Un’identità in bilico

Gli hui, i musulmani cinesi

In Cina, su 55 minoranze ufficialmente riconosciute 10 sono musulmane. Una di queste è costituita dagli hui, che si differenziano dagli han soltanto per la religione.

Quella dell’islam in Cina è una vicenda millenaria, le cui prime testimonianze risalgono all’epoca Tang (618-907 d.C.) quando mercanti arabi e persiani, provenienti dalle rotte marittime indiane, iniziarono a stabilirsi in diversi centri del sud. Molti di loro, pur vivendo in quartieri separati dove gli era permesso conservare le proprie usanze ed un proprio sistema di leggi, presero in moglie donne cinesi, contribuendo non solo alla crescita numerica della comunità musulmana, ma gettando di fatto le basi della loro stessa assimilazione etnica. Oggi, nella Rpc (Repubblica popolare cinese), ben 10 delle 55 minoranze nazionali ufficialmente riconosciute sono musulmane, tra cui la comunità hui risulta essere la più numerosa superando i dieci milioni, quasi la metà del totale. Enclave hui sono presenti praticamente in ogni città e – caso unico tra le varie minzu – la religione risulta essere l’unico carattere distintivo della loro identità. Di fatto, a differenza delle altre minoranze musulmane, gli hui sono prossimi agli han da un punto di vista tanto demografico, quanto culturale. Essi non possiedono infatti una propria lingua, un proprio territorio, e spesso si distinguono dagli han solamente per le pratiche alimentari. Proprio questa dispersione sul territorio può essere una delle ragioni dell’estrema polimorfia di pratiche e credenze islamiche oggi rintracciabili all’interno delle varie comunità hui, tra cui spicca una rilevante presenza sufi nel Nord-Ovest. Tutto ciò è viva testimonianza della profonda eterogeneità della comunità nel suo insieme. La stessa identità hui, peraltro, nasce solamente in un periodo recente, grazie alle politiche etniche della Rpc. Il termine «hui», infatti, è stato per secoli un contenitore piuttosto generale all’interno del quale, in Cina, erano definiti i musulmani senza alcuna distinzione etnica. In questo modo «hui» erano non solamente i musulmani cinesi (o che comunque parlavano mandarino), ma anche i turchi uiguri, le varie popolazioni dell’Asia centrale, i «saraceni», e via dicendo. La politica della Rpc, influenzata dall’esperienza sovietica, avrebbe invece portato ad una divisione tra le varie comunità musulmane cinesi, distinguendole secondo quei criteri storici, etnici e linguistici, che Stalin aveva già utilizzato in Asia centrale1.  A partire dagli anni Cinquanta, inoltre, grazie ad una serie di campagne di identificazione nazionale lanciate dallo stato, questi gruppi di musulmani cinesi avrebbero finito per riconoscersi come «hui», invece di definirsi, semplicemente, «musulmani».
L’identità hui rappresenta oggi, all’interno della RPC, un esempio unico di minoranza nazionale priva di legami linguistici o territoriali, basata esclusivamente sul fattore religioso. Nonostante ciò, grazie alle politiche etniche della Rpc, l’aspetto etnico – di per sé, appunto, inesistente – ha finito per giocare un ruolo più importante rispetto a quello religioso, evidenziando ancora una volta le motivazioni politiche sottese all’opera di catalogazione etnografica portata avanti dal partito. Si potrebbe anche sostenere, infine, che questa stessa operazione abbia portato a compimento il percorso millenario di adattamento alle istituzioni cinesi, che i musulmani hanno dovuto affrontare fin dal loro arrivo in Cina. Non più forestieri in una terra straniera dunque, ma hui: «musulmani cinesi». Un ibrido identitario capace, infine, di creare un forte senso di appartenenza ad una comunità che, parafrasando Benedict Anderson, non potrebbe essere più immaginata2.  Una comunità che è pura invenzione, «manufatto culturale», risultato di politiche etniche ben precise, in grado tuttavia di risvegliare tra i suoi membri un profondo senso di identità. Identità fatta di fratellanza ed orgogliosa rivendicazione culturale, per un popolo che da secoli vive un’esistenza forgiata dalle esigenze di due mondi radicalmente diversi: islam e Cina, Occidente e Oriente.

Alessandro Rippa

(1)  L’approccio staliniano alle politiche etniche, seguito poi anche dalla RPC, prevedeva che una nazione – o nazionalità – potesse essere riconosciuta come tale solo nel caso in cui possedesse le cosiddette «quattro comunanze»: lingua comune, territorio comune, vita economica comune e conformazione psichica comune. Come scrive lo stesso Stalin «solo se tutti i caratteri esistono congiuntamente, si ha una nazione»; Stalin, Opere Complete,Vol. II, Edizioni Rinascita, Roma 1951, p. 336.
(2) Benedict Anderson, Comunità Immaginate (Imagined Communities: Reflections on the Origin and Spread of Nationalism, 1983), Manifestolibri, Roma 1996.

Alessandro Rippa




L’ultimo bazar (all’ombra della Mezzaluna)

Lo Xinjiang e gli uiguri

Lo Xinjiang è la regione abitata dagli uiguri, cinesi loro malgrado. L’immigrazione han ha ormai conquistato le città ed occupato tutti i posti chiave, ma la popolazione uigura resiste, forte di una diversità che è fisica e culturale. Oggi la loro ultima frontiera è la religione islamica e soprattutto la lingua, da difendere ad ogni costo. Tra mille difficoltà.

La terra che oggi è la Regione autonoma uigura del Xinjiang, la più grande provincia della Repubblica popolare cinese, copre un sesto del suo territorio. Zona dei floridi commerci di un tempo, che si sviluppavano sulla via della seta dal II secolo, è decaduta quando sono state aperte altre rotte di scambio tra Oriente e Occidente. I suoi confini toccano otto paesi: Mongolia, Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Afghanistan, Pakistan e la parte di Kashmir controllato dall’India. È gialla, nella sua parte meridionale, arida e secca laddove il deserto del Taklamakan sottrae all’uomo una parte vastissima di terra, o tra gli spettacolari canyon formatisi agli argini del deserto dalle forme e colori più diversi. Verde al Nord, dove montagne di perenni ghiacciai sfiorano il cielo, laghi dai colori cangianti e fiumi impetuosi hanno la forza di portare via ponti e strade e la rendono fertile per i pastori nomadi che in estate occupano le alte praterie. È in questa zona, a 320 km al nord di Urumqi che si trova il punto della terra più distante dal mare.
Le sue genti sono 13 diverse minoranze, di cui la maggiore è quella uigura. La popolazione cinese han oggi ha raggiunto quasi il numero di quest’ultima, facendosi spazio soprattutto nelle cittadine lungo la via centrale, dove anche le infrastrutture sono maggiormente sviluppate.
A Urumqi, capoluogo e centro economico del Xinjiang, per esempio, proprio via del popolo segna la linea divisoria tra le due etnie cinese e uigura. Sul bazar di Urumqi, negli anni Ottanta, Terzani scriveva: «È un museo dell’umanità: ad eccezione di quella nera, tutte le razze vi sono rappresentate». Quel bazar è stato teatro nel 2009 del tragico attacco degli uiguri ai danni dei cinesi e del contro attacco di quest’ultimi. I conflitti sociali di oggi che dividono le città e le persone hanno radici storiche, politiche ed economiche. Non è nostra intenzione parlarne in questa sede, però si sentono chiari sotto il sole cocente, come sono chiari i pregiudizi che crescono nelle due etnie in uguale misura, rafforzati da una propaganda che al posto dell’armonia crea sentimenti di rifiuto,  contrasto e puro campanilismo. La politica ha certamente un ruolo fondamentale in tutto questo. Non è la cultura a dividere, ma oggi, insieme alla religione, diventa un tema tra i più strumentalizzati nelle analisi e nelle reazioni delle due parti e nessuna delle due sembra più disposta a incontrare l’altra. Se non davanti ad un banco di frutta o di carne.
Si deve procedere per zone meno battute al sud, sulla strada che da Kashgar torna verso Oriente o si ramifica fino al Tibet e ai monti Kunlun, per trovare ancora qualche passaggio originale di una melodia tutta uigura. Questa è la zona dove gli uiguri sono ufficialmente ancora la maggioranza.

