Cana (26) La «donna» sacramento dell’abbandono credente

Il racconto delle nozze di Cana (26)

Gv 2,5: [e] dice sua madre ai diaconi/servitori: «Quello che vi dirà, fate[lo]»
[lèghei hē mêtēr autoû toîs diakònois: Hò ti an lèghēi hymîn poiêsate]

Per capire questo versetto in tutta la sua portata è necessario ritornare indietro brevemente per sottolineare ancora il pensiero di fondo che stiamo cercando di dimostrare: il racconto delle nozze di Cana è un midràsh (commento attualizzante) del racconto dell’alleanza di Es 19. Come il Sinai fu «l’inizio» di Israele in quanto nazione, perché l’alleanza lo costituisce «popolo» a tutti gli effetti, così Cana è per l’autore «il principio» del nuovo popolo che nasce dall’antico. La madre di Gesù è il simbolo dell’Israele/sposa dell’alleanza nuova, che aspetta la redenzione del Messia, e i discepoli sono la premessa/promessa del nuovo popolo messianico che partecipa al banchetto nuziale, proiettato verso il futuro delle genti.
Il paradosso: prima fare e poi ubbidire
Sappiamo che l’evangelista vuole mettere in parallelo Mosè e Gesù: il primo come mediatore, il secondo come autore dell’alleanza. L’alleanza annunciata da Gesù non è un’altra alleanza, diversa da quella del Sinai, ma è la continuità di essa, anzi ne è lo sviluppo naturale. Con buona pace dei fautori della «teologia della sostituzione» che ancora oggi, dopo il concilio Vaticano II, propugnano ancora che la Chiesa è subentrata a Israele, eliminandolo dalla storia di salvezza, iniziata con l’esodo. La Chiesa è «dentro» Israele, da cui si discosta perché porta a compimento la sua fede in Gesù Messia.
È evidente che nel v. 5 la frase importante è: «Quello che vorrà dirvi, fate[lo]», che immediatamente richiama quanto gli Ebrei dicono ai piedi del Sinai, prima ancora di conoscere il contenuto dell’alleanza: «Quanto il Signore ha detto, noi [lo] faremo!». Il confronto tra i testi è sorprendente, si direbbe che Giovanni copia direttamente dalla Bibbia ebraica (non dalla versione greca della LXX che traduce in modo diverso, come vedremo):

Es 19,8 (cf 24,3)           Gv 2,5
Quanto il Signore          Quello che [egli = Gesù]
ha detto,                        vorrà dirvi
noi [lo] faremo               fatelo

Da una parte c’è Yhwh che ordina, dall’altra c’è Gesù che deve essere obbedito, per cui Gesù è posto dall’autore sullo stesso piano di Yhwh. Un modo per porre l’accento discretamente sulla divinità del figlio di Maria? Non possiamo spingerci oltre, ma il quarto vangelo non è nuovo a questo metodo (cf, per es., Gv 18,4-5). Questo parallelo, quasi fotocopia, tra i due testi si colloca all’interno del più generale confronto tra il Sinai e Cana:

Es 19,11.9                        Gv 1,11
Il terzo giorno                    Il terzo giorno
Yhwh rivelò                       Gesù rivelò
la sua gloria a Mosè         la sua gloria
e il popolo                         e i suoi discepoli
credette anche in lui         credettero in lui

Anche qui Gesù non è posto sullo stesso piano di Mosè, ma al livello di Yhwh perché Gesù nella nuova alleanza che ha in Cana il suo «principio» ripete e rinnova esattamente quello che Yhwh ha fatto e ha detto sul Sinai. Lo scenario è lo stesso, e i temi sono identici: il terzo giorno, la rivelazione, la gloria, il popolo/discepoli, la fede.
La madre impregnata del passato
Su tutti questi temi però quello che domina è quello della «obbedienza»: a Yhwh nel Sinai e a Gesù a Cana. L’obbedienza qui è espressa con due verbi «faremo» e «credettero». Da ciò possiamo rilevare che «obbedire» non è un atteggiamento passivo di sottomissione, ma una scelta attiva di adesione a una alleanza, a un progetto da realizzare («faremo») che si basa su un rapporto di intimità e di confidenza reciproca («credettero»). C’è una differenza tra i due testi: al Sinai il popolo ascolta il Signore e crede in lui, ma anche in Mosè; a Cana i discepoli/nuovo popolo ascoltano e credono in Gesù.
Il raffronto tra Mosè e Gesù, come spesso abbiamo detto, non è mai alla pari: a Cana Gesù supera notevolmente il grande condottiero, perché l’evangelista lo colloca sempre allo stesso livello del Signore. Infatti al Sinai non parla Yhwh, ma Mosè che riceve da Dio le parole da riferire al popolo nella sua funzione di mediatore; a Cana non c’è mediatore perché Gesù parla e agisce direttamente.
Le parole della madre di Gesù non sono una novità, ma riecheggiano una storia lunga e articolata, pro-vengono dal cuore della storia di Israele che si esprime in varie circostanze. Riportiamo solo qualche esempio: la risposta di Israele è così importante che la Bibbia la ripete quasi uguale tre volte (Es 19,8; 24,3.7). Dopo Mosè, il suo «attendente» Giosuè [in greco è sinonimo di Gesù – Yoshuà], prima di entrare e prendere possesso della terra promessa, rinnova l’alleanza a Sìchem in modo simile: «Noi serviremo il Signore nostro Dio e obbediremo alla sua voce» (Gs. 24,24).
La madre di Gesù è Israele
A Cana ci troviamo di fronte a un evento che non si può ridurre a un semplice matrimonio di circostanza. L’autore infatti con questo racconto ripropone, rinnova e celebra «il fatto» più importante di tutta la storia di Israele, quello che è la sorgente della sua stessa esistenza come «popolo/sposa di Yhwh», l’esodo, letto nella sua duplice valenza storica: di liberazione dalla schiavitù e di costituzione di una comunità ordinata e organica, l’assemblea di Israele nata dall’alleanza del Sinai.
Le parole del Signore dette tramite Mosè e la risposta del popolo detta tramite gli anziani, costituiscono la formula sponsale che sancisce le nozze definitive d’amore e di obbedienza. A Cana è la madre che in rappresentanza dell’Israele antico, introduce il nuovo invitandolo a entrare nel circuito salvifico del suo popolo che ora esce dal suo particolarismo e si apre al mondo intero. Sono infatti presenti i discepoli, dodici secondo la tradizione, un numero simbolico delle dodici tribù d’Israele, costituite da Giosuè prima dell’ingresso in terra promessa (cf Gs 14-19; Es 24,4; 28,21; Gen 49,28; Sir 44,23):

«3Mosè salì verso Dio, e il Signore lo chiamò dal monte,
dicendo: “Questo dirai alla casa di Giacobbe e annuncerai
agli Israeliti: 4“Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto
all’Egitto e come ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho
fatto venire fino a me. 5Ora, se darete ascolto alla mia
voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me
una proprietà particolare tra tutti i popoli; mia infatti è
tutta la terra! 6Voi sarete per me un regno di sacerdoti e
una nazione santa”. Queste parole dirai agli Israeliti.
7Mosè andò, convocò gli anziani del popolo e riferì loro
tutte queste parole, come gli aveva ordinato il Signore.
8Tutto il popolo rispose insieme e disse: “Quanto il Signore
ha detto, noi lo faremo!”» (Es 19,3-8).

L’obbedienza incondizionata che il popolo di Israele mette in atto, secondo la versione greca della LXX ha dell’inaudito perché il popolo accetta di coinvolgersi nell’avventura di Dio prima ancora di conoscere il contenuto dell’alleanza che esprime il sentimento di abbandono tipico dell’innamoramento. Chi è innamorato non ragiona, ma «si butta», non fa calcoli, ma ama, non teme le conseguenze, ma sperimenta l’inatteso con trasporto e abbandono fiduciosi. «Faremo e ascolteremo» infatti esprime non l’ubbidienza a un ordine ricevuto, ma la libera e spontanea adesione della volontà che rende la scelta ancora più importante.
La tradizione giudaica, commentando questo comportamento di Israele, arrivava a paragonarlo al melo del Cantico dei cantici, dove l’amante donna dice del suo innamorato: «Come un melo fra gli alberi del bosco, così l’amor mio tra i giovani» (Ct 2,3). Il Talmud babilonese, a nome di Rabbì Chama figlio di Rabbì Chanina (260 ca.), commenta: «Perché gli Israeliti sono paragonati a un melo? Per insegnarti che come il melo mette fuori il frutto prima delle foglie, così anche i figli d’Israele dissero “faremo” prima di “ascolteremo”» (TB, Shabbat 88a).
Lo stesso testo del TB riporta l’insegnamento di Rabbì Simai (210 ca.) che immagina come nel momento della professione di fede di Israele che si abbandona al Signore, senza alcun calcolo, «seicentomila angeli del servizio scesero a deporre due corone sopra ogni membro del popolo eletto: l’una come premio del “fare” e l’altra dell’”ascoltare”» (in A. SERRA, Le nozze di Cana, 314).
Si capisce perché immediatamente prima (cf Gv 2,4), Gesù si rivolge alla madre con l’appellativo di «donna», assolutamente inconsueto in un dialogo tra madre e figlio. Anche Gesù sa che la madre non è la sua madre naturale, ma a Cana è il simbolo della sposa/Israele che qui svolge il ruolo di mediazione che al Sinai fu proprio di Mosè. Ella si indirizza ai «diaconi/servi», ma è come se parlasse per se stessa e per tutto Israele: «Quello che egli eventualmente vi dirà, noi dobbiamo farlo». Non un semplice invito esortativo, ma una constatazione obbligante: non possiamo esimerci da «quello che egli dirà» perché la sua parola è creatrice, prima di trasformare l’acqua in vino trasforma le persone che vi sono coinvolte assumendo un ruolo preciso: non sono servi dipendenti di un padrone per svolgere lavori di fatica, ma diventano «diaconi», ministri di una comunità che si appresta a celebrare le nozze con il suo Signore.
La madre di Gesù è la sposa fedele
Se l’evangelista fa dire alla madre di Gesù la stessa professione di fede del popolo d’Israele, ci sembra logico pensare che egli voglia porre una relazione tra i due e forse anche una identificazione. Nella letteratura profetica e sapienziale, Israele è spesso identificato con l’immagine della «donna» che il quarto vangelo usa cinque volte, e sempre a una svolta nella vita di Gesù: qui a Cana, con la donna samaritana (Gv 4,21), con la donna adultera (Gv 8,10), dalla croce di nuovo alla madre con «Donna, ecco tuo figlio» (Gv 19,26) e, infine, con Maria di Magdala (Gv 20,15), cinque pietre miliari che segnano la salvezza che si fa storia nell’immagine della «donna», figura del nuovo credente nella comunità nuova. L’uso di questo appellativo è anche diffuso nell’At e basta leggere i profeti (Os 1-3; Ger 2,2; 31,4.15; Ez 16,8; 23,4) o anche la letteratura extra-biblica (Il Targum del Ct; Sal-LXX 86,5; Apocalisse di Baruc 10,7; IV libro di Esdra 9,38-10,57; Qumran: 1QH III,3-12, ecc.).
Luca esporrà questa idea sviluppando il tema della «Figlia di Sion» del profeta Sofonia e applicandola a Maria nel saluto dell’angelo che annuncia il «vangelo della nascita» non a Maria di Nàzaret in quanto singola persona, ma a lei, espressione della «Figlia di Gerusalemme» cioè Israele (cf Lc 1,28; Sof 3,14).
Anche Luca non chiama Maria con il suo nome, ma la descrive come «piena di grazia – chekaritomēnē» che corrisponde alla qualifica di «graziosa» come Giuditta (Gdt 11,23), come Ester (Est 2,7), come la donna del Cantico (Ct 1,5; 6,4), come Susanna (Dn 13,31), come Sara, moglia di Tobia (Tb 6,12).
Anche Matteo tocca il tema in chiusura del suo vangelo, quando Gesù sul monte di Galilea si accomiata dai suoi e lascia loro il suo testamento per il futuro:

«16Gli undici discepoli, intanto, andarono in Galilea, sul
monte che Gesù aveva loro indicato. 17Quando lo videro,
si prostrarono. Essi però dubitarono. 18Gesù si avvicinò e
disse loro: “A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla
terra. 19Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli
nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito
Santo, 20insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho
comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino
alla fine del mondo”» (Mt 28,16-20).

Al Sinai, Israele impegna se stesso nel professare la propria fede indiscussa in Yhwh; a Cana la madre di Gesù crede preventivamente per sé, in quanto Israele, e per i diaconi, in quanto Chiesa; in Matteo la professione di fede diventa la missione da portare in tutto il mondo fino alla fine della Storia. Il rapporto tra gli eventi non è casuale, perché in Matteo Gesù non incontrerà i discepoli «da qualche parte», ma esattamente «sul monte che Gesù aveva loro indicato» (Mt 28,16), così come Dio incontrerà il futuro popolo liberato non in un deserto senza vita, ma «su questo monte» dove Dio è già presente e aspetta una massa di schiavi che trasformerà in popolo a cui darà la carta costituente, la Toràh, cioè la coscienza di essere comunità.
Anche nell’esodo, il monte è indicato da Yhwh stesso a Mosè come segno di liberazione e di libertà: «Rispose: “Io sarò con te. Questo sarà per te il segno che io ti ho mandato: quando tu avrai fatto uscire il popolo dall’Egitto, servirete Dio su questo monte”» (Es 3,12).
Israele sul monte Sinai dovrà «servire» Dio, secondo il testo ebraico («’abad») e «fare un servizio liturgi-co», secondo il greco della LXX («latrèuō»). In Mt abbiamo gli stessi atteggiamenti: i discepoli «si prostrarono» (in greco: proskynèō) in un gesto di servizievole adorazione liturgica.
Al Sinai, Israele si consacra in una professione di fede senza ambiguità; in Mt è il Signore che prospetta la loro fede futura che assume la forma della missione universale, «insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28,20).
Al Sinai Dio è con il condottiero Mosè: «Io sarò con te» (Es 3,12), sul monte di Galilea è Gesù che assicura la sua perenne Shekinàh/Dimora/Presenza: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20).
Al Sinai, Dio dichiara la ragione del suo intervento: «Voi sarete per me una proprietà particolare tra tutti i popoli; mia infatti è tutta la terra!» (Es 19,5), mentre in Matteo è Gesù che dichiara: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra» (Mt 28,18). Anche in Matteo come in Giovanni, la figura e l’opera di Yhwh sono appannaggio personale di Gesù di Nàzaret, ora risorto.
Alla luce di queste finestre che si aprono davanti ai nostri sguardi per la nostra contemplazione della parola di Dio in tutta la sua ampiezza, possiamo dire che il mandato missionario non consiste in altro che nell’invitare tutti i popoli «a fare e obbedire quanto il Signore ha ordinato»: il Signore dell’esodo e Gesù di Nàzaret.
Tutto questo può realizzarsi solo in un modo, sull’esempio della madre di Gesù: testimoniare con la pro-pria vita, la propria parola, la propria speranza che come discepoli crediamo veramente nella Persona di Gesù e accettiamo la sua Parola come criterio di vita prima ancora che come conoscenza razionale.
È in fondo quello che avviene nella celebrazione dell’Eucaristia che è il «luogo» privilegiato dove l’Assemblea di Dio «fa tutto quanto il Signore ha detto», memoriale perenne dell’esodo di Gesù, lungo tutto il cammino della Storia.
(26- continua)

Paolo Farinella

Paolo Farinella




Chicco di caffè in acqua bollente

Dalla fuga alle luci del palcoscenico

La storia di PascalJunior Mtombo sfuggito all’eruzione del vulcano Nyiragongo (Goma, Rep. Democratica del Congo) nel 2002 ed approdato a Dar es Salaam, in Tanzania, diventando leader di una band di successo. Il sogno della famiglia era di farlo lavorare in ufficio, il suo quellodi cantare, fin dall’età di 12 anni.

