono di tempi differenti: in Gv si ha il presente congiuntivo attivo (lèghēi – nell’eventualità che dica), mentre in Genesi si ha l’aoristo (un tempo proprio del greco) congiuntivo dello stesso verbo.

Il bacio dell’ubbidienza
Le somiglianze tra i due testi, oltre a quelle letterali, sono di contenuto: a Cana manca il vino, in Egitto manca il pane; in Egitto è il faraone, cioè il capo assoluto che indica Giuseppe come la soluzione del problema; a Cana è la madre, in rappresentanza di Israele, che indica Gesù come la soluzione per risolvere la mancanza del vino messianico e dare corpo all’alleanza.
Da una parte il faraone, come abbiamo già accennato, pur essendo il capo assoluto dell’Egitto, dichiara la sua impotenza di fronte alla fame di pane e invia il suo popolo da Giuseppe, riconoscendone così l’autorità indiscussa; dall’altra parte la madre, rinviando i servi/diaconi da Gesù, preparandoli ad ogni evenienza, in quanto rappresentante del popolo d’Israele fedele all’alleanza sinaitica, invita tutti a riconoscere l’autorità indiscussa di Gesù, il solo che possa aprire la nuova alleanza e sfamare e dissetare il nuovo popolo, la Chiesa, che è la casa di tutti i popoli.
Lo studioso Frédéric Manns (L’Évangile, 102) sostiene che nel testo di Genesi, manca il tema dell’«obbedienza» e quello della «rivelazione», espliciti invece nel testo di Esodo: «Quanto il Signore ha detto, noi [lo] faremo!», che in Es 24 si trasforma in «noi faremo e ubbidiremo» (Es19,8; 24,3). Giovanni mette in evidenza – continua Manns – che l’alleanza nuova è basata sull’obbedienza alla Parola di rivelazione portata da Gesù.
La corrispondenza, quando si applica la tecnica del midràsh, non deve necessariamente essere espressa al millesimo, ma può anche essere allusiva, anche se riteniamo che nel testo di Gen 41,55 il tema dell’obbedienza non è solo implicito, ma abbastanza evidente. Inviando il popolo da Giuseppe, con l’invito esplicito «fate quello che vi dirà», è evidente che il faraone sottende il tema di «ubbidire» all’uomo che dovrà cornordinare i sette anni di siccità, specialmente se si tiene conto delle parole che egli pronuncia davanti alla sua corte, appena Giuseppe finisce di spiegare i sogni: «38Il faraone disse ai ministri: Potremo trovare un uomo come questo, in cui sia lo spirito di Dio?… 40Tu stesso sarai il mio governatore e ai tuoi ordini si schiererà tutto il mio popolo» (Gen 41,38.40).
La traduzione di questo versetto non esprime l’intensità dell’ebraico; il confronto con la versione greca della LXX serve a dare al lettore anche il senso armonico dell’immaginazione linguistica: il testo ebraico di Gen 41,40 dice letteralmente: «Tu stesso sarai il governatore della mia casa e sulla tua bocca ti bacerà tutto il mio popolo»; la versione greca della LXX invece traduce, interpretando (come fa il midràsh): «Tu sarai [governatore] sulla mia casa e alla tua bocca obbedirà tutto quanto il mio popolo» (anche la Vulgata traduce dalla LXX).
Il IV vangelo, come tutto il NT, dipende dalla Bibbia greca della LXX, per cui il tema dell’obbedienza è evidente. Baciare sulla bocca qualcuno in occidente significa avere intimità e quindi reciprocità di dipendenza. L’espressione biblica invece è propria della cultura egiziana faraonica ed esprime l’idea di una dipendenza totale e significa «al tuo comando»: al comando di Giuseppe tutto il popolo egiziano deve prostrarsi, bocconi a terra, pronto a obbedire senza alcuna remora.
Quanto al secondo tema, quello della rivelazione, riteniamo che sia il faraone con tutta la sua autorità solenne a «manifestare» Giuseppe come «il salvatore» dell’Egitto, colui che impedirà al popolo di morire di fame e di sete; e lo stesso Giuseppe si manifesta: «Giuseppe partì per visitare l’Egitto» (Gen 41,46) per mostrarsi a tutto il paese e dare ordini e prepararsi in vista della carestia. Attraverso Giuseppe l’Egitto e lo stesso faraone sanno che non è Giuseppe «il salvatore», ma il Dio di Israele perché «non io, ma Dio darà la risposta» (Gen 41,16).
Giuseppe e Gesù sono «pieni dello spirito di Dio»: come il faraone vide lo spirito di Dio su Giuseppe (cf Gen 41,38), anche Giovanni Battista vede scendere lo Spirito di Dio su Gesù (cf Gv 1,32).
Citando le parole del faraone, la madre di Gesù, o meglio l’Israele fedele all’alleanza, vuole mettere espressamente in rapporto Giuseppe e Gesù, presentando quest’ultimo come il nuovo patriarca che si prende cura della fame e della sete, cioè della vita del popolo. In ebraico Giuseppe si dice «yasàph» e vuol dire «Dio aggiunge/aumenta» e in questa circostanza Giuseppe, il patriarca, aumenta il pane e fa arretrare la carestia. Gesù in ebraico si dice «Joshuà» e significa «Dio è salvezza». Nel loro risultato finale i due nomi s’incontrano, perché ambedue sono la salvezza dei rispettivi popoli: danno la vita.
Come tutto il popolo di Egitto deve schierarsi agli ordini di Giuseppe, ora a Cana i servi/diaconi devono eseguire tutto quello che Gesù dirà loro di fare.

Ubbidire è imitare nella testimonianza
Non solo i servi/diaconi, ma anche la madre di Gesù non sa quello che egli farà; infatti l’invito ai diaconi è fatto nella forma dell’eventualità («qualunque cosa vorrà dirvi»). I servi somigliano ai discepoli che partecipano alla lavanda dei piedi, ma non sanno quello che egli fa, fino al punto che Gesù stesso deve chiarirlo per due volte:

«7Rispose Gesù [a Simon Pietro]: “Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo”… 12Quando ebbe lavato loro i piedi, riprese le sue vesti, sedette di nuovo e disse loro: “Capite quello che ho fatto per voi? 13Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. 14Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. 15Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv 13,7-15).
L’episodio citato si trova all’inizio della seconda parte del vangelo di Gv, esattamente nel «libro dell’ora», quello della rivelazione definitiva sulla croce, che è il trono della gloria del Messia. Si usa sempre lo stesso verbo di Cana «poièō – io faccio/opero/creo». Se consideriamo l’insieme del vangelo, possiamo concludere che l’invito della madre non è solo quello di ubbidire senza condizione, «fate quello che vi dirà», ma anche di «fare quello che lui stesso fa», cioè di imitarlo come Gesù medesimo richiede: «Vi ho dato l’esempio perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv 13,15).
Non basta ubbidire, bisogna imitare. Senza imitazione l’obbedienza può essere alienazione, deresponsabilità. Nessuno può abdicare da se stesso, creato «a immagine e somiglianza di Dio» (Gen 1,27). Ubbidire imitando è il modo per mettere sempre più a fuoco l’immagine divina che c’è in ciascuno di noi e mantenerla sempre nitida e trasparente.
A questo punto si può aprire un capitolo sull’obbedienza religiosa vincolata anche con un voto: il monaco, la suora, il religioso sono chiamati non a rinunciare alla loro volontà, ma a conformarla a quella del Signore, imitandolo nelle scelte e nell’impegno della vita: cosa farebbe Gesù se fosse adesso, qui e ora presente e al mio posto? Qui sta il cuore dell’alleanza sia del Sinai che di Cana: è la rivelazione e la manifestazione dell’esempio che si fa profezia di evangelizzazione.
Oggi nella Chiesa abbondano le parole, le esortazioni, le prediche, estrapolate dalla vita e per questo sono parole deboli, fragili e di conseguenza vuote. Domina il principio di autorità che si basa sull’obbedienza passiva e senza intelligenza: bisogna obbedire perché lo dice chi comanda. Il fondamento della fede in questo contesto non è la persona di Dio o la sua Parola rivelata, ma il culto della personalità, che in termini biblici è idolatria peccaminosa.
La vera profezia del Regno, il vero «vangelo dell’alleanza» si esprime nella testimonianza della vita, nella profezia dell’esempio, che s’impone da se stesso prima ancora di esigere una spiegazione. L’esempio/testimonianza prima della parola è l’esatta incarnazione del principio dell’alleanza dell’Esodo: «Faremo prima e obbediremo dopo».
Fare quello che egli dice e compiere quello che egli fa è la sintesi perfetta della fede adulta e libera, perché ciascuno dei credenti diventi a sua volta «Dabàr», una parola ebraica molto importante nella logica biblica. Essa ha due significati, apparentemente contrapposti, ma intimamente connessi e identici. Significa «parola/detto», ma ha anche il senso di «fatto/evento». È ciò che avviene nella creazione: «Dio disse… E così avvenne» (Gen 1, passim). In Dio mai la Parola è separata dall’evento, perché Dio parla agendo e agisce parlando. In lui parola e azione s’identificano.
A Cana obbedienza, rivelazione e testimonianza sono sinonimi, perché sono l’anticipo e la premessa dell’evento degli eventi: «Il Lògos carne fu fatto» (Gv 1,14), la Parola diventa Pane, il Pane rivela la fragilità di Dio che è il «luogo» privilegiato, l’arca dell’alleanza dell’incontro con gli uomini e le donne, i fragili dell’umanità.
(27- continua)

Paolo Farinella

Paolo Farinella




WWW Terra di missione

Missione oggi: l’inculturazione digitale

La rete è la riproposizione della realtà, un’espressione di un contesto esistenziale.
Ma occorre educare al mondo digitale. E mancano delle regole di comportamento. Nella rete ci sono i valori come pace, giustizia, riconciliazione, e si possono «incontrare» molte persone di buona volontà. Per questo si può considerare la nuova frontiera della missione. Breve incontro con padre Albanese.