UIGURI: CINESI, MA TURCHI

L’origine degli uiguri è fatta risalire ad una tribù altaica dell’Asia centrale. Dal lago Baikal, vennero verso sud, nella parte nord del Xinjiang. In seguito ad un’ivasione kirghiza (840 d.C.) si spinsero più a sud, nel bacino del Tarim, dove incontrarono gli unni, popolazioni turche dell’Asia centrale. Alla caduta degli unni, nell’850 d.C., nacque il Turkestan orientale e con esso il primo regno uiguro1.
Possiamo affermare che questa popolazione fu l’anello centrale degli scambi, prima di tutto commerciali, tra Oriente e Occidente. Data la natura di quella terra poi – al Nord adatta a una vita nomade e al Sud a una vita più stanziale -, gli antenati degli uiguri di oggi furono anche il popolo che meglio si adattò a queste condizioni. Riuscirono a svilupparsi grazie all’abilità di mercanti, ma anche a una elasticità nell’amministrazione che contribuiva a mantenere la pace necessaria al commercio. La loro cultura perciò nasce e cresce in quest’ambiente dove coesistevano allo stesso tempo diverse religioni e diversi popoli, e su questo si basa. Foitori della giada ai cinesi da 3500 anni, hanno goduto del favore della dinastia Tang, che li apprezzava come maestri di musica, e della dinastia mongola Yuan, che permise la diffusione dell’islam. Nel XXI secolo sono per lo più  contadini e pastori nei piccoli villaggi intorno alle oasi. Alcuni sono impiegati negli uffici governativi o nelle aziende in città, con uno stile di vita nuovo. Si dichiarano turchi con onore e si riferiscono alla loro terra con il nome di «Turkistan orientale», nel nostalgico intento di continuare ad affermare la loro identità almeno nella propria lingua.
Nelle campagne greggi di pecore e capre pascolano sotto i pali delle centrali eoliche; qui i mezzi sono molto limitati, l’educazione è scadente e le opportunità sono poche. Un conseguente fenomeno è la migrazione verso le città costiere, dove la manodopera è sempre richiesta. Il governo ne è fautore e sono sempre di più gli uiguri, specie le donne, a spostarsi nella Cina centrale per lavorare, partecipando alla mescolanza di genti che avviene massiccia tra Cina centrale e questi territori occidentali. Me lo raccontano in una città singolare sulla via della seta centrale, Kuqa, che sembra ancora oggi un’oasi nel mantenere intatta la sua parte di case di fango basse e bianche affianco alle costruzioni cinesi. Forse perché tra queste case, in passato (dal 200 al 650 ca.), è vissuta un importante cultura, la Qiuzi, il cui carattere buddista è rimasto nelle grandiose grotte dei mille Budda di Kizil o meglio nelle 180 casse di affreschi portate in Europa dall’archeologo tedesco Van le Coq nel 1906 e nel 1913. In punta dei piedi tra i vicoli di Kuqa, intorno a ciò che è rimasto dell’antico regno, ormai muri di fango logorato da vento e acqua, spiando dalle porte aperte, quando il vento alza le tende, si vedono cortili interni coperti da pergole di viti che assicurano la necessaria ombra nelle ore più calde della giornata. Oltre le tende ci sono la vita familiare e le abitudini degli uiguri: grasse matrone su letti di tappeti osservano con sguardo da sfinge il chiasso dei bambini che giocano intorno. Stanno sdraiate, rotolano sui tappeti, si appoggiano su grandi cuscini ricamati a mano. Offrono ricovero allo straniero che passa, una panchetta di legno e un po’ di ombra, del profumatissimo tè alla menta; lamentano la mancanza di lavoro e le ristrettezze economiche in cui vivono. Le donne stanno a casa, gli uomini, se non specializzati, si arrangiano con lavori di consegne o simili.
Verso sud, dopo varie città dove i caratteri cinesi vanno per la maggiore e dopo Atush, dove risiedono gli uiguri ricchi figli del petrolio, finalmente ecco Kashgar.

PER LA NUOVA KASHGAR «RINGRAZIAMO “IL PARTITO”»

«Di fango son le case, di fango son le strade, le moschee, le tombe. Solo Mao è di granito». Quest’altra affascinante descrizione di Terzani, va rettificata. All’arrivo a Kashgar l’emozione  non può che essere ferita dallo spettacolo triste delle demolizioni e dagli occhi ancora più tristi dei suoi abitanti. Patrimonio culturale dell’umanità, la parte protetta dal biglietto d’ingresso è ciò che ne rimarrà. La città è oggi al centro del nuovo piano di sviluppo economico messo a punto per questa parte di Cina. Squadre di operai cinesi e qualche uiguro si danno da fare, giorno e notte, per ricostruire su quello che è già ridiventato polvere: «Costruiamo la nuova Kashgar», «Ringraziamo il Partito per la sua attenzione al popolo del Xinjiang» sottolineano i cartelli in caratteri cinesi intorno alle macerie. I bambini ci giocano sopra, le donne stanno sedute fuori dagli usci delle case ancora in piedi. La terra secca dei muri abbattuti è tanta che, al passarci sopra, schizza come l’acqua pestata in una pozzanghera.
Per «offrire» case più sicure e antisismiche in tutte le città che visito ci sono lavori in corso, demolizioni e avvisi per chi ci vive di prepararsi al ricollocamento entro i prossimi cinque anni. Nelle stesse città, cercare la moschea vuol dire trovare la zona che, nel tempo, è rimasta più intoccata e con lei panorami che mi riportano nella invisibile Eufemia di Calvino2.
Città nascoste dentro la città si fanno scoprire tra i vicoli bassi e stretti dove giocano bambini o chiacchierano le donne affacciate alle finestre. I bambini uiguri sono curiosi, gentili e affettuosi con lo straniero. Lo prendono per mano per guidarlo nei vicoli o si lanciano in un abbraccio che fa tremare chi non se lo aspetta. I sorrisi che aprono i loro occhi, neri o azzurri, fanno pensare quanto questa gente sia aperta verso l’esterno. Mahermut, un bambino di otto anni, mi indica il nome del nonno tra quelli della lista sul muro in lingua uigura. Ci vivono da anni in quel vicolo e si conoscono tutti. Mi guida in un giro tra racconti della scuola cinese che frequenta e domande su quello che sta lontano dal suo mondo ma vicino alla sua immaginazione. Passeggiamo in un sali e scendi tra profumi di pane appena sfornato, spezie macinate dal medico tradizionale per il tè, sangue del montone appena sacrificato ad Allah e vapori dei cibi comuni che si trovano per strada: pecora che bolle da ore nel pentolone con odori e spezie, il soffritto per il risotto, gli spaghetti gialli di grano che si servono freddi con verdure, aceto e salsa di sesamo.