È una calda e tranquilla giornata quando giunge la notizia della terribile eruzione vulcanica: c’è appena il tempo per fare un fagotto con l’essenziale ed organizzare la fuga. Scappano tutti: è il caos. Non importa se ricco o povero, la lava non risparmia nessuno, le automobili sono inutilizzabili poiché l’unica strada è stata distrutta. Tutti scappano con un obiettivo comune: la salvezza. Junior è soltanto un ragazzo, orfano di madre, come tanti dalle sue parti. L’incoscienza dell’età lo spinge a sfidare la lava, attende il suo arrivo con alcuni amici e gioca a lanciarvi dentro i sassi per osservare cosa succede. Non immagina, mentre inizia il suo cammino, che quella stessa lava, dopo averlo allontanato dalla sua casa e dal suo villaggio, sarà il primo passo di un cammino che lo condurrà alla realizzazione del suo sogno: diventare un cantante professionista!
Quando oggi gli domando se abbia mai pensato che in fondo quella fuga è stata la prima tappa verso il suo sogno, sorride dicendo di non credere che sia così. Mi spiega: «È stato determinante soprattutto il periodo della guerra: la quotidianità era dura». E sottolinea: «La vita dopo l’eruzione è tornata alla normalità in pochi mesi, mentre i problemi grossi erano appunto la situazione instabile e disordinata del conflitto».
L’esodo
Conoscendolo scopro quali sono le sue armi vincenti: impegno, passione e determinazione. Oggi (2011) Junior ha 25 anni, presentato da un amico comune mi offre gentilmente ospitalità nella sua casetta di Dar es Salaam. Apre le porte del suo mondo, ci facciamo lunghe chiacchierate e risate, discorsi a 360°: dalla politica alle ragazze, dalla musica alle esperienze di vita vissuta. Nasce da subito un’intesa, una condivisione del presente e del reciproco passato, di sogni, ambizioni e speranze per il futuro.
Junior rievoca, apparentemente senza eccessiva tristezza, il dramma dell’eruzione e mi racconta alcune vicende come quella di molti anziani che, ritenendo di essere al sicuro dopo l’eruzione, non abbandonarono le proprie case. Mi piace pensare che nonostante in cuor loro conoscessero il destino che li attendeva, abbiano preferito rimanere e morire nella loro terra.
Dopo alcune ore di viaggio – continua Junior -, arriva al confine con il Ruanda insieme a migliaia di altri profughi: dei bus li scortano fino ad un campo allestito per l’occasione nella cittadina di Mudende. Il campo è organizzato nella sede in disuso dell’università, distrutta durante il genocidio del 1994. È accolto con cortesia e gentilezza dai ruandesi. Ancora oggi sorride al ricordo dei biscotti ricevuti dagli addetti del campo profughi.
L’area è molto grande, i tetti sono distrutti, non ci sono materassi né porte e finestre, i servizi igienici sono inesistenti, ci sono tantissime persone, l’atmosfera comprensibilmente tesa e triste, ma Junior non si perde d’animo e trova perfino la forza di cantare. Trascorre lì tre mesi, la più grande risorsa sono i profughi stessi: si crea una grande famiglia, ci si aiuta a vicenda e si stringono amicizie.
Finita l’emergenza torna al suo villaggio e decide quasi immediatamente di partire per il Burundi: vuole concentrare le energie per realizzare il suo obiettivo. Non può contare sull’aiuto del padre con il quale non ha rapporti da tempo; la famiglia è troppo povera per poter pensare a lui. Lotta e fatica per racimolare i soldi necessari al viaggio. Parte per Bujumbura dove conta sull’aiuto di un amico che gli aveva promesso vitto ed alloggio, ma al suo arrivo alla stazione non c’è nessuno ad attenderlo. Non ha soldi, non conosce la città, si aggrappa allora a Didier, un ragazzo burundese conosciuto lo stesso giorno sul bus. Didier capisce la situazione, non rimane indifferente, lo invita a casa sua. Un giorno, camminando per strada, si sente chiamare, ritrova un amico che aveva completamente perso di vista da anni, in quel momento pensa: «È un angelo». Richard, il suo amico d’infanzia si trova lì in vacanza per la chiusura estiva della scuola ed è venuto a trovare la famiglia. Presenta Junior agli amici presso i quali soggioa e questi lo accolgono nella loro casa. «Sono un ragazzo molto fortunato – commenta Junior -, la mia vita è stata avventurosa, tante cose sono state dure ma poi si sono risolte!».
Musica, che passione
All’Alliance Française di Bujumbura incontra la cantante burundese Diana Kanyamozi. La conoscenza dà buoni frutti ed inizia a cantare con lei nel ruolo di back up, ovvero accompagnatore musicale. Non c’è alcuno stipendio ma almeno i pasti sono garantiti. Diana gli concede anche di cantare una canzone durante uno spettacolo, una buona opportunità di affacciarsi al palcoscenico. Poi, in una città dove il panorama musicale non lascia intravedere grandi opportunità, arriva inaspettatamente un famoso cantante franco-congolese: Lokua Kanza, proprio il cantante preferito di Junior. Motivo della visita? Ascoltare artisti locali per scoprire qualche nuovo talento: un’occasione semplicemente da non perdere!
Junior Gringo – lo chiamano così fin da bambino, dopo la proiezione di un film weste – è solo un ragazzo, non ha né invito né credenziali per poter avvicinare un personaggio così importante. Prova a chiedere il permesso agli organizzatori, ma la risposta è un sorriso ironico: è già tutto stabilito, nomi dei cantanti e degli strumentisti che faranno l’audizione. È molto triste vedersi chiuso questo spiraglio. Ma Junior non si dà per vinto, il giorno dell’evento aspetta la star davanti alla porta dell’Alliance Française, e quando questi arriva gli si fionda incontro per salutarlo. A sorpresa, Lokua ricambia il suo abbraccio. A quel punto Junior gli spiega di voler cantare ma di non essere nell’elenco e così è invitato dall’esaminatore in persona alle audizioni. Quando Lokua chiede di ascoltare i candidati separatamente, tutti rimangono interdetti. Pensano di dover cantare e suonare in gruppo, e la novità li intimidisce. Alla richiesta di chi voglia rompere il ghiaccio nessuno alza la mano… nessuno tranne Junior: ora o mai più! Sono presenti giornalisti, fotografi e tanti ospiti, lui è timidissimo, esordisce cantando con le mani in tasca. Conosce bene le canzoni di Lokua e ne canta una; questi si compiace e sorride. Alla fine riceve l’applauso ed un pollice in alto: canta bene, ha una bella voce ma non ha il portamento di un cantante professionista. La sera stessa Lokua lo invita a cena, Junior ricorda ancora queste parole: «Mi raccomando, non lasciare la musica, sei giovane e bravo, ancora qualche anno e sarai pronto!».
Quel giorno Junior riceve un’ulteriore conferma circa la sua strada, essere apprezzato da un artista del calibro di Lokua Kanza vuol dire che ha davvero il potenziale per diventare professionista e raggiungere il successo.
In Tanzania via Uganda
Quell’incoraggiamento lo spinge a cercare fortuna altrove; dal Burundi all’Uganda il passo è breve, senza guardarsi indietro prosegue il suo viaggio. Approda a Kampala, una città grande ed animata dove spera in nuove opportunità. Il primo periodo si sistema da alcuni parenti della mamma, dopo solo due settimane viene ingaggiato da una jazz band. Mi confessa: «Durante il provino erano molto scettici perché non sapevo l’inglese, mi hanno accettato per la bellezza della voce».
Durante il periodo ugandese Junior colma la lacuna linguistica ed arricchisce il suo bagaglio culturale. Oggi ricorda con orgoglio di essere riuscito a pagarsi una stanzetta per la prima volta in vita sua. Soggioa circa tre anni in quella città, poi decide che è il momento di cambiare, di fare nuove esperienze.
Tuttavia le cose non vanno come aveva pianificato: vuole raggiungere Dar es Salaam, ma il denaro finisce presto viste le spese di vitto ed alloggio a Bukoba nell’attesa della nave per attraversare il lago Vittoria, il permesso per l’ingresso in Tanzania ed il trasporto. Il suo peregrinare lo conduce nel nord della Tanzania, nella città di Mwanza, ma è un disastro: per quasi due anni soffre la fame e dorme sulle sedie di plastica dello stesso locale nel quale canta, un postaccio dove la retribuzione è a stento sufficiente per i pasti. È il periodo più brutto della sua carriera e forse della sua vita.
Fortunatamente durante un concerto stringe amicizia con Samuel, un ragazzo israeliano. Tramite lui conosce Josephat, un pastore protestante della Glory of Christ Tanzanian church, che lo invita a raggiungerlo nella sua abitazione di Mikocheni, un sobborgo a nord di Dar es Salaam. Questi lo adotta come un figlio e lo introduce nella sua chiesa dove intraprende la carriera di cantante Gospel. La chiesa protestante di Mikocheni conta migliaia di fedeli che ogni domenica affollano il grande spazio dedicato alle funzioni. In quell’ambiente Junior si fa subito notare ed apprezzare da tutti.
L’incontro con Deo Mwanambilimbi, fondatore e cantante dei Kalunde band e suo vicino di casa, gli apre la strada alla carriera di professionista. Deo un giorno lo invita ad un concerto e gli fa cantare una canzone probabilmente solo per gioco. Sentendolo, rimane così colpito da scritturarlo. La band è conosciuta ed apprezzata, vincitrice per due volte consecutive – 2007 e 2008 – del Tanzania Music Awards.
Lo scorso 20 gennaio ho accompagnato Junior e Deo al Tanzania Music Awards 2011, l’evento nazionale più importante che premia le migliori band, canzoni e cantanti! Il massimo riconoscimento al quale possono ambire gli artisti locali. Il fatto di partecipare è già un bel successo per Junior.
cuor sincero
Junior è un ragazzo semplice, onesto ed affettuoso con ottime idee e fantasia. Non lesina energie e ci mette passione, si diverte, gli piace il suo lavoro, è sempre a caccia di nuove ispirazioni. È giovane ed affascinato dall’idea di conquistare un titolo. Canta e scrive canzoni in Inglese, Francese e Swahili. Il suo repertorio include musica modea e tradizionale tanzaniana, congolese ed africana, pop e cover inteazionali.
È l’anima del gruppo, il jolly della band, a volte fa il burlone e condisce tutto con ironia ed allegria. È colui che può creare da un momento all’altro la variante vincente, il fuori programma. Grazie al suo carisma ed alle sue potenzialità è diventato un punto di riferimento: e non si diventa leader per caso.
Non sono un intenditore di musica, apprezzo la sua voce e le sue doti artistiche, sono testimone delle sue qualità umane. Ha un sorriso sincero, coinvolgente e convincente. Dai suoi occhi traspare un’insolita dolcezza, la stessa percepita nella sua voce che però sa essere anche grintosa ed energica. Sa catturare l’interesse dell’ascoltatore e trasmettere emozioni. Nel suo quartiere tanti conoscono Junior Gringo, gli vogliono bene, non potrebbe essere altrimenti, in questo modo mi spiego come mai in passato sia stato sempre aiutato ben volentieri da tutti, di certo non è stata solo questione di fortuna.
Junior mi ha raccontato una storia narratagli dalla madre quando era bambino. «Ci sono tre pentole, nella prima una carota, nell’altra un uovo e nell’ultima dei chicchi di caffè. Messe le pentole sul fuoco dopo una decina di minuti la carota si cuoce e diventa morbida, l’uovo diventa solido ed i chicchi di caffè rimangono invariati colorando l’acqua». La metafora riconduce a tre tipologie di uomini: i primi come le carote sembrano duri e pronti a tutto, ma alla prima difficoltà si “ammorbidiscono”; i secondi apparentemente fragilissimi come le uova crude, all’occorrenza possono rivelarsi capaci di reagire con maggiore solidità; i terzi come il caffè apparentemente non mutano ma riescono ad adattarsi a tutte le situazioni senza problemi.
Parlando di sacrifici, rischi, impegno e tenacia per realizzare i propri progetti Junior Gringo ha commentato: «È come entrare nel cerchio dei pericoli e delle sfide, c’è chi proprio non vuole sapee e rimane fuori. Chi entra ma rimane bloccato ed impaurito non sapendo cosa fare. Chi entra, lo attraversa e meravigliato esclama: ce l’ho fatta!». Ed ha concluso: «Molti ragazzi pensano positivo, molti altri negativo. In Congo ci sono tantissimi cantanti più bravi di me solo che non hanno creduto di potercela fare o non hanno avuto possibilità. Tu sei cresciuto insieme agli amici e hai fatto con loro le scuole, poi ognuno ha preso la propria strada, probabilmente qualcuno ti avrà detto: “Sei pazzo ad andare in Africa!”. Un tuo amico leggendo il tuo articolo potrebbe pensare che non sia il migliore, o che non scrivi per la migliore rivista in circolazione, però tu sei partito per un paese lontano, non sei rimasto a casa scrivendo comodamente dalla tua stanza, sei venuto qui con impegno e volontà. Ho trascorso molto tempo chiedendomi se avrei mangiato il giorno dopo: quando arriva un’opportunità bisogna impegnarsi al massimo e darsi da fare per realizzare i propri sogni. Bisogna combattere, lavorare sodo per vivere come un re».

Francesco Cosentini

Francesco Cosentini




Una priorità … alla volta

Intervista a mons. Josè Luis Ponce de Leon, vicario apostolico di Ingwavuma

Dall’inizio del 2009 mons. José Luis Ponce de Leon, missionario della Consolata
argentino, è alla guida del vicariato apostolico di Ingwavuma. Tre anni di sede vacante hanno accumulato numerose urgenze, che vengono affrontate una per volta, mentre vecchi e nuovi progetti cercano di
rispondere alle sfide del distretto più povero del Sudafrica, tra le quali l’Aids e le miserie che
ne derivano.

«Quando fu annunciata la mia nomina a vescovo di Ingwavuma, nel novembre 2008, un periodico italiano mi telefonò a Roma, domandandomi quali fossero i piani per il vicariato. Fui preso alla sprovvista: quali piani potevo avere senza conoscere il luogo, la sua gente e la sua storia? Del vicariato conoscevo solo Saint Lucia, dove avevo fatto un ritiro e poi vi avevo portato due o tre confratelli per studiare lo zulu alla scuola di padre Declan Doherty. Non conoscevo niente di questo luogo». Così mons. José Luis comincia a raccontare la sua esperienza missionaria alla guida del vicariato di Ingwavuma.

Come mai sei stato nominato vescovo di Ingwavuma e non di Dundee, dove avevi già lavorato?
Fino a tre o quattro anni fa, quasi metà delle diocesi del Sudafrica erano vacanti. Nel 2006 è arrivato il nuovo nunzio, mons. James Patrick Green: ha visitato le diocesi, ha parlato con la gente e ha fatto gradualmente le nomine. Nominare vescovi scelti fuori dalle diocesi di destinazione penso sia stata la sua policy: lo ha fatto con tutte le sedi vacanti eccetto una. Così a Dundee, dove lavorai per 10 anni svolgendo vari incarichi a livello diocesano, è stato mandato un prete di Durban, mentre io sono a Ingwavuma.
Penso che tale policy porti dei vantaggi, soprattutto perché obbliga a capire la realtà nuova e sconosciuta in cui si è chiamati a lavorare.

Qual è la novità di Ingwavuma?
Anche se il vicariato di Ingwavuma confina con la diocesi di Dundee, si tratta di una realtà diversa. Dundee porta l’impronta dei francescani e dei missionari della Consolata; Ingwavuma quella dei Servi di Maria. Sono arrivati qui nel 1948; in 60 anni hanno evangelizzato questa zona; esistono ancora alcune chiesette che risalgono ai benedettini di Santa Ottilia, primi missionari nello Zululand, ma a fondare e sviluppare la Chiesa sono stati i Servi di Maria della provincia americana.
Per molti anni, come mi hanno raccontato, andavano di famiglia in famiglia chiedendo alla gente di mandare i figli a scuola, facendo dell’insegnamento il principale mezzo di evangelizzazione, finché il governo tagliò i sussidi alle scuole cattoliche e divenne impossibile portarle avanti. Verso gli anni ‘70 passarono a costrure cappelle e seguire le piccole comunità.

Dopo tre vescovi Servi di Maria, come sei stato accolto?
Forse i serviti stessi hanno chiesto un vescovo esterno al loro ordine. Mi hanno accolto tutti con molto calore: Servi di Maria e clero diocesano, religiose e laici, anche se ero un illustre sconosciuto. Fin da subito ho detto alla gente che volevo conoscerla e che avrei visitato tutte le comunità, ma senza preavviso. Ho spiegato pure che quando non capiscono cosa dico, devono dirmelo. E continuo a insistere: «Vi prego, non dite: “Yebo baba, yebo baba” (sì padre), anche se non mi capite».

E com’è andata?
Hanno tentato di farmi cambiare idea: era per loro inconcepibile accogliere il vescovo senza fare festa e dargli così una buona impressione. Spiegai che volevo vedere «una domenica normale», come quelle che vivono settimanalmente i loro preti. E i preti mi hanno aiutato in questo, dicendomi dove e quando andare, dandomi qualcuno per guidarmi, ma mai hanno avvisato la gente del mio arrivo. Ho incontrato comunità vive che preparano liturgie vibranti e partecipate anche in assenza del prete; altre invece si sono mostrate paurose e fragili. In tutti i casi c’è stata una sincera gratitudine. «Siamo felici che ti ricordi di tutti noi e diciamo grazie perché percorri le stesse strade che fanno ogni domenica i nostri preti, senza preoccuparti di distanze e altre difficoltà che incontri per venire a visitarci». A Ingwavuma, alla fine della messa mi hanno detto: «Il tuo predecessore è arrivato giovane ed è invecchiato insieme a noi; anche tu sei arrivato giovane: ti auguriamo di invecchiare tra di noi».

Quanti fedeli conta il vicariato?
Il vicariato di Ingwavuma (nome della prima missione aperta nel suo attuale territorio) si estende da nord a sud per 250 km e per 80 km da est a ovest; conta circa 600 mila abitanti, dei quali 25 mila cattolici (4% circa), sparsi in 5 parrocchie o missioni: a nord Ingwavuma e Ngwanase confinanti con il Mozambico, al centro Ubombo con le omonime montagne, a sud Mtubatuba e Hlabisa, dove c’è la cattedrale. Ogni parrocchia conta da15 a 20 comunità: 75 nell’intero vicariato. Le ho visitate quasi tutte.
Fino a sette anni fa tutti i preti, vescovo compreso, erano Servi di Maria, eccetto un diocesano. Alla fine del 2004 sono stati ordinati i primi preti diocesani. Oggi nel vicariato lavorano 14 preti: 8 diocesani e 6 Serviti. Ci sono anche due comunità di suore.
In sette anni c’è stato un ricambio di personale, con i Servi di Maria dimezzati (ormai tutti sopra i 70 anni) e sostituiti da giovani preti diocesani. Il passaggio generazionale obbliga a un cambiamento di visione pastorale e missionaria, ma soprattutto di prospettive, di aspettative e metodi, di cui ho già parlato ai fedeli: i Serviti, quasi tutti stranieri, avevano aiuti dall’estero e potevano sostenere economicamente il vicariato; i diocesani invece dovranno essere sostenuti dalle proprie comunità.

Quali sono le priorità affrontate in questi tre anni?
Quando arrivai nel vicariato, rimasto senza vescovo per tre anni, tutti si aspettavano che prendessi subito delle decisioni. Invece ho radunato preti e suore per presentarmi, dire la mia storia e domandare cosa si aspettavano da me. Poi ho chiesto quali fossero secondo loro le priorità pastorali da affrontare. Dopo aver messo a fuoco le varie urgenze, dissi loro che, considerando le nostre forze limitate e la vastità del territorio, bisognava scegliere una priorità alla volta: realizzata o avviata la prima, passare alla seconda.
Tutti hanno scelto la catechesi, nel suo senso più ampio, come cammino di fede vissuta quotidianamente, esperienza personale di Cristo e impegno per farlo conoscere a tutti.
Per realizzare tale cammino c’è bisogno di catechisti. Abbiamo mandato dieci persone, due per parrocchia, alla settimana di formazione per catechisti al centro Pax Christi di Newcastle; corso che si tiene ogni anno all’inizio di gennaio, tempo di ferie, dato che molti dei nostri catechisti sono anche maestri. Dopo tale corso essi erano preparati per formare altri catechisti. Si sono costituiti in due équipes e nei finesettimana di marzo e di maggio 2010 hanno tenuto il loro primo corso nei centri di Hlabisa e Ngwanase. La risposta ha superato ogni aspettativa: oltre 150 persone, provenienti da tutte le missioni, hanno partecipato a tutti gli incontri e li hanno animati attivamente. Anch’io sono stato presente a tutti questi raduni: ho compreso ancora una volta che la presenza del vescovo, anche senza dire una parola, è per tutti un segno di quanto io ritenessi importante ciò che stavano facendo.

Quale sarà la seconda priorità?
Il cammino è ancora lungo. La seconda priorità sarà la preparazione di un’équipe itinerante per la formazione di laici, animatori e leader di comunità. La preparazione di questa squadra, di cui farò parte io stesso, avverrà tramite il corso apposito di tre settimane organizzato a Johannesburg dal Lumko Institute, organismo della Conferenza episcopale Sudafricana. Esso ci darà un linguaggio, una visione comune e insieme potremo anche vedere come tradurre tutto ciò nella nostra realtà rurale.

A livello sociale quali sono gli impegni del vicariato?
Quando andai a chiedere aiuto in Germania, il direttore di una Ong mi accolse con queste parole: «Per noi il Sudafrica è una nazione ricca: devi convincermi che io devo aiutarti». Gli posi sotto gli occhi un dossier con le statistiche ufficiali governative, mostrando come il distretto di Khanyakude (territorio del nostro vicariato) è uno dei due distretti più poveri del Sudafrica, soprattutto a causa dell’Aids, che colpisce il 30-40 per cento della popolazione. La pandemia ha falciato praticamente quelli della mia generazione, tra i 40-50 anni, lasciando tantissimi orfani che vivono per strada o in baracche, presso nonni e parenti in condizioni di miseria.
Nel vicariato non esiste alcun orfanotrofio né struttura specifica per tali bambini, ma abbiamo progetti di aiuto per più di 3 mila orfani, con lo scopo di farli crescere nel proprio ambiente e comunità. Cioè, provvediamo a costruire casette a due stanze per gli orfani e le persone che se ne prendono cura. Tale progetto è spesso complesso: bisogna procurare certificati di nascita e documenti di identità di cui sono sprovvisti molti bambini e chi li accudisce; assicurare il diritto di proprietà del terreno dove si costruisce la casa, ottenendo il riconoscimento da parte dell’autorità tribale; quindi seguire le pratiche per iscrivere i bambini agli uffici di assistenza sociale e alla scuola, fornire loro uniformi e materiale scolastico, visitare i beneficiari del progetto per conoscere i loro bisogni e controllare che tutto proceda bene…
Sono già state costruite una cinquantina di case e altrettante sono già sponsorizzate dalla Germania. Nella zona di Hlabisa il progetto è iniziato da poco; la maggior parte delle realizzazioni sono nel nord del vicariato, dove aiutiamo anche molti orfani mozambicani.
In questa zona direttori o ex direttori di scuola hanno cominciato a prendersi cura di alcuni orfani: ora ne aiutano più di mille. Li ho molto lodati, perché questa volta l’iniziativa non parte da uno straniero, prete o suora, ma da laici cattolici, che si prendono cura della propria gente. E noi ci serviamo di loro per costruire queste case: essi identificano chi ne ha veramente bisogno e continuano a seguirli nella loro situazione scolastica e sanitaria.

Tu hai una lunga esperienza anche nella prevenzione del virus e cura dei malati di Aids.
Come chiesa cattolica abbiamo affrontato il problema molto prima del governo. Anzi, da parte governativa c’è stata una grande confusione: nel 1998 Mbeki aveva fatto un bellissimo discorso sulla gravità della situazione, ma, diventato presidente si è rimangiato tutto, dicendo che l’Aids è una malattia come le altre, che non si trasmette da madre a figlio e che i farmaci antiretrovirali non servono. L’attuale presidente ha aggravato la situazione.
La Conferenza episcopale sudafricana ha avuto un’intuizione geniale: ha istituito uno speciale «Ufficio Aids», con lo scopo di cornordinare la raccolta di fondi delle organizzazioni inteazionali e la loro distribuzione per sostenere i programmi di assistenza ai malati di Aids. Nella mia esperienza a Madadeni e a Daveyton mi bastava pensare un progetto, farlo firmare dal vescovo, presentarlo all’Ufficio Aids a Pretoria e gli aiuti arrivavano regolarmente, rendendo poi conto dell’impiego degli aiuti ricevuti.
Con l’arrivo dei farmaci antiretrovirali, la Conferenza episcopale ha svolto ancora una volta un’azione pionieristica, individuando e organizzando vari centri per la distribuzione dei farmaci e per il controllo dei loro effetti. Uno di essi è il centro San Gabriele a Mtubatuba. Oltre a questo centro, abbiamo una «clinica mobile»: ogni settimana una nostra auto raccoglie i pazienti per strada e li porta in una delle nostre cappelle dove ricevono gli antiretrovirali.
I nostri progetti rimangono ancora all’avanguardia e sono apprezzati per serietà ed efficienza, nonostante la modestia delle strutture: un laboratorio Toga sistemato all’interno di un container, con macchinari che eseguono analisi sul posto, senza attendere i risultati dagli ospedali delle grandi città con un notevole risparmio di tempo. A ciò si deve aggiungere che i nostri operatori arrivano nei luoghi dove nessuno arriva.

Quanti sono i pazienti curati con antiretrovirali?
Al momento nel vicariato sono 1.300 i malati di Aids che prendono regolarmente antiretrovirali. I soldi provengono dagli Stati Uniti, tramite il Pepfar (Presidencial emergency plan for Aids releif). A partire dal 2013 tali aiuti non verranno più versati a chiese o organismi particolari, ma ai singoli governi. Abbiamo aperto un dialogo con gli amministratori locali, dicendoci disposti a continuare il nostro lavoro, purché ci vengano foite le medicine, che sono la parte più costosa del progetto; altrimenti dovremo chiudere. Il governo ha risposto che vuole prendersi la totale responsabilità dei pazienti in questione: al nord 600 di essi sono stati trasferiti in 10 giorni all’ospedale di Manguzi, vicino al Mozambico; quelli in cura nel centro di Mtubatuba passeranno gradualmente agli ospedali locali entro il mese di maggio 2012.

E come l’avete presa?
È giusto che il governo si assuma le sue responsabilità, dopo che la Chiesa ha svolto un ruolo di supplenza in assenza dello Stato. Ma rimangono delle perplessità. La gente non si fida del servizio statale: teme che la distribuzione dei farmaci non avvenga in modo regolare, specialmente in caso di scioperi, che possono durare a lungo come è capitato l’anno scorso. Inoltre, molte persone, a causa dello stigma ancora legato all’Aids, rifiutano di recarsi all’ospedale locale, per paura che amici e colleghi di lavoro vengano a scoprire la loro malattia. E senza la regolare assunzione di antiretrovirali il paziente muore, anche per un semplice raffreddore.