Giulio Albanese, giornalista e missionario, è convinto che «Inteet, o la rete, sia terra di missione», perché quel fenomeno epocale chiamato «rivoluzione dell’era digitale» ha cambiato indelebilmente il nostro stile di vita. Lui, tra le altre cose, ha fondato nel 1997 la Missionary service news agency (Misna, www.misna.org) che ha avuto il merito di concretizzare un cornordinamento tra gli istituti missionari con uno strumento digitale.
Padre Giulio ha appena pubblicato insieme al medico Sergio Pillon il saggio «Cliccate e troverete», con Infinito edizioni. Riflessioni, come le definisce lui, sulle trasformazioni causate dall’avvento del digitale, anche per il mondo missionario e la chiesa in generale.
«La rete è terra di missione, i social network sono luoghi di missione, perché in essa c’è tutto e il contrario di tutto. È una riproposizione nel contesto del digitale di quella che è la realtà.
Troppe volte siamo manichei nelle nostre valutazioni e sottolineiamo la contrapposizione che c’è tra il mondo reale e quello che consideriamo virtuale. Ma questo non è costruttivo» sostiene padre Giulio. Perché «il mondo digitale è oggi una delle espressioni dei contesti esistenziali all’interno dei quali ogni persona, o almeno chi vi ha l’accesso, ha a che fare». Quindi è parte della realtà.
E non parla solo di Inteet, ma dei cellulari, che nel bene e nel male, «sono diventati una nostra protesi di cui non possiamo fare a meno».
Giulio Albanese è nato nel 1959, quindi, come sostiene lui stesso è un «immigrato digitale», termine con il quale si connota chi è nato prima della rivoluzione digitale, che si contrappone al termine «nativi digitali», riferito a coloro venuti al mondo e cresciuti con il computer in mano.

Una rivoluzione culturale
«Attenzione, molte volte, soprattutto come missionari, rischiamo di avere un approccio unicamente strumentale rispetto al web. La rivoluzione digitale è molto di più. In una maniera o nell’altra, ognuno di noi, attraverso alla rete, è messo nelle condizioni di comunicare. Ci sono dei limiti oggettivi, come quello della fisicità. Però è importante tenere a mente che dietro a ogni computer c’è sempre una persona creata a immagine e somiglianza di Dio».
Il meccanismo che ha innescato questa «rivoluzione culturale», come sostiene Nicholas Negroponte, del Mit (Massachussetts Institute of Technology), è un’accelerazione spazio-temporale. Prima dell’avvento delle «e-mail» perché una lettera arrivasse oltreoceano passavano dei mesi, oggi si comunica in tempo reale. Questo accelera il tempo, al punto tale che lo stesso Negroponte fa corrispondere un «anno Inteet» a un mese solare.
«La vita è più frenetica, certo – continua il missionario – ed è per questo che è importante l’azione di evangelizzazione. Pensiamo alle parabole di Gesù riguardo al Regno, ad esempio proprio a quella della rete che gettata in mare prende pesci buoni e pesci cattivi, oppure al campo nel quale cresce grano buono e zizzania. Nel web c’è tutto questo, tutto è parte del Regno e il compito del mondo missionario, degli operatori della pastorale è quello di sapere realizzare un sano discernimento, andando oltre ad ogni forma di manicheismo».
«Un discernimento s’impone, proprio perché a noi, come missionari, stanno a cuore dei valori fondamentali, quelli del regno: pace, giustizia, riconciliazione, il grande tema del rispetto del creato».
Valori che nelle società occidentali (e non solo) si stanno perdendo, o sono messi in secondo piano, anche a causa della frenesia e quindi delle accelerazioni dovute ad Inteet. Allora occorre capire come si può intervenire ad esempio in un social network e far passare dei messaggi.
«Credo che la rete ci consenta tutto questo. Nel mio piccolo, già ai tempi della Misna, io ho intercettato molti giovani, alcuni dei quali hanno poi avuto la possibilità di fare esperienze di missione, altri di entrare in organismi di volontariato internazionale, in alcuni casi addirittura all’interno di un istituto missionario. Il fatto è che la stragrande maggioranza dei missionari, tranne i giovanissimi, sono “immigrati” rispetto alla rete, cioè sono nati primi della rivoluzione digitale».

Inculturazione digitale
Per gli immigrati digitali la difficoltà è maggiore. «Occorre capire che noi, venuti dal pre-digitale, dobbiamo accettare la sfida. Questo esige uno sforzo a livello di inculturazione: dobbiamo adottare linguaggi che la maggioranza di noi non conosce. Come succede quando si vuole andare in missione, si deve imparare la lingua del posto, per entrare nella rete bisogna utilizzare un linguaggio che sia consono ad essa».
Vent’anni fa si parlava di inculturazione nel senso di fare propria la cultura del popolo presso il quale si andava a lavorare, ad esempio gli indios Yanomami, oggi dobbiamo inculturarci nel mondo digitale…
«Ma ho la sensazione che da parte nostra, alle volte, non ci sia ancora questa convinzione. Non abbiamo capito che dobbiamo entrare nella rete con il cuore e con la mente, con spirito cristiano. La verità è che attraverso il web si riesce ad entrare in contatto con tanta gente di buona volontà. Tra l’altro, la barriera geografica che fino a ieri era un ostacolo, viene abbattuta».
Ma non è un percorso così facile.
«Per prima cosa è necessario essere molto pazienti, perché di fronte all’innovazione tutti sperimentano il disagio. Gli innovatori sono solitamente insopportabili, perché dicono l’esatto contrario di quello che i genitori vogliono dire ai figli, i capi di stato ai cittadini, o gli industriali agli operai. Eppure senza innovazione, dice Negroponte, siamo destinati tutti al declino. Prendendo il linguaggio del Concilio, si parla di “aggioamento”».
Qualche consiglio.
«Nella preparazione dei giovani seminaristi alla vita missionaria, le materie sono quelle canoniche, nelle migliori delle ipotesi la missiologia. Dobbiamo iniziare a capire la necessità di preparare i quadri di domani con forti competenze nel digitale, perché la rete è terra di missione. E questo significa attrezzarsi a livello di corsi, investire maggiori risorse finanziarie su questo versante.
Il mondo missionario è entrato in rete, ma a parte l’esperienza della Misna, tutti fanno fatica a fare sistema, ci si muove in maniera molto auto referenziale e il rischio è che restiamo fermi al web 1.0. Utilizziamo cioè Inteet quasi fosse una bacheca per fare vedere quello che fa il mio o tuo istituto, o rivista. Ma Inteet è molto di più: è interazione, scambio, confronto, è una grande Agorà. San Paolo e gli apostoli sono scesi nell’Agorà e lì hanno incontrato la gente.
La missione è nata nelle città. All’inizio del terzo millennio, si propone in questa grande urbe internettiana».

La chiesa nella rete
Parlando in generale della Chiesa, come sta affrontando questa rivoluzione? «Sia da parte del Papa, anche nel messaggio per la giornata delle comunicazioni sociali di quest’anno, e più in generale da parte della Conferenza episcopale italiana, a livello istituzionale, c’è stata una grande attenzione a questo tema. L’anno scorso si è svolto a Roma il convegno “Testimoni digitali” e vi hanno preso parte tutti i rappresentati delle diocesi del nostro paese. C’era anche una discreta presenza di religiose, religiosi e missionari. Ma molto di più deve essere fatto.
A mio avviso occorre far sì che a livello della base si comprenda che si tratta di cambiare radicalmente mentalità.
Ma questo esige una grande umiltà: dobbiamo ammettere che siamo ancora molto analfabeti».
Proprio perché Inteet ha a che fare con la dimensione esistenziale, come tutte le realtà ha i suoi punti di forza e i punti di debolezza.
Consente di navigare e intercettare un mare magnum di notizie, sulle quali, però, si deve operare un sano discernimento.
«Quando si naviga in rete si è sottoposti a due fenomeni: la dispersione e la contaminazione.
Ogni volta che faccio un’indagine in Inteet attraverso un motore di ricerca, la rotta è sempre diversa, vuol dire che nel mare del web ho sempre delle cornordinate molto variabili: dispersione.
Inoltre più mi allontano dai portali che conosco e che utilizzo con la mentalità pre-digitale, più posso sperimentare la contaminazione, ovvero faccio fatica a valutare le fonti. Occorre fare il confronto tra più fonti.
Questi due fenomeni hanno un impatto a livello psicologico sulle nuove generazioni. Qui è importante offrire alla gente delle “istruzioni per l’uso”».
Istruzioni, regole, ma esiste una «morale internettiana»?
«Quando ero bambino i miei genitori mi hanno insegnato ad attraversare la strada sulle strisce. La strada è un “non luogo”, realtà di passaggio funzionale al camminare, all’andare. Per poter navigare devo rispettare il “codice della strada”, avere un regolamento che mi consenta di essere sicuro, tranquillo.
Il problema della rete è che purtroppo anche a livello di Chiesa e comunità cristiana, non abbiamo fatto abbastanza per fornire queste regole. Così si innescano meccanismi che dal punto di vista etico sono discutibili.
Nel mondo reale se entro in un negozio e rubo della merce è peccato, perché non ho pagato. Ma se nella rete, usando dei programmini, scarico illegalmente video o musica sembra non esserlo. Saltano le cornordinate. Importante è affermare il bene comune, anche nella rete, perché non è un mondo che non esiste. Il termine virtuale è ambiguo. È un’altra dimensione, la riproposizione di un mondo reale che comunque c’è».
Qui si pone un problema importante per educatori e genitori, che sono «immigrati», mentre i figli sono dei «nativi». Le preoccupazioni relative ai pericoli della rete e alla dissipazione del tempo sono molte.
«Nell’azione catechetica, le parrocchie dovrebbero offrire servizi per la comunità.
Bisogna educare anche nella rete. Il ragionamento applicato anni fa alla Tv: non è buona, non è cattiva, ha una sua neutralità. È uno strumento di comunicazione. Nella Tv puoi trovare grano buono e zizzania, lo stesso nella rete. È importante consentire agli utenti, soprattutto i giovani, di operare un sano discernimento: la sfida educativa nella rete è fondamentale, è uno degli aspetti essenziali che caratterizzano l’azione di evangelizzazione. Dobbiamo investire risorse, energie, anche soldi.
La capacità di operare una scelta tra i valori del regno e dell’anti regno».

Libertà e diritti
Il web è il mezzo di comunicazione più libero, ma siamo tutti tracciati, le nostre mail, conversazioni e foto memorizzate nei data base, così come i nostri comportamenti, i profili. Ne consegue uno strapotere dei provider (fornitori di servizio in rete) e delle compagnie telefoniche.
«È vero. Si pone una questione fondamentale, spesso strumentalizzata in maniera ideologica.
È chiaro che bisogna riaffermare il potere politico sulla rete, non all’insegna dell’oscurantismo o della censura, ma per governarla, per permettere a tutti la libertà di espressione, ma affinché comunque il bene comune venga preservato. Da questo punto di vista oggi la rete è anarchica. Bisogna mettere delle regole, proprio perché essa rappresenta un bene comune, e significa che la politica deve vigilare perché non vi siano abusi, perché l’individuo molte volte non è tutelato dalla rete. La privacy può essere stravolta. Il legislatore deve fare la sua parte.
Bisogna soprattutto vigilare su quelli che detengono il potere nella rete, mi riferisco alle compagnie telefoniche, a chi ha la proprietà delle linee e dei data base. Il rischio che corriamo è che la politica diventi non solo ancella dell’economia, con tutti i disastri che ne comporta, ma anche della rete e questo sarebbe un dramma ancora più grave».