UN COLLANTE DI NOME ISLAM

La città successiva è quella degli artigiani che continuano il mestiere dei loro padri. Balaustre ombreggiate delle case a due piani di inizio secolo danno sulla strada, e balconate coperte da motivi arabi e colori pastello attirano lo sguardo al cielo. C’è chi forgia il ferro creando zappe, lame, falci, picconi, chi batte sulla lamiera per fae casse di ogni dimensione, o i lavandini per i ristoranti e le brocche da giardino, chi fa piatti, teiere o anfore in rame per la casa, chi con il legno modella pioli per i letti e per le culle, o una scacchiera con re, regine, cavalli e pedoni. Abili mani tessono tappeti, altre lavorano l’oro, materiale di cui la zona è abbastanza foita.
Gli uiguri amano l’oro. Le donne portano sulle mani, pitturate di henna, bellissimi anelli intarsiati, intrecci di ricami quasi barocchi. Per le strade o nei mercati le donne sono una delle cose più belle da osservare, nei loro modi, nei gesti eleganti di mani segnate dal lavoro. Occhi scuri di nero kajal, rendono ancora più affascinante lo sguardo di quelle che mi vengono incontro. Amano curarsi, amano i profumi e portano, specie nel sud, il velo. Chi annodato dietro la testa a mo’ di copricapo, chi sotto il mento, chi lascia solo gli occhi allo sguardo altrui. Ce ne sono anche alcune che preferiscono guardare attraverso la rete del burqa. Tutte mi ricambiano con la stessa curiosità.
La figura della donna nella società uigura è centrale e molto particolare, se inserita in un contesto religioso musulmano: gli uiguri già buddisti, hanno adottato l’islam in una pratica molto meno stretta rispetto ai paesi arabi. Se è la donna a stare a casa, questa ha anche la libertà di uscire, studiare, e può scegliere di non portare il velo, come succede spesso tra le più giovani.
Ancora più a Sud, Hotan la descrivono come uno dei posti più duri per i forestieri, in quanto là gli uiguri sarebbero più chiusi nei dogmi religiosi. Al mio arrivo quasi non ne vedo. La statua di Mao e Kurban Tulun, l’eroe uiguro della rivoluzione cinese, governa piazza dell’Unità. È l’unico monumento in tutta la Cina che vede il vecchio Mao in compagnia. Nelle strade passano i taxi, i camion dei supermercati, quelli che portano macchine nuove o petrolio, passano bus enormi, passano camionette blindate della polizia. Tutte superano un carretto, che ben accostato al marciapiede prosegue lento per la sua strada. Lo trascina un mulo guidato da un vecchio uiguro che indossa un copricapo con ricami verdi, tanto popolare tra questa gente. Osservo e mi chiedo dove sia il suo mondo. Sul carro, donne, bambini, ragazzi uiguri che usano questo come taxi, dalle zone più periferiche. Al ritorno dal bazar della giada di Hotan, dove ogni venerdì e domenica, è mercanteggiata giada verde, bianca, nera, rosa, di fiume o di montagna, seduta sui tappeti ben piegati, per cinque mao (pari a cinque centesimi di euro), vedo le strade passare dal lato opposto: la periferia di case basse, ristoranti e lunghi barbecue per arrostire la carne di pecora venduta a tutti gli angoli, gli uomini che fanno la fila dal barbiere, le donne sulle scale di una moschea che offrono il loro acidissimo yogurt. E ancora foi rialzati per cuocere i tanti tipi di pane, sui quali i panettieri si chinano e con un gesto antico millenni mettono dentro l’impasto a forma di pizza con sesamo e cipolla.
Camminando tra la gente per questa terra, ho l’impressione che sia chiusa: le seconda domanda che rivolgono allo straniero in genere è: «Li conoscete gli uiguri al tuo paese? Ce ne sono?», «Beh… ora un po’ di più», la risposta imbarazzata dalla consapevolezza di quanto in Occidente non sappiamo. Perché degli uiguri se ne sente parlare da poco tempo e solo se ci sono rivolte o attentati. Anche in Cina.

ALLA «GUERRA» della lingua

I fatti dell’11 settembre e l’inserimento del «Partito islamico del Turkestan orientale» nella lista nera dei terroristi stranieri da parte del governo statunitense e delle Nazioni Uniti nel 2002, hanno fornito ai cinesi i presupposti formali per campagne antiterroristiche in queste zone. Ma questa è un’altra storia3.
Gli uiguri sono lontani, da Pechino e dal mondo. Dai loro cortili al mondo, si passa comunque per la Cina. D’altronde sono cinesi. Sono però «i cinesi meno cinesi». Loro malgrado.  Lo dice il Dna. Lo dicono i loro capelli ricci e i nasi di falco. Lo dicono la musica, la passione per il ballo, l’espansività dei gesti, dei modi, i rapporti sociali. Lo dicono le preghiere ripetute durante la giornata, quando per le stradine che circondano le moschee di Kashgar come del più remoto villaggio, da un minareto si diffonde la voce piena e possente del muezzin che li chiama a raccolta. Interrompono tutto, per questa pausa di preghiera. Sono di sicuro tra le minoranze meno sinizzate, probabilmente grazie al mantenimento di una lingua propria che, sostenuta dalla religione, porta con sé una identità molto distinta.
E l’uso di questa lingua nella religione è l’unico fattore che fa credere che la lingua uigura non morirà. Ma è la lingua cinese che permette agli uiguri di Cina di avere opportunità di scambio con l’estero, che non sia Turchia. È tramite il cinese che si studia l’inglese e sono cinesi le aziende che offrono lavori migliori. Ne sono sempre più convinti anche tanti genitori uiguri, come dimostrano ricerche cinesi e non sulle politiche linguistiche e sociali adottate4.
L’uiguro appartiene alle lingue turco-altaiche, di qui le similitudini e la passione uigura per la Turchia. La sua scrittura è basata su un alfabeto molto simile a quello arabo. La Costituzione cinese assicura il diritto per le minoranze di studiare nella propria lingua, e l’articolo 49 della Legge sull’autonomia regionale afferma addirittura che «i quadri di nazionalità han dovrebbero imparare a leggere e scrivere le lingue delle minoranze locali»5.  
La storia e la politica a questo proposito è lunga e vede molti cambi di direzione durante gli anni. Con la rivoluzione culturale il «nuovo» per gli uiguri fu l’uso delle lettere latine al posto di quelle uigure, producendo una generazione di analfabeti. Dopo la reintroduzione dell’uiguro scritto, sono state lanciate le scuole miste, a maggioranza cinese o uigura, poi trasformate in tre tipi di scuole: cinesi, uigure e miste. Nel 2004 sono state introdotte classi sperimentali con la doppia lingua.
Per gli uiguri, per la loro identità tali trasformazioni possono portare a cambiamenti culturali senza via di ritorno. E una lingua scritta e parlata è forse più importante dell’identità stessa, perché permette a questa identità di descriversi e di vivere.
Per il governo cinese invece, l’esistenza di quella cultura ma soprattutto di quella religione, può risultare scomoda sotto molti punti di vista. Il suo obiettivo, secondo i documenti ufficiali, è di avere, entro il 2012, l’85% delle scuole matee bilingue, cioè insegnare il cinese alla maggior parte della popolazione fin dai primi anni. E, temono gli uiguri, questo sarà un altro grande passo sulla  strada che – piano piano – porterà alla scomparsa delle scuole e della lingua uigure. Testimoni riportano recenti campagne di confisca di libri uiguri, bruciati perché «colpevoli» di supportare il sentimento separatista6.
Al momento molti denunciano una situazione in genere caotica, che vede studenti uiguri delle scuole a maggioranza cinese non saper scrivere nella lingua madre usata oltre i recinti scolastici, mentre quelli delle scuole a maggioranza uigura notevolmente svantaggiati quando aprono la loro porta sul mondo esterno. Nelle classi sperimentali bilingue invece, vengono insegnate le materie scientifiche in lingua cinese, mentre quelle letterarie e la lingua in uiguro. È del maggio 2002 la decisione del governo di insegnare la maggioranza dei corsi in cinese, come mi conferma Ohelan, insegnante uigura alla scuola media del villaggio di Dunkuotan, vicino Kuqa che, seguendo le politiche governative insegna in cinese e si rende conto di quanto ciò contribuisce a creare un livello bassissimo di educazione per i bambini. Secondo le statistiche il 98,6% degli insegnanti è uiguro; il restante cinese sembra non avere basi linguistiche uigure adeguate all’insegnamento, specie nelle zone più remote. D’altra parte, gli sforzi del governo mirati a bilanciare questa situazione sono molti e quasi tutti in «favore» delle minoranze: oltre alle ricerche per i libri di testo, ci sono i sussidi per i bimbi uiguri che scelgono una scuola matea con classi bilingue, o lo sconto sui crediti per studenti non han in sede d’esame d’accesso all’università, per i quali sono previsti anche esami in lingua madre.
L’Università del Xinjiang offre il corso di studio in «lingue e culture delle minoranze» in uiguro e kazako, ma Wang Lequan, capo del Pcc in Xinjiang dal 1994 affermava, anni fa, che il lavoro educativo e ideologico sarebbe stato una priorità nella battaglia al separatismo. Lui, che introdusse il cinese nelle scuole primarie e vietò agli uiguri impiegati in uffici governativi di portare la barba o il velo e di osservare il ramadan, è stato sostituito con una nuova classe di politici nell’aprile 20107.
Gli uiguri si dicono fiduciosi nel cambio al governo, fiduciosi di persone che sembrano essere più disposte al dialogo e al rispetto degli spazi di una cultura diversa. Nel frattempo, continuano a vivere secondo la loro musica.