Quale futuro?
È chiaro che a livello di vicariato dovremo rivedere il nostro lavoro con i malati di Aids. In un incontro con i responsabili del progetto Aids abbiamo fatto due scelte: continuare i progetti a favore degli orfani, pensando alle generazioni di domani; intensificare il programma di formazione Education for life, (educazione per la vita), destinato soprattutto ai giovani, poiché il problema della prevenzione rimane una grande sfida. Non manca l’informazione da parte di mass media e governo, per prevenire Aids, ma non bastano i preservativi; occorre formare alla responsabilità e offrire motivazioni per sfidare preconcetti mentali, culturali e di situazioni concrete.
Ma c’è dell’altro. Sono entrato da poco in contatto con la dottoressa Barbara Ensoli, cornordinatrice del centro nazionale Aids dell’Istituto superiore di sanità, dove si sta studiando un vaccino per prevenire l’HIV e neutralizzare l’Aids. La fase preventiva richiede ancora tempo, le sperimentazioni terapeutiche invece stanno dando buoni risultati. Tali esperimenti, grazie a un programma di cooperazione a livello di governi, sono in corso anche in Sudafrica. In un incontro con Barbara e il suo team, abbiamo presentato il nostro lavoro nel vicariato e sono rimasti impressionati dalla competenza tecnica dimostrata dai nostri operatori nel rispondere alle loro domande. La conclusione è stata: «Dobbiamo lavorare insieme». Chiusa una fase, se ne sta aprendo un’altra. Lo speriamo.

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Il «padre bianco» a cavallo

Padre Eusebio Francesco Chini

Ricorre quest’anno il 3° centenario della morte di uno tra i più grandi (e più sconosciuti) pionieri dell’America primitiva: padre Eusebio Francesco Chini (1644-1711), gesuita, cartografo, astronomo, scienziato, esploratore, scrittore, soprattutto missionario e difensore degli indiani; percorse immense distese di territori in Arizona, Califoia e altrove, fondando missioni, costruendo città, seminando fede e civiltà. 

«Fu il più caratteristico pioniere e missionario di tutto il Nord-America: esploratore, astronomo, cartografo, costruttore di missioni e fattorie, grande allevatore di bestiame e difensore delle frontiere. La sua vita non è solo quella di un individuo eccezionale: essa illumina la storia della cultura di gran parte dell’emisfero occidentale nella stagione pionieristica». Così il suo primo biografo, Herbert Eugene Bolton, presentava nel 1936 Eusebio Francesco Chini.
Figura poco nota tra noi, ma celebre anche fra i protestanti americani, è uscita da oltre due secoli di oblio grazie agli studi e pubblicazioni del Bolton, fino a meritare una statua nel Campidoglio di Washington, accanto ad altri due pionieri e fondatori di stati americani: il gesuita Jacques Marquette (Michigan) e il francescano Junipero Serra (Califoia).
La sua formazione
Eusebio Chini nacque nel 1645 a Segno, nella VaI di Non, poco distante da Trento, ma abbastanza per mettere in questione la sua nazionalità: «Sono un trentino tirolese; non so se definirmi italiano o tedesco – scriveva alla marchesa di Aveiro nel 1680 -. La città di Trento, anche se si trova ai confini del Tirolo, appartiene per lingua, tradizioni e leggi all’Italia. D’altra parte, il Tirolo appartiene alla Germania… Comunque, per 18 anni sono vissuto quasi nel cuore della Germania».
Ricevuta la prima educazione nel collegio dei gesuiti a Trento, completò la sua formazione al di là delle Alpi: liceo vicino a Innsbruck (1662-65), studi superiori di filosofia e teologia nelle università di Ingolstadt, Friburgo, Monaco, senza trascurare matematica, astronomia, geografia, cartografia.
A 20 anni, nel 1663, entrò nella Compagnia di Gesù, emise la professione nel 1667 e aggiunse al nome di battesimo quello di Francesco, in onore del Saverio, al quale aveva fatto voto di farsi gesuita e missionario in caso di guarigione da una grave malattia. Ogni anno scrisse al superiore generale, manifestando il desiderio di essere un giorno mandato in Cina, dove il suo celebre cugino Martino Martini aveva speso ingegno e vita per una quindicina d’anni.
Ordinato prete nel 1677, venne finalmente esaudito: fu destinato alle «Indie»; ma nel sorteggio tra lui e un compagno, invece di quelle orientali (che includeva la Cina) gli toccarono le Indie occidentali: fu destinato alla Nuova Spagna, cioè al Messico.
Imbarcatosi a Genova con altri 18 compagni nel marzo 1678, arrivò a Cadice a metà luglio, quando la Flotta Reale era già partita per il Nuovo Mondo.
In attesa di una nuova spedizione, rimase a Siviglia per due anni e mezzo: ne approfittò per praticare lo spagnolo; si interessò di agricoltura, farmaceutica e scultura; si occupò di matematica e astronomia: con strumenti costruiti da lui stesso studiò il corso di una cometa apparsa tra il 1680-81, e ne pubblicò la descrizione appena giunto in Messico. A Siviglia cambiò l’ortografia del cognome in Kino, per evitare la cattiva pronuncia spagnola.
missione quasi fallita
Arrivò in Messico nel 1681 mentre si stava preparando una spedizione per esplorare e colonizzare la Bassa Califoia. Padre Kino fu scelto come «cosmografo regio» e cappellano del gruppo. Composta di due navi, 100 soldati e tre gesuiti, la spedizione salpò da Sinaloa nel gennaio 1683; sballottata dai venti, approdò nella baia di La Paz il 1° aprile. Dopo una settimana di esplorazione apparvero i primi indiani guaicuros che minacciosi intimarono agli intrusi di uscire dalla loro terra. Padre Kino e padre Goñi offrirono loro mais, biscotti e collane; pochi giorni dopo essi tornarono con frutta, piume oamentali e altri doni.
Il ghiaccio era rotto; le visite si ripeterono e cominciò l’evangelizzazione; ma i soldati continuarono a diffidare e uccisero senza ragione una decina di indigeni. «L’uso sconsiderato delle armi – scrisse padre Kino il 16 luglio 1663, commentando questo e altri fatti – fa fuggire i nativi, i quali si rifugiano sui monti. I metodi pacifici e gentili, insieme con la carità cristiana, aiuteranno invece moltissime anime a fare ciò che sarà loro insegnato e richiesto. Colpiti infatti dai nostri metodi pacifici, i nativi avevano cominciato a temere e abbandonare tutto ciò che avevamo spiegato loro che non era bene fare. Avevano cominciato a recitare alcune preghiere… a farsi il segno della croce, a mezzogiorno s’inginocchiavano alla recita l’angelus».
Dopo tre mesi la spedizione toò nel continente per vari motivi: paura dei guaicuros, assenza di metalli, pietre preziose e perle (cose che interessavano gli spagnoli), difficoltà di rifoimenti. Intanto padre Kino aveva tracciato alcune mappe e raccolto 500 vocaboli indigeni.
Organizzata una seconda spedizione, il 6 ottobre approdarono più a nord, nel luogo poi chiamato San Bruno, in onore del santo del giorno. L’impresa fu più fortunata della precedente: gli indigeni si mostrarono molto cordiali e aiutarono subito a costruire la cappella; i coloni cominciarono a coltivare la terra per dare autosufficienza alla colonia; il territorio veniva esplorato da costa a costa, fino al Pacifico.
Intanto i missionari imparavano la lingua e annunciavano il vangelo, rispondendo alle domande che gli indiani ponevano guardando il crocifisso che pendeva davanti al loro petto.
Le risposte fluivano con facilità, ma il discorso si inceppò quando dovettero spiegare la risurrezione. Quale parola usare? Come far capire l’idea di risurrezione dai morti? Lo racconta padre Kino in una lettera scritta il 6 ottobre 1684: «La parola “risorgere dai morti”, tanto importante per la nostra fede… sono riuscito a ricavarla… prendendo delle mosche che, soffocate nell’acqua, ripulite con certi succhi e ricoperte di cenere, poi messe al sole le ho richiamate in vita; con continue domande sono riuscito a ricavare la parola “ibimu huegite” che significa “risuscitò”».
Ma la Califoia non offriva né perle né oro per pagare le spese di spedizione; il viceré tagliò i fondi e San Bruno fu abbandonato nel maggio 1685, con grande delusione di padre Kino, costretto anche lui a troncare 18 mesi di missione, in cui erano state battezzate solo 14 persone in punto di morte, ma aveva istruito 400 catecumeni. Il missionario promise di tornare; cercò inutilmente di convincere i confratelli a fare una terza spedizione: la missione fu ripresa 12 anni dopo da un suo caro amico Giovanni Maria Salvaterra.
«prete a cavallo»
L’esperienza califoiana incise profondamente nel metodo missionario di padre Kino. Prima di tutto imparò ad apprezzare l’indole dei nativi e si convinse che essi andavano avvicinati con sistemi opposti a quelli usati dai soldati spagnoli, avidi e rozzi. Poi pianificò il modo di operare in modo indipendente, prendendo le distanze dalla burocrazia ufficiale, soprattutto, studiando i modi di sostenere finanziariamente le missioni. Con tale metodo coniugò gradualmente, per 24 anni, evangelizzazione e promozione umana nella Pimeria Alta, la regione dei Pima del Nord, oggi divisa tra Arizona (Usa) e Sonora (Messico). Vi arrivò il 15 marzo 1687 e si stabilì nel villaggio di Cosari, subito ribattezzato Dolores, dal nome della missione di Nuestra Señora de los Dolores, che divenne il suo quartiere generale. Era l’estrema frontiera settentrionale del Cristianesimo negli inesplorati deserti del Nord-Ovest. Oltre al quadro dell’Addolorata, portava con sé una copia della Real Cédula, cioè un decreto regio che esentava per almeno 20 anni dai lavori forzati nelle miniere e dalle imposte i futuri convertiti. 
Padre Kino cominciò subito a esplorare il territorio. Organizzò e guidò 50 spedizioni, in media due viaggi l’anno, da cento a mille chilometri ciascuno; esplorò in lungo e in largo tutta la regione dell’Alta Pimeria, attraversando deserti e aprendo molti nuovi sentirneri, fino a raggiungere, primo europeo, i fiumi Gila e Colorado.
Tali esplorazioni erano anche missioni itineranti. Conquistata amicizia e simpatia degli indiani, egli predicava loro il vangelo, spesso mediante un interprete; dopo una sommaria istruzione battezzava bambini e moribondi; stabiliva una rete di comunità che poi lui stesso o altri visitavano regolarmente per continuare la catechesi, celebrare il culto e formare alla vita cristiana. In 24 anni fondò e fece crescere 24 missioni, sparse su un territorio di 4.200 kmq; percorse a cavallo complessivamente più di 30 mila km, attraverso il deserto più ostile del continente. Lo chiamavano il «padre a cavallo». Convertì più di 30 mila anime: è passato alla storia come «l’apostolo dei Pima». 
missionario e ranchero
Per coniugare il binomio vangelo-promozione umana, padre Kino dedicò particolari cure all’agricoltura e all’allevamento. Dove passava, il deserto rifioriva. Fece arrivare dall’Europa semi di grano e ortaggi, piante da frutta e viti con cui organizzò una quarantina di fattorie agricole; insegnava agli indigeni a canalizzare l’acqua per irrigare le svariate coltivazioni intensive.
Fondò anche una trentina di ranchos, dove allevava con successo numerosi armenti di buoi, pecore e cavalli, da fare impallidire i cowboys arrivati due secoli dopo in quelle stesse zone.
Di suo non possedeva neppure un capo di bestiame; tutto faceva per dare alle missioni fondate o da fondare una base di autonomia economica e assicurare la sussistenza e il progresso degli indigeni delle medesime missioni. Riuscì perfino ad aiutare i confratelli che si trovavano in difficoltà: a padre Salvaterra, che stentava a mandare avanti la sua missione in Califoia, mandò 300 capi di buoi e cavalli in una sola volta; altri 1.400 capi alla missione di San Saverio, non lontana dalla quella di Dolores.
«grande padre» degli indios
Per trasformare i pima e altre etnie (meri, sobaipuri, pápago, gila) in agricoltori e allevatori, padre Kino dovette lottare su più fronti. Tanto ben di Dio attirava l’attenzione e i saccheggi degli apaches, stanziati a oriente delle sue missioni. Per difendersi dai loro saccheggi il missionario dovette insegnare agli indigeni anche l’uso delle armi. Fattosi «voce dei senza voce» padre Kino difese strenuamente i diritti degli indigeni, accusati di essere ladri, incostanti, viziosi, refrattari alla civiltà e spesso sfruttati e umiliati dai militari e coloni spagnoli. Furono anni di sofferenze e frustrazioni enormi, accresciute dalla ribellione dei Pima, nel 1695, che mise a ferro e fuoco ben sei missioni e varie fattorie e che causò, soprattutto, l’uccisione del suo caro amico, il gesuita siciliano padre Saeta. Padre Kino si fece mediatore e riuscì a riportare la calma: fu firmato un trattato di pace tra i capi dei Pima e le autorità coloniali. Ciò nonostante coloni e proprietari di miniere montarono una campagna di accuse, invidie e calunnie, credute dalle autorità civili e religiose, con lo scopo di chiudere le missioni in Pimaria, lasciando la frontiera della Nuova Spagna nelle mani dell’esercito e dei coloni.
Padre Kino intraprese un viaggio di 2 mila chilometri a cavallo e raggiunse Città del Messico, dove incontrò i suoi superiori e il viceré, smontò una per una le calunnie e ottenne ciò che voleva: la missione della Pimaria continuava, con l’invio di cinque nuovi missionari, e lui stesso fu riconfermato nel ruolo di guida delle missioni. Ritornato a Dolores i Pima lo acclamarono loro «grande padre bianco».
Calunnie e invidie continuarono, anche da parte di qualche confratello, che lo accusava di stare più a cavallo che in chiesa, di dedicarsi più all’esplorazione e alla promozione umana che all’evangelizzazione; stava quasi per essere rispedito in Califoia, quando arrivò l’ordine da Roma, del superiore generale, di lasciarlo continuare nella Pimaria Alta. Dalla fine del 1697 fino alla morte poté consolidare il lavoro già svolto e fondare nuove missioni, la più celebre è quella di San Xavier del Bac presso Tucson in Arizona.
l’isola che non c’è
Gioie e dolori, successi e delusioni, incomprensioni, calunnie e persecuzioni… tutto era stimato e proclamato da padre Kino «favori celestiali», come scrisse nelle sue lettere (ce ne sono pervenute 93) e soprattutto nella Cronologia della Pimeria Alta: Favori Celestiali, diario che abbraccia il periodo della sua vita dal 1687 al 1706. Altro libro importante del 1695 è la biografia del suo confratello e protomartire della Pimaria Alta: Inocente, Apostolica y Gloriosa muerte del venerabile padre Francisco Xavier Saeta…
Fin dall’inizio, assieme al lavoro apostolico e organizzativo, il Kino non smise mai di effettuare accurate rilevazioni scientifiche e geografiche, che traduceva in mappe e relazioni che contengono aspetti politici, economici, etnologici, militari, geografici ecclesiastici e missionari.
Oltre agli scritti, ci sono pervenute 32 carte accertate; in esse sono registrati fiumi e valli, monti e selve, villaggi di cristiani e pagani, sentirneri e sorgenti d’acque… dati indispensabili per i futuri missionari, esploratori, viaggiatori e per la sopravvivenza degli stessi indigeni. Tra le 32 mappe, a procurargli più fama fu quella intitolata «Paso por Tierra a la Califoia», in cui dimostrò che la Califoia era una penisola e non un’isola come si credeva da oltre 50 anni (vedi riquadro).
Ormai anziano, stanco e ammalato, la morte lo colse, poco più che 65enne, il 15 marzo 1711, mentre consacrava la missione di Santa Magdalena de Sonora, chiamata poi Magdalena de Kino. Sepolto presso l’altare, la sua tomba divenne meta di pellegrinaggi da parte delle genti da lui evangelizzate. Poi il ricordo si affievolì per la soppressione dei gesuiti e per la cacciata successiva dei francescani (1828) che li avevano sostituiti.
La riscoperta di padre Kino partì dall’Arizona, dopo che questa regione fu incorporata negli Stati Uniti (1912). Nel 1965 una statua del grande missionario, proclamato secondo fondatore dell’Arizona, fu posta nella sala del Campidoglio di Washington, insieme ai grandi della patria.
Nel 1971 l’arcivescovo di Hermosillo ha iniziato il processo per la causa della sua beatificazione. Le popolazioni di entrambi gli stati, Arizona e Sonora, attendono che anche la Chiesa riconosca la santità del loro padre nella fede e nella civiltà.

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Pace in terra …

«E questo l’annuncio degli Angeli che, 2000 anni fa, accompagnò la nascita di Gesù Cristo (cfr. Lc 2,14) e che sentiremo risuonare giorniosamente nella santa notte di Natale, quando verrà solennemente aperto il Grande Giubileo. Questo messaggio di speranza che giunge dalla grotta di Betlemme vogliamo riproporre all’inizio del nuovo Millennio: Dio ama tutti gli uomini e le donne della terra e dona loro la speranza di un tempo nuovo, un tempo di pace. Il suo amore, pienamente rivelato nel Figlio fatto carne, è il fondamento della pace universale. Accolto nell’intimo del cuore, esso riconcilia ciascuno con Dio e con se stesso, rinnova i rapporti tra gli uomini e suscita quella sete di frateità capace di allontanare la tentazione della violenza e della guerra».
Così scriveva Giovanni Paolo II nel messaggio per la pace dell’anno 2000, all’inizio del terzo millennio. Sono parole che mantengono tutta la loro attualità anche alla fine di questo 2011 che è stato così pieno di speranza e disperazione e sembra concludersi all’ombra di nuove minacce di guerra. Ho provato mentalmente a ripercorrere gli avvenimenti di morte che hanno segnato quest’anno. È una lista impressionante: terremoti, guerre, attentati, fame, crisi politica, crisi economica, alluvioni, l’ostinazione dei dittatori, licenziamenti, insicurezza, dimostrazioni violente… Da far dire «basta con 2011»! Ho poi pensato alle positività, agli avvenimenti che incoraggiano e danno speranza. Ne ho vissuti diversi a livello personale: è una lunga lista, ma non voglio tediarvi col mio particolare. Di quelli più universali ne ricordo alcuni, a caso: la nascita del nuovo Sudan, la primavera araba, la giornata della gioventù a Madrid, la bella solidarietà da gente a gente nelle calamità, la generosità contro la fame, l’incontro di Assisi…
Ecco, l’incontro di Assisi! Ci riporta al tema della pace, dono del Dio fatto Uomo e proposta d’impegno della Giornata della Pace all’inizio del nuovo anno. «Educare i giovani alla Giustizia e alla Pace» è il tema del 2012.
Educare alla pace: è una sfida per tutti. Si educa alla pace vivendo la pace. Ma come si possono educare i giovani alla pace se noi non la viviamo? E come possiamo viverla se non viviamo la fede in Colui che «la nostra Pace»? Papa Benedetto, ad Assisi, ha detto con forza che usare la fede cristiana per giustificare la violenza, l’esclusione, le barriere e le segregazioni, «è una vergogna», è «un utilizzo abusivo della fede cristiana, in evidente contrasto con la sua natura. Il Dio in cui noi cristiani crediamo è il Creatore e Padre di tutti gli uomini, a partire dal quale tutte le persone sono tra loro fratelli e sorelle e costituiscono un’unica famiglia. La Croce di Cristo è per noi il segno del Dio che, al posto della violenza, pone il soffrire con l’altro e l’amare con l’altro. Il suo nome è “Dio dell’amore e della pace” (2 Cor 13,11)».
Per educare alla vera pace è necessario allora ritornare alle radici della fede, perché la pace può essere davvero accolta e vissuta solo da quelli che vivono per piacere a Dio. Qual è il sacrificio davvero gradito a Dio? Fare la sua volontà, con cuore puro. «Questa è la volontà del Padre mio, che vi amiate… Questo vi comando: amatevi come io vi ho amato».
Una visione troppo idealista e spiritualista? Forse. Ma se davvero provassimo a vivere quello che diciamo di essere, a passare dall’apparire all’essere cristiani (di/in/con/per Cristo), dal relegare la fede alla chiesa al viverla nel quotidiano senza paura del prezzo da pagare e senza i compromessi del politicamente corretto, allora sì, la pace avrebbe davvero la possibilità di prevalere in questo mondo.

Pace in terra agli uomini in cui Dio si compiace…
Buon Natale e che la Speranza che è nel nostro cuore diventi amore e giustizia vissuta nel quotidiano dell’anno che viene.

Gigi Anataloni




Meru (5) Breve Storia

Adattato da una relazione di p. Valentino Ghilardi

Questa storia sintetica dei primi anni delle missioni del Meru fu scritta nel 1950 da p. Valentino Ghilardi (1905-1961). Lo sviluppo delle missioni del Meru è avvenuto alla chetichella, pagato con tanta sofferenza e dedizione e ha trovato la sua completezza nella creazione della Diocesi di Meru (1953). Da allora la dozzina di missioni che costituivano la nuova diocesi, ha fatto un balzo gigantesco raggiungendo in pochi anni e occupando praticamente a raggiera tutto il Meru, con 45 parrocchie e 730.000 cristiani (dati del 2005).