Marco Bello

Giulio Albanese e Sergio Pillon,
«Cliccate e troverete, un missionario e un esploratore a spasso per la Rete». Prefazione di mons. Domenico Pompili, sottosegretario Cei, Direttore dell’ufficio nazionale per le comunicazioni sociali.
Infinito Edizioni, 2011, pp. 144.
€ 12,00. Disponibile E-book € 6,90.
www.infinitoedizioni.it.

Marco Bello




Dacci oggi … il pane quotidiano

Inchiesta: le nuove povertà / 2

Una mensa per i poveri in una grande città. Una come tante. Uomini che si affrettano a consumare un pasto caldo. Il disagio di chiedere di che sfamarsi. Lingue, molteplci e diverse. Ma anche dialetti nostrani. E volontari, che fanno in quattro per degli sconosciuti. Pennellate di povertà e solidarietà.  

Via Cibrario a Torino è il confine tra i ricchi e i poveri, tra i bianchi e gli stranieri in genere. Forse nessun’altra via torinese ha questo ruolo di cerniera, oppure, dipende dai punti di vista, di barriera. A Nord Cit Turin, quartiere liberty molto elegante, abitato dalla buona borghesia sabauda. A Sud la vecchia classe operaia giunta dal meridione durante gli anni del boom economico, e gli immigrati arrivati negli ultimi anni. In via Cibrario la domenica mattina, davanti ad una casa di accoglienza vincenziana (San Vincenzo), si allunga una coda di uomini e donne che devono risolvere il problema del pranzo. Hanno fame? Probabilmente solo alcuni delle circa duecento quaranta persone che si ammassano sentono l’impellenza di riempire lo stomaco.
più mense che affamati?
Paolo Miglietta, presidente della mensa festiva vincenziana, racconta questa piccola fetta di poveri della città: «Il povero di Torino, sia esso italiano o straniero, non ha in genere problemi di fame. La città, con i suoi servizi di assistenza sociale laica e religiosa, offre una quantità di cibo molto superiore alla domanda, che comunque è in forte aumento. Paradossalmente la possibilità di usufruire di pasti spesso ipercalorici ha portato al paradosso dello sviluppo di patologie in chi usufruisce quotidianamente delle mense. In questo momento esistono tavoli di lavoro che studiano la creazione di diete bilanciate per evitare l’insorgenza, o l’aggravamento di malattie come, ad esempio, il diabete, piuttosto diffuso». La mensa vincenziana di via Cibrario, «capeggiata» da suor Angela, figura totemica che un po’ tutti i volontari raccontano nei loro discorsi, la domenica mattina assomiglia ad un caos ordinato. I tre saloni rimbombano di lingue che raccontano provenienze distanti. C’è il piemontese dei vecchi autoctoni che ormai sono di casa, l’italiano, molto rumeno, un po’ di arabo. Anche se questi ultimi sono più silenziosi degli altri. Si passa velocemente tra i tavoli per un saluto perché i poveri che mangiano alla «mensa dei poveri» raccontano già di per sé tutto, senza aggiungere parole.
volontari di ogni razza
Domenica quattro settembre c’è una gran ressa. Forse perché il gruppo di volontari può vantare una specialità? È formato da circa venti persone con storie molto diverse: pare che sia una caratteristica di questa mensa vincenziana.
La più giovane è una studentessa del «durissimo» liceo classico Cavour. In mano ha il vassoio del caffè e alla domanda: «Perché sei qua, mentre il novanta per cento dei tuoi coetanei è al centro commerciale» risponde: «È bello fare qualcosa per queste persone che sono in difficoltà. Mi fa stare bene».
E poi si sale con gli anni. Non solo anzianità anagrafica, ma anche di servizio: si arriva fino ai venticinque anni di volontariato. Tutti fanno un po’ tutto, anche se esistono le specializzazioni.
Gli ospiti hanno appena finito di mangiare e apprezzare un ottimo risotto, specialità preparata solo da questo gruppo di volontari. Tra chi lava piatti, spazza il pavimento, serve a tavola, chiacchiera con i commensali, cucina, condisce il risotto dentro pentoloni visti solo in caserma, prepara il caffè, apparecchia e sparecchia. C’è di tutto. Chi giunge dal Rotary Club e chi dalla contestazione politica degli anni Settanta, chi è religioso e chi la messa la frequenta saltuariamente. Una volta ogni quattro settimane i gruppi di volontari dedicano circa sei ore della loro domenica ai poveri, dalle dieci del mattino fino alle quattro del pomeriggio. E dato che è una mensa festiva un po’ tutti i volontari hanno lavorato a Natale, capodanno o in altre ricorrenze.
Racconta Giulia: «C’è una gran confusione durante queste feste e alla fine della notte la stanchezza e tanta. Ma è bellissimo, c’è una gran voglia di far festa qua dietro i fornelli e di là nei saloni».
Mentre i volontari lavorano tanto da sembrare un combattivo plotone di formiche rosse, nei tre saloni gli ospiti consumano rumorosamente il pasto scambiando quattro chiacchiere. Sono seduti molto vicini gli uni agli altri, e, come da clichè, alcuni di essi non si liberano dell’armamentario che si portano sempre con sé neanche quando mangiano.
Nuovi poveri
Ancora Paolo Miglietta racconta: «Un aspetto che anche dopo molti anni di volontariato con questi uomini e donne mi sorprende sempre è la loro fretta perenne. Pur avendo una giornata ricca di tempo libero sono sempre di corsa: devono entrare velocemente, sedersi velocemente, mangiare velocemente, andarsene velocemente. Come è ovvio questo racconta il disagio che prova, anche chi ormai è diventato un membro della famiglia,chiedere del cibo per sfamarsi».
Chi è seduto ai tavoli e mangia primo, secondo, contorno e frutta non rappresenta l’unica tipologia di utente della mensa festiva vincenziana. Costoro sono circa centoquaranta ed in tasca hanno una tessera rilasciata dai servizi sociali della Città di Torino, che certifica il loro stato di grave disagio e dà loro diritto ad entrare nella struttura e sedersi. Per chi invece rifiuta di passare attraverso i servizi sociali, altro momento problematico a livello psicologico soprattutto per i cosiddetti «nuovi poveri», esiste un servizio che distribuisce circa centoquaranta pranzi al sacco: panini, acqua o succo, un frutto.
La linea «intea» opera da circa quindici anni e chi ne usufruisce è un gruppo variegato: barboni italiani e lavoratori stranieri. Uomini che pur avendo un lavoro, non riescono a coprire i loro fabbisogni primari. Magari pagano l’affitto, in condivisione, ma i soldi per il cibo scarseggiano. Molti anche gli anziani, spesso soli. Idem per chi ha avuto problemi con la giustizia e, uscito dal carcere, non sa dove andare a sbattere la testa.
Il gruppo che usufruisce del pranzo da asporto invece è composto prevalentemente da ragazzi con problemi di dipendenza da sostanze, siano esse droghe o alcolici, e molte donne, mandate avanti dagli uomini che non hanno il coraggio di andare alla mensa dei poveri in prima persona. Il ricambio in questo gruppo, circa centocinquanta persone ogni domenica, è molto rapido. Assenti ad entrambe le distribuzioni, le famiglie, ma non perché il problema non esista. Per loro è previsto un apposito pacco che viene portato dai volontari direttamente a casa.
fame in aumento
Racconta Paolo Miglietta che la richiesta di cibo è in vigoroso aumento: «Se devo dare una data di inizio di questa tendenza è la primavera del 2011. Un incremento massiccio, composto per la maggior parte da lavoratori stranieri ma anche da tantissimi italiani che hanno esaurito ogni tipo di ammortizzatore sociale, compresa le rete famigliare». E questa di per sé è una novità in Italia. Lo Stato, per risparmiare, taglia i servizi sociali e delega alla famiglia. Questa, in balia della crisi e priva anch’essa di un supporto accettabile, non riesce più a sostenere gli anelli più deboli che la compongono. Il volontariato rappresenta così l’ultimo approdo per chi ha bisogno di aiuto in questa Italia sempre più sgangherata.
Per questa ragione la distribuzione di tessere è stata interrotta dato che non esiste più lo spazio fisico dove far sedere gli ospiti.
Alle due del pomeriggio di una uggiosa domenica di settembre chi aveva fame esce dalla mensa vincenziana e torna da dove era giunto. Le sale sembrano colpite da un violento terremoto. Le formichine passano all’attacco e rimettono tutto in ordine. Fuori capannelli di uomini e donne si fermano per le ultime chiacchiere e commenti.

Maurizio Pagliassotti

Rapporto caritas-zancan sulla povertà

Sempre più poveri

Circa un quarto degli italiani è in caduta libera verso la povertà.
Mentre il 13,8% sono già classficati poveri.

Il nuovo rapporto Caritas – fondazione Zancan sulla povertà in Italia è stato presentato a Roma il 17 ottobre scorso, giornata mondiale di lotta contro la povertà. «Il titolo – Poveri di diritti – è fortemente evocativo» scrivono i curatori. «Un titolo che nasce da una semplice, ma scontata considerazione: alle persone che vivono in condizioni di povertà si pensa solo in termini di insufficienti risorse economiche, ignorando che eisste tutta una serie di altre privazioni che peggiorano lo stato di precarietà e ne impediscono il superamento. Il diritto alla casa, al lavoro, alla famiglia, all’alimentazione, alla salute, all’educazione, alla giustizia – pur tutelati dalla Costituzione italiana – sono i primi a essere messi in discussione e negati».
E i risultati del rapporto lo dimostrano. I poveri nel nostro paese sono in aumento: nel 2010 8 milioni e 272 mila persone, ovvero il 13,8% della popolazione contro i 7,810 milioni dell’anno precedente.
Ma ancor più eclatante è che le «persone impoverite», in caduta verso condizioni sempre peggiori sono il 25% degli italiani.
Rispetto al panorama europeo siamo i peggiori: sono a rischio povertà o esclusione sociale il 24,7 % degli italiani, contro il 21,2% dell’area Euro e il 23,1% dei paesi dell’Ue.