Tania Di Muzio

Tania Di Muzio




Mille volti, un cuore antico

Dall’impero alla Cina comunista

Prima fu l’Impero, poi il confucianesimo, infine la nuova Cina. Secondo l’articolo 4 della Costituzione del 1982: «Le nazionalità della Rpc sono tutte quante uguali. Lo Stato assicura i diritti e gli interessi legittimi di ciascuna minoranza etnica, protegge e sviluppa l’uguaglianza, l’unità, l’aiuto vicendevole tra le nazionalità. È vietato discriminare e opprimere qualsiasi nazionalità (…)». la realtà mostra un paese in cui gli han, il gruppo maggioritario (oltre il 90% della popolazione), sono divenuti forza preponderante in ogni regione. E non sempre in modo pacifico, come dimostrano le rivolte in Tibet e Xinjiang.

La Cina è un respiro ovunque diverso, che avvolge paesaggi tra loro distanti migliaia di chilometri. È composta da mille volti e da un cuore antico: il letto di un fiume che fu fonte di civiltà. Oggi il Fiume giallo è uno specchio desolato di acque inquinate e terre aride. Di un canto nostalgico intonato al «xibei», il Nord-Ovest cinese, dove scorre il vecchio fiume anima pulsante delle prime dinastie tra storia e leggenda; il Nord-Ovest delle rotte carovaniere in arrivo dal centro Asia. Oggi, semplicemente, una delle aree più povere della Cina modea. Come ipotesi di partenza, la Cina potrebbe essere un contenitore di popolazioni ed etnie: 56 stando ai gruppi riconosciuti ufficialmente. Non solo han, tibetani e al limite uiguro; ma anche mancesi, mongoli, kazak, yao, bai, yi, miao, zhuang, mosuo… persino coreani e russi. Montagne altissime ad ovest, deserto e prateria a Nord, neve e ghiacci a Nord-Est, le grandi piane al centro, la fascia costiera e le skylines a Sud-Est, i picchi carsici e le risaie a terrazza del Sud, l’aria dei tropici a Sud-Ovest.
La maggior parte delle volte che sentiamo pronunciare la parola «cinese» in realtà si parla di cinesi han. Vale a dire il gruppo maggioritario, con oltre il 90% della popolazione, dislocato su un territorio insufficiente. Oggi le aree autonome (regioni, prefetture e contee) destinate alle minoranze coprono il 64% del territorio, ma negli anni la penetrazione han si è fatta sempre più possente. Si prenda la Regione autonoma della Mongolia intea, dove i mongoli sono ormai solo il 15% della popolazione.
«Cinese» è una parola che, almeno nelle intenzioni, significa anche tibetano o uiguro. La Cina come concetto è una creazione delle correnti riformiste e rivoluzionarie di fine Ottocento, quando il pensiero tradizionale intriso di confucianesimo si aprì all’idea modea di nazione: uno stato unitario, con un territorio, con dei confini. E con un popolo. Non più sudditi del «Figlio del cielo» costretti nell’angusto spazio di riti e gerarchie, ma nazione che partecipa al potere nel nome dei principi di uguaglianza, cittadinanza e rappresentanza. Era questo il nuovo cittadino cinese che emerse dalla cenere della Rivoluzione del 1911 (si legga la cronistoria), membro di uno stato che rivendicò i confini dell’antico Impero, includendo così un groviglio di popolazioni eterogenee, spesso parlanti lingue e persino con sistemi di scrittura diversi.
Nella retorica nazionalista sarebbe divenuta la «Repubblica dei cinque gruppi» (Wu zu gonghe), sottintendendo i cinque principali gruppi etnici: han, mancese, mongolo, hui (i musulmani cinesi) e tibetani. A sostegno della tesi venivano citati millenari processi di scambi e di reciproca assimilazione tra la maggioranza han e le popolazioni minoritarie, tutte dislocate alla periferia del vecchio Impero. L’ideale era quello di una famiglia, il cui ultimo stadio evolutivo sarebbe stato la «Grande armonia» (Da tong), un ideale dal sapore confuciano. Modeità e tradizione. Per capie la convergenza bisogna ripartire dalle dinamiche di una fase storica ben precisa: l’imperialismo. Nel corso dell’Ottocento, l’Impero cinese fu ridotto ad uno status semi-coloniale, che destinava la gestione delle principali risorse economiche alle Grandi potenze coloniali e lasciava all’imperatore una sovranità nominale, vuota. L’Impero era allo sfascio: tecnicamente arretrato, sfruttato economicamente, umiliato politicamente, militarmente e persino nello spirito, vista la diffusione dell’oppio britannico nei circoli amministrativi, una piaga che mirava dritto al cuore dell’integrità etica professata dal confucianesimo.
Fu allora che venne intrapreso il confronto con la modeità. L’ideale di sviluppo, ancora oggi tanto decantato dalla dirigenza comunista, si impose come mezzo di riscatto per un paese da ricostruire. La decadenza del presente era compensata da un sogno di grandezza da conquistare. Linearismo ed evoluzionismo. Lo strumento per conseguire tutto ciò era la ragione, il razionalismo economico e politico. L’intento di modeizzazione tecnica anticipò quella del pensiero politico, che costituì una rivoluzione ancora più grande, in grado di stravolgere i rapporti tra i cinesi han ed i loro vicini, le minoranze. La questione etnica stava prendendo forma anche in Cina.
Il dogma politico supremo introdotto dal nuovo pensiero fu quello dello stato-nazione moderno, centralizzato, dotato di confini ben definiti e rappresentato da una nazione unitaria. L’essere cinese veniva proposto non solo sul piano politico ma ipotizzato etnicamente, malgrado la varietà culturale. In termini politici, l’autorità centrale fu estesa alle province più lontane dalla capitale come mai era stato rivendicato in epoca imperiale. La maggioranza han, storicamente e quantitativamente dominante, veniva investita dalla retorica nazionalista del ruolo guida in campo politico ed economico. Un fratello maggiore in grado di prendere per mano le arretrate minoranze e rendere grande la madrepatria, queste le parole della propaganda ufficiale. La realtà, inizialmente, fu più complessa: il potere centrale era troppo debole per tradurre nella pratica la sua ambizione nazionalista, ostacolato ad esempio dai signori della guerra disseminati su tutto il territorio cinese. Anche alla periferia della nuova repubblica le istituzioni tradizionali delle minoranze continuavano ad agire in completa autonomia, quando non rivendicavano apertamente l’indipendenza.
Perché la Cina nella sua transizione ad una forma politica modea ha assunto l’aspetto paradossale di un Impero nelle vesti di una nazione? Questione di potere, sete di riscatto dal giogo coloniale, l’obbligo di assimilare le regole del mondo moderno per sopravvivere; ma non solo. Ci fu anche una percezione di sé che, come in tutte le nazioni, ha fatto leva su simboli, miti, storie, valori culturali consolidatisi nel tempo. Una rielaborazione della memoria storica collettiva. Il percorso dell’Impero cinese fu un perfezionamento di una cultura politica secolare, millenaria, capace di guadagnarsi un riconoscimento nello spazio di un continente geografico, dalla Corea al Vietnam; e laddove non fu sempre ben accetta seppe scendere a compromessi con la diversità, dimostrandosi ricettiva e riuscendo a rielaborare «l’altro» in termini familiari.
L’Impero cinese non fu un’unità politica in cui un despota decideva il destino dei suoi sudditi, né il regno di un eroe conquistatore. L’Impero cinese fu equilibrio fra poli distinti: nomadi e contadini, barbari e civilizzati, minoranze e han. Un equilibrio che non escluse guerre e scontri, ma in cui a farla da padrona era una visione in cui ogni soggetto trovava un suo posto; dove ciò che era ritenuto barbaro doveva sì essere civilizzato, ma era comunque parte di un sistema ed accettato al suo interno. È sulla base di questi principi che l’Impero cinese si sviluppò rendendo ufficiale un sistema culturale oggi tradizionalmente associato al confucianesimo. Ma dal punto di vista delle relazioni «geopolitiche» ed inter-etniche si tratta di un qualcosa di più generale rispetto ad un sistema culturale; come un modo di concepire i rapporti con «l’altro» facendo riferimento a valori condivisi.