Da notare come in questa relazione p. Ghilardi usi un linguaggio e termini tipici del suo tempo e scriva i nomi locali secondo lo stile italiano proprio dei missionari prima che gli inglesi imponessero la loro sillabazione. Essi scrivevano come si pronunciava secondo la fonetica latina. In più la sillabazione corretta dei nomi era complicata dal fatto che la lingua locale non era scritta ma solo orale e soggetta a grosse variazioni da clan a clan, da collina a collina.
I dati del 2005 sono dal «Kenya Catholic Directory 2006», Nairobi 2006.

1911, gli inizi
Fu a questo paese, selvaggio e assai basso nell’ordine morale, che giunsero nel dicembre del 1911 quattro padri missionari della Consolata, lo zelo dei quali aveva fatto superare tutte le difficoltà e paure, ché i Meru eran descritti come i più selvaggi e crudeli di tutta l’Africa.
In un primo tempo si fermarono a Thigga nel Mwembe, ove pensavano di aprire una missione. Invece abbandonarono il luogo, forse perché trovarono molta malaria o per mancanza di acqua, e si divisero in due gruppi: p. Luigi Olivero e p. Giovanni Balbo proseguirono il loro cammino, mentre p. Toselli senior e p. Giuseppe Aimo salirono sull’altipiano e si fermarono a Egoji, ove, dopo difficoltà non poche e molto parlamentare, poterono intendersi coi notabili del paese per stabilirvi una stazione di missione.
P. Balbo e p. Olivero giunsero a Keeja nel basso Imenti ove trovarono quanto faceva per loro.
I quattro pionieri eran partiti da Nyere il giorno dell’Immacolata, e il giorno di Natale ebbero la gioia di celebrare, sia pure sotto una tenda, la prima messa nel luogo delle due erigende missioni.
Si posero con lena al lavoro, tant’è che solo dopo poche settimane era pronta l’abitazione dei Padri e una minuscola chiesa. Nel febbraio seguente il vicario apostolico mons. Filippo Perlo [il Vicario apostolico di Nyeri da cui dipendeva tutta l’area attorno al Monte Kenya] e il cofondatore Can. Giacomo Camisassa, accompagnati da sr. Carola e sr. Anania delle Suore Vicenzine, visitarono le due missioni che furono trovate adatte [vedi storia e foto in queste stesse pagine].

Metodo
Metodo di apostolato [era il] solito, quello cioè già adottato nel Kikuyu i primi tempi: visite ai villaggi con istruzioni spicciole, cure degli ammalati, mentre pure non si trascuravano le costruzioni in casa.

1913, Espansione
Ma lo zelo, come il fuoco, non rimane stazionario: o si spegne o si dilata. Ed è quindi con meraviglia, dato lo stato selvaggio del paese, che noi vediamo i nostri cercare nuova espansione nell’ancora più selvaggio Jombene. Nel febbraio 1913, p. Toselli d’accordo con S.E. Mons. Vicario, fissa il luogo della nuova missione di Tigania e nell’agosto 1913, la prima casa è fatta.
P. Aimo e p. Rosso non stettero inoperosi e non risparmiarono la fatica. Essi stessi cominciarono a squadrare le durissime pietre vulcaniche che pavimentano gran parte della regione e a mano preparare assi nella vicina foresta del monte Jombene. Il materiale era pronto: pietra su pietra cementate di fango, asse vicino a asse, fatiche giornaliere iniziate all’alba e terminate solo per l’oscurità; ma la chiesina venne su bella e massiccia come la montagna del Jombene. Nella notte santa del 1914, scrisse p. Aimo, «l’Onnipotente fattosi povero fanciullo scende per la prima volta nella povera chiesetta di Tigania». Nel dicembre 1913 pp. Olivero e Domenico Vignoli fondano la nuova missione di Egembe (ora chiamata Amung’enti [scritto anche Igembe o Ighembe]) proprio sul piazzale del ballo degli Nthaka sulla riva destra del fiumicello Mboone e abbracciante due clan.
Abbiamo così le prime quattro missioni del Meru, quattro roccheforti avanzate proprio nel cuore del paganesimo, che i  nostri chiamarono trappe, certo menandovi vita da trappista: preghiera, lavoro, visite ai villaggi, soli per la maggior parte dell’anno. Se i monti e le rocce e i fiumi e i sentirneri potessero parlare quante belle e meravigliose cose ci direbbero di Frate Ilarione (p. Rosso), di Frate Beardo (p. Aimo), di Frate Ginepro (p. Albertone), di Frate Pacomio (p. Bellani), e di tutti gli altri, come tante belle cose ha cantato il serafico p. Aimo nelle sue innamorate odi del Jombene.

1915, le suore
Nel 1915, il paese parve abbastanza sicuro, cosicché mons. Perlo permise alle Suore Vincenzine di stabilirsi a Imenti che nel frattempo (1913) aveva soppiantato la missione primitiva di Keeja malsana e senza acqua [Le autorità, sotto l’influsso dei protestanti ostili all’insediamento dei cattolici, avevano assegnato un terreno che durante le piogge si allagava facilmente. Dopo le giuste lamentele, fu permesso di scegliere un posto più sano nel giro di un’ora di cammino. Mandato dal vescovo, P. Giovanni Chiomio, proverbiale per la precisione dei suoi passi e la sua resistenza, percorse esattamente in un’ora di distanza che lo separava da Mojwa, posta in un luogo sano e ricco di acque].
Sr. Dolores, sr. Agnesina e sr. Antonia vi arrivarono dopo lunghi giorni di lenta carovana il 15 luglio 1915, e più o meno lo stesso tempo ricevono le suore anche Egoji e Tigania, e l’anno seguente 1916 anche Igembe.
Si iniziano asili, si sviluppano i dispensari, si aprono i tanto necessari brefotrofi che salvano centinaia di innocenti vite, si usano mille industrie per attirare la popolazione che oramai ama i missionari, li rispetta, ne approfitta per i malati e per mille altre cose e lavori, ma in quanto a religione: nessuna breccia nel millenario paganesimo.

1916, Progresso lento
Bisognerà attendere fino al 14 maggio 1916 per avere un primo battesimo a Egoji, fino al 17 luglio 1916 a Imenti, fino al 1917 a Tigania, e fino al 1920 a Igembe.
Guardate il quadro progressivo annuale dei cristiani dall’inizio delle missioni al 12 Dicembre 1950 e non vi sfuggirà certo la lentezza del progresso [vedi i box «Sette Sorelle»] in qualche stazione, nonostante il lavoro immenso compiutovi. Alla vostra domanda sottintesa rispondo: «Quanti scalpelli si consumano prima che abbian intaccato la roccia granitica?». Il paganesimo di questa gente è molto più duro a sfondare, guardato com’è dalle organizzazioni degli Njoli [sono gli Njuuri di cui si parla più sopra] che tengono tenacemente il paese in mano, e in molti luoghi impediscono ogni innovazione che mina alla sua base stessa il paganesimo. Le difficoltà di apostolato incontrate a Tigania e a Egembe non impedirono l’espansione ai nostri pionieri.

1922, quota sei
Salendo su da Tigania verso Kangeta, non sfugge in lontananza sui profili dei contrafforti del Jombene la visione di qualcosa che sembra un castello, una fortezza: è la missione di Toro [oggi chiamata Tuuru] fondata da p. Aimo e Calandri nell’agosto 1922, vera sentinella avanzata, posta quasi sui confini del Jombene, proprio sulle vie carovaniere dei Borana e Turkana, in mezzo a una popolazione fittissima. Nell’ottobre 1922, p. Balbo fonda la stazione di Mekindoli [Mikinduri, – in realtà lui fece solo i primi contatti, la fondazione vera e propria si deve a p. Dolza Vincenzo come raccontato più avanti], luogo già visitato dal p. Giuseppe Maletto qualche tempo prima, il quale lasciò scritto nel diario: «Il primo a dir messa a Mekindoli fui io, sotto la tenda, con i fratelli Benedetto Falda e Bartolomeo Liberini a servirla, e ciò il 2 luglio 1922». Poche missioni hanno incontrato tanta difficoltà come Mekindoli nel loro primo sviluppo. Basti dire che per ben dieci anni ebbe solo sempre dodici cristiani. Ma nelle difficoltà si temprano anche le missioni, ed è per questo che oggigiorno Mekindoli è quella più avanzata e più promettente fra le missioni del Jombene.

1923, le consolatine
Nel 1923, settembre, arrivano a Imenti le prime due suore Consolatine, la compianta sr. Giacinta e sr. Enrichetta. Con lo svilupparsi dell’Istituto delle suore missionarie della Consolata, altre ne arrivano, cosicché nel 1925 le suore Consolatine hanno già occupato le missioni del Meru, ad eccezione di Mekindoli, e le suore del Cottolengo possono rimpatriare.

1926, LA PREFETTURA APOSTOLICA
Abbiamo finora parlato delle sei stazioni di missione del distretto di Meru, che era parte del vicariato apostolico di Nyere. Nel 1926, succede un avvenimento d’importanza capitale per la storia della Chiesa nel Kenya. Precisamente il 10 Marzo 1926, una bolla da Roma erige la Prefettura Apostolica di Meru, staccando il distretto di Meru e parte di Embu dal vicariato di Nyere, piccola isola di 9-10.000 Km quadrati entro il vicariato, e una popolazione attuale (1950) di 400.000 (nel 1926 non raggiungeva i 200.000 [notare qui come la stima di 93mila capanne fatta nel 1910 fosse decisamente esagerata]). Primo Prefetto Apostolico è il venerato mons. Giovanni Balbo, nato a Torino il 22 ottobre 1884, e ordinato sacerdote il 29 giugno 1907, tempra d’apostolo antico stampo rotto a tutte le fatiche del pioniere. La nomina lo trovò in trincea, superiore della missione di Imenti, che reggeva, eccetto brevi periodi di interruzione, dalla sua fondazione. Tempi duri, quelli, per la nuova prefettura, in cui tutto era da organizzare, staccata da un vicariato che navigava bene [la disparità di risorse tra il vicariato di Nyeri e la prefettura del Meru, fu una delle questioni che più amareggiò i missionari].
Mons. G. Balbo non si perse d’animo. Le sette missioni della prefettura (nella divisione acquistò pure la missione di Kyeni iniziata nel 1923), nonostante la miseria, è la parola [giusta da usare], in cui si trovavano, cominciarono una nuova vita di sviluppo. Per prima cosa importò macchine per un laboratorio che avrebbe dovuto fornire il materiale per la costruzione di tutte le stazioni, i cui fabbricati erano ancor quelli all’indigena dei primi tempi, le mobilia per le abitazioni e le scuole che qua e là cominciavano a fiorire. E tutte le missioni avvantaggiarono di questo laboratorio.

1928, Tempi duri
Ma i tempi erano durissimi, e solo la tempra adamantina dei sette missionari, che formavano tutto il personale della prefettura di Meru, poté affrontare e superare quelle difficoltà che provenivano dall’interno del paese e dall’esterno.
«Siete eroi», disse mons. Arthur Hinsley (poi Cardinale di Westminster) ai missionari nella sua visita apostolica nel novembre 1928, visita che portò qualche benefizio materiale alla prefettura, e di cui mons. Balbo subito approfittò per costruire le abitazioni dei padri e delle suore della missione di Kyeni [non era stata una visita di cortesia, perché il monsignore, allora non ancora vescovo, era stato mandato da Roma per risolvere alcuni problemi, soprattutto economici, pendenti tra il vicariato di Nyeri e la nuova prefettura].
La visita di mons. Pasetto nel Giugno 1929 portò nuovi miglioramenti amministrativi alla prefettura. Ma la fibra forte di mons. Balbo non poté resistere alle crescenti difficoltà della Prefettura. La sua salute ne fu scossa, e verso la fine del 1929 rassegnò le dimissioni. Gli succedette come pro-prefetto, mons. Carlo Re, carica che tenne fino al 1936. Durante questo periodo mons. Re rifece i fabbricati di parecchie missioni e aprì la stazione di Chuka. Nuovo sviluppo presero pure le scuole sia alla centrale che nelle out-schools.

1936, mons. Nepote
Finalmente nel 1936, la prefettura ebbe il suo nuovo prefetto apostolico nella persona di mons. Giuseppe Nepote. Scriveva il «Da casa madre» [il bollettino interno dell’Istituto] del novembre 1936: «L’Angelo della Chiesa di Meru: ce l’ha portato la Madonna del Rosario come dono della sua festa: un dono materno quindi, prezioso e bello come i frutti di questa ottima raccolta autunnale. La lunga attesa della Chiesa di Meru non poteva certo sperare un premio più gradito e munifico di questa illuminata scelta».
Il periodo di mons. Nepote segna lo stabilizzarsi della vita cristiana nelle Missioni. Catecumenati fiorenti, scuole, cristianità in aumento in ogni luogo. [Ma l’idillio durò poco].

LA II GRANDE GUERRA
La grande guerra risparmiò nessuno, nemmeno il prefetto apostolico, il quale in un primo tempo fu inteato in un campo di Kabete, e in seguito confinato in una missione del Tanganika . Eventi successivi del dopo guerra portarono alle dimissioni di mons. Nepote nel novembre del 1946. E la chiesa di Meru [rimasta priva del suo pastore fu] retta dall’amministratore apostolico mons. Carlo Cavallera, vicario apostolico di Nyeri.
Durante l’inteamento di tutti i missionari [nel campo di Koffiefontein in Sudafrica] e suore, la prefettura venne temporaneamente affidata a quattro padri della Congregazione dello Spirito Santo, troppo pochi per il grande lavoro della prefettura, cosicché parecchie missioni furono chiuse e visitate solo periodicamente.
Con il ritorno globale dei padri e suore nell’agosto 1944, tutte le missioni presero nuovo sviluppo: catecumenati, cristianità, dispensari, ospedale, scuole primarie e secondarie, con un ritmo che ha del prodigioso.

A cura di Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Meru (4) Le sette sorelle

1. IMENTI (o MUJWA)
Fu fondata nel 1911. Il primo cristiano fu battezzato il 17 sett. 1916. Nel 1926, alla creazione della prefettura, i Cristiani erano appena 72. Al 31 dicembre 1950 sono 3.932 [nel 2005 sono 34.900, senza contare Mitunguu e Nkubu]. Le 18 out-schools (scuole cappelle) contano un 2.000 allievi. [Al 1950] vi è un catecumenato presso ogni scuola.
Altre opere della stazione: asilo infantile; famulato per le ragazze sposande, opera questa che scioglie tante difficoltà e che prepara le ragazze al matrimonio cristiano; una efficiente scuola industriale diretta dal fr. Serafino; un laboratorio fornito delle macchine più modee, diretto dal fr. Cesare Balagna; una scuola di scalpellini in pietra, creata e diretta dal fr. Virgilio e che ha già fornito statue e altari e oamenti alla nuova Cattedrale e forma l’ammirazione di quanti ne vedono le opere.
Non vanno dimenticate le numerose squadre di calcio, quasi una per scuola, e due presidi della Legione di Maria.

2. EGOJI
Fondata nel 1911. I primi cristiani furono battezzati il 14 maggio 1916. Nel 1926 [Egoji o Igoji] contava 148 Cristiani e a fine 1950 il numero era di 2.602 [35.738 nel 2005, senza contare quelli delle out-schools diventate parrocchie].
Qui lavorò molto il p. A. Bellani, profondo, linguista ed etnologo che alzò il prestigio della missione non solo tra i pagani, ma anche tra i protestanti e presso il governo. Fu il primo a riconoscere la necessità delle scuole a Meru, e personalmente stampò con una piccola macchina tipografica i primi libri usciti in lingua Kemeru. Anima zelante dell’espansione missionaria non risparmiò fatiche e preparò, con la sua opera e tattica di muta comprensione con la popolazione, quel grande sviluppo che prese la missione in seguito.
[Nel 1950] C’è un buon dispensario, una scuola primaria con oltre 400 allievi, e 17 out-schools con un complesso di 2.360 allievi, di cui 892 sono ragazze; tre prayer houses; una scuola secondaria femminile, la St. Mary’s Girls’ Boarding School con una sessantina di ragazze; annessa a questa una scuola magistrale femminile che prepara maestre diplomate per la prefettura; una scuola domenicale per donne, unica nel suo genere, ove sr. Carmelina impartisce la prima  istruzione letteraria e conferenze appropriate alle donne; il circolo festivo San Karolo Lwanga per i bambini; il circolo festivo Sant’Agnese per le bambine; quattro truppe di Boy Scouts e numerose squadre di calcio.

3. TIGANIA
Fondata nel 1913, il primo battesimo si ebbe il 7 ottobre 1917. All’erezione in Prefettura nel 1926 contava 50 cristiani, e al 1950 ben 768 Cristiani [non ci sono dati per il 2005, ma anche questa missione è stata divisa in più parrocchie].
Due belle figure di missionari che ne hanno dissodato il terreno spirituale sono il serafico p. Aimo e l’ascetico p. Rosso, veri pionieri della Chiesa, i cui sacrifizi e vita austerissima solo Dio conosce.
Nel diario della missione [anno 1936] si trova scritto: “Il terreno di Tigania è pietroso e arido e a stento vengono su i raccolti. Altrettanto si può dire dei cristiani: ogni anno si aggiunge qualche nuovo convertito, ma la massa si conserva restia. Solo il missionario sa quanto costa un solo cristiano nel Jombene”. Ma ora [1950] i tempi vanno decisamente cambiando. Il catecumenato è fiorentissimo. La scuola centrale conta 126 allievi. Vi è un buon dispensario, un asilo infantile che è una grazia, un gruppo di azione cattolica che compie un lavoro di apostolato impagabile. Le tre out-schools contano 236 allievi.

4. IGEMBE (o AMUNG’ENTI)
Fondata nel 1913, il primo Cristiano si ebbe solo dopo sette anni, nel 1920. [Nel 1926] i Cristiani erano 33; a fine 1950 sono 227 [mancano dati per il 2005].
Egembe con Toro [Tuuru] sono il vero centro del paganesimo del Meru e, pare, anche la culla della società degli Njoli, che regolano tutta la vita del Meru sulle basi tradizionali pagane. Tuttavia anche qui come a Tigania ci sono i segni di un buon risveglio.
I catecumeni sono 80; la scuola centrale con lo standard V [classe V] conta già ben 192 allievi, e le quattro out-schools hanno già 326 allievi.
La missione di Egembe è ancora ora impregnata del ricordo del p. Vincenzo Dolza, che si faceva chiamare «padre Cencio», che rese questa missione una delle più belle, con viali e vaghi giardini dai mille fiori, tra cui primeggiano numerosi i rosai. Il padre li piantava in onore di santa Teresina («Agli altri, diceva, la Santina manda le rose, a padre Cencio solo le spine delle rose»).
Non è possibile che le preghiere, i lavori, i sacrifizi di tanti padri e suore che hanno seminato nel dolore rimangano sterili. A suo tempo i rosai di p. Dolza non daranno più solo, spine, ma sbocceranno in quella pioggia di rose predetta dalla Santa.

5. MEKINDULI
Fondata nel 1923. I primi cristiani furono 10 Jaluo [Luo provenienti dalle zone attorno al Lago Vittoria] che lavoravano nella missione, battezzati ne 1927, cui l’anno seguente si aggiunsero due indigeni del luogo, e poi fino al 1936, non si hanno più cristiani. Ora [1950] ne conta 807 [33.217 nel 2005, senza contare quelli delle parrocchie da essa generate].
La missione di Mekinduli [oggi chiamata Mikinduri, pronuncia Mekindori] ha una storia interessantissima e meriterebbe di essere scritta più diffusamente. Il primo sito della missione era su un poggio, un vero santuario del paganesimo, luogo di balli e circoncisioni. La popolazione vide mai di buon occhio questa profanazione e in conseguenza ostacolò la missione fino alla sua rimozione. La missione era hopeless [senza speranza], e nel febbraio 1929 venne [temporaneamente] chiusa. Riaprì verso la fine dello stesso anno, ma le difficoltà continuarono a ostacolare ogni apostolato, tanto che a differenza delle altre stazioni, solo nel marzo 1930 poterono essere inviate le prime Suore Consolatine, sr. Orsola e sr. Eliana.
Nel 1932 [in accordo col governo la missione viene spostata] a circa mezzo miglio di distanza. Il fr. Davide Balbiano inizia i lavori: casa padre, casa suore, chiesa, scuola, fabbricati omogenei nello stile, eleganti e adatti allo scopo. Verso la fine dello stesso anno, si [occupa] la nuova missione, abbandonando l’antica. La nuova Mekindoli è adagiata sul fianco della collina Njoro, mentre di fronte si apre a spiraglio la meravigliosa veduta della pianura di Tharaka e Ikamba.
Nel 1936, il p. Umberto Bessone viene nominato superiore e la missione comincia a risvegliarsi dal letargo secolare. Viene aperto un colleggino che fiorisce fino all’inizio della grande guerra, durante la quale la missione viene quasi abbandonata.
Terminata la grande guerra, p. Giulio Peirani ne prende possesso con tre suore. Nei primi due anni, risveglio lento, ma progressivo.