L’occupazione è diminuita in un anno di 153mila unità, mentre la disoccupazione di lungo periodo è in aumento.
Il primo dei diritti negati è quello alla famiglia: «la povertà colpisce con particolare violenza le famiglie numerose, con più di due figli. Senza un adeguato sostegno, le famiglie non saranno incentivate a fare figli e le ripercussioni a livello demografico saranno pesanti». In questo senso l’ottusità dell’attuale governo è palese: il Fondo  per le politiche della famglia è stato decrementato da 185,3 milioni nel 2010 ai 31,4 milioni previstri nel 2013. In contro tendenza con i diversi altri governi europei.
Diritto al lavoro: in Italia sono il 56,9% i cittadini tra15 e 64 anni con lavoro regolarmente retribuito. Una percentuale tra le più basse dell’Occidente. Parlando poi di giovani si scopre che l’occupazione è scesa dell’8% nel 2009 e del 5,3% nel 2010 con un tasso di disoccupazione che ha toccato il 27,8%. Mentre solo il 47% delle donne ha un lavoro (60% in Francia) e guadagna il 16,8% in meno di un uomo di pari livello.
Ma il rapporto punta anche il dito sui «Soldi spesi male». I dati evidenziano che gli enti locali continuano a investire tante risorse assistenzialistiche nel contrasto della povertà, ma con scarsi risultati. C’è una prevalenza della logica di emergenza, per la quale si preferisce erogare contribuit piuttosto che attivare servizi. Ma, sottolineano i curatori: «Questo modo di rispondere alla povertà non incentiva l’uscita dal disagioma , anzi rischia di rendere coico il problema».
La maggior parte della spesa pro capite per combattere la povertà è riservata a contribuiti economici una tantum a integrazione del reddito familiare.
Nel rapporto viene chiesto un «cambiamento di rotta»: «La prima strada da percorrere è quella di incrementare il rendimento della spesa sociale. La seconda è di recuperare i crediti di solidarietà destinandoli in via prioritaria a occupazione di welfare a servizio dei poveri». Ovvero creare servizi per i poveri dando lavoro ad altri potenzialmente poveri. Si ipotizzano alcune centinaia di miglia di impieghi.

Il divario resta elevato tra le regioni italiane, quelle che spendono di più (Nord) investono fino a 9 volte di quelle che spendono di meno (Sud).
Molto interessanti sono i dati provenienti dai 195 centri di ascolto Caritas. Il numero complessivo delle persone ascoltate è aumentato, negli ultimi 4 anni, di quasi 20%. Aumentano gli italiani che si rivolgono ai centri di ascolto, con particolare incidenza al Sud, mentre la presenza di «nuovi poveri» è crescita del 13,8% in 4 anni.
Da questi dati di «terreno» si deduce che: «Il raggio di azione della pvertà economica si sta prograssivamente allargando, e coinvolge un numero di persone e famiglie tradizionalmente estranee al fenomeno». Gli operatori della Caritas notano che «La crisi ha prodottu un notevole incremento di fenomeni di sottoccupazione e lavoro nero, aggravando una serie di aspetti negativi della flessibilità del lavoro».
Anche l’emergenza abitativa, contrapposta al diritto alla casa, è in aumento. Un problema aggravato dalla scarsità di risposte di governo e amministrazioni locali. I problemi abitativi sono aumentati del 23,6% negli ultimi 4 anni.
Molti più giovani si rivolgono oggi ai centri di ascolto Caritas, mentre una nuova povertà tra gli immigrati, anche di lunga data, si è fatta strada. In particolare i nuclei famigliari che si erano ricongiunti e che ora non riescono a soddisfare le spese in forte aumento, devono ripensare a loro progetto migratorio.
Le risposte ecclesiali a questa devastante tendenza sono molteplici. Da quelle più tradizionali come le mense dei poveri (al gennaio 2010 era presenti 449 mense socio-assitenziali) agli strumenti più modei, come microcredito per famiglie e imprese, botteghe solidali, carte magnetiche di spesa, progetti di «consulenza casa». Ai fondi diocesani di emergenza. Le nuove iniziative, nell’ultimo anno sono aumentate del 39,6%.

a cura di Marco Bello


Caritas Italiana, Fondazione Zancan,
«Poveri di diritti, rapporto 2011 su povertà ed esclusione sociale in Italia», ed. Il Mulino, pp. 272, € 22,00.

Marizio Pagliassotti




Georgia. Vite sfollate

I territori secessionisti del Sud Ossezia e dell’Abkhazia, appoggiati dalla Russia, sono costati alla Georgia tre guerre (1991, 1993, 2008). E migliaia di sfollati che continuano a vivere in condizioni miserevoli.
Oggi, con la presidenza Saakashvili e gli aiuti interazionali, Tbilisi cerca di costruire un futuro migliore per il paese e i georgiani.

Il 26 maggio in Georgia è festa nazionale. È il giorno dell’indipendenza e l’anniversario si celebra con una grande parata militare nella capitale, Tbilisi. La parata sfila lungo il centralissimo viale Rustaveli, dove è situato il palazzo del Parlamento, davanti al quale per l’occasione si allestisce una tribuna che ospita le massime autorità dello Stato.
Lo scorso maggio mi trovavo nuovamente in Georgia e ho deciso di andare a vedere la parata. A causa degli sbarramenti in centro ho tardato ad arrivare a destinazione. Quando sono giunta in prossimità della tribuna due ali di popolo erano già accalcate lungo i marciapiedi: lo spettacolo stava cominciando. Ho allungato il collo e, da dietro il muro umano, ho visto i soldati scorrere a squadre compatte, precedute dai loro comandanti. Risalendo la corrente per trovare un punto d’osservazione migliore, sono arrivata fino all’ampia piazza della Repubblica, dove mi ha accolto un rombare di motori: erano i carri da guerra e la contraerea, pronti a partire per accodarsi alle schiere dei soldati. Come in tutte le parate che si rispettino.
Osservando i soldati che, nonostante i movimenti rigidi e cornordinati, avevano un’aria trasandata e non molto militaresca, intravedendo sotto i berretti le loro facce compassate ma bonarie, mi è tornato in mente che nell’agosto del 2008 quello stesso esercito si era disfatto in quarantottore.
Per i georgiani era stato un duro colpo all’orgoglio nazionale. Da quando il presidente Saakashvili era salito al potere, quattro anni prima, con l’aiuto di esperti americani si era cominciato ad addestrare gli uomini, ad ammodeare e potenziare gli armamenti. Erano apparsi per le strade di Tbilisi grandi cartelloni pubblicitari, che mostravano immagini di soldati sorridenti, rassicuranti. Se ne esaltava la preparazione e s’invitavano i giovani ad arruolarsi per diventare, anch’essi, degli eroi.  Il loro coraggio sarebbe servito per riconquistare i territori secessionisti del Sud Ossezia e dell’Abkhazia, che si facevano forti dell’appoggio della Russia. In tempo di pace i georgiani avevano creduto di potercela fare contro un avversario mille volte più forte. Quella convinzione, però, era svaporata in poche ore sotto i fischi delle bombe e dell’artiglieria russa. L’unica cosa che i soldati avevano potuto fare era stato abbandonare tutto e tornare a casa.
A giudicare dai volti eccitati e lieti, la memoria di quegli avvenimenti non sembrava turbare l’atmosfera di festa che regnava intorno alla parata. Maggio era nel pieno del suo splendore, il sole inondava il viale Rustaveli e faceva brillare i colori delle uniformi, delle bandiere, dei fiori nei vasi delle fioraie. Grandi e piccoli si godevano la giornata primaverile e lo spettacolo offerto. Io, però, pur nella generale allegria, non riuscivo a scacciare dalla mente le immagini delle persone che fuggivano dai bombardamenti in quell’agosto di due anni prima. Allora ero a Tbilisi e mi capitò più volte d’incontrare gli sfollati, di udire le loro tragiche storie. Fortunatamente, la guerra sarebbe durata solo pochi giorni, presto la città e il paese avrebbero ripreso la loro vita normale.

LA TRISTE ODISSEA DEGLI SFOLLATI
Il peso del ricordo di quei giorni funesti è rimasto sulle spalle dei circa trentamila sfollati interni che non hanno potuto fare ritorno alle proprie case e che ora trascinano l’esistenza in centri collettivi nelle città, o in villaggi ghetto, sorti precipitosamente nel mezzo del nulla. Li si può vedere percorrendo l’autostrada che collega Tbilisi e Gori, la terza città del paese: lunghe file di casette monofamiliari a un piano, tutte uguali. Non hanno nulla attorno, non terra da coltivare, non attività, non negozi. Chiunque veda questi improbabili villaggi si chiede a chi sia potuta venire l’idea di risolvere in tal modo il problema degli sfollati. Anche prima di costruirli, si sarebbe potuto facilmente immaginare che la gente mandata a viverci si sarebbe trovata senza un lavoro, senza infrastrutture, senza un collegamento naturale con la vita degli altri. Chi li visita racconta di persone sedute sull’uscio di casa, sfaccendate e avvilite. I villaggi sono stati costruiti con i soldi dell’aiuto internazionale e anche i funzionari delle istituzioni erogatrici, a quanto pare, non si sono opposti alla loro realizzazione.
Il problema di dare una sistemazione dignitosa ai vecchi e nuovi sfollati rimane più che mai attuale. Il conflitto del 2008 non ha fatto che aggravare una situazione rimasta irrisolta da quando, tra il 1991 e il 1993, due guerre civili costrinsero centinaia di migliaia di georgiani a lasciare le proprie case in Abkhazia e in Sud Ossezia. Costoro sono stati per anni lasciati in una sorta di limbo, senza che il governo affrontasse seriamente la questione di un loro re- insediamento in altri alloggi. C’è chi ha cercato di arrangiarsi, da solo o con l’aiuto di altri famigliari, chi ha trovato ricovero in strutture, messe “temporaneamente” a disposizione dallo stato. Tenere calda la questione degli sfollati serviva al governo come carta da giocare per dimostrare la necessità di recuperare i territori secessionisti. Va da sé che, quando l’Occidente si è mobilitato per aiutare la Georgia dopo la guerra del 2008, anche i vecchi sfollati hanno chiesto di essere finalmente aiutati a trovare una sistemazione definitiva. In accordo con gli stati donatori, è stato stabilito che sarebbero stati inclusi nel programma di assegnazione di nuovi alloggi. Anche nel loro caso, però, le soluzioni offerte dal governo spesso non sono adeguate. Famiglie che ormai da quasi vent’anni vivono in città ricevono alloggi in centri piccoli, o remoti, dove non c’è possibilità di lavoro, dove a volte mancano i servizi essenziali. Qualcuno opta per un compenso in denaro, ma molti rifiutano di trasferirsi. Dalla scorsa estate a Tbilisi sono cominciati gli sgomberi forzati degli edifici dove vivevano gli sfollati. La brutalità di questi interventi ha provocato un’ondata di denunce e proteste da parte sia dei diretti interessati, sia delle organizzazioni umanitarie. Ora il governo sta agendo con maggior cautela, ma gli sgomberi continuano.