L’assimilazione delle popolazioni «non han»
È questa una possibile chiave interpretativa per osservare la funzione simbolica della Grande muraglia, che nell’immaginario di un cinese non è una semplice linea di demarcazione tra l’io ed il nemico, ma anche un crocevia e un punto d’incontro, probabilmente inizialmente di scontro, ma che poi permise di includere il diverso e di estendere i limiti della terra, quel «Ciò che è sotto il Cielo» (Tianxia) che rappresentava in epoca imperiale l’idea di Cina. Il mantenimento da parte dell’altro di una certa identità era addirittura funzionale al sistema, poiché visualizzava diversi livelli di penetrazione della civiltà, a seconda della distanza (geografica, culturale) dal Centro, l’Imperatore Figlio del cielo (Tianzi).
Si fa un gran parlare, spesso a ragione, dell’assimilazione cui le popolazioni «non han» furono storicamente sottoposte. Perché l’accettazione del diverso passava per una sua riqualificazione culturale. Gran parte delle minoranze cinesi di oggi mantengono ben poco della loro antica identità etnica. La forza dell’elemento han si manifestò nella riconversione di gruppi più deboli e nella migrazione intensiva dalle piane centrali verso Sud. Ma quelle culture provviste di maggiore personalità poterono coesistere con il sistema ufficiale ed operare all’interno di esso. Si prendano le oasi centrasiatiche dello Xinjiang, le praterie mongole o il Tibet buddhista. Il riconoscimento in realtà era reciproco ed era fondato sulla presenza di una complessa rete di gerarchie sovrapposte, in cui il rito svolgeva una funzione essenziale, evitando che si creassero degli scontri per l’esercizio effettivo tra diverse autorità. Per la storiografia cinese l’imperatore restava il centro politico supremo ed in una certa misura egli poté anche ricevere tale riconoscimento; ciò non toglie che per le altre popolazioni l’autorità imperiale fu soprattutto uno strumento di legittimazione per il proprio potere. Il buddhismo in Tibet non fu solo una religione ma espresse anche un sistema di valori alla base di una distinta cultura politica con un proprio codice simbolico, universalista proprio come l’ordine imperiale. In tempi antichi ci furono guerre tra Tibet ed Impero cinese, ma in ultima analisi si giunse ad un reciproco riconoscimento, in cui l’Imperatore entrò nella simbologia buddhista ed il Dalai Lama, a capo del sistema tradizionale tibetano, divenne parte attiva all’interno del sistema imperiale.
L’idea modea di Cina riprende la condivisione di una cultura politica antica, sottintendendo un contatto – già esistente – tra le popolazioni che componevano l’Impero. Oggi in province come quelle del Sichuan, dello Yunnan, del Guangxi e del Guizhou ci sono regioni dove diverse etnie coesistono ormai da secoli e la cui identità agisce chiaramente su diversi livelli. La memoria dell’epoca imperiale è andata però incontro ad una rielaborazione. Oggi il problema principale in rapporto alla questione etnica è la discriminazione politica, economica, sociale e persino culturale a cui le minoranze economicamente meno sviluppate sono condannate a causa dell’egemonizzazione dell’elemento han. Più che una volontà di sottomissione fu però il risultato di un processo storico: gli han furono il centro della Rivoluzione politica del 1911, nonché gli artefici della modeizzazione tecnica ed economica, il che li pose automaticamente alla guida della nuova Cina, la Cina comunista.

LE MINORANZE NELLE COSTITUZIONI DEL 1954 e del 1982
La Cina comunista ha ricercato la propria legittimità nel riconoscimento ufficiale delle etnie che ne compongono il territorio, attraverso un’opera di catalogazione sul campo durata decenni e che ad oggi ha portato allo scoperto 55 minoranze. I criteri adottati in quest’opera furono tutt’altro che scientifici e spesso l’identificazione etnica di una persona restò un ideale, vuoi per specifici interessi politico-strategici, vuoi per la forza dei processi di integrazione e di assimilazione, che spesso hanno reso difficile la distinzione chiara e netta dell’identità etnica di una persona. L’ultimo conteggio ufficiale (nel 2000) registrava più di 700 mila persone senza etnia, un gruppo di individui spesso unito dalla coscienza di non essere han ma che ignora la propria appartenenza.
La prima Costituzione cinese fu approvata nel 1954. In essa veniva sancito il principio di Stato unitario multietnico (art. 3), garantito attraverso il riconoscimento di uguaglianza tra i gruppi nazionali e dell’autonomia politica per le minoranze. Il riconoscimento della sovranità centrale, cui tutti gli organi amministrativi autonomi erano sottoposti, bilanciava la concessione di autonomia. Lo schema fu ripreso dalla Costituzione del 1982, l’ultima approvata in ordine di tempo, e dalla Legge per l’autonomia regionale nazionale della Repubblica popolare cinese (Rpc) del 1984. Questi due documenti si impegnavano a ribadire la compresenza di un’autorità centrale e di un potere decisionale autonomo nelle zone popolate da minoranze.
È stato osservato che la Costituzione del 1982, complice la svolta politica apportata da Deng Xiaoping, abbia contemplato maggiore apertura nel riconoscimento del particolarismo etnico. Nel dettaglio, veniva assunta una posizione netta contro la discriminazione etnica, si impegnava lo Stato centrale a investire nello sviluppo economico delle zone più arretrate e le minoranze nel mantenimento e nello sviluppo della propria cultura (art. 4). Anche il riconoscimento di autonomia politica andò incontro a una più approfondita formulazione: l’articolo 116 garantiva la libertà di approvare regolamenti locali in base alle esigenze particolari della popolazione o agli orientamenti culturali di una minoranza; gli articoli 117-122 sancivano invece l’autonomia in materia fiscale, culturale, economica, nell’educazione e persino in rapporto all’ordine pubblico locale.
Tuttavia, va notato che la Costituzione ribadiva a più riprese la priorità della funzione del potere centrale, il che avrebbe vanificato qualsiasi provvedimento autonomo se reputato in conflitto con l’interesse nazionale. La precisazione è tanto più evidente oggi: in seguito alle rivolte in Tibet e Xinjiang, la libertà religiosa e culturale è andata incontro a palesi restrizioni, che se giudicabili in parte anti-costituzionali d’altro canto sono ugualmente legittimate dalla Costituzione, che autorizza la limitazione dei poteri di autonomia in caso di minacce all’unità della nazione cinese (art. 4) e sottopone qualunque provvedimento autonomo all’approvazione del Comitato permanente del Congresso nazionale popolare (art. 116).
La politica comunista degli anni Cinquanta si fondò dunque sui principi di autodeterminazione delle etnie (all’interno dei confini politici cinesi) e di uguaglianza tra i gruppi riconosciuti. Ad essi fu concessa la creazione di unità amministrative (regioni, prefetture e contee) autonome su base etnica e regionale. Ma il preconcetto sulle minoranze permase, partendo dalla loro maggiore arretratezza, e l’atteggiamento degli han, che occupavano i maggiori posti al potere, continuò ad essere patealistico e profondamente evoluzionista, scaturendo così nella discriminazione. Oggi il controllo politico ed economico sono problemi reali in quelle regioni, come Tibet e Xinjiang (si legga l’articolo di Tania Di Muzio), dotate di un’identità etnica maggiormente distinta e storicamente autonome dal potere centrale cinese.
Alle tensioni etniche va aggiunta la questione ideologica. In un Paese multietnico come la Cina, l’impostazione marxista della questione nazionale ha avuto notevoli implicazioni pratiche, creando squilibri nelle relazioni tra i vari gruppi etnici. La definizione della società in rapporti di classe e l’ardore rivoluzionario sottovalutarono le profonde radici dei sistemi sociali nelle zone popolate dalle minoranze etniche, malgrado il più delle volte fossero fondati sulla disuguaglianza politica, economica e sociale. All’epoca della guerra civile, la Lunga marcia aveva attraversato molte delle regioni popolate da minoranze, guadagnandosi alcuni consensi grazie alla professione di ideali ugualitaristici. Ma gli iniziali auspici non furono seguiti da un’effettiva compatibilità, e spesso i processi di collettivizzazione vennero percepiti come una deligittimazione di autorità riconosciute dalla popolazione. La situazione fu ancora più tesa in quelle zone, come il Tibet, ove le istituzioni politiche godevano di uguale riconoscimento in ambito religioso. In questo caso la rivoluzione politica e sociale fu anche profanazione e umiliazione del sacro, suscitando le principali resistenze popolari. L’ascesa del radicalismo e la Rivoluzione culturale non fecero che acuire la cesura: la campagna contro i «quattro vecchi» (si jiu: vecchia cultura, vecchio pensiero, vecchie abitudine, vecchie usanze) fu uno degli aspetti principali dei movimenti di massa nelle aree minoritarie e risultò nella distruzione, in molti casi indelebile delle tradizioni culturali locali. Le guardie rosse furono mobilitate per smantellare le «vecchie idee», la «vecchia cultura», i «vecchi costumi» e le «vecchie tradizioni», il che rappresentò una legittimazione della distruzione di un patrimonio incalcolabile nel nome della Rivoluzione, oltre che degli attacchi fisici ad autorità politiche e religiose locali.