6. TORO
Fondata nel 1923, primi battesimi nel 1930, conta ora [1950] 216 cristiani [non ci sono dati per il 2005, ma Toro – o Tuuru – è la madre delle floride parrocchie di Maua, Mutuati e Kangeta]. In questa missione per molti mesi dell’anno si hanno nebbie fittissime, fattore questo che concorre a rendere quella popolazione indolente, molle, senza iniziative, contenti di vivere nella loro miseria fisica e morale, che li rende apatici a tutto, specie a quello che importa innovazioni. Pagani fino al midollo e refrattari a qualunque sforzo. I Protestanti in questa zona hanno ottenuto molto meno di noi, e lo stesso Goveo, nonostante le multe, la prigione e gli askari (soldati), trova difficoltà a eseguire i suoi piani di miglioramento del paese.
Nonostante tutte queste difficoltà, cui bisogna aggiungere quella degli Njoli, i nostri bravi missionari che vi hanno lavorato, hanno ottenuto in quei 216 cristiani un vero successo. Un profano potrebbe meravigliarsi: un successo 216 Cristiani in 27 anni? Noi che conosciamo il luogo e le sue difficoltà e la popolazione ripetiamo che è un vero successo.
Ora [1950] la Missione ha un centinaio di catecumeni, una scuola centrale ben avviata, due out-schools con oltre 100 allievi, un buon dispensario, un collegino di 20 ragazze e persino una squadra di calcio.
La Missione fu dedicata a Santa Teresa del Bambino Gesù dal p. G. Airaldi che vi lavorò per ben sei anni, apparentemente senza risultato come il suo predecessore p. E. Manfredi. Ma il movimento che comincia a manifestarsi ora è frutto del loro apostolato silenzioso di preghiera e sacrificio.

7. CHUKA
Fondata nel 1933 da mons. Carlo Re, era fino allora una out-schools dipendente da Kyeni [nell’Embu]. I primi 24 cristiani di Chuka furono battezzati a Kyeni nel 1932. Ora la missione conta 2.721 cristiani, la seconda della prefettura per numero [36.608 nel 2005].
Primo superiore fu p. F. Comoglio, che rese popolare la missione anche tra i Protestanti e riuscì a stabilire parecchie scuole, alcune delle quali staccatesi in massa dalla missione protestante. Se si considera il carattere della popolazione di Chuka, molle, effeminato, privo d’iniziative, molto dedito al vino, viene da meravigliarsi come mai in così poco tempo abbia raggiunto tali progressi, da imporsi a pagani e protestanti. Specialmente la località Kamachuku e Mothambe sono fra le più progredite del distretto.
Durante la guerra fu visitata periodicamente dal Padre risiedente a Egoji. Mentre la missione di Chuka estendeva i suoi tentacoli nelle out-schools il centro e residenza rimaneva per lungo tempo un deserto. Solo nel periodo postbellico, con l’arrivo dei Padri nella Prefettura, cominciò un periodo che può chiamarsi di splendore.

Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Meru (3) «You are heroes», voi siete eroi

Antologia

Così disse dei missionari del Meru mons. Arthur Hinsley nel 1928.
è incredibile avventura di un manipolo di missionari in un ambiente difficile, isolato e certo non favorevole che, cent’anni fa, pur con pochissimi mezzi e quasi ignorati in quelle aree remote, riuscirono nell’impresa di conoscere a fondo il popolo dei Meru, farsi accettare e mettere le basi di una cristianità oggi viva e rigogliosa.
A loro sono dedicate questi brani antologici che raccontano di uomini e donne, protagonisti di una storia che comincia ufficialmente il 13 dicembre 1911.
Queste pagine, tratte da pubblicazioni dei missionari della Consolata (scelte in modo totalmente arbitrario), coprono un arco di tempo volutamente limitato tra il 1911 e il 1940 (quando i missionari furono inteati dagli inglesi e spediti in Sudafrica), con alcune statistiche che arrivano fino al 1950.
Rimandiamo ad un futuro appuntamento l’aggioamento sulla situazione attuale della diocesi di Meru.
A.L.

ESPANSIONE AL MERU
Da Igino Tubaldo, Giuseppe Allamano. Il suo tempo – La sua vita – La sua opera, Vol. III, Torino 1982, pp. 735-738

Al vicariato del Kenya, affidato ai missionari della Consolata, appartenevano anche i due distretti di Embu e di Meru. Embu è la regione a sud del monte Kenya, compresa nella grande ansa del fiume Tana. Il Meru invece è la regione sulle falde del monte Kenya ad est.
La regione di Embu poteva dirsi persa per i cattolici, per il fatto che appena il paese fu occupato militarmente vi si recarono i missionari protestanti, – quasi un compenso per essere stati prevenuti dai missionari cattolici nel Kikuyu. Il Meru era stato occupato militarmente dagli inglesi tra il 1905 e il 1908; nell’Imenti, in una località chiamata precisamente Meru, era stato eretto un fortino (Fort Meru); il paese era ricchissimo di foreste, di torrenti, molto fertile; solo nella parte bassa regnava la malaria.
La popolazione – i Meru – è una tribù affine ai Kikuyu, con una certa somiglianza anche nella lingua e nei costumi. In questa regione e tra questa gente mons. Perlo pensa di fondare qualche missione e nel 1910 invia in perlustrazione i pp. Gays e Bertagna. La difficoltà per aprire delle missioni nel Meru erano più che altro burocratiche col governo inglese. Ecco come il Camisassa (il canonico Giacomo Camisassa, cofondatore dell’Istituto che visitò il Kenya dall’8 febbraio 1909 al 26 aprile 1912, ndr.) scrivendo all’Allamano il 4 agosto 1911 presenta la situazione:
«[ … ] Dal Goveatore precedente e dallo stesso Dr. Hinde, era stato adottato il principio che noi [cattolici] dovessimo stare a destra del Sagana, e la sinistra (Embu, Meru, ecc.) fosse pei protestanti. Questo Goveatore, [attualmente in carica] – nelle colonie i Goveatori sono affatto dispotici – non volle sapere di quella divisione tra destra e sinistra del Sagana, e volle adottare il principio che cattolici e protestanti potevano mescolarsi in tutta la Provincia del Kenya (come fan nell’Uganda) a patto di stare distanti 3 ore gli uni dagli altri. Questo ci fu favorevole, ché a Meru, pur essendovi già due applicazioni dei Protestanti (Presbiteriani e Metodisti, ndr.), ci restava posto (nei luoghi più popolati) per due missioni almeno, e sono queste due che avrebbero ora concesso a noi […]. Però, come ho detto, questo Goveatore ha il chiodo fisso delle 3 ore di distanza, e ciò praticamente ci chiude Embu, che con tre missioni protestanti distanti sei ore una dall’altra lo occupano nominalmente tutto».
Fu l’intraprendente mons. Filippo Perlo (dal 1909 vicario apostolico del Nyeri e primo vescovo residenziale del Kenya, ndr.) a spuntarla anche in questo caso. Ottenuta la licenza del governo per due missioni, il Camisassa comunicò immediatamente la notizia all’Allamano.

«Fattoria (del Mathari, Nyeri) 16 giugno 1911
Amat.mo Sig. Rettore,
«A soli tre giorni di distanza le scrivo nuovamente: 1° per darle la fausta notizia che è venuto finalmente il permesso di impianto di una Missione a Meru… La Consolata ha voluto pagarci la festa prima ancora del 20! E Deo gratias proprio di cuore. […] A giorni vi andrà Mons. e due missionari (non so ancora quali) a sceglier il posto e iniziar l’impianto. Non so ancora se v’andrò subito io, o se solo più tardi, come vorrebbe Mons. per timore che i disagi dei primi tempi di una Missione, quando si deve viver sotto la tenda, mi possano nuocere. Vedremo. Meru è perfettamente a nord del Kenya, con 93 mila capanne paganti tassa (mezzo milione di anime – stima esagerata, vedi la «Breve storia» qui sotto, ndr.), popolazione meno sveglia di quella di Nyere, ma buona e semplice, e molto agiata, perché il paese è fertilissimo, intensamente coltivato, ed i nostri PP. Cagliero e Saroglia, tornati ieri di là col bestiame sono concordi nel definirlo un Paradisus Domini venientibus in Segor [cf. Gen 13,10: «come il giardino del Signore, venendo da Seor/Segor», ndr.] molto più bello che il Kikuyu. Negli otto giorni che passarono colà furono festeggiatissimi dai molti lavoratori di Meru stati già qui alla Fattoria… che li riconobbero ed erano fieri di presentarli a tout le monde». […]
A fine giugno mons. Perlo, certamente non da solo, si recò nel Meru in perlustrazione, allo scopo di scegliere le due località. Vi rimase quasi tutto il mese di luglio. Il 25 luglio il Camisassa scrive all’Allamano:
«Finalmente Mons. è arrivato cinque giorni fa da Meru dopo quasi un mese di permanenza colà. E sì che non perdette tempo, avendo sempre girato ad esplorare il paese, accompagnato dallo stesso comandante del forte, col quale finì per indicare due posti ove vorrebbe stabilirsi [Keja, divenuta poi Imenti, ed Egogi, ndr.]. […]: ora Monsignore presentò regolare domanda del terreno su cui impiantarci, e spero fra 15 [giorni] aver (da Nairobi) risposta affermativa e definitiva. Solo allora si potrà essere certi che la cosa potrà effettuarsi… Così credo potrà far anche lei quando avrà ricevuto tale annuncio con altra mia lettera».
Per recarsi da Nyeri o da Fort Hall alle due progettate missioni occorrevano rispettivamente sei o cinque giorni di marcia. […]
Le pratiche però s’incepparono a Nairobi. Ne dà notizia il Camisassa da Fort Hall (Murang’a) all’Allamano con lettera del 30 ottobre 1911:
«Vorrei poterle dire che le due Missioni del Meru sono un fatto compiuto, ma pur troppo non lo sono ancora. […]; all’insistenza di Mons. [presso il Goveo], che reclamava l’osservanza dei patti, risposero chiedendo che ritornasse loro tutto l’incarto per esaminarlo for inspection!! E dire che di tale incarto debbono aver essi tutto il duplicato [ … ]. Col Goveo le cose son sempre un po’ rotte, ma ci dev’essere della vera persecuzione in parte del basso personale… di burocrazia. Non c’è che da pregar sempre la SS. Consolata che ci aiuti Lei».
Tutto dev’essersi appianato ai primi di dicembre. Il diario della stazione di Imenti (Keja – pronunciato Kegia, ndr.) inizia:
«Inviati da S. E. Mons. Filippo Perlo, Vic. Ap. di Nyeri, i due Rev. PP. Balbo Giovanni ed Olivero Luigi, provenienti dal Gekoyo, giungevano in questa località il giorno 13 Dicembre 1911. La carovana di 32 portatori agekoyo e dei due Padri sopranominati sostò e piantò le tende a Keja presso il Capo M. Kerundu; e la popolazione corse in gran folla a vedere i nuovi venuti, portando regali in cibarie di ogni genere. […]. Il 24 dicembre era pronto il primo capannone che servì per abitazione dei padri e cappella privata, in cui si celebrò la prima messa la notte di Natale 1911».
Nell’altra località Egoji, furono destinati i pp. Giovanni Toselli e Giuseppe Aimo-Boot. Il Camisassa ne dà notizia all’Allamano il 18 dicembre 1911. Ma già il 5 dicembre da Torino l’Allamano aveva scritto al Camisassa:
«Le ripeto, che sarebbe anche buona cosa una visita a Meru e nell’Uganda, se Monsignore potrà accompagnarla».
Al 2 gennaio 1912 il Camisassa scrive che partirà fra breve per il Meru. Il diario della missione di Imenti al 22 febbraio 1912 annota:
«Giunge alla missione il Rev. Vice-rettore Can. G. Camisassa, Sua Ecc.za Mons. Perlo, accompagnati dal Cd. Anselmo e dalle Rev. Suore Vincenzine, Sr. Carola e Sr. Anania. Gli Eccellentissimi visitatori possono constatare i disagi e le fatiche del missionario all’inizio di una nuova missione fra queste popolazioni non ancora tocche dall’ombra di alcuna civiltà».
E il 4 marzo 1912 il Camisassa scrive all’Allamano da Nyeri:
«Da due giorni son giunto dalla visita alle missioni di Meru, un giro completo attorno al Kenya, con un percorso di 450 kílom., viaggiando in media da 30 a 35 kilom. al giorno» […].
«Le popolazioni sono evidentemente affini agli Akikuiu, come ne è quasi identica la lingua: quei di Keja appaiono molto più semplici e bonari che gli Akikuiu – quei di Igogi più svegliati, robusti e ben piantati» […].
«I nostri missionari, tanto a Keja e che a Igocci [sic] furono accolti molto cordialmente – assai più che non ai primi tempi nel Kikuiu – senza mostrar diffidenza e sospetti… sicché tutti i Padri ne sono entusiasmati, e più soddisfatti che quando erano nel Kikuiu. […] Non le dico altro di questo viaggio, che mi fu veramente faticoso, ma grazie a Dio non ne soffersi».

INCIDENTI DI MISSIONE
Di p. Luigi Olivero da Ihembe da «La Consolata» 2/1915, pp. 26-27

Da una lettera del nostro missionario P. Olivero, addetto alla nuova stazione di Ihembe nel distretto di Meru a nord del Kenya, stralciamo questo brano drammatico e impressionante.
[Questo è il primo e unico racconto pubblicato sulla nostra rivista circa le nuove missioni del Meru. Il missionario scrive al canonico Allamano dalla prima missione ancora provvisoria, prima del trasferimento a Imenti/Mojwa. Il racconto è abbastanza insignificante in sé, ma contiene descrizioni interessanti della realtà, dei primi contatti con la gente ed è rivelatore dello zelo missionario di quei primi pionieri per i quali dare un battesimo era il massimo risultato possibile.]

Permetta, venerato Superiore, che le racconti ora un fatto alquanto tragico capitatomi il 27 luglio [1912?], che viene a confermare sempre più due verità: la prima, che Maria SS. Consolata ha una cura specialissima dei suoi figli missionari; la seconda, che Iddio tutto dispone per il nostro meglio, giacché è proprio in questa circostanza che giunsi a tempo per amministrare un battesimo.
In compagnia di un neo-catechista mi recavo, per la visita giornaliera, a Soria, luogo di popolazione densissima, ad un’ora dalla missione, dove pochi giorni prima avevo lasciato una madre con due bimbi malaticci. Speravo che la medicina loro data avesse prodotto qualche buon effetto, e, nel caso contrario e di aggravamento del male, avrei amministrato il santo battesimo.
Cammin facendo pensavo appunto al come avrei potuto compiere quest’atto, senza dare troppo nell’occhio ai circostanti, per non ingenerare prevenzioni nella loro mente così facile a fantasticare, per lo più in male, su ogni nostra azione, e per non sollevare sul nostro conto dicerie ancor più strane e dannose. Da parte sua il neo-catechista che mi camminava a fianco: un giovane sui 20 anni alto e tarchiato della persona, tanto che stonava non poco vicino a me piuttosto mingherlino, mi esprimeva confidenzialmente il suo timore di ricevere i soliti affronti e rimproveri dagli indigeni, solo per il fatto che ci indica le strade e le capanne. Questi poveri selvaggi, non conoscendoci ancor bene, ci classificano generalmente come spioni degli ufficiali del governo inglese. Era uno stretto sentirnero quello per cui si camminava, fiancheggiato a destra e a sinistra da una fitta siepe, a guisa di muricciuolo, e corrente in una valletta che è probabilmente l’antico cratere di un vulcano aperto da una parte o dalla lava, o dall’erosione di secolari piogge. Del resto questa regione presenta costantemente il medesimo fenomeno di configurazione. Vista dall’alto, sembra seminata di tanti monticelli conici dalla cresta rotondeggiante, perfettamente tornita e rivestita di fine erbetta, alcuni dei quali presentano al loro fianco una grande squarciatura che costituisce appunto una piccola valle. Lascio ai geologi di studiae le origini e m’accontento di indicare il fatto.
Da più di un’ora camminavamo solleciti, quando d’improvviso risuona dalla parte opposta il grido assai noto dello mbu, corrispondente al nostro allarme. È dapprima un grido isolato, che si fa subito più intenso, per diventare poi un formidabile coro di voci alte e concitate, e al grido di mbu si aggiunge quello esplicativo di: Ngiogo! Ngiogo! – l’elefante! l’elefante! -.  A quelle grida che si facevano sempre più rumorose, a quel nome che mi indicava tutta la gravità del pericolo, confesso che il sangue mi si rivoltò nelle vene: m’arrestai, volsi rapido lo sguardo in tutte le direzioni, e non vedendo capanne vicine nelle quali rifugiarmi, affretto col mio compagno il passo, per cercare altrove un qualsiasi riparo.
Avevo percorso appena un cento metri, che vediamo le peste fresche fresche del passaggio dell’elefante. Il catechista ha un brivido, e facendomisi più dappresso, me le mostra col dito teso e gli occhi sbarrati. Anch’io però come lui ho già compreso il grave pericolo scampato: se fossimo stati un tre minuti più avanti saremmo caduti senza dubbio vittime sotto i piedi di quel bestione […].
Passato quel momento di emozione, acceleriamo nuovamente il passo e ci portiamo su di un piccolo poggio dominante la valletta. Vi troviamo affollati molti indigeni, specialmente donne e fanciulli, che avevano abbandonato inconsideratamente i villaggi ed erano saliti su quell’altura per essere più al sicuro, non pensando che all’elefante era tanto facile la salita lassù, come ad un cavallo la corsa per una via piana. […] La maggior parte di quegli indigeni si aggruppava attorno ad un uomo, il quale, tutto tremante per lo sbigottimento e con i fianchi ammaccati, raccontava ai presenti la sua avventura. Non appena aveva sentito dietro a sé l’iroso barrito dell’elefante e il pesante calpestio delle poderose zampe, era corso al primo albero che aveva veduto, vi si era aggrappato e aveva cominciato ad arrampicarvisi, quando l’elefante lo raggiunse e cercò colla proboscide di afferrarlo a metà vita. Fortunatamente un colpo di coltello, di cui i neri son sempre muniti, ben diretto e menato con la forza della disperazione, ebbe per effetto di far ritirare per un istante la proboscide all’animale, cosicché il pover uomo poté finire di arrampicarsi e mettersi in salvo.
Intanto al suono del corno da più parti accorrono i cacciatori, fra cui alcuni Wakamba specialisti in queste cacce e che appunto per cacciare erano venuti a passare un po’ di tempo qui a Ihembe. Chi palleggia la lancia, chi brandisce il coltellaccio, chi agita lo ngiogoma (clava), chi semplicemente urla a più non posso: tutti cercano di far ritornare 1’elefante alla piana, per poterlo colà uccidere senza contravvenire al divieto di caccia posto dal governo inglese su questi altipiani. L’animale però non ne volle sapere; che anzi, uscito dalla bananiera ove erasi rifugiato, barrendo furiosamente, si diresse verso di noi, e ad un trecento metri, raggiunta una donna la quale fuggiva, esasperato dall’inseguimento, l’assalì, l’infilzò colle zanne, lanciandola a terra semiviva a parecchi passi di distanza, e, come soddisfatto da questa vendetta, ritoò indietro, mentre un grido di orrore usciva dalla bocca di noi tutti. Ma non era tempo di lamentarsi, bensì di agire; ed ero io che dovevo agire ad ogni costo, affrontando qualsiasi pericolo. Non si trattava della salvezza di un’anima? Invocando la Consolata e l’angelo custode vado di corsa verso l’infelice per soccorrerla, mentre i circostanti si dicono a vicenda: «Il Patri va a risuscitarla».
La poveretta che riconosco subito per la Ghecioe, una tra le più assidue ai catechismi domenicali, giaceva a terra immersa nel proprio sangue, giacché le zanne dell’elefante, data la violenza dell’assalto, le avevano squarciato il ventre. Constatai però che viveva ancora, e subito tolsi di tasca l’acquasantino per battezzarla, ma nella fretta esso mi sfugge di mano e l’acqua si versa. Corro allora nel villaggio poco distante, cerco in tutte le zucche e in tutti i recipienti in cui m’incontro, e finalmente trovo al fondo di uno un po’ d’acqua, quanto è sufficiente per il sacramento: la raccolgo, ritorno presso alla moribonda, e mentre ella volge verso di me gli occhi quasi spenti, come a pregarmi con quello sguardo insistente e pieno di dolore di ridonarle la vita che le sfugge, io verso sulla sua fronte, anch’essa intrisa di sangue, l’acqua battesimale e pronunzio commosso le parole sacramentali. La pupilla già vitrea dell’infelice pare in questo istante rianimarsi come vivificata da un raggio di luce soprannaturale, poi nuovamente si spegne; il suo volto si contrae, il suo corpo ha un leggero sussulto, ed essa spira, ridonando a Dio l’anima bella e santificata.
Mi alzo e rifaccio la strada, portando ai presenti la notizia di quella morte. Un urlo di indignazione fa eco alle mie parole e tutti, inaspriti da questa vittima umana, gridano: «Bisogna uccidere l’elefante, bisogna ucciderlo anche se l’uffiziale del Forte ci impiccasse tutti!». E la caccia alla belva ricomincia. I cacciatori, armati tutti di archi e di frecce avvelenate, si radunano, si intendono, si dispongono, ed avanzando cautamente cercano di accerchiare l’animale. Questo, sempre più furioso, tenta la fuga da una parte, ma un nugolo di frecce, alcune delle quali gli si conficcano nelle cai, lo arresta suo malgrado; egli scrolla come in un brivido violento la grande carcassa, barrisce spaventosamente e si volge dalla parte opposta; ma anche da questa parte lo accoglie un buon numero di frecce ben dirette. Disperato, alzando minacciosamente la proboscide, ansando, grondando sangue, si aggira su se stesso per tentar un’altra via, si arresta, riprende la corsa, ma oramai il veleno inoculatogli dalle frecce produce il suo effetto; i suoi movimenti si fanno sempre più lenti, i suoi barriti sempre più fievoli, si ferma, si piega, e tutta quella gran massa con un sordo rumore si rovescia pesantemente a terra. Gli altri indigeni, che dal poggio avevano seguito con ansia lo svolgersi dell’impressionante caccia, alla caduta della belva emettono grida di gioia, e i più arditi corrono in un coi [insieme ai] cacciatori a vedere l’elefante ucciso. Era ancor giovane; le zanne misuravano solo m. 1,20; era alto m. 2,30; lungo m. 3. Squartato lì sul momento dai cacciatori, tutte le donne con le loro bisacce andavano a gara nel portar via la carne, lasciando le ossa alle iene e agli sciacalli. Le zanne furono portate all’uffiziale del Forte.
Per quel giorno, vedendo la gente così impressionata dell’accaduto, non credetti più opportuno proseguire la visita ai villaggi, ma ritornai alla Missione ringraziando il Signore e Maria SS. Consolata. Ero scampato da un grave pericolo, ed avevo salvato un’anima!
P. Olivero M. d. C.