QUALCHE SOFFIO, D’ARIA NUOVA
Mentre gli sfollati continuano la loro triste odissea, il resto del paese, anche se lentamente, va avanti. Gli ingenti aiuti inteazionali arrivati all’indomani dell’ultimo conflitto hanno rimesso in moto i lavori pubblici. Le infrastrutture stanno migliorando. Per il viaggiatore punto di osservazione privilegiato sono le strade. Ebbene, rispetto ai viaggi precedenti ho potuto costatare che sta diventando più facile muoversi nel paese. È migliorata la condizione delle principali strade di comunicazione, procedono i lavori per completare il tracciato della ferrovia che collegherà Kars, in Turchia, con Baku, in Azerbaigian, attraversando la Georgia da un capo all’altro. Tbilisi ha due nuove arterie, che alleggeriscono il traffico del centro città, perennemente congestionato.
L’edilizia privata non si è ancora ripresa dalla crisi postbellica, ma lo Stato ha riaperto i cantieri e ha, tra l’altro, messo in opera un grosso progetto, sostenuto dall’Unesco, di ristrutturazione del centro storico di Tbilisi. Tra qualche tempo il nucleo più antico della capitale georgiana avrà un volto forse anche troppo nuovo. Spariranno le case sbilenche e fatiscenti; altre saranno rifatte, i caratteristici balconi odoreranno di legno nuovo e offriranno ai turisti una perfetta immagine da cartolina, sia di giorno, che di notte, grazie alla nuova potente illuminazione nottua.
Piccoli progressi si stanno facendo anche nella sanità. Le fasce più deboli ricevono ora qualche aiuto in più dallo Stato, che dovrebbe assicurare loro, perlomeno, l’assistenza e i farmaci di base. In realtà, questo diritto non è sempre garantito, per mancanza di strutture adeguate sul territorio. Coloro che non rientrano nelle categorie previste dalla legge continuano ad affrontare da soli il problema della propria salute. Ciò vuol dire che, quando c’è la necessità d’interventi costosi, chi non ha le risorse sufficienti s’indebita, o rinuncia alle cure.
Sebbene i segni della povertà rimangano visibili in molte parti della capitale e del paese, in confronto ai cupi anni Novanta del secolo scorso, si deve ammettere che adesso in Georgia si respira un’aria più leggera.

CON LA PRESIDENZA SAAKASHVILI
Nell’appartamento da me preso in affitto sulle colline alla periferia di Tbilisi, al quattordicesimo piano di un casermone degli anni settanta, in salotto faceva mostra di sé un grosso caminetto. La sua presenza ha attirato subito la mia attenzione, giacché nell’edilizia popolare sovietica i caminetti non erano certo un elemento consueto. Non era, infatti, previsto nel piano originario. Lo aveva fatto costruire Irina, la padrona di casa, dopo che, con la fine dell’Urss, aveva cessato di funzionare il sistema di teleriscaldamento. A Tbilisi erano rimasti tutti al freddo e ognuno si era ingegnato come poteva per sopravvivere ai rigori dell’inverno, quando il vento soffia gagliardo dalle colline intorno alla città e penetra attraverso gli infissi. Così erano tornati in auge i caminetti. Il gas mancava, la luce pure. Compariva ogni tanto per un’ora o due; allora era una festa, ricorda Irina. Per cucinare si usavano le stufe a cherosene.
Il primo decennio dopo l’indipendenza dall’Urss fu il più duro. Il paese era stato sconvolto da due guerre civili e la situazione era rimasta molto precaria anche dopo la fine dei combattimenti. Chi avrebbe dovuto governare badava ai propri interessi e il paese era lasciato a se stesso. L’anarchia regnava sovrana. Ne sono una testimonianza sui generis le forme inconsuete che assunsero le case in quegli anni. Chi poteva, si accaparrava un pezzetto di terreno davanti a casa, ci costruiva un balcone, o un prolungamento del proprio appartamento. In alcuni casi gli abitanti si accordavano per agire con più metodicità e costruire un’aggiunta lungo tutta la lunghezza del proprio stabile. Se i soldi mancavano, si lasciavano i lavori a metà. Tali sono rimasti fino a oggi, con le armature di ferro che spuntano dai blocchi di cemento. Ci sono palazzi in cui, una volta eretta una carcassa in cemento armato, gli abitanti dei singoli piani si sono sbizzarriti nel riempirla a proprio piacimento.
Adesso non è più possibile prendere iniziative del genere. Dal 2004, con l’amministrazione Saakashvili (giunto al secondo mandato), lo Stato ha cominciato a rioccupare le posizioni perdute e a riprendere controllo dello spazio pubblico. La politica del nuovo presidente ha avuto risvolti senz’altro positivi. In confronto agli anni della presidenza di Shevardnadze, ora si avverte la presenza regolamentatrice dello Stato. C’è stato uno sforzo di rendere più efficienti i servizi pubblici, pagare gli stipendi, migliorare l’infrastruttura e, soprattutto, mettere un argine alla corruzione dilagante tra i pubblici ufficiali. Durante la vecchia amministrazione la corruzione aveva assunto proporzioni gigantesche e si era diffusa capillarmente a tutti i livelli dell’apparato statale.
Riprendere il controllo del territorio ha voluto, però, anche dire una rinnovata determinazione a riguadagnare le regioni perdute a seguito delle guerre civili degli anni Novanta. Saakashvili stabilì un ambizioso programma di riconquista, che prevedeva la riannessione di Abkhazia e Sud Ossezia entro la fine del suo primo mandato. Ciò inaugurò un periodo di crescenti tensioni tra il governo georgiano e la Russia, che sosteneva i secessionisti. Ogni spazio di dialogo si chiuse, le posizioni diventarono rigide e intransigenti, le reciproche provocazioni sempre più frequenti, fino a che il conflitto, da latente, non sfociò in guerra aperta.

STALIN RESISTE (A DISPETTO DI TUTTO)
Una vittima indiretta della guerra è stato il grande monumento a Stalin che campeggiava nella piazza centrale di Gori. Era sopravvissuto alla destalinizzazione, al crollo dell’Urss e persino al primo mandato della presidenza Saakashvili, durante il quale il periodo sovietico era stato riletto in chiave antirussa, come se i georgiani non avessero dato il proprio consistente contributo alla costruzione dell’Urss e del suo apparato repressivo.
Dopo la guerra, che ha inasprito ulteriormente il sentimento antirusso e il giudizio nei confronti del passato sovietico, il «padre della patria» è stato rimosso dal piedestallo nella piazza della sua città natale; uguale sorte è recentemente toccata ad altri suoi busti, che ancora erano rimasti al proprio posto, a decorare vie e giardini di altre città georgiane.
Tra il popolo, tuttavia, l’origine georgiana ha salvato Stalin da un’incondizionata condanna. Non ho ancora trovato nessuno in Georgia disposto a marchiarlo come uno dei dittatori più sanguinari che la storia conosca. Con chiunque abbia parlato, ho sentito giudizi indulgenti, che spiegavano le repressioni staliniane come il pegno da pagare per costruire un paese grande e potente. Stalin continua a essere considerato un grande uomo di stato, di cui, tutto sommato, c’è da andare fieri. In barba agli ultimi ritrovati della storiografia ufficiale, che vede nella Russia e nell’Urss l’origine di tutti i mali della Georgia, il simbolo di ciò che di peggiore ha prodotto il periodo sovietico è ancora considerato una gloria nazionale.
Un altro dei brutti scherzi che gioca, a volte, l’orgoglio nazionale.

Bianca Maria Balestra

 

Bianca Maria Balestra




Da San Nicola a Babbo Natale

Storia ed Evoluzione della più popolare tradizione natalizia

Babbo Natale rischia di scippare il vero significato al Natale; eppure le sue origini sono eminentemente cristiane e risalgono al 3° secolo d.C., alla figura di san Nicola di Mira (Turchia). Il suo culto è stato secolarizzato e banalizzato, fino a ridurre il santo a simbolo di buoni sentimenti e, soprattutto, a testimonial accattivante per stimolare mercato e consumismo.

Alla vigilia di Natale del 2000 Vittorio Messori, dalle pagine del Corriere della Sera, lanciò una provocazione: traslare la festa della Natività dal 25 dicembre al 15 agosto per ritrovare una ricorrenza «non solo senza eccessi commerciali, ma pure senza renne, abeti, babbi natale…». La sfida di Messori partiva dalla considerazione che il giorno più suggestivo (sebbene non il più importante) del calendario cristiano, si era trasformato in un appuntamento commerciale e consumistico, dove la religiosità faceva solo da tenue sfondo al palcoscenico dell’apparire e dell’avere.
Per la verità, il pungolo non era cosa nuova: undici anni prima, nel 1989, un pittore newyorkese, Robert Cenedella, aveva suscitato un intenso dibattito con la sua opera intitolata Santa Claus: un Babbo Natale agonizzante su una croce piantata in un terreno cosparso di pacchi regalo. Lungi dal voler essere irriverente verso i valori cristiani, Cenedella affermava che il suo quadro «tende a mostrare come Santa Claus ha sostituito Gesù Cristo sino a prendee il posto come principale figura del Natale».
In effetti, le luminarie multicolori che addobbano i grandi magazzini e le strade delle nostre città durante le feste natalizie, rischiano di offuscare il vero significato della ricorrenza religiosa. Non è certo un caso che su internet, e in particolare negli Stati Uniti, si stanno moltiplicando i siti che esaltano la figura di Gesù rispetto a quella di Babbo Natale. Spesso (ma parliamo di scuole o sette cristiane radicali) Santa Claus viene demonizzato sino ad assimilarlo ad un anticristo o addirittura a Satana.
Tutta questa acredine ideologica, però, non permette di osservare l’interessante evoluzione che, lungo l’arco di diciassette secoli, ha portato un umile vescovo della costa turca, a trasformarsi nel moderno rubicondo omone dalla barba bianca che la notte del 24 dicembre passa di casa in casa a lasciare regali.