COMMERCIALIZZAZIONE DELLE CULTURE 
All’inizio degli anni Ottanta fu introdotta l’epoca della liberalizzazione e della nuova tolleranza culturale, una fase storica della Rpc in cui ci fu un nuovo riconoscimento del pluralismo, se non politico (in particolare soffocato dopo le repressioni di Tian’an men) almeno culturale. L’idea dello sviluppo economico delle minoranze divenne il principale mezzo di legittimazione della nuova dirigenza. Tuttavia non portò i frutti sperati: la rinascita culturale non determinò la rifioritura di un patrimonio seppellito, in gran parte andato perduto, ma somigliò più a una rielaborazione delle tradizioni culturali alla luce di un mondo globalizzato.
Inoltre, l’apertura al turismo ed agli investimenti nazionali ed inteazionali è scaturita spesso nella «commercializzazione delle culture delle minoranze». Il turismo ad esempio ha fatto sì che in molti monasteri tibetani si siano sviluppati dei centri di vendita di oggetti di ispirazione religiosa prodotti su scala industriale e proposti come autentiche reliquie. Nel 2001 la Contea tibetana di Gyalthang (cinese: Zhongdian), allora popolata da 122.000 abitanti, vinse la concorrenza di altre località per assumere il nome di «Shangri-la». Da allora si è tramutata in un groviglio turistico che, negli obiettivi divulgati dall’Ufficio turistico locale, mira a raggiungere nel 2012 un traffico annuo di 5 milioni di turisti (lo spiega l’articolo di Matteo Miavaldi).
Anche lo sviluppo è rimasto per molti versi un ideale: ad un effettivo miglioramento delle infrastrutture fa da contraltare la questione della marginalizzazione: gli han sono spesso all’origine dei progetti di sviluppo nelle regioni minoritarie risultando, di conseguenza, anche i principali beneficiari in termini di ritorno economico, a scapito delle minoranze che sono rimaste legate ai sistemi tradizionali di sussistenza, subendo i processi di urbanizzazione e sviluppo economico.

Mauro Crocenzi

Mauro Crocenzi




Non solo han

Introduzione

In Cina, il paese più popoloso del mondo (1,4 miliardi di persone), ci sono 56 etnie. Di queste, 55 sono minoranze.

La casa è costruita interamente di legno: è composta da una grande stanza all’interno della quale ci sono un divano, alcune sedie e un poster che raffigura Mao Zedong, Deng Xiaoping e l’attuale presidente cinese, Hu Jintao. Al centro una stufa. Le due contadine che ci ospitano sono impegnate nella preparazione di un pasto: verdure raccolte nella passeggiata precedente, riso da bollire, altre verdure tagliate, crude. C’è anche una bambina, occhi fissi sulla televisione, immancabile, e mano ferma sul telecomando: sembra essere in grado di cambiare un canale al secondo. Fuori, le risaie di Ping’an, sud della Cina, regione del Guangxi, piccolo paese arroccato su colline, circondato da distese di terrazze: la «schiena del Drago», come vengono chiamate, mentre le schiene umane sono curve a lavorare, riparandosi da zanzare e da un sole che picchia e che rende arsa l’aria. All’ombra del legno è fresco, si prepara la tavola e si mangia insieme.
«Noi siamo yao», raccontano in mandarino le due signore, poi parlano tra di loro in dialetto e lo stupore taglia il cono d’ombra quando chiedono il nome delle verdure in mandarino ad un laowai, uno straniero. Loro parlano un’altra lingua, eppure sono cinesi.
Nell’immaginario collettivo i cinesi sono tutti uguali: le tante comunità – le chinatown così esotiche nel nome, ma spesso osteggiate – sparse per il mondo, i loro ristoranti, una stampa talvolta arruffona nel parlare di Cina in termini monolitici, quasi fosse un gigante stralunato appoggiato ai propri recenti successi, non aiutano a distinguerli. Eppure quelli che noi chiamiamo cinesi, sono solo una – la maggioritaria – della 56 etnie di cui è composto il paese, un continente. Ci sono gli han e altre 55 etnie, che rivendicano il proprio essere cinesi e le proprie peculiarità culturali. Chiedono riconoscimento delle proprie tradizioni, della lingua, all’interno dell’unione politica della Madre Cina.
È uno dei nodi della Cina contemporanea: gestire uno sviluppo economico che sappia creare l’armonia sociale: tra cinesi, tra han e le altre etnie, garantendo a tutti, senza differenze  e pregiudizi culturali, i frutti dello sviluppo economico. Una diatriba che a parole trova una sua collocazione nella Costituzione della Repubblica popolare, ma che nei fatti costituisce uno dei tanti dilemmi interni della Cina contemporanea. Uscendo dalle grandi città, Pechino, Shanghai e Canton, si arriva in posti che sembrano persi nei tempi andati della storia millenaria cinese: pertugi storici in cui si ritrova assimilazione, diversità, consumo e tradizione.
In questo dossier, proveremo a guardare al gigante asiatico con uno sguardo sbilenco e nuovo. Perché i cinesi non sono tutti uguali.

Simone Pieranni

Simone Pieranni




Cana (19) Il matrimonio al tempo di Gesù, nella Scrittura, nel Giudaismo

Il racconto delle nozze di Cana (19)