L’IMPIANTO DI UNA SEGHERIA nella foresta degli elefanti a Meru
Di Fratel Benedetto Falda da «La Consolata», 10/1922, pp. 156-159

[Dopo dieci anni dall’inizio delle missioni nel Meru, padri e suore vivevano ancora in case di fango e di tronchi costruite alla spartana. Passata la bufera della guerra e ritornati tutti i missionari al loro ministero, era finalmente ora di dare anche alle nuove missioni delle strutture decenti. Nel Nyeri tutte le case venivano prefabbricate alla «stazione industriale» di Tuthu e in pochi giorni portate alle loro destinazioni dove venivano assemblate. Ma il Meru era troppo distante. Si decise quindi di installare una segheria provvisoria in loco, in una foresta assegnata dal governo coloniale inglese. Dell’impresa fu incaricato il provetto fr. Benedetto Falda con l’aiuto di un altro fratello e due padri. Dopo un’accurata preparazione, trasportò tutto il materiale  su «quattro carri vagoni, 80 buoi e la macchina a vapore». Il viaggio durò quindici giorni per coprire oltre 150 km. Dovevano costruire «6 case per i padri, 6 per le suore, 6 scuole, mobilia per case e per scuole, ecc.». Il 15 maggio 1921 il fratello scrisse un lungo resoconto la cui prima parte fu pubblicata sull’antenata di questa rivista nell’agosto 1922. Qui vi presentiamo la seconda puntata.]

Come un bolide fra i scimioni
Se la salita era stata penosa, la discesa del versante di Meru, dove eravamo diretti, ci si presentò difficile per le numerose pietre che ingombravano la strada e che cagionavano ai pesanti carri continui scivolamenti, colpi, balzi e rimbalzi. Finalmente la via si fece più pianeggiante, scomparirono le pinete e ci trovammo in piane un po’ ondulate, con pasture di erba finissima, e, all’orizzonte, la linea di montagne che forma la frontiera abissina di Moiale.
Piegammo a destra, costeggiando sempre il Kenya, e peottammo nella piana dei famosi Maasai, i greggi dei quali erano pascolati da giovani selvaggiamente fieri, armati di lunga lancia. Il giorno seguente proseguimmo il viaggio, che ora si compiva tranquillamente; la strada si estendeva in quei piani che parevano senza fine; ma non ci fu dato di veder selvaggina sino alla sera, quando facemmo una vera distruzione di galline faraone grosse come tacchini, che, ai colpi di fucile, rimanevano intontite, senza saper darsene ragione, finché cadevano colpite.
Non sto a dilungarmi nel racconto di tutti gli altri incidenti; solo vi dico che, il dì seguente, arrivammo nelle foreste di cedro, dove cominciammo ad avere comunicazione cogli abitanti. Il forte governativo distava ancora una giornata di cammino. Passammo alcune ore a pulire la macchina e suoi accessori, come si farebbe per una persona; ed invero ci era troppo cara, ed ogni sua piccola parte era vitale anche per noi, perché costituiva, per la nostra futura segheria, il cuore pulsante.
Il giorno dopo, i due Padri rimasero all’accampamento; io invece colla bicicletta, che avevo portato sui carri, partii alla volta del forte e poi verso la Missione di Maria Ausiliatrice (Tigania), per vedere se i ponti, che dicevano numerosi, erano resistenti; e nello stesso tempo cercare il punto della foresta adatta al nostro scopo. L’altro mio confratello, accompagnato dai neri del paese, doveva esplorare un’altra strada, o meglio dire sentirnero indigeno, e veder se si sarebbe potuto passare colla macchina nella brughiera, nel caso che i ponti fossero stati troppo deboli. Dirvi quel che provai in quel viaggio, tutto solo in paese sconosciuto, non è facile.
La strada era aperta in una magnifica foresta di cedri e altissimi mogani, che guardavo con una voglia matta di fae tante vittime per la erigenda segheria, ma forse quel luogo era ancor troppo distante dal punto dove ci saremmo impiantati. Dopo un’ora e mezzo di magnifiche volate, rallentate qualche volta con trepidanza dove scorgevansi i segni evidenti del passaggio degli elefanti, arrivai dove la foresta, aprendosi, lascia scorgere tutto il Meru. Che meraviglia! Là in basso, fra la verdura, erano le case del forte che, dipinte in bianco e rosso, facevano un magnifico contrasto col selvaggio panorama del paese.
Il primo saluto, quando ancora mi trovavo lontano dall’abitato, lo ricevetti da una lunga processione di scimie rosse, dal muso di cane e che come questi ab-baiavano. Potete immaginarvi come rimasi, quando, venendo giù da una discesa a passo di volata, mi trovai di fronte a un centinaio di questi scimioni! Non, ebbi il tempo di levarmi il fucile da tracolla e sparare per impaurirli – che, quanto a ferirli, me ne sarei guardato, perché allora diventano terribili – che entrai in quelle file come un bolide, suonando a distesa il campanello ed emettendo grida da ossesso. Se aveste visto che corse! Quella massa in un baleno si divise, si smembrò, ed eccoli tutti sugli alberi fiancheggianti la strada, emettendo essi pure grida indiavolate: un vero pandemonio! Ad ogni modo mi liberai bene, e pensando poi chi avesse avuto più paura, io o loro, conclusi che tutti assieme eravamo contenti di essere… fuggiti!

La scelta della foresta
Mezz’ora dopo ero al forte, consistente in due case: una per la posta e per gli ascari; l’altra per il comandante. Scritte e spedite alcune cartoline per informare i miei Superiori del felice arrivo, ripresi la via per strade ancor più piane e magnificamente tenute, facendo la conoscenza cogli indigeni Wameru. Il loro parlare è così musicale che il saluto pare una carezza; sono molto più socievoli e gentili degli aghekoio, e tutti per strada salutano. Gli uomini sono bei tipi di guerrieri, colle lunghe lance, ma non hanno, come i Maasai, la ferocia di assassinare facilmente i viandanti forestieri. Portano i capelli lunghi, fermati a treccia dentro uno straccio ornato all’esterno di perline; il corpo unto di olio e ocra. Così pure le donne portano molti oamenti che dan loro un aspetto gioviale. Ebbi l’impressione di arrivare in un paese in festa.
Contai 18 ponti solo tra il forte e la missione, ma tutti abbastanza buoni; e passai anche la foresta dove più tardi avremmo deciso di impiantare la segheria. Vicino ad un torrente, alcuni neri intenti a guardare qualcosa come impauriti, mi fecero segno di fermarmi. Scesi e vidi subito un enorme pitone sul ciglio della brughiera, gli sparai un colpo di fucile che lo fece attorcigliare come una salsiccia, ma occorsero due altri colpi per finirlo. Nella sua agonia si stese per lungo, occupando tutta la strada: era lungo circa cinque metri. Peccato che, essendo io solo, e i neri non avendo voluto toccarlo, dovetti lasciarlo preda alla iena, mentre sarebbe stato un bel esemplare per il nostro museo di Torino.
Arrivai alla stazione Maria Ausiliatrice [Tigania] accolto festevolmente dalle suore, che da un anno si trovano colà a far del bene, e dal padre che mi fu largo di gentilezze. All’indomani cercammo un punto adatto della foresta, e, dopo molto aggirarci di qua e di là, concludemmo col scegliere un tratto di foresta a tre ore dalla missione, quello appunto per cui ero passato in bicicletta e che mi era parso il migliore per qualità di alberi. Il giorno dopo, lasciata la bicicletta alla missione, ritornai all’accampamento per un sentirnero indigeno, per meglio osservare le foreste, e vi arrivai alla sera, stanco morto. Il mattino seguente ricaricammo tutto sui carri e partimmo per la meta che avevamo scelta.

L’incontro cogli elefanti
Il mio confratello coadiutore ed io ci davamo il cambio a guidare la locomobile; e mentre uno guidava la macchina che camminava adagio, l’altro badava alla carovana dei carri che precedeva. Mi trovavo appunto addetto a questo secondo ufficio, quando uno dei nostri carrettieri viene di corsa e tutto trafelato a chiamarmi e dirmi di arrestare la carovana perché un gruppo di elefanti stava sulla strada per cui dovevamo passare. Too indietro ad assicurarmi ed armarmi, se del caso, e trovo radunati alcuni indigeni del paese che concitatamente indicano colla mano, in lontananza, dove la strada costeggia un pendio, nella brughiera non folta, grosse macchie rossastre che si muovono e si rincorrono. Contro il parere degli indigeni, che ci volevano dissuadere, decidemmo di avanzare cautamente, essendo abbastanza sicuri sui nostri grandi carri. Raccomandai solo ai neri di non parlare, che, se assaliti, allora tutti insieme avremmo fatto il più grande baccano possibile. Ero contento di vedere così da vicino tanti elefanti.
Così, io sul primo carro, gli altri carrettieri sul proprio, avanziamo. Quando stiamo per oltrepassare il punto dove si trovano le bestie, e quasi pensiamo che già siano fuggite, un barrito, che par emesso da una cornetta, ci fa dare un più rapido giro al sangue. In una mano tengo il fucile e nell’altra una trombetta, pronto, se assaliti, a far rumore ed anche a sparare. Dopo il barrito, di nuovo silenzio. I neri stanno accovacciati sui rispettivi carri, e i buoi, per nulla intimoriti (cosa che io temevo), avanzano adagio e tranquilli; i carri su queste strade molli non producono il più leggero scricchiolio, e così, ritto sul carro, posso godermi uno spettacolo indimenticabile. In un pianoro, a destra della strada, dolcemente in declivio, stanno scherzando tranquillamente dieci enormi elefanti, che, visti così da vicino, paiono bestie antidiluviane. Alcuni si rincorrono, altri pascolano e mangiano foglie di alberelli che curvano con la loro tromba. Paiono sacchi enormi di carne.
Non sembrano avvedersi per nulla del nostro passaggio, cosicché possiamo contemplare, a nostro bel agio, quello splendido giardino zoologico. Ma non appena tutti i carri sono passati e si odono i primi rumori della locomobile avanzante pesantemente, i bestioni si ristanno come sorpresi, volgono dalla nostra parte i loro occhi sproporzionatamente piccoli, tendono in ascolto le enormi orecchie prima penzoloni, e… meditano il colpo. Non diamo loro il tempo. Ad uno squillo della mia cornetta comincia un sì assordante pandemonio, che i pachidermi, impauriti, si danno alla fuga. La locomobile fischia disperatamente e ininterrottamente; i carrettieri, ora ritti sui carri, si scalmanano a batter chi i tamburi e chi le latte di petrolio; altri soffiano dentro a coi speciali per trae suoni inqualificabili; altri, non sapendo a che appigliarsi, gridano a squarciagola agitando le lunghe fruste. E il pandemonio dura finché gli elefanti scompaiono nella foresta.
Poche ore dopo raggiungevamo la mèta sani e salvi, e con il macchinario in buone condizioni, nonostante il lungo e difficile viaggio. Ringraziammo assieme e di cuore il Signore e Maria Vergine Consolata, poi ci mettemmo all’opera, incominciando il disboscamento del tratto di foresta dove la nuova segheria doveva essere impiantata.

Il lavoro compiuto
Da una lettera successiva dello stesso coadiutore Benedetto Falda, apprendiamo alcune notizie sui primi lavori compiuti dalla nuova segheria nella foresta degli elefanti.
Foresta degli elefanti, Meru, 23 aprile, 1922.
Piantammo il laboratorio vicino ad un fiume per aver abbondanza d’acqua per la macchina a vapore, e in un pianoro per facilità di trasporto. La macchina a vapore fa funzionare la grande sega circolare, la piallatrice, la mortasatrice, un piccolo mulino e un’altra sega circolare. In nove mesi, essendo noi tre coadiutori e due padri, tagliammo 476 alberi dei quali molti hanno il diametro di un metro; poi 2.500 stepponi; preparammo il materiale per 18 case con pavimenti, soffitti, parti estee ed intee; ed ancora una riserva di legname per altre tre case complete. Inoltre si fecero 36 letti, 26 tavole, 60 porte, 40 battenti doppi per finestre, 52 vasestas per finestre. S. E. Mons. Perlo ci scrive di incominciare i trasporti colla macchina a vapore, e, a questo fine, ci mandò lo splendido tamagnone Tolotti che, in un coi due grandi tamagnoni (nome in piemontese italianizzato di grandi carri agricoli) fatti da noi, ci aiuterà a trasportare in pochi mesi le 300 tonnellate di materiale.
Noi qui ci troviamo benissimo. Gli indigeni impiegati al lavoro, mentre da principio erano affatto incapaci e scappavano ogni volta che mettevo in moto la sega, adesso si sono assai bene abilitati. Il grande frastuono della macchina è per noi come un inno di gloria a quel Signore che ci diede la vocazione all’apostolato e ci fece membri di questa schiera di pionieri del Vangelo, che si ripromettono di condurre a Gesù milioni di anime.
Coad. Benedetto Falda M. d. C.

MEKINDORI
Da Ottavio Sestero, I fioretti di padre Cencio, pp. 61-63, EMI Bologna 1992

La missione di Mekindori era allora solo un segno topografico segnato sulla carta geografica privata di mons. Perlo. In realtà non esisteva ancora nulla, eccetto la brughiera e le iene che l’abitavano.

Prima notte
[Questo capitoletto è tratto da Ottavio Sestero, Il Nibbio e altri racconti, pp. 117-118, EMC – Torino 1959]
Il padre Dolza, di felice memoria, se ne arrivò a Mekindoli, a prender possesso della nuova missione, la sera del 20 ottobre 1922. La missione non era che un tratto di brughiera con un mucchio di tavole per la futura costruzione.
I portatori dei pochi bagagli, ricevuta la mercede, si squagliarono in cerca di qualche capanna ospitale per passarvi la notte. Il padre, rimasto solo col suo cagnolino, si affrettò a piantare una vecchia tenda sdruscita. Consumò la sua magra cena, dividendola cameratescamente col suo botolo fedele, che con gli occhi fissi sulla bocca del padrone contava i bocconi, aspettando impaziente e supplice che di quando in quando venisse il suo tuo. Poi il padre Dolza, recitate le orazioni, stese due tavole nella tenda, si avvolse in una coperta e vi si coricò come in un morbido letto.
Si era nella stagione delle piogge. Il cielo appariva carico di nuvoloni pesanti e l’oscurità profonda. Allegra esperienza, trovarsi in un angolo sperduto dell’Africa, lontano le diecine di miglia dal primo centro civile, solo, di notte, in una tenda precaria, con un uragano imminente e numerose iene affamate vaganti all’intorno!
E l’uragano venne più violento e più rabbioso che mai, con un ventaccio sì furioso che pareva che tutti i diavoli del Jombene soffiassero su quella povera tenda. Il padre Dolza conosceva l’Africa e sapeva che il terreno rammollito dalla pioggia rallentava la sua presa sui piuoli; perciò stimò prudente alzarsi e aggrapparsi tenacemente al palo centrale della tenda, la quale già dava segni di collasso. Fatica inutile! Un colpo di vento furibondo investì la tenda; il palo bagnato gli scivolò dalle mani e la tenda scomparve nel buio; la fioca lampada da campo, rovesciata, diede un guizzo e si spense.
La pioggia veniva giù come una doccia a tutta pressione e in pochi minuti il povero missionario fu bagnato fino all’osso. Brancicando nel buio, cercò affannosamente la cassetta dell’altarino portatile, e, trovatala, vi si sedette sopra per salvare dal diluvio le ostie e gli indumenti sacri. Così raggomitolato e assiderato, la pioggia lo flagellava senza pietà. Il cagnolino gemeva pietosamente e invano cercava un riparo sotto le ginocchia del padrone. Tutt’intorno si sentivano i grugniti soppressi, i singulti e le sghignazzate beffarde delle iene. A tratti, lividi lampi squarciavano l’oscurità. Il padre Dolza non era un pusillanime, e tanto meno un novellino d’Africa, eppure confessò che in quella notte molte lacrime si mescolarono con la pioggia. Quanto durò questa tortura? Durò fino a quando una pallida luce annunziò il nuovo giorno. Allora, malgrado fosse rotto e fradicio, dovette muoversi per non morire assiderato. La pioggia cessò a poco a poco con l’inoltrarsi del giorno e il missionario si accinse a preparare l’altarino e a celebrare la prima messa nella nuova missione.
Così ebbe inizio la sua vita di missione vera e propria.

La casa e la malaria
Nel frattempo il fratel Benedetto Falda lavorava con ritmo accelerato e febbrile, ed un bel giorno arrivò a Mekindori una carovana che portava il necessario per fabbricare una casetta decente e solida. Ma fratel Davide, incaricato di questa costruzione, era impegnato altrove e per alcuni mesi non sarebbe stato disponibile.
Il padre Dolza fece accatastare tutto quel legname avendo cura di lasciarvi un buco nel mezzo, un antro buio e scomodo per dimorarvi, che però aveva il vantaggio di non venire asportato, come la tenda, nelle notti di tempesta.
Nel frattempo, con l’aiuto della gente del luogo, provvide a far fabbricare una capanna per ospitare il fratello che doveva venire a costruire, ed intanto cominciava a farsi una cerchia di amici fra gli abitanti dei dintorni.
Ma lasciato a se stesso e propenso com’era a far penitenze e digiuni per vincere, come diceva lui, i diavoli del Jombene, e più ancora fiaccato da violenti attacchi di malaria, in breve venne ridotto a tal punto di esaurimento che i padri delle missioni limitrofe ne rimasero seriamente preoccupati.
Un giorno il padre Calandri, residente a Ighembe, si incontrò col padre Manfredi, che veniva da Toro, e discutendo sul caso, gli disse: «Se rimane ancora qualche tempo in quella tana, da solo, un giorno o l’altro lo troveremo stecchito… o pazzo!».
I due missionari decisero quindi di andare in suo soccorso; si recarono assieme a Mekindori per portarselo ad Ighembe finché si fosse ristabilito. Arrivati a Mekindori, il padre Dolza non si vedeva.
Un nero accennò loro la catasta di legname. Bussarono alla barricata della tana; silenzio di tomba.
Gridarono forte: «Padre Vincenzo, apra! Siamo noi!».
Nessuno rispose. Certamente qualcosa non andava.
Puntarono le spalle e sfondarono l’uscio posticcio. Il padre Dolza era là, coricato sulle tavole, non ancora morto, ma neppure molto vivo.
Lo svegliarono dal suo dormiveglia affannoso e incosciente; gli somministrarono una bevanda tonificante che a buon conto avevano portato e gli dissero: «Padre, siamo venuti per portarla a Ighembe».
«A Ighembe?», mormorò con voce flebile. «Che ci vado a fare? Lasciatemi qui. è la mia missione… e voglio morire qui».
«Suvvia, Padre, non dica sciocchezze! Chi parla di morire? Bisogna lavorare, altro che morire! E deve venir via di qua».
«No, no. Ho deciso. Io non mi muovo. Morirò qui. Scavatemi solo una fossa, che io non ce la faccio più».
Vedendo la sua testardaggine, i due ricorsero ad una bugia strategica e il padre Calandri gli disse in tono severo: «Finiamola con queste storie. Ordine del vescovo: lei deve recarsi a Ighembe». «Ordine del vescovo?» fece eco il padre Dolza rianimandosi. «Dov’è quest’ordine?».
Il padre Calandri frugò nelle tasche, fingendo di cercare una lettera che naturalmente non c’era. Il padre Manfredi gli venne in aiuto dicendogli in tono di rimprovero: «Al solito! L’ha dimenticata a casa quella benedetta lettera del vescovo». «Oh, vero! L’ho dimenticata sul tavolo! È seccante!», e poi, rivolto al padre Dolza, aggiunse: «Ma non importa, la lettera c’è e lei deve venire».
«Se è così», mormorò il padre Dolza rassegnato, «verrò, forse domani. Oggi non riesco a stare in piedi».
«Così va bene», disse il padre Calandri, e aggiunse: «Gli ordini dei superiori vanno eseguiti».
In quella tana non c’era assolutamente posto per altri. I due samaritani somministrarono al malato una buona dose di chinino e ritornarono alla loro missione.
Padre Dolza ci pensò seriamente nella notte e decise di obbedire a qualunque costo, anche se ciò fosse costato quattro ore di marcia su gambe incerte e tremanti.
Il mattino seguente, quando i due amici arrivarono per aiutarlo, la tana era vuota e l’usciolo ben chiuso. Si guardarono sorpresi: «Acciderba, che fegato! Come avrà fatto a partire da solo in quelle condizioni?».
P. Manfredi si gettò subito all’inseguimento temendo di trovarlo svenuto sul ciglio del sentirnero, ma per quanto trottasse non riuscì a raggiungerlo per via. Lo trovò a Ighembe che si era buttato, senza forze, su un pagliericcio per smaltire la dura maratona.
(Ottavio Sestero)

Autori vari




Meru (2) I Meru: «Selvaggi» pieni di sorprese

Un incontro a dir poco complicato

Cento anni non sono pochi anche visti con gli occhi di oggi. Se – per un colpo di magia – potessimo trasportarci a cento anni orsono ed osservare con l’occhio satellitare la regione che attornia il monte Kenya, vedremmo una gran macchia verde scura circondare un largo anello di verde chiaro che abbraccia un’enorme montagna tutta roccia con una punta bianca e lucente al centro: il monte Kerenyaga (= montagna splendente, oggi Monte Kenya). Attoo al monte c’era allora un’enorme distesa di foreste impenetrabili di alberi secolari e di bambù, macchiata qua e là dal verde più chiaro di pochi prati, che di colpo cedeva alle immense savane digradanti, verso nord ed est, nello spoglio color sabbia rosso-nera di vaste zone semi-desertiche. Sono passati cento anni e quell’immenso mare di verde si è ristretto assai, eroso dalla continua espansione delle aree coltivate.