Tra storia e leggende
La storia di Babbo Natale iniziò infatti nel 260 d.C. a Patara, una città sulla costa meridionale dell’odiea Turchia, la cui popolazione era di cultura e lingua greca: qui, da una famiglia cristiana, nacque il futuro san Nicola.
L’impero romano, dopo la sconfitta di Valeriano contro la Persia, versava in grave crisi e alla sua guida si succedevano, uno dopo l’altro, imperatori inetti e poco rappresentativi. Nicola crebbe in questo clima di incertezza politica e di insicurezza economica. E proprio la miseria fa da sfondo alla leggenda che lo rese poi celebre.
Un padre di famiglia si struggeva per maritare le proprie tre figlie, ma la povertà in cui versava non gli consentiva di dare loro una dote sufficiente. Giunse così alla decisione di farle prostituire. Saputolo, Nicola decise di aiutare la famiglia donando, in via del tutto anonima, le somme di denaro sufficienti per combinare i matrimoni delle tre grazie.
Tra le tante versioni pervenuteci, una narra che, dopo aver lanciato alle tre sorelle, per due volte, il sacchetto con le monete dalla finestra, per non farsi scoprire, Nicola si arrampicò sul tetto lasciando cadere il terzo sacchetto dal camino. Un chiaro riferimento allegorico al tradizionale percorso seguito da Babbo Natale per lasciare i pacchi dono sotto l’albero. La storia ha comunque dato origine all’iconografia che distingue san Nicola da ogni altro santo cristiano: il virtuoso, difatti, viene sempre raffigurato con tre sfere d’oro ai suoi piedi o tra le mani.
A Bari, dove il santo è venerato come patrono cittadino, il culto di san Nicola ha portato all’istituzione del maritaggio, mantenuta in vita sino al 1984, grazie alla quale ogni anno venivano sorteggiate alcune ragazze orfane di padre e povere, a cui veniva assegnata una dote per contrarre matrimonio. Anche questa pratica aveva un chiaro riferimento alla storia delle tre sorelle aiutate dal patrono barese.
Ma altri racconti narrano innumerevoli meriti ascrivibili a san Nicola, grazie a cui marinai, bambini, ragazze nubili, ladri, prigionieri, macellai si pongono sotto il suo patronato.
Michele Archimandrita, monaco dell’VIII secolo, si spinge sino a dipingere un Nicola infante già destinato alla santità, scrivendo che il bambino rifiutava di succhiare il latte dal seno materno più di una volta al mercoledì e al venerdì, giorni dedicati al digiuno settimanale.
Il confine tra realtà e fantasia torna a farsi più evidente dopo la nomina a vescovo della città di Mira, un importante porto della Licia, avvenuta nel 295 d.C. Il vescovado di Nicola si protrasse nel periodo delle persecuzioni di Diocleziano, per prolungarsi oltre il Concilio di Nicea, a cui partecipò schierandosi dalla parte di Atanasio nella disputa con Ario sulla natura umana e divina di Cristo.
L’ennesima leggenda lo vede impegnato a spiegare la Trinità agli scettici, mostrando loro un mattone formato da terra, acqua e fuoco, quando dal laterizio si sprigiona una fiammella, cadono delle gocce d’acqua e nelle mani di Nicola rimane solo terra. Tale episodio riguardante un dogma basilare per la fede cattolica, definito per la prima volta proprio durante il Concilio di Nicea, vuole indicare l’elevata statura morale e teologica che i posteri avrebbero dato a san Nicola.
La morte del vescovo di Mira non fece altro che rafforzare la fede riposta in lui da parte della popolazione dell’Asia Minore. Ma sino al X secolo, la fama di san Nicola rimase relegata nella regione medio orientale.

Esportato e trafugato in Europa
Fu Teofano, figlia di Costantino Sclero, che nel 972 «esportò» la popolarità del santo in Europa. Promessa sposa al diciassettenne Ottone II, il 14 giugno 972 la principessa giunse a Roma portando con sé l’effige del suo patrono, san Nicola, appunto. Il riscontro dato dai fedeli fu immediato: in pochi anni la venerazione si espanse fino al nordeuropa, tanto che nell’XI secolo Mira divenne uno dei principali centri di pellegrinaggio di tutta la cristianità. I credenti andavano fin lì per pregare, ma anche per portare a casa l’olio sacro, un liquido che si diceva trasudasse dalla tomba del santo. L’espansione musulmana, però, raggiunse Mira, preceduta da un panico incontrollato, che indusse alla fuga i cittadini lasciando incustodite le spoglie del loro patrono.
Quale migliore occasione per una città come Bari, decaduta politicamente dopo la conquista normanna, per riacquistare il prestigio che aveva sotto l’impero bizantino? E così, nel 1087, 62 marinai baresi finanziati dal nuovo governo cittadino e con la benedizione di padre Elia, abate del monastero benedettino di Bari, sbarcarono a Mira trafugando, senza neppure combattere, le spoglie di san Nicola per trasportarle oltremare.
Con l’arrivo delle reliquie, la città pugliese riuscì a riemergere dal torpore religioso e, grazie al conseguente flusso di pellegrini, l’economia conobbe un nuovo sviluppo. La devozione a san Nicola fu talmente profonda che fino al XVI secolo le famiglie discendenti dai 62 marinai che avevano trasportato la tomba a Bari, ebbero diritto a una percentuale sulle offerte che i fedeli donavano in occasione delle due feste patronali del 9 maggio (giorno in cui arrivarono le spoglie del santo a Bari) e del 6 dicembre (giorno del calendario liturgico dedicato a san Nicola).
Ma Bari non avrebbe (il condizionale qui è d’obbligo) l’intero corpo di san Nicola: la riesumazione delle ossa e lo studio effettuato il 5 maggio 1953 da un professore universitario, Luigi Martino, conclusero che lo scheletro era incompleto, dando così credito alla tesi «veneziana», secondo cui i marinai baresi, nella fretta di trasferire le ossa di san Nicola sulla loro nave, abbandonarono alcune reliquie, in seguito ritrovate dai veneziani e portate nella Serenissima.
La contesa tra Bari e Venezia continua a protrarsi ancora oggi, ma sembra oramai assodato che nella chiesa di San Nicolò al Lido giacciano i resti delle spoglie mancanti a Bari. «Non vi è alcun dubbio su questo» afferma don Giancarlo Iannotta, parroco della chiesa veneziana, che continua: «Nel 1992 le ossa della tomba custodita a San Nicolò vennero esaminate e ogni reperto catalogato e confrontato con i resti delle ossa baresi. Le due serie combaciavano perfettamente tra loro».

NICOLA contro KRAMPUS
E se Bari e Venezia continuano a disputare il privilegio di custodire i frammenti sacri, nel nord Europa il culto di san Nicola si era radicato grazie alla principessa Teofano; la Riforma protestante epurò la festa del santo dal calendario liturgico, ma le famiglie, specie in Germania e nelle Fiandre, continuarono a ricordae la ricorrenza, tanto da elevare san Nicola patrono di Amsterdam. Proprio nelle regioni più toccate dal conflitto religioso, verso il XVI secolo, cominciò a diffondersi l’usanza di portare doni ai bambini in occasione della festa di san Nicola. È il primo passo verso la trasformazione del santo in Babbo Natale.
Una prima rappresentazione di quello che diventerà Santa Claus e Babbo Natale, avvenne nel cattolico Tirolo, dove la festa di san Nicola, preceduta dalla notte dei Krampus, i diavoli che si presentano sotto forma di enormi caproni con catene, campanacci e fruste, è tuttora la celebrazione natalizia più amata dalle famiglie.
Krampus contro san Nicola, il male contro il bene. «I Krampus rappresentano il male, l’oscurità perché dove c’è il bene, per contrapposizione, ci deve essere anche il male» mi spiega Francesca, direttrice dell’Ufficio Turistico di Villabassa ed esperta di tradizioni tirolesi. Sarà Nicola, portato su un carro, a sconfiggere i diavoli e ad allontanarli dalla comunità. La vittoria del vescovo porterà anche i tradizionali doni, un tempo cibarie esotiche troppo care per essere comprate regolarmente, oggi caramelle, dolciumi, giocattoli.
«Il collegamento tra Krampus e san Nicola è il modo in cui il cristianesimo è riuscito ad assorbire feste che un tempo erano pagane» continua Francesca.
Poco distante da Villabassa sorge l’abbazia di Novacella, dove l’abate Georg Untergassmair mi spiega che «san Nicola è il santo più amato dai tirolesi perché consegna doni senza pretendere nulla in cambio. È l’amore puro, quello che si dona senza aspettarsi nulla, neppure riconoscenza». Il timore è che la devozione verso san Nicola offuschi il vero significato del Natale cristiano, la venuta di Cristo.
«In realtà – aggiunge Georg Untergassmair -Gesù rimane comunque al centro della fede di ogni cristiano. Le faccio un paio di esempi: quelli che voi generalmente chiamate mercatini di Natale, da noi si chiamano Christkindmarkt, mercatini di Gesù Bambino, e noi non abbiamo l’albero di Natale, ma l’albero di Cristo. Direi che il momento più importante del periodo natalizio è il 24 dicembre, ma posso anche affermare che la festa di san Nicola è la vigilia della vigilia di Natale».