La Mishnàh (Qiddushìn – Matrimonio 1,1) insegna: «Una donna è acquistata (ebr.: qanàh;) in tre modi: con denaro, con contratto e con rapporti sessuali»; allo stesso modo si acquista uno schiavo (cf Mishnàh, Qiddushìn 3,1). È importante sottolineare il senso che gli Ebrei davano al matrimonio come «acquisto» della donna, perché la riprenderemo nell’esegesi che faremo del nome della cittadina dove «avvenne» lo sposalizio, cioè «Cana» che, etimologicamente, deriva dal verbo ebraico «qanàh» che significa «acquistare», da cui si capisce perché la Mishnàh parla di «donna acquistata».
Con le nozze la donna diventa «una proprietà» dell’uomo che, appunto, al momento di prenderla in casa, la compra versando il «prezzo» concordato alla famiglia di lei. In alcune parti, specialmente in campagna e nei villaggi c’era l’usanza che la dote versata dal fidanzato fosse corrispondente al «peso» della donna che, quindi, la famiglia faceva ingrassare l’anno di fidanzamento precedente il matrimonio. In ebraico «essere pesante» si dice «kabèd», che deriva dal sostantivo «kabòd» che vuol dire «gloria»; una persona gloriosa è una persona «pesante», cioè consistente, stabile, solida. Una persona magra, un capo, una donna, hanno poca consistenza e quindi valgono poco.
Il sogno di Dio
Fin dalla creazione il matrimonio è parte integrante del disegno di Dio, che crea un uomo e una donna perché insieme, uniti sessualmente, siano «immagine di Dio». In Gen 1,27 infatti si legge che «Dio creò Adam [= genere umano] a sua immagine, a immagine di Dio lo creò: “zakàr weneqebàch” li creò», dove l’espressione ebraica significa propriamente «pungente e perforata» che apre una prospettiva straordinaria sulla personalità «nuova» che realizza il matrimonio perché è nel rapporto sessuale che si manifesta in piena compiutezza l’immagine di Dio. È qui che trova il suo compimento e la sua maturità la «chiesa domestica» (Lumen Gentium, 11) che nell’intima unione degli sposi esprime e rivela profeticamente l’unità indissolubile del Padre, del Figlio e dello Spirito1. Non solo, ma il matrimonio monogamico è un richiamo costante al matrimonio di Dio e Israele, la nazione che Dio «si è acquistata» tra tutte le nazioni della terra (cf Es 15,16; Dt 7,6; 14,2; Os 2,21-22), allo stesso modo che la Chiesa, sposa di Cristo, è stata «acquistata» con il sangue di Cristo (cf At 20,28; Ef 5,23-24.32). Sul tema della nuzialità esclusiva, è sufficiente rimandare al Cantico dei Cantici che è l’inno esplosivo dell’amore senza fine.
Nella tradizione giudaica odiea, che affonda le sue radici in quella antica del midràsh (cf Genesi Rabbà 11,9), il venerdì sera, al tramonto, quando lo Shabàt entra nel tempo e nello spazio d’Israele, il popolo radunato nella sinagoga, intona il canto «Lekhàh Dodì – Veni, Amore mio», mentre tutta l’assemblea si volta verso la porta d’ingresso per accogliere lo «Shabàt» che incede come una fidanzata, una sposa che va alle nozze, accolta dall’Israele orante come una regina. Il giorno del Signore, segnato dalla nuzialità, permea e pervade ogni respiro, il tempo, lo spazio e anche l’anelito di ogni israelita. Questa personificazione della nuzialità sabatica è antica ed è testimoniata dal Talmud di Babilonia (cf Shabàt 119a)2. Il matrimonio è talmente importante per Israele che il sommo sacerdote non sposato non poteva presiedere la liturgia del giorno di «Yom Kippùr» (ddj, Marriage, 701). Non è un caso che la tradizione giudaica chiama il matrimonio «qiddushìn – santificazione» perché in esso si santifica il Nome di Dio, creatore e tre volte Santo (cf Is 6,3). Non è solo un contratto tra un uomo e una donna, ma l’attuazione del comandamento di Dio che dona, «conduce» Eva ad Adam, il quale la riconosce «carne e osso» di se stesso (cf Gen 2,22-23).
Nulla può essere anteposto al matrimonio che ha la precedenza anche sulla sicurezza di Israele, perché la Toràh stabilisce che il giovane appena sposato è esentato anche dal dovere militare: «Quando un uomo si sarà sposato da poco, non andrà in guerra e non gli sarà imposto alcun incarico. Sarà libero per un anno di badare alla sua casa e farà lieta la moglie che ha sposato» (Dt 24,5; cf 20,7).
Il matrimonio evento sociale
Di norma, il matrimonio si celebra al compimento della maggiore età, che al tempo di Gesù avveniva a 12 anni compiuti (quindi all’inizio del 13°) sia per la donna che per l’uomo, comunque mai prima della pubertà (Talmud, Sanhedrìn 76b), anche se i genitori potevano promettere i figli in sposa o sposo subito dopo la nascita.
Il matrimonio non era una scelta personale, ma un evento del gruppo e pertanto era sempre combinato dai rispettivi padri (cf Gen 24,35-53; 38,6). I figli minori non potevano rifiutarsi di sposare i contraenti scelti dalle rispettive famiglie, mentre la donna maggiorenne aveva voce in capitolo e poteva anche rifiutarsi.
Al tempo del secondo Tempio, quindi anche al tempo di Gesù, in due sole occasioni i giovani potevano scegliersi la moglie tra le ragazze: nella festa popolare del 15° giorno del mese di Av (agosto-settembre) e nella festa di Yom Kippùr (Mishnàh, Taanit – Digiuno 4,8): le ragazze, tutte vestite di bianco (per evitare che le povere fossero discriminate), andavano a danzare nei vigneti sotto lo sguardo attento dei ragazzi che potevano così scegliersi la moglie.
Una volta accettata la proposta di matrimonio da parte del padre della donna o, in sua assenza del fratello più anziano, si contrattava il prezzo (la dote), il mohàr, cioè la somma che lo sposo promesso doveva pagare alla famiglia della sua futura sposa. In questo modo ella «era acquistata» e diveniva proprietà esclusiva del marito, passando dalla sottomissione del padre a quella dello sposo. La legge giudaica mette in rilievo che nel matrimonio è l’uomo che sposa la donna, non viceversa.  
Il matrimonio festa popolare
Il matrimonio si celebrava, di solito, dopo un  anno di fidanzamento (cf 1Sam 18,17-19; Mishnàh, Ketubòt 5,2) senza alcuna cerimonia religiosa, trattandosi di un evento civile che solo i libri tardivi chiamano «alleanza» (cf Ml 2,4; Pr 2,17). Lo sposalizio  era, ieri come oggi, l’occasione di una grande festa durante la quale si cantavano canti d’amore in onore degli sposi (cf Ct 4,1-7) a cui seguiva un banchetto (cf Gen 29,27; Gdc 14,10) che di norma durava sette giorni (v. sotto).
Al tempo di Gesù, il matrimonio era considerato ancora uno strumento di alleanze tra famiglie, per cui gli inviti erano fatti con molta attenzione. Alla festa potevano partecipare anche ospiti di riguardo e di passaggio perché il matrimonio era una occasione di prestigio sociale per l’intero parentado. Poiché nulla doveva essere fuori posto, un ruolo importante avevano «gli amici dello sposo» (shoshbinìm) i quali, mano a mano che arrivavano gli ospiti, presentavano allo sposo i regali portati (shoshbinùt).
I regali erano importanti: venivano in un certo senso catalogati perché in occasione del matrimonio della famiglia che portava il regalo, lo sposo che lo aveva ricevuto doveva restituirlo nella stessa entità; in caso di inadempienza si poteva esigerlo per via legale. In questo senso non si tratta veramente di un regalo di nozze gratuito e libero, ma di una vera «partita di giro» che finiva per costituire una leva potente della economia dell’epoca. Le provviste di cibo e bevande, tra cui troneggia naturalmente il vino, non rientrano tra i regali, ma appartengono alla regola della cortesia parentale o del vicinato. Il Talmùd (Babà Bathrà 144b) però, tra i doni nuziali descrive giare piene di vino o di olio.
La durata della festa nuziale è di una settimana come avviene per Giacobbe e Lia (cf Gen 29,22. 17.28) per Gedeone e la moglie filistea di Timna (cf Gdc 14,12.14-15.17). Per le nozze di Tobia e Sara, in epoca post-esilio, si fa un banchetto di quattordici giorni nella casa di Raguele e Edna genitori di Sara nella città babilonese di Ecbàtana (cf Tb 7,1; 8,19-20; 10,7: mss BA) e altri sette giorni  nella babilonese Nìnive nella casa di Tobi e Anna, genitori di Tobia (cf 11,19: mss BA). Al tempo di Gesù, la Mishnàh prescriveva sette giorni: «Se ad uno sposo si manifesta una piaga, gli si concedano i sette giorni del banchetto, sia per lui che per la sua casa e per il suo vestito» (Nega’im 3,2; cf Talmùd Nega’im 21a). Questa prescrizione posticipa la dichiarazione di impurità dello sposo, tenendo conto della figura dello sposo, della famiglia e delle spese fatte (vestito). Ecco una prova bella di legge «umana», di un principio che s’incarna nella situazione concreta di una persona e non resta astratto.