Cento anni orsono la regione che oggi chiamiamo Meru, sul versante nord-est del grande monte (il versante sud-ovest essendo occupato dai Kikuyu e quello sud-est dai Kamba), nascondeva nelle sue foreste e nelle piane semidesertiche che facevano da sponda a quel mare di verde, poco più di 40 mila africani (altre stime dicono addirittura 400mila, 93mila capanne). Inutile cercare strade, ponti, costruzioni e città come oggi siamo abituati. I volenterosi che si erano spinti in quel verde erano tornati con notizie di popoli che abitavano nelle foreste ai piedi della grande montagna sacra. Tra di essi un popolo, che non molti secoli prima aveva sfidato l’ignoto giungendo dal mare, per nascondersi e poi stabilirsi in quei luoghi.

Un popolo venuto da lontano
Quanto tempo prima? Forse appena trecento anni. Una leggenda di questo popolo, i Meru (o Ameru al plurale), racconta così.
«Tanto tempo fa il popolo Meru abitava al di là della grande acqua. Erano schiavi di un re potente che non lesinava angherie ai suoi sudditi. Sorse un giorno tra questo popolo un uomo che aveva parlato con Dio. Avendo visto l’afflizione della sua gente, si presentò al re nel nome del suo Dio, e implorò la libertà per sé e per il suo popolo. Il re rise divertito a questa richiesta. Poi, tanto per togliersi dai piedi quell’impiccione, rispose: “Bene, ti darò la libertà e lascerò andare la tua gente se tu riuscirai a portarmi un grosso elefante che faccia sterco bianco”. Oltre al prodigioso elefante il re volle altri meravigliosi quanto impossibili portenti (in alcuni racconti l’elefante diventa solo una mucca, si parla anche di cani con le coa, di una lancia tanto lunga da arrivare al cielo, e così via, le storie si abbelliscono secondo la fantasia dei narratori e secondo le tradizioni dei vari gruppi).
L’uomo non disarmò, toò a parlare con Dio sulla montagna e Dio l’aiutò a scovare l’elefante e a preparare tutti gli altri prodigi. La meraviglia del re fu grande e, pur non credendo ai suoi occhi, dovette a malincuore acconsentire alla richiesta e lasciar libero lui e tutta la sua gente. Il popolo tutto, seguendo questo grande uomo di Dio chiamato Mogwe, dopo il sacrificio di tre giovani chiamati Gaita, Kiuma e Muthetu (questi sono ancora oggi i nomi dei tre clan principali della tribù da cui deriverebbero tutti gli altri clan o mierega), passò la grande acqua. Per dividere e fermare le acque il Mogwe si servì di una magica lancia. I primi fuggiaschi attraversarono il mattino presto quando era ancora buio e si chiamarono Njiru (neri); i secondi attraversarono all’alba e si chiamarono Ntune (rossi); gli ultimi attraversarono in pieno giorno e si chiamarono Njaru (bianchi).
Dopo un lungo peregrinare arrivarono ai piedi della grande montagna sacra dalla quale scaturiva acqua buona e abbondante. E da quel giorno il popolo Meru abita nella terra che Dio gli ha donato, ancora fedele agli insegnamenti di quelli che hanno continuato l’eredità del “grande Mogwe”».

Solo leggenda?
A corroborare questa leggenda vi è (meglio dire “c’era una volta”, visto che parliamo di circa 50 anni fa) una curiosa usanza che io stesso ho osservato nel lontano 1965.
Quando un anziano stautiva, pronunciava con forza una di queste espressioni: «Antu ba ntune», «antu ba njaru», «antu ba njiru». Con questo voleva dire: «Sono del gruppo che è passato attraverso l’acqua verso l’alba» (ntune = rosso, riferito al colore del tramonto), oppure «sono del gruppo passato durante la notte» (njiru = nero) o ancora «sono del gruppo passato al chiaro del mattino» (njaru = lucente, bianco). E così ricordava agli astanti la propria provenienza e il gruppo clanico da cui derivava. Inoltre è interessante ricordare che all’inizio del secolo scorso, alcuni maestri protestanti tentarono di mettere insieme una specie di ‘dramma teatrale’ in cui ricordare le origini del loro popolo, ma la cosa non fu per niente gradita agli anziani i quali anzi ne imposero l’abolizione, timorosi che la storia potesse arrivare agli orecchi della nuova autorità coloniale inglese e la spingesse a ricacciare i Meru verso il luogo da cui erano giunti, «al di là della grande acqua».
Secondo gli studi più recenti questa «grande acqua» potrebbe essere il fiume Tana che scende dal Monte Kenya e verso la foce ha vaste paludi stagionali dove cresce abbondante il papiro. In queste paludi trovarono rifugio gli antichi Meru che erano fuggiti dall’isola di Mbwaa (o Mbwa – all’italiana Mbua – forse l’isola di Manda, nell’arcipelago di cui fa parte l’isola di Lamu) attorno al 1722. In quest’isola gli antenati dei Meru erano stati resi schiavi da «uomini (dai vestiti) rossi», probabilmente schiavisti arabi provenienti dall’Oman o dallo Yemen che proprio in quei tempi (1698) avevano completamente cacciato i portoghesi da Mombasa. Seguendo il fiume alcune bande di Meru arrivarono alle pendici del Monte Kenya e ne occuparono progressivamente i pendii cacciando gruppi preesistenti. Entro la metà del XVIII secolo, i vari gruppi Meru si erano stabiliti attorno al monte, nonostante un continuo guerreggiare con i pastori Maasai (cf. Fadiman, Jeffrey A., When we began, there were withmen: an oral history from Mount Kenya. Berkeley: University of Califoia Press, 1993).
Il racconto sopra riferito ha subito evidenti influenze ebraico-cristiane di non facile spiegazione. Un’ipotesi è che gli antichi Meru dell’isola di Mbwaa avessero già avuto contatto con i missionari Agostiniani che da Mombasa visitavano regolarmente le isole lungo la costa del Kenya e avevano stabilito una parrocchia nell’isola di Lamu; l’altra è che abbiano subito l’influsso di tradizioni islamiche di origine arabo-yemenita.

L’incontro con i Maasai
Le prime nove generazioni (Nthuke) di Meru salirono verso la grande cima bianca (del Kenya) penetrando nelle foreste vergini e disboscando per far spazio ai loro villaggetti. Un disboscamento estremamente contenuto. In molti luoghi lasciarono – su suggerimento di un grande keroria (profeta) – dei ciuffi di foresta diventati in seguito i famosi “boschetti sacri” che ancor oggi ammiriamo nel panorama.
Non era conosciuta una vera agricoltura, che si concentrava su alcune specie indigene di cereali e fagioli. Mais, pomodori, né tantomeno il frumento e il caffè erano ancora conosciuti. La vita girava intorno agli animali domestici – mucche, pecore e capre soprattutto – portati dalla famosa regione “oltre la grande acqua” (il fiume Tana).
Su queste pendici fecero conoscenza con una fiera tribù: quella dei Maasai. E, si capisce, l’incontro con questi agguerriti pastori nomadi non fu dei più pacifici. Sebbene all’inizio (1810-1820 circa) per paura e per non sbilanciarsi oltre il necessario, la coesistenza non fosse da nemici, ben presto le cose divennero difficili e le ruberie da ambo le parti fecero le prime vittime. Strano a pensarsi, ad avere la peggio furono i temuti Maasai, che pur quasi sconfitti continuarono le loro razzie di bestiame per molto tempo fino a quando la generazione Mbarata (circa 150 anni fa) mise fine alla storia. Molti dei Maasai sconfitti non trovarono altra soluzione che quella di passare ai Meru e così diventare quello che oggi conosciamo come gruppo Tigania. Ciò spiegherebbe perché tante famiglie abbiano dei nomi che non sono meru, ma maasai. Di più: se guardiamo anche la cartina geografica notiamo come il gruppo dei Tigania sia quello che si spinge verso il nord più degli altri gruppi. E il nord era tradizionalmente il regno dei nomadi Maasai.
Gli anni trascorsero senza particolari eventi, se non quelli delle carestie, delle invasioni di locuste, delle razzie e di qualche periodo di tranquillità.
Nel 1908 il governo inglese prese possesso della terra dei Meru dichiarandola terra della corona (crown land) e assoggettandola a forza parte alla neo colonia del Kenya. Da questa data in poi entriamo nelal storia documentata.

Lo smarrimento dei missionari
L’origine di questo popolo di ceppo Bantu è quindi incerta. Certo è invece che i primi missionari della Consolata, conoscendo poco o niente di questa tribù e non avendo accesso ai segreti gelosamente custoditi dagli anziani, trinciarono anche dei giudizi a dir poco pesanti. Cito qui la testimonianza di uno dei nostri primi missionari, che oggi certo sembra alquanto sbrigativa, irrispettosa e anche un po’ razzista. Scriveva:
«[È un] Popolo senza storia né scritta né orale, senza una civiltà anche solo primitiva. Il popolo Meru, prima dell’arrivo degli inglesi, era di un grado appena superiore agli animali del loro deserto e delle loro foreste: riprodursi, lottare per l’esistenza e per la preda; morire e, come le carcasse animali, esser divorati da altri animali; questo è il compendio senza eccezione della vita di ogni Meru, per cui non si doveva parlare assolutamente di un livello morale. Stando così le cose, non è a stupire se non hanno una storia, nemmeno orale. La loro origine si perde nella notte dei tempi e dell’oblio, e il loro ricordo non sale oltre la generazione che li ha preceduti. E anche i fatti, i fasti e le gesta dei predecessori che ogni nazione, con un minimo di civiltà, ha cura di tramandare ai posteri e che formano l’orgoglio nazionale, nel Meru sono passati e trapassati in modo tale da perdee persino il ricordo e le tracce».
Mons. Filippo Perlo, il primo vescovo di Nyeri sotto la cui giurisdizione era il Meru e che aveva organizzato le prime spedizioni dei missionari in quel territorio, nel 1922 scrisse: «E’ strano fino a qual punto questa popolazione difetti di storia, e se fosse vero l’aforismo che felice è quel popolo che non ha storia, questo dovrebbe essere arcifelicissimo. Basti dire che nessun ricordo antecedente alla presente generazione vi è conservato in alcun modo: nessun monumento storico esiste sotto qualsiasi forma, e invano ricerchereste per tutto il paese, su terra e sottoterra, pur traccia di ruderi, che possano risalire a una decina di anni addietro, ché è pur ben poco nella storia.
«A spiegare quest’assenza assoluta di quanto ha relazione col passato, credo valgano due ragioni l’una morale e materiale l’altra, la prima ha il suo motivo nella superstizione universale dominante, per cui chi è morto, è talmente morto, che neppur il suo nome, per quanto in vita riverito e stimato, può più essere ripetuto, né fuori né tantomeno nella casa e nella stessa famiglia che fu sua. A vedere quant’evitino, non dico di parlare di coloro che furono, ma pur anche di fae un qualsiasi accenno, sembrerebbe che in realtà evitino persino di pensarvi…
«La ragione materiale, a parer mio, starebbe in questo: che usando essi costruire ogni lor abitazione con pareti di ramoscelli intrecciati, rinforzati di malta e coperti di tetto di paglia, né all’infuori di questa capanna familiare, altre costruzioni esistendo nel Paese: – che gli edifici pubblici per le adunanze e l’amministrazione della giustizia sono suppliti da spiazzati erbosi, o annosi alberi dalla folta chioma -, ne risulta per le lor case una durata effimera quanto il materiale di cui sono formate… cioè al massimo quattro o cinque anni. Quindi è facile arguire che neanche gli atti di valore compiuti dagli eroi nazionali, o le successioni nobiliari, o alcuna delle più memorabili gesta collettive possono perpetuarsi nel ricordo di un popolo: non usandosi materiale in alcun monumento che ne conservi la storia, e la tradizione orale rifuggendo per partito preso dall’occuparsi di quelli che passarono, e tanto più di quanto operarono. In conclusione se c’è paese in cui si visse letteralmente alla giornata era questo, con esclusione assoluta d’ogni ricordo del passato, d’ogni preoccupazione per l’avvenire».

Una cultura senza passato?
Quelle riportate sopra possono sembrare cose di altri secoli, ma personalmente – nella missione in cui lavorai come principiante – questa «memoria proibita» di quanti erano stati gli antenati poteva ancora trovare riscontri negli atteggiamenti di persone sia totalmente illetterate come di persone istruite, compresi i maestri. Due o tre esempi.
Dovevo compilare le schede dei battezzandi. «Come ti chiami?» «Njogu» (= elefante). Strabuzzai gli occhi. Il catechista fu veloce a spiegarmi che suo fratello era morto da piccolo e suo padre gli aveva messo il nome di un animale grande e potente perché impaurisse lo spirito del male impedendogli di prendere anche questo nuovo figlio. Va bene. Scrissi: «Elefante».
Arrivò una ragazza. «Il tuo nome?» «Nterietwa» (tradotto letteralmente: non ho nome!). Pensai che la battezzanda non avesse ancora scelto il nome cristiano da prendere per la funzione ed insistetti. Fu ancora il catechista che mi venne in aiuto: «Vedi padre, questa figlia ha avuto due fratellini prima di lei, morti in tenera età. Allora i suoi genitori le hanno messo il nome Nterietwa proprio per confondere lo spirito che così non troverà più una nuova vittima».
Aggiungo a queste due curiosità un’altra di qualche giorno prima, quando chiesi ad un candidato maestro il nome di suo padre. Non me lo volle dire. E mi spiegarono che su queste cose è meglio non insistere: chi è morto va lasciato in pace. Neppure nominarlo o ricordarlo! Così si possono a volte spiegare tante cose della storia… che non fa più storia!

Le classi di età
Ritorniamo alla storia o almeno ad alcuni elementi che possono darci una mano a ricostruire la storia del popolo Meru e capie la struttura sociale. Un elemento fondamentale è la comprensione della formazione e sviluppo delle loro classi di età (age set).
Noi missionari abbiamo imparato presto a considerare l’età e il tempo un po’ diversamente da come dice il vocabolario, sia che si prenda come base il tempo solare che quello lunare (più facile da contare  per via delle varie fasi lunari). Tra i Meru (e in genere tutti i popoli Bantu, e non solo) l’età di una persona era valutata non secondo la data di nascita ma secondo la classe di appartenenza, la cosiddetta classe di età (oggi, con le nuove regole imposte dal governo centrale, i bambini vanno registrati alal nascita e i nomi vengono perpetuati nei computer).
Più che fornire spiegazioni tecniche o antropologiche, mi permetto di usare un paragone prosastico ma efficace…
Anzitutto attenzione al numero sette. Sappiamo che tra i popoli orientali questo numero sin dall’antichità riveste un carattere sacro o quasi (basti pensare al settimo giorno della Bibbia). Su che cosa si fondi è difficile dirlo (anche se le fasi lunari – 4 fasi di 7 giorni ciascuna – sembrano essee l’origine per tutti i popoli del mondo). Il numero sette è importante anche per i Meru.
Chi ha osservato l’andamento delle stagioni in alcune regioni del Kenya ha scoperto che nel giro di sette anni (o quasi… uno più o uno meno) c’è una variazione regolare del ciclo delle piogge. Nella Rift Valley c’è addirittura un fiore, una liliacea, che sboccia ogni sette anni, e i Kipsigis (sud-nilotici del Kenya) attendono questo fenomeno per segnare l’inizio dei riti di iniziazione. Anche i Meru celebrano i riti d’iniziazione ogni sette anni. Durante questi riti, si celebra un vero passaggio di età, lasciando la classe precedente per entrare in una nuova. Un paragone può chiarire meglio.
Supponiamo che tutta una tribù sia stipata su un treno. Nella prima carrozza ci sono gli anziani (età dai 40… ai cento, per chi ci arriva). Nella seguente ci sono quelli di un’età compresa tra i 35 e gli …anta, che sono gli anziani minori, adulti che non hanno ancora un figlio circonciso. Un’altra carrozza raccoglie quelli che hanno dai 28 a 35 anni, i guerrieri maggiori e tira da quella di chi ha tra i 21 e i 28 anni: i guerrieri minori. C’è poi quella della nuova riika (guppo di età) o dell’ultima circoncisione (tra i 14 e i 21) e infine l’ultima carrozza dei fanciulli incirconcisi. Le donne hanno un’organizzazione sociale diversa essendo praticamente divise in due categorie di circoncise (sposate) e incirconcise (bambine).
Ogni sette anni (ci possono essere degli spostamenti se, contro tutte le previsioni, il settimo anno è un anno di siccità: non si può far festa quando non c’è cibo per gli uomini e il bestiame) il treno si ferma: tutti scendono, fanno una grande festa celebrando l’iniziazione alla vita adulta degli adolescenti, e poi risalgono sul treno cambiando posto ed avanzando di una carrozza.
Quanto agli anziani: o ci ha già pensato il Padreterno o vengono relegati a compiti di onore e non più di servizio, eccetto i grandi sacerdoti, gli stregoni e i capi. I nuovi anziani lasciano il posto ai guerrieri maggiori, questi a quelli minori e così via fino ai marmocchi che salgono nel carrozzone dei neo circoncisi.
A questi “carrozzoni” – sempre per stare nell’allegoria – i Meru hanno dato il nome Nthuke (che significa più o meno generazione, gruppo di età: neo-circoncisi, guerrieri, anziani…).

Un nome dinamico
Il nome è importante, ma non è un fattore permanente che accompagni una persona dalla nascita alla morte, come avviene nella nostra società. Nella cultura Bantu il nome cambia col crescere della persona. Può così succedere che un individuo cambi il nome anche una decina di volte nella vita, per la gioia di chi deve compilare l’anagrafe o tenere un registro parrocchiale. Ogni persona inizia con il primo nome datogle dai genitori (oggigiorno succede anche che ne sceglie un altro quando entra nella scuola e lo cambia se deve ripetere l’anno scolastico per via di bocciature), ne riceve uno nuovo al momento dell’iniziazione e poi magari ci penseranno gli stessi coetanei ad affibbiargli un nuovo nome per distinguerlo meglio, per onorarlo, per riconoscere una sua dote (ad es. Mto-Mugambi = il parlatore… l’avvocato) e così via. Quante volte è successo e succede ancora che anche ai missionari venga cambiato il nome! «La madre della misericordia», il «padre che ci vuol bene», il «silenzioso» (Mukiri), Mwereria (= il vagabondo per la buona causa…; anche se non è vero che proprio tutti i missionari abbiano ricevuto nomi così elogiativi). Un nome così esprime davvero la persona che lo porta. Il cardinal Otunga ricevette dai Meru dell’Igembe il nome di Mto-Baikiao (l’uomo della bontà). Un nunzio apostolico era chiamato Mzee Mwenda (l’anziano che è amato).
Così il missionario che voglia un po’ di ordine nei registri, deve spesso arrampicarsi sui vetri! In più c’è la complicazione dell’età. Un tempo non si insisteva sull’età, perché nessuno era in grado di “tradurre” nel gergo dei bianchi il numero degli anni che aveva sul groppone. Nemmeno il governo insisteva più di tanto ed è davvero recente la legge che obbliga i genitori a registrare i bambini alla nascita. Così sulle carte d’identità vi è un dato che a noi suona strano: età «sopra i diciotto». Oltre a tutto questo va ricordato – per complicare la faccenda – che contare portava sfortuna. Come nessuno contava i capi di bestiame che aveva, le mogli che possedeva, i figli generati, così non contava gli anni. Se era vecchio diceva: «tanti».