San nicola… americanizzato
Ma l’evoluzione vera e propria che ha portato san Nicola a trasformarsi in Santa Claus non avvenne in Europa, bensì in America, quando, nel XVII secolo, alcuni cittadini di Amsterdam sbarcarono sulle coste orientali del continente fondando New Amsterdam e portando con sé la devozione verso il loro patrono, san Nicola, chiamato Sinter Klaes.
All’inizio sia il villaggio che Sinter Klaes sembrava dovessero soccombere alle difficoltà. In particolare, il culto di san Nicola era osteggiato dai puritani, i quali vietavano a volte di pronunciae anche il solo nome. La devozione e la caparbietà dei coloni olandesi, però, ebbe la meglio e sia il gruppo di casupole, che Sinter Klaes ebbero un futuro brillante, trasformandosi rispettivamente in New York e in Santa Claus. Santa Claus altro non è che la storpiatura di Sinter Klaes fatta nel 1773 da alcuni giornali americani.
La definitiva consacrazione di Santa Claus avvenne il 24 dicembre 1822, quando un dentista con il pallino della poesia, Clement Clark Moore, scrisse una filastrocca per i suoi bambini: A Visit from Saint Nicholas, nota anche come The Night Before Christmas. In quel lunghissimo poema, le caratteristiche cristiane del protagonista si riscontravano solo nel nome Saint Nicholas; per il resto la trasformazione americanizzata che porterà all’iconografia attuale di Santa Claus era già in atto: Babbo Natale viaggiava per la prima volta su una slitta trainata da otto renne (Rudolph, la renna con il naso rosso, verrà aggiunta solo nel 1939 da Robert L. May); «scendeva dal camino (…) vestito di pelliccia da capo a piedi (…) con un gran sacco sulle spalle pieno di giocattoli, le guance rubiconde, il naso a ciliegia (…) la barba bianca come neve».
Ma Clark Moore descrisse solo a parole il suo Santa Claus; chi invece lo illustrò per la prima volta in fattezze e canoni ormai fissati anche per i successivi illustratori, fu Thomas Nast che nel 1863 disegnò per l’Harper’s Weekly un Santa Claus con il pancione e barba bianca, che indossava un vestito a stelle a strisce. Era un Babbo Natale politico, perché veniva mostrato mentre discuteva con i soldati dell’Unione in piena guerra di Secessione.
In barba alla carità cristiana di cui dovrebbe essere il rappresentante, il Santa Claus di Nast aveva in mano una marionetta che altri non era che Jefferson Davis, presidente degli Stati Confederati d’America. Il burattino era appeso a una fune attorno al collo, un’azione inequivocabile. Fu lo stesso Abramo Lincoln che chiese a Nast di disegnare un Santa Claus «partigiano» per demoralizzare i soldati confederali sudisti, inaugurando così la guerra psicologica.
Bisognerà però aspettare sino al 19 dicembre 1915 perché Santa Claus venga «assunto» come testimonial di un prodotto commerciale. Fu l’industria delle bevande analcoliche a sfruttare Babbo Natale.
Ma, a differenza di quanto si pensi, non fu la Coca Cola, bensì la White Rock, produttrice di acque minerali a utilizzare un Santa Claus barbuto con la giubba rossa bordata di un pellicciotto bianco che, tra il 1919 e il 1925, fece la sua comparsa sulle riviste americane più prestigiose, tra cui Live Magazine.
La Coca Cola riprese l’idea della White Rock assoldando il disegnatore più famoso del momento: Haddon Hubbard Sundblom che, dal 1931 al 1964, fece più di 40 disegni pubblicitari con Santa Claus: per immortalae il volto si ispirò a un suo vicino di casa, Lou Prentiss. «Riassumeva tutte le fattezze e lo spirito di Santa Claus. Le rughe che aveva sul volto erano rughe felici» ebbe a spiegare Sundblom.
«Il Santa Claus della Coca Cola personifica lo spirito della vacanza e ha aiutato a modellare l’immagine di Santa Claus in tutto il mondo» ha detto nel 2006, in occasione del 75° anniversario della prima vignetta di Sundblom, Phil Mooney, direttore degli Archivi della Coca Cola.

Nell’ufficio di Babbo Natale
Ma se la Coca Cola ha inteazionalizzato Santa Claus, la Finlandia è riuscita a monopolizzare l’attenzione dei bambini di tutto il mondo, creando attorno a lui un vero e proprio business turistico. A Rovaniemi, infatti, sorge quello che è da tutti conosciuto come il Villaggio di Babbo Natale. Gli ingredienti ci sono tutti: tanta neve, suggestione, l’aurora boreale, uno scenario mozzafiato, l’atmosfera naturale a cui è stato intelligentemente aggiunto un tocco di fantasia «artificiale».
E così il «vero» Babbo Natale vive tutto l’anno qui, seduto nel suo ufficio dove arrivano migliaia di lettere da tutto il mondo (la terza nazione come numero di mittenti è l’Italia) e accogliendo i bambini elettrizzati nell’incontrare il loro idolo.
«Il lavoro è duro, ma sapere che migliaia di bambini toeranno a casa con un ricordo che rimarrà impresso per tutto il resto della loro vita, mi appaga di tutta la fatica» afferma Babbo Natale.
Il Santa Claus della Coca Cola e di Rovaniemi sono il prodotto della modeizzazione e della secolarizzazione di una società rivolta al futuro, ma che riconosce nel proprio passato le radici su cui si fonda il proprio essere.
Joulupukki, Noel Baba, le Père Noel, Nikolaus, Santa Claus, Babbo Natale… comunque lo si chiami è sempre a lui che ci si riferisce: San Nicola vescovo di Mira.

Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali




Cari missionari

Dossier Nyerere

Ciao, padre Francesco,
ho letto con vero piacere il tuo dossier su «Nyerere santo» (MC 10/2011). Congratulazioni! Ti ho invidiato quando ho letto che Nyerere si è fermato sulla strada per parlare con te. Io l’ho incontrato tante volte a Iringa e a Dar Es Salaam, ma non ho mai avuto la fortuna di parlargli a tu per tu. Il giorno che gli sono stato assieme più a lungo è stato quando ha partecipato a Ubungo alla consacrazione della chiesa parrocchiale. Temo che non lo faranno santo per via della guerra contro l’Uganda e che l’Uganda non gli perdona.
Mi ha un po’ stupito che non abbia parlato della sua conferenza alle Suore di Mariknoll, radunate per gli Esercizi spirituali, quando fu in America per la prima volta. Era una conferenza illuminante e da lì è partito il motto: il missionario deve «lavorare con», non «lavorare per». Un altro discorso illuminante è stato quello fatto all’università di Makerere (Uganda), che dopo l’indipendenza gli aveva offerto la laurea honoris causa. Le parole che mi hanno colpito sono pressappoco queste: «Mi hanno condannato a sei mesi di prigione per il libello che ho scritto contro un ufficiale inglese, oppure a 5 mila dollari di multa. Avrei potuto scegliere i sei mesi di prigione (nelle prigioni inglesi non si stava male) e diventare eroe, col rischio di far sorgere venti di guerra. Ho preferito l’umiliazione di pagare la multa».
In preparazione all’indipendenza, in un incontro con il comitato che doveva stabilire le condizioni per la nazionalità del Tanzania, si è decisamente opposto a che l’africanità (o altro del genere) divenisse un requisito essenziale. Se non si fosse accettato di definire importante solo la lealtà al paese (il ministro delle finanze era un indiano), si sarebbe ritirato dalla politica.
Auguri a tutti che possiate fare tanto bene.
p. Giulio Belotti
Alpignano (TO)

Carissimo padre Giulio, grazie delle informazioni preziose. Grazie anche dei rilievi critici, che condivido. Non ho accennato al celebre discorso alle Suore di Mariknoll per mancanza di spazio. Avevo scritto anche un inserto sul «Tanzania oggi», ma non è stato pubblicato (penso) proprio perché lo spazio è tiranno in una rivista. Grazie, infine, dell’augurio di fare tanto bene. Io mi accontenterei di fae solo un po’.
 p. Francesco Beardi
Bunju, Tanzania, 4/10/2011
È vero, lo spazio è tiranno, e ci dicono anche che mettiamo sempre troppo testo! Lo scritto di p. Francesco su «Tanzania oggi» è solo rimandato. Apparirà presto.

RETTIFICA
Abbiamo anche ricevuto diverse telefonate e lettere a proposito della confusione fatta tra mons. Marinangeli e mons. Beltramino (ambedue Attilio) nell’ultima foto del medesimo dossier. La signora Elena Bottoni, affezionata lettrice della rivista e pronipote di mons. Beltramino, scrive:
«Alla pagina 50, c’è la foto del vescovo nel giorno della cresima del figlio di Nyerere. Vi voglio solo correggere, perché il vicario apostolico di Iringa lì raffigurato è mons. Attilio Beltramino e non Marinangeli come voi asserite. Visto che nella vostra edizione mensile non lo ricordate mai(!); almeno per una volta dategli il giusto nome, anzi cognome».
Chiediamo ancora scusa dell’errore! Quando mons. Beltramino è morto a Tosamaganga, il 3 ottobre 1965, questo direttore aveva fatto solo il suo primo anno di seminario tra i missionari della Consolata! (Non è un granché come scusa, lo so…)

Grazie
Ci siamo trovati improvvisamente, a inizio settembre, nella necessità di recarci in Venezuela per rimpatriare il fratello/cognato Gaetano, residente nel paese da oltre 35 anni, colpito da infarto cerebrale. Siamo partiti senza conoscere esattamente le condizioni di salute di Gaetano. Non conosciamo lo spagnolo, per questo abbiamo cercato un appoggio in grado di aiutarci sia nella logistica che nel risolvere le numerose pratiche necessarie per il rientro in Italia di Gaetano. Questo aiuto l’abbiamo trovato nella missione della  Consolata di Caracas. Il superiore, p. Lisandro insieme ai pp. Andrea e Vilson ci hanno accolto con grandissima attenzione e disponibilità sia al nostro arrivo (noi poi abbiamo proseguito per Cumanà, dove era ricoverato Gaetano) sia al ritorno a Caracas. L’assistenza a Gaetano nei giorni precedenti il viaggio di ritorno, le pratiche con il Consolato per il rinnovo del passaporto, l’ottenimento dell’assistenza al volo si sono concretizzate in tempi molto rapidi grazie all’aiuto generoso ed efficace dei padri della Consolata. Con grande affetto e riconoscenza ringraziamo anche a nome di tutta la nostra famiglia i padri che con estrema semplicità ci hanno offerto il grande dono della loro amicizia.
Luigi Veronesi
e Piero Bredi
Milano, 29/09/2011

20 giorni in Thailandia
Buon giorno, sono d’accordo con il vostro corrispondente da Bangkok Stefano Vecchia. Ho potuto constatare con i miei occhi durante il mio soggiorno per vacanza a Bangkok e Koh Tao l’estrema povertà e infelicità della popolazione. Frequentando la stazione dei treni ho potuto vedere dei poveretti che giacevano lungo il corso dei binari come i nostri senzatetto, ma molto malridotti, e bimbi che vivevano per strada soli senza famiglia. Al mercatino venivano vendute persino le dentiere usate e rientrando da una visita ad un’altra città alle quattro del mattino ho notato che la gente che vive nei tuguri della periferia di Bangkok dove passa il treno, lavora giorno e notte per cucinare quello che altri vendono lungo le vie della città, e per passare da una casa all’altra devono attraversare le case altrui senza nessuna privacy. Lo sguardo delle persone era molto triste anche perché stanno demolendo le case fatiscenti per farci degli hotel di lusso e quindi spingono gli abitanti meno abbienti ad andarsene in periferia dove ci sono le bidonville. Ho visto donne che sotto il sole cocente lavoravano nell’edilizia accanto agli uomini facendo lavori pesantissimi, senza parlare poi degli animali che sono trattati peggio delle cose. I thailandesi sono gentilissimi, ma penso che se si sono ribellati poco tempo fa con le camicie rosse al regime è per la forte disuguaglianza tra ricchissimi e poverissimi. Sono tornata a Milano veramente scioccata da questa realtà che tra l’altro sta distruggendo anche le isole più belle perché, non essendoci un sistema fognario, i liquami che si possono vedere e annusare in superficie accanto alle case vengono versati tutti a mare con conseguenze ben immaginabili. Spero che la situazione possa migliorare altrimenti non posso che compiangere quella popolazione! Cordiali saluti
Mirella De Gregorio
Milano, 1/10/2011

Due Chiese?
Salve, ho letto con molto interesse e frutto il numero di ottobre della vostra rivista. Mi permetto di rilevare tuttavia alcune imprecisioni conceenti l’intervista a Paolo Bertezzolo in merito al suo libro «Padroni a Chiesa nostra» (articolo «La croce e la spada», Mc 10/2011 pp.19-21). Se sono d’accordo con lo scrittore sulla realistica visione che ha della strategia politica e sociale della Lega nord, non credo che egli abbia molto chiaro il catechismo di base. Mi spiego: in primis, non esistono due Chiese, una «che si rifà al modello del cattolicesimo di Pio V» (che ricordo essere sempre San Pio V) e una del «Vaticano II». Questa esclamazione mi suona tanto come un’applicazione di criteri umani alla Chiesa che è «colonna e fondamento della verità», come afferma s. Paolo e, come Cristo, nella sua Fede è la stessa «ieri oggi e sempre» (ancora l’apostolo delle genti). Inoltre sarebbe opportuno contestualizzare con più cura affermazioni come «Io non posso combattere gli infedeli… Ce lo dice tutta la Parola di Dio». Forse il professore non conosce l’Antico Testamento o l’Apocalisse? Saranno simboli ma sono pur sempre S. Scrittura. Non è con un rancoroso disprezzo del proprio passato che i cristiani annunceranno il Vangelo nel XXI sec. Spero di non urtare la sensibilità di nessuno, ma amo profondamente la S. Chiesa e reagisco a questa divisione (pre o post-conciliare) come un figlio che vede la propria madre squarciata in due, da altri figli che considerano brutta una parte di lei. La Chiesa è per me Tota pulchra et nigra (a causa di noi suoi figli), sed formosa. Chiedo le vostre preghiere e assicuro le mie. Cordiali saluti.
lettera firmata
5/10/2011

Caro amico che hai chiesto di restare anonimo, quando si parla di due chiese non si intende certo dividere la Chiesa che Cristo ha voluto una in Lui, come sua sposa, anzi come suo corpo.
Ma questa Chiesa vive nella storia, ed è in questa storia, fatta di tempo e di spazio, che realizza la sua fedeltà al suo Capo/Sposo che è Cristo. Se la fede in Cristo, che ha la sua pienezza nell’amore, rimane sempre la stessa, il modo di vivere ed esprimere questa fede cambia nel tempo, offrendo risposte nuove, fresche e vive al mondo presente.
La Chiesa è fatta di persone che cercano di vivere al meglio la fede nel loro presente. Quando si parla di un cattolicesimo «stile (san) Pio V» o «Vaticano II» si sottolinea il fatto che, pur nella continuità, non si può portare indietro il tempo e vivere come se nulla fosse successo. Lo «stile s. Pio V» era certamente innovativo rispetto a quello di s. Gregorio Magno, vissuto circa mille anni prima, o a quello di s. Clemente I, del primo secolo, ma non è certamente del tutto adeguato al nostro presente. Non si tratta di un «rancoroso disprezzo del proprio passato», ma di apprezzare il passato, senza usarlo per delegittimare il presente ed evitare gli errori di cui il beato Giovanni Paolo II ha chiesto perdono a nome di tutta la Chiesa.
è vero che nella Bibbia si parla molto di lotta e combattimento, soprattutto contro il male e il maligno, ma è un linguaggio che va inteso nella sua valenza simbolica non letterale, alla luce del «ma io vi dico» di Gesù (cf. Mt 5) che parla di amore per i nemici e invita a non lasciar spazio alla rabbia nel cuore.
Il reale problema della Chiesa oggi, lo dice anche il Papa, non viene da fuori, ma sta soprattutto nei moltissimi battezzati che non vivono il battesimo, non amano la Chiesa, non pregano più, non ascoltano la Parola, non vanno a messa, non accettano guide morali e sono sicuri di essere nella verità, perfettamente a posto pur riducendo la loro fede ad alcune pratiche formali e burocratiche. Se tutti gli italiani che hanno ricevuto il battesimo lo vivessero davvero, la Chiesa sarebbe davvero «tota pulchra et formosa».

KENYA 2011
Ancora una volta siamo tornati in Africa, in Kenya. Eravamo stati undici anni fa, in un viaggio organizzato dai padri della Consolata, purtroppo la realtà del Kenya di ieri non è mutata in meglio, anzi è, per certi versi, peggiorata.
La globalizzazione ha investito in modo pesante anche i paesi poveri, portando un aumento dei prezzi dei beni di prima necessità (farina, riso, mais, fagioli) e quindi un peggioramento delle condizioni di vita per la popolazione più povera.
Fame, sete, aids, sono le realtà contro cui si combatte ogni giorno. I cambiamenti climatici, la deforestazione hanno determinato una siccità spaventosa, da due anni le piogge cadono irregolarmente e poco, per cui l’acqua sta diventando il bene più prezioso e più atteso. Ad ottobre dovrebbero arrivare le piogge, se non sarà così moriranno prima gli animali e poi tanti bambini.
In alcuni villaggi l’acqua delle fontane, da due anni, è razionata, ciò significa che solo una volta alla settimana è possibile fare rifoimento, con conseguenze facili da capire sul piano sanitario.
Quando pensiamo al Kenya la nostra fantasia corre alla savana, ai safari, alle distese sconfinate e selvagge, ma è sufficiente inoltrarsi nei villaggi per capire le difficoltà di vita soprattutto delle donne e dei bambini. Capanne di fango e di sterco di mucca, accolgono questa umanità che, comunque, pur tra mille difficoltà trova i mezzi per andare avanti. Esiste un’Africa fatta di donne che, da sole, sostengono la famiglia, provvedono all’acqua, alla legna (unica fonte di energia), zappano la terra con i bambini legati sulla schiena, partoriscono da sole.
Donne schiacciate da enormi bidoni d’acqua, da fasci di legna pesantissimi portati sulla schiena anche per diversi chilometri costituiscono un quadro che si ripete ogni giorno.
La donna è la vera forza della società africana, non per la sua emancipazione, ma per il coraggio con cui affronta la lotta quotidiana, non ultimo quella dell’aids. Abbandonata dal marito, vittima di credenze tribali, combatte per la sopravvivenza sua e dei suoi figli una battaglia talvolta dall’esito drammatico.
Ci sarà un futuro migliore per queste persone? L’unica strada da percorrere è l’istruzione, la donna istruita potrà prendere consapevolezza dei propri diritti, della propria sessualità; l’uomo istruito, non considererà più la donna un oggetto da sfruttare e da abbandonare quando è malata o incinta, ma insieme potranno intraprendere un cammino di cambiamenti.
è proprio la diffusione dell’istruzione, con la costruzione di aule scolastiche, l’obiettivo principale dei missionari e delle missionarie che, ogni giorno, condividono le difficoltà della gente.
Diffusione di scuole, formazione professionale, costruzione di pozzi e dispensari sono gli sforzi principali verso cui convergono gli aiuti dei centri missionari da noi visitati.
Anche la nostra associazione «I sogni dei bambini – onlus» si è unita a questi obiettivi provvedendo alla costruzione di due aule scolastiche in un piccolo villaggio nel distretto di Isiolo a nord di Nairobi, e aiutando un centro di formazione professionale per ragazzi di strada, a Nairobi, con l’acquisto di materiale e macchine per la realizzazione di finestre in ferro, sedie, mobili. Il nostro aiuto è una goccia in un mare di necessità e bisogni primari, di fronte ai quali ci si sente impotenti e angosciati, ma il sorriso di tanti bambini ci sprona ad andare avanti e a trovare quegli aiuti, anche piccoli, che laggiù possono salvare dalla fame e dall’ignoranza anche solo una vita.
Rosella e Mario
6/10/2011

Grazie della condivisione che fate. Il Kenya, come altre nazioni africane, è una terra di grandi contraddizioni e, più il tempo passa, più si nota il contrasto tra la vita di una minoranza ricca (anche ricchissima) e quella della gente normale.
Davvero i missionari hanno sempre investito, e continuano ad investire in educazione e formazione professionale, in questo aiutati proprio da chi sostiene i loro mille progetti, tra cui l’adozione a distanza. Grazie a tutti coloro che sostengono queste attività di lotta all’ignoranza e povertà, sia che lo facciano direttamente attraverso la nostra onlus che con le molte onlus legate a tanti singoli missionari.
Però il missionario non può limitarsi a sviluppo, educazione e sanità. Sua missione è quella di dare un’anima all’impegno per la promozione dell’uomo attraverso l’annuncio di Gesù. In Cristo ogni uomo ri-scopre e ri-apprezza le vere radici della sua dignità, perché in Lui ogni uomo si scopre per quello che è, figlio e figlia di Dio, uguale nella diversità, membro di una sola famiglia, la famiglia di Dio. Una famiglia chiamata a vivere nella pace, giustizia, solidarietà e corresponsabilità.
Così non basta che chi può aiutare lo faccia anche attraverso progetti meravigliosi. Occorre darsi da fare per cambiare la mentalità, per promuovere leggi più giuste, per una nuova economia solidale e corresponsabile, per una politica di pace e non di guerra, una politica della fiducia e non della paura, della cooperazione e non dell’egemonia, dell’integrazione e non del razzismo.
E questo è un lavoro «da laici», un passo in più per cambiare il mondo che va fatto da questa splendida costellazione di forze che sono già impegnate nella solidarietà ai missionari, siano esse le Ong di vecchia tradizione o le molte nuove onlus radicate nel territorio.