Organizzazione sociale
Chi oggi prende un manuale di antropologia può subito scoprire come la grande etnia dei Meru non sia una realtà omogenea. A livello locale ci sono molte  diversità di lingua, usi, costumi e tradizioni, perché la tribù è in realtà costituita da sette gruppi simili, che occupano le sette zome principali del territorio del meru. Eccoli: Chuka, Muthambi, Igoji, Imenti, Tharaka, Tigania, Igembe.
Difficile dichiarare quale di questi gruppi è il vero rappresentante dei Meru! E non è detto che tutti siano contenti della denominazione ormai classificata! Nel censimento del 1989, ad esempio, successe che il gruppo dei Tharaka optò per essere denominato Meru e stop. Ma poi ci ripensò e nel censimento del 1999 toò con fierezza a definirsi Tharaka. Perché? La risposta è meglio cercarla nelle promesse a iosa fatte dai politicanti di quei giorni! Poco mancò che anche i Chuka e i Muthambi optassero per essere chiamati Kikuyu. Il motivo? La loro lingua è per una buona metà Kikuyu.
All’interno di questi gruppi ci sono i clan o mwerega. Il nome mwerega indica anche una serie di costoni e creste collinose ai piedi della grande montagna del Kenya, essendo i vari costoni divisi da fiumi che scendono precipitosi dalla montagna scavando profonde valli. La mwerega è allora un’organizzazione politico militare localizzata sul crinale dei lunghi collinoni che scendono dalla montagna. Il sistema dei clan ha permesso ai Meru di organizzare una efficace difesa contro i nemici, evitando l’annientamento in un ambiente tutt’altro che facile. I vari clan formano i gruppi, i gruppi la tribù. Ogni clan trae la sua origine da un capostipite – troppe volte dimenticato per via del tabù di cui ho parlato sopra. Questi clan sono esogamici: un individuo non può sposarsi entro il proprio clan, né in quello materno. L’individuo – per sé – conta poco nel proprio clan. È il clan a dar forza e valore nell’organizzazione della tribù. Vi sono tuttavia individui che per vari motivi assurgono a gradini sociali altissimi. Ne parlerò più avanti. Per i Meru non è possibile parlare di re e regine. Il governo della tribù è nelle mani delle Nthuke (generazioni) che cominciano il loro periodo di governo con una speciale cerimonia d’iniziazione chiamata Ntweko. Al termine del periodo di governo, l’autorità passerà automaticamente alla generazione seguente. Qualcuno parla di un vero e proprio sistema di governo realmente democratico.

Gli Njuuri
Sopra tutte queste “generazioni” vi è da secoli un sistema gerontocratico caratteristico dei Meru: i cosiddetti Njuuri (scritto anche Njori o Njuri). E la parola Njuuri mi porta ad un discorso un poco più particolareggiato poiché come missionari abbiamo dovuto per tanto tempo lottare, pazientare, rispettare ma a volte anche soffrire di tasca nostra… specialmente quando all’inizio dell’evangelizzazione ci furono episodi assai tragici.
Gli anziani della tribù erano e sono divisi in tre gradini: il primo era costituito dagli Areki (sing. Mwareki) ed era un onore sia per uomini come per donne, essere annoverati in questo rango. Il secondo gradino era formato dagli Njuuri Nceke ed il terzo dagli Njuuri Mpingiri. Gli anziani che formavano gli ultimi due ranghi erano selezionati con cura: meglio dire segregati dal resto della tribù. Per poter essere eletti Njuuri, i candidati dovevano pagare una forte tassa, in genere un gran numero di animali da sacrificare e mangiare durante una grande festa.
Ciascun Njuuri, e questo continua ancor oggi nelle remote regioni dell’Igembe, aveva la sua particolare maschera dipinta sulla faccia, specialmente durante cerimonie e riti e raduni solenni. Segni distintivi dello Njuuri erano (e sono): il Morai o bastone nodoso ricavato da un ramo di legno nero (in genere ebano); la Ncea o corona di conchiglie sulla testa; il Meu o scopino fatto di peli di coda di animale (si tratta in genere di peli della coda di mucca o anche giraffa) e lo sgabello a tre gambe scolpito da un unico pezzo di tronco. Alcuni Njuuri aggiungono il copricapo di pelle di scimmia guereza (per esempio gli Njuuri facenti funzione di capi, gli agwe, gli stregoni…) ed una specie di manto di pelle di montone o anche di scimmia.
Quando vi erano questioni gravi da dirimere questi anziani si radunavano in un prato presso Tigania, vicino alla foresta d’Uringo, e «sedevano e sedevano sull’erba» (sedere sull’erba è un modo eufemistico per dire: discutere, giudicare; la reiterazione del verbo indica la lunghezza del raduno). Questo prato, tempo addietro, era il più sacro e famoso luogo di convegno degli Njuuri. Vi giungevano da tutte le parti del Meru. A ricordo, negli anni Settanta, venne eretto un santuario a forma di capanna, ma non fu mai più usato come punto d’incontro.
Gli Njuuri sono ancor oggi un autorità tribale riconosciuta dal governo del Kenya e godono di rispetto indiscusso. Un giovane missionario africano che nel 2008 si permise di pubblicare affermazioni ritenute irrispettose nei loro confronti, dovette essere prontamente trasferito in un’altra zona del paese.
Parlando degli Njuuri non posso – a questo punto – non ricordare la figura di un nostro missionario, il p. Franco Soldati ribattezzato Mwereria (vagabondo per buona causa) il quale – con il beneplacito del vescovo mons. Lorenzo Bessone – fu accettato tra gli Njuuri Ncheke. È curioso il dialogo di Mwereria con il vescovo. «P. Soldati , mi fido di lei: se vede che la faccenda brucia, si tiri subito indietro!». «Monsignore, con l’aiuto di Dio cercherò di non lasciarmi bruciare!» (vedi un profilo di p. Franco in MC 10-11/2002, pag. 79).
P. Mwereria ha affidato questa esperienza a un interessante diario in cui descrive quanto ha scoperto degli Njuuri e quanto essi hanno scoperto in lui… cose belle e meno belle, ma soprattutto è riuscito a sfatare quella che i nostri primi missionari avevano definito tout-court «massoneria nera».

La Kagita, il tribunale degli Njuuri
La Kagita (tribunale indigeno) aveva potere sopra tutti gli Njuuri e la tribù; era costituita dalla cerchia degli Njuuri più rinomati, il Mogwe (lo sciamano-guaritore e sacerdote-sacrificatore) che descrivo più avanti) e il capo. Si radunava in una capanna particolare detta nyumba ya kagita. Era quella la capanna più temuta nella regione. Vi erano giudicati soltanto i casi criminali più gravi contro la comunità. E in genere, l’accusato, criminale o meno, una volta giudicato dalla Kagita, pagava con la vita. I giudici dovevano trovare assolutamente un responsabile.
Il modo di procedere era il seguente: i membri della Kagita insieme al presunto colpevole entravano per la porta principale della capanna. In pompa magna e seduti sullo scranno a tre piedi tabaccando abbondantemente, ognuno iniziava a parlare e ripetere o commentare il caso giudiziario. Nel mezzo del cerchio deglii anziani, accanto all’accusato, vi era una grossa zucca, ripiena di vino di canna. Non tutto il contenuto però era vino; una buona dose di veleno era stata previamente versata nella bevanda. Siccome il veleno era più pesante del vino, si depositava sul fondo della zucca. La sentenza contro il supposto criminale una volta entrato nella Kagita era sempre quella capitale. Ma doveva essere provata, con la prova del veleno. Il primo degli Njuuri, usando una zucchetta come mestolo, attingeva un po’ di vino, attento a non toccare il fondo del contenitore. Beveva dicendo: «Bevo di questo vino e rallegro il mio ventre, perché sono innocente…». Seguiva il secondo giudice, il terzo, il quarto e così via fino all’ultimo. Finalmente era la volta del condannato. A lui l’ultimo giudice offriva il vino dopo averlo attinto dal fondo della zucca. «Bevi di questo vino – scandiva – e vediamo se anche per te dimostrerà che sei innocente!». Il veleno agiva in meno di un quarto d’ora. Il disgraziato, ormai rigido nello spasmo degli ultimi attimi di vita, veniva spinto con dei bastoni fuori dalla capanna attraverso un buco nelal parete opposta all’entrata principale. Il buco veniva subito mimetizzato così che lo spirito cattivo non potesse più trovare la strada e raggiungere il “traditore”. Questo era uno dei tanti modi di amministrare la giustizia; molti altri erano lasciati alla fantasia dei giudici, come la “prova del fuoco” e la “prova dei funghi”.

Qual era la loro religione?
All’indizio del Novecento i nostri missionari trovarono grande difficoltà a districarsi nel sottobosco religioso di questo popolo. L’egemonia – o direzione suprema – degli Njuuri sia nel ramo maschile che femminile non lasciava troppe porte aperte per sbirciare fin dentro a ciò che accadeva nella tribù in modo particolare nei gruppi dell’Igembe, Tigania e Mikinduri, le zone più soggette al comando degli anziani.
Ci vollero cinquant’anni perché si potesse far breccia in questo monolito religioso. E dobbiamo dire davvero grazie al coraggio di p. Soldati – Mwereria – se tante cose si sono capite meglio e si sono sfatati tanti pregiudizi.
Nei pochi brevi diari dei missionari della prima metà del secolo (1910-1950) vi sono cenni e storie inficiati spesso da giudizi superficiali. Mwereria ha avuto il coraggio non solo di mettere  il naso in questo affare, ma di diventar lui stesso uno degli Njuuri, fino alla classe degli Njuuri Ncheke (magri), la classe ristretta che ancor oggi onora gli anziani più eminenti. Mwereria fece tante scoperte in quelle capanne dove nessuno che non fosse Meru era mai entrato.
È interessante leggere la descrizione che Mwereria fa di se stesso quando entrò nella capanna più riservata degli Njuuri. Per l’occasione aveva dovuto accettare di farsi dipingere sulla faccia i segni caratteristici dello Njuuri. Aveva anche dovuto pagare la sua bella tassa di un grosso bue… Quando lo invitai ad alzare il velo sull’organizzazione tribale dei Meru delI’Igembe, Mwereria mi diede un piccolo studio, dove narrava come fosse riuscito a penetrare nella “kiama kia Lamalle” (una delle classi di età degli adulti) e a “legare la chiesa” (uso un termine di Mwereria stesso) con gli Njuuri. Mi permetto di citare un brano del diario di Mwereria. Va ricordato che P. Soldati quando parla di Mwereria usa la terza persona come si trattasse di un’altra persona e non di stesso.
«Nel passato, Mwereria ha parlato di Njuuri ed Areki, affrontando problemi che coinvolgevano cristianesimo e tradizioni tribali. Non si era mai pronunciato sulla Kiama kia Lamalle. Ma ora la storia si ripete. I cristiani furono sempre sconsigliati a fare parte di quella kiama (gruppo, aggregazione, associazione, ndr.), se non addirittura esclusi dai sacramenti, come castigo alla loro adesione. Parecchie volte successe anche che giovani cristiani che si rifiutarono di fare questa iniziazione, fossero costretti fisicamente e magari portati di peso volenti o nolenti nelle varie capanne di iniziazione. Il missionario in questi casi cercava di aiutarli come poteva, magari nascondendoli per qualche tempo alla Missione. Ma era giusto? Perché rifiutare per partito preso tutto ciò che riguardava tradizioni africane? Perché questo muro di diffidenza tra chiesa e tribù? Ed allora perché meravigliarsi, se le varie chiese cristiane erano considerate come i peggiori nemici dell’africano? Se erano sopportate, il merito non era da attribuirsi solo alle opere innegabili di carità e di civiltà che queste chiese lasciavano abbondantemente al loro passaggio, ma anche all’influsso e al potere di un governo europeo dalla tinta cristiana. Indirettamente questa civiltà cristiana-europea aveva scalfito tutti i pilastri sui quali poggiava una tradizione secolare, ma la differenza rimaneva tra quelli che ancora cercavano di puntellare come potevano questi pilastri e coloro che invece volevano abbatterli completamente».
Questo fu sempre l’interrogativo di Mwereria: come conciliare la morale della Chiesa e la tradizione africana. Si domandava se fosse vero o falso che tutto ciò che conceeva le tradizioni era contrario ai comandamenti di Dio o della Chiesa. Scoprì poco alla volta che certi riti non erano esattamente santi, tuttavia la loro sostanza non era marcia: si trattava solo di regolae gli eccessi.

Ngai-Murungu: il nome di Dio
Come si può allora descrivere la religione tradizionale dei Meru? Cito anche qui un picciolo studio di un vecchio missionario dei primi tempi.
«La religione dei Meru è molto primitiva. Hanno due nomi per indicare Dio: Ngai (nome copiato probailmente dai Maasai, che hanno la dizione EnKai, o dai Kikuyu che hanno Ngai, che confondono spesso con fenomeni naturali), e Murungu (molto simile al nome Mungu, swahili per Dio). Questo Dio è personale, ma non gli prestano un vero culto, per quanto poi lo si senta invocare usando espressioni come «Murungu are o» (Dio c’è, specie nei pericoli o calamità pubbliche e private), oppure «Murungu ni Munene» (Dio è grande – frase presa forse dall’islam), «Kethera Murungu akwenda» (se Dio vuole – anche questa di sapore islamico). In rare circostanze i Meru fanno sacrifici direttamente a Dio, in caso cioè di carestia, di moria di uomini e animali, d’invasioni di locuste. Non è un individuo privato a compiere il sacrificio ma sempre una persona pubblica».
Fin qui le affermazioni di quel missionario. Ma ai suoi tempi era ancora sconosciuto – o forse semplicemente confuso nella cerchia non ben definita degli stregoni – un personaggio particolare di cui più tardi si venne a conoscenza e solo dopo uno studio approfondito sulla sua attività fu possibile valutae l’importanza: il Mogwe (plurale Agwe).

Gli Agwe
Con l’aiuto di P. Franco Soldati, da anni stabilito nella missione di Tuuru, l’antropologo Beardo Beardi riuscì a contattare i quattro Agwe della regione del Njombeni e ne scrisse in un libro intitolato «The Mogwe, a failing prophet», vita, autorità, pregi ecc.. Forse, esagerando un poco l’autorità di questo personaggio poteremmo accostarlo alle figure dei grandi sacerdoti del popolo d’Israele (magari addirittura a Melkisedek). Il compito del mogwe nella società Meru è quello di liberare dal male, dalle maledizioni e dalle influenze nefaste causate dallo stregone, il murogi (o urogi).
Personalmente ho conosciuto il mogwe di Amungenti che ricevette il battesimo dopo un lungo catecumenato ad opera di P. Emilio Canova (+ 2007) e P. Antonio Giustetto (+2002). Con il battesimo prese il nome di Giovanni MtoMugambi. Questo mogwe non lasciò a nessuno dei suoi figli la sua eredità spirituale e con lui si concluse la storia del Mogwe dell’Igembe. Osservando la condotta e l’ufficio tribale di questo personaggio, non mi è sfuggito il suo particolare stato di vicinanza a Dio, il rispetto che la gente aveva per lui, la scelta della sua persona per particolari sacrifici. Tant’è che non trovando altre parole più significative nella traduzione di certe preghiere e culti, noi missionari abbiamo usato il nome di Mogwe applicandolo a Gesù Cristo “Tu sei il Mogwe, il nostro sacrificatore”. La gente ha apprezzato e capito.

Il culto-timore degli spiriti
Ritorniano alla testimonianza già iniziata sopra. «Portano – i nostri Meru – invece un grande culto, forse per timore, agli Nkoma (spiriti e anime dei trapassati) il cui scopo sarebbe solo quello di tribolare l’umanità. La relazione dei viventi con questi Nkoma è solo tra parenti. Si ha cura allora di sacrificare qualche volta delle capre ed offrire vino di canna da zucchero (nchobi) per tenere quieti questi Nkoma ai quali viene attribuita in genere ogni malattia o accidente. Non hanno una classe sacerdotale, lo stregone (Moga) sarebbe un intermediario tra gli uomini e gli Nkoma».
Quest’ultima affermazione riflette la scarsa conoscenza che allora i missionari avevano della figura e ruolo del mogwe (scritto anche moga o muga all’inglese) con non è più possibile confondere con lo stregone vero e proprio, chiamato murogi.
Lo scopo di quete pagine è limitato, ma certamente la figura dello stregone e la loro occulta ingerenza nella storia delle missioni del Meru (ci sarebbe materiale per scrivere un vero thriller!) meriterebbe uno studio più approfondito.

Molto da scoprire
A questo punto, visto l’argomento, vorrei sollevare un poco il velo di mistero sotto il quale come missionari abbiamo sempre coperto alcuni aspetti di storia e di usanze occulte tra i Meru. Nel 1964 – come pivello missionario – mi trovai a sostituire per alcuni giorni il parroco di Tigania. A farmi compagnia c’era un nostro conosciutissimo (a quei tempi) missionario: p. Ottavio Sestero. Lo osservai a lungo mentre su uno sgualcito quaderno scriveva appunti. P. Sestero era un poco il “reporter particolare” delle nostre missioni del Kenya per la rivista Missioni Consolata.
Mi feci coraggio e gli chiesi alcune delucidazioni su quanto aveva scritto nel passato. Pochi anni prima aveva mandato alle stampe un romanzetto thriller intitolato «Il sacrificio del settimo anno», dove raccontava di un episodio avvenuto proprio nell’incipiente missione di Tigania. Tante cose a me sembravano inventate o quasi. Mi rispose, tra una pipatina e l’altra: «Non è un frutto di fantasia. Sono cose avvenute ma di cui nessuno parla e che ai nostri giorni nessuno o quasi più conosce. Io ho solo messo insieme a mo’ di romanzo tutta la faccenda… Se crede, potrei anche farle visitare i luoghi descritti nel romanzo a cominciare dalle cavee in cui uno dei protagonisti dovette nascondersi».
La località era Muthara, vicino a Tigania. In quella regione vi era un’usanza singolare chiamata da noi «il sacrificio del settimo anno», in parole povere un sacrificio umano. Durante la cerimonia settennale della circoncisione generale, il primo ragazzo che si presentava per la circoncisione era di fatto sacrificato con il veleno spalmato sul coltello usato per circoncidere. La cosa era tenuta nascosta al malcapitato e sovente offriva l’occasione per disfarsi di individui non voluti o inutili per la tribù, oppure per vendette trasversali. E così, veniva placato lo spirito. A scoprire questa usanza fu uno dei primi missionari di Tigania il quale vide – questo è narrato nel romanzo – portar via il figlio della prima famiglia cristiana che era venuta da Mojwa.
La relazione del mio vecchio informatore termina così: «I Meru hanno un numero infinito di pratiche che regolano tutta la loro vita, molte delle quali superstiziose, altre addirittura immorali, che per loro hanno forza di legge e che solo il cristianesimo, potrà poco per volta distruggere o modificare».
Queste cose sono state scritte prima della seconda guerra mondiale. Durante la guerra 1940-1945 tutti i missionari furono imprigionati e portati in Sudafrica nei campi di concentramento e le missioni abbandonate. In molte missioni – specialmente del Meru – la foresta si ripresa il suo dominio. Trovare cristiani fedeli nelle missioni del Meru era come cercare il famoso ago nel pagliaio. Per di più – per via di un ordine tassativo del governo coloniale inglese – il ritorno dei missionari (ottenuto dopo lunghissime trattative tra Goveo e Chiesa Cattolica) fu concesso ad un patto: i vecchi missionari del Meru non potevano più rientrare nella regione, ma dovevano effettuare uno scambio con quelli provenienti dalle zone Kikuyu. Prendere o lasciare. I missionari non ebbero scelta: presero! Impararono un’altra lingua, si scontrarono con un dedalo di pratiche religiose e non religiose che spesso non capivano e ripresero a seminare nei vecchi solchi
Come, o quasi, era successo nel lontano l911….

Giuseppe Quattrocchio




Meru (1) Quasi un’antologia

Cent’anni fa il Meru accoglieva la Consolata

Il 13 dicembre 1911 è la data dell’inizio ufficiale dell’evangelizzazione del Meru, una vastissima area allora quasi inesplorata a nord-est del Monte Kenya. Quel giorno i padri Balbo Giovanni e Olivero Luigi piantarono «le tende a Keja presso il capo Kerundu; la popolazione corse in gran folla a vedere i nuovi venuti, portando regali in cibarie di ogni genere. Il 24 dicembre era pronto il primo capannone che servì per abitazione dei padri e cappella privata, in cui si celebrò la prima messa la notte di Natale 1911».

Sono passati cent’anni da quel giorno. Da quella prima missione, piccolo seme alle falde del Monte Kenya, è cresciuto non solo un albero maestoso ma una foresta rigogliosa. Alla prima missione di Keja (o Kiija, chiamata poi Imenti e ora Mojwa o Mujwa) si aggiunse presto la missione di Egoji e altre ancora. Diventata Prefettura Apostolica del Meru nel 1926, raggiunse lo stato di diocesi nel 1953. Da essa furono poi create la diocesi di Garissa nel 1984 (da cui venne ricavata la diocesi di Malindi nel 2000), la diocesi di Embu nel 1986 e il Vicariato Apostolico di Isiolo nel 1995. Là oggi ci sono quasi un milione e mezzo di cattolici su una popolazione di oltre tre milioni di abitanti.
Queste pagine sono dedicate ai pionieri di questa grande avventura, quasi un’antologia dei loro pensieri e della loro vita.
Siamo andati a spulciare i vecchi numeri di questa rivista, i diari, le relazioni, le testimonianze di quel glorioso e sofferto periodo in cui un manipolo di missionari generosissimi, con pochi mezzi, cuore grande e tanta fantasia, furono capaci di piantare il seme del Vangelo in una terra nella quale «dietro ad ogni foglia si nascondeva un diavolo», come scrisse p. Vincenzo Dolza da Mekinduri. E le foglie non mancavano di certo sui fertili pendii e profonde valli ai piedi della grande montagna sacra.

Gigi Anataloni

Gigi Anataloni