Vi è discussione sul giorno della celebrazione per motivi che sarebbe lungo spiegare in un articolo. La Mishnàh (Ketubòt 1,1) stabilisce che esso si svolga il 4° giorno, cioè mercoledì, se la sposa è una vergine; se invece è una vedova al 5° giorno o giovedì. Il motivo è pratico: il tribunale si riuniva due volte a settimana, il lunedì (2° giorno) e il giovedì (5° giorno). Se la sposa non fosse stata trovata «vergine», il marito poteva appellarsi al tribunale il giorno dopo, accusarla di adulterio e pretendee la lapidazione. Il problema, naturalmente non si pone per la vedova, che poteva sposarsi il giovedì.
Durante l’occupazione romana (dalla fine sec. I a.C. ), invalse l’uso di anticipare il matrimonio al 3° giorno, cioè al martedì perché gli invasori spesso e volentieri prelevavano la sposa la notte stessa del matrimonio e la restituivano l’indomani, esercitando lo «jus primae noctis». Per questo motivo la tradizione dice: «Per quanto riguarda la vergine che doveva sposare il mercoledì, il nemico aveva deciso che fosse consegnata prima al governatore; per evitare questa umiliazione alla fidanzata, fu stabilito che le nozze si celebrassero il martedì. Una volta introdotta, tale usanza, rimase in vigore» (Talmud babilonese, Ketubòt 3b). La stessa sentenza si trova in altri testi: «All’epoca del pericolo (= dominazione romana) invalse l’uso di sposarsi al 3° giorno (= martedì), e i saggi non vi si opposero» (Mishnàh, Ketubòt 1,1; Talmùd Ketubòt 25c).
Stabilito in modo definitivo il «terzo giorno», si volle anche trovare un senso proprio, facendo riferimento al terzo giorno della creazione, descritto nella Genesi, e che è l’unico giorno in cui Dio creatore dà due benedizioni, una alle acque che chiama «mare», una all’asciutto che chiama «terra» e per due volte dice che «era cosa buona» (Gen 1,10.12). Quale giorno migliore per affermare la fecondità del matrimonio? (cf Dej, Marriage, 703).
Il matrimonio benedizione d’Israele
La festa di nozze iniziava al mattino presto in casa della fidanzata che i parenti vestivano con l’abito nuziale e le coprivano il volto con un velo che le nascondeva anche i capelli; le amiche della fidanzata le mettevano attorno ai fianchi una cintura. Solo alla sera, finito il primo giorno di festa, l’uomo poteva togliere il velo e sciogliere la cintura che simboleggiava la sposa «oamento dell’uomo» (Gdt 9,2; Ger 2,32; Pr 12,4; Ct 3,11).
Accompagnato dai suoi familiari, invitati e amici, lo sposo si dirigeva verso la casa di suo padre, dove si svolgeva lo sposalizio e la festa conseguente. Gli amici portavano anche alcune torce per illuminare la sera, perché non di rado si faceva anche tardi, se le trattative nuziali che terminavano con un contratto (ebr. ketubàh), fossero andate per le lunghe (cf 1 Mac 9,37-39; Mt 25,5-6). Anche la fidanzata partiva dalla casa patea per dirigersi alle nozze; nel lasciare la casa patea, accompagnata dalle damigelle d’onore, custodi della sua bellezza, intonava canti di lamentazione per il dispiacere di abbandonare la sua famiglia.
Il padre dello sposo benediceva la sposa con sette benedizioni, cioè con la pienezza della benedizione che esprimeva l’augurio della fecondità. Il termine «benedizione» in ebraico è «berakàh» la cui radice (B_R_K) ha attinenza con gli organi sessuali maschili che per gli antichi trasmettevano da soli la vita, mentre la donna era solo un’incubatrice per tenere caldo e far maturare il seme maschile3.
Essere benedetti significa, quindi, ricevere la capacità generativa; una donna, infatti, senza figli è una maledizione per la famiglia e per il popolo e viene considerata alla stessa stregua di una lebbrosa. Terminata la benedizione settenaria, il fidanzato consegna alla promessa sposa un anello o del denaro, mentre pronuncia queste parole: «Ecco, ora tu sei santificata per me, secondo la religione di Mosè e di Israele» (cf Tb 7,12-14).
Il termine «santificato/a» è importante. In ebraico «santo» si dice «qadòsh» ed è un attributo di Dio, proclamato in cielo e in terra: «Qadòsh, Qadòsh, Qadòsh – Santo, Santo, Santo» (Is 6,3; Ap 4,8); anche il tempio, che simboleggia la Presenza-Shekinàh nel suo insieme si chiama «Miqdàsh – santuario» (da santità), mentre la parte intea pubblica si chiama «Qadòsh/Qodèsh – Santo», e quella più intea del tempio, separata da un velo, dove è custodita l’arca dell’alleanza, si chiama «Qadòsh haqqadashìm – Santo dei Santi» (Es 26,33).
Questa santità che promana da Dio e dal luogo della sua presenza, almeno nel senso delle parole, è trasferita anche nel matrimonio che in ebraico si dice «Qeddushìm – santificazione/consacrazione» e come tutte le realtà «santificate», al momento delle nozze la sposa diventa consacrata al marito, cioè separata da tutto il resto per essere esclusività sua.
Cana: farina scelta per un pane pregiato
Da qui nasce il senso dell’unicità e indissolubilità del matrimonio che nel NT diventerà esplicito (Mc 10,9; Mt 19,6). Il matrimonio è così importante che per la tradizione ebraica del post-esilio  cancella tutti i peccati dell’uomo e ha la precedenza sullo stesso studio della Toràh (cf Dej, Marriage, 707).
Il primo rapporto sessuale avveniva la sera del primo giorno di festa, prima ancora che il matrimonio fosse ufficializzato perché il fidanzato doveva accertare che la donna fosse veramente vergine.  A questo scopo,  gli amici dello sposo restavano fuori della stanza nuziale in attesa che lo sposo venisse fuori con «i segni della verginità» (betulìm): un panno bianco macchiato del sangue della sposa, che veniva conservato gelosamente da ogni donna. Se la sposa non era vergine veniva immediatamente denunciata al tribunale, il mattino seguente e ripudiata: l’uomo poteva esigee la lapidazione per adulterio.
Molto succintamente abbiamo descritto lo svolgersi dello sposalizio al tempo di Gesù con annotazioni, usi e scenari. In un contesto sociale centrato esclusivamente sulla figura maschile, c’è poco da discutere. Oggi non potrebbe essere più così perché la concezione della donna non è di pura appartenenza all’uomo, ma donna  e uomo, insieme, sono immagine di Dio e insieme alla pari esprimono il mistero di Dio che è Amore perché nella nostra cultura la donna è andata acquistando in secoli di lento e costante processo una parità, almeno formale, che resta comunque sempre una meta, perché mai realizzata appieno.
Tutti questi fatti estei dicono però che il matrimonio per gli Ebrei era un dovere duplice sul piano strettamente religioso: obbedire al comando di Dio che chiama la coppia alla fecondità generativa (cf Gen 1,28) e aumentare figli per la casa di Israele. Partecipare alla festa nuziale era sentito come un dovere religioso «obbligatorio» perché veniva inteso come una partecipazione all’atto creativo di Dio che associava a sé creatore, la nuova coppia chiamata a generare nuovi figli.
È logico e naturale pensare che sul matrimonio come evento sociale e fondamento del futuro di Israele si sviluppasse una teologia profonda basata sui simboli. Lo sposalizio tra un uomo e una donna diventa istintivamente il simbolo delle nozze di alleanza tra Dio e Israele. Dio è lo sposo e Israele è la sposa. I profeti utilizzeranno molto questa simbologia, specialmente il profeta Osea che addirittura ne fa una parabola della sua vita come profezia vivente dell’agire di Dio così innamorato del suo popolo che lo ama anche quando si prostituisce nell’idolatria (cf Os 1,2-3,5). L’amore di Dio è un amore senza contropartita perché egli non ama per suo interesse, ma ama perché «Dio è Amore» (1Gv 4,8).
Le nozze di Cana sono state un fatto vero a cui fu invitata la madre di Gesù e probabilmente Gesù vi prese parte con i suoi discepoli perché di passaggio per la sua regione, un passaggio che come vedremo, l’autore legge in modo simbolico perché non va solo lui, ma si porta dietro «gli amici dello sposo», i suoi discepoli. Forse la famiglia degli sposi aveva un qualche rapporto di parentela con quella di Gesù. Nulla sappiamo di certo. Sappiamo solo che in queste nozze, così importanti per la vita di un villaggio ebraico del primo secolo, manca del tutto la sposa e lo sposo è citato due volte per mettere in evidenza la sua improvvida organizzazione. È evidente che Giovanni partendo dal fatto storico ordinario nella sua consuetudine, vuole portare il lettore ad un livello di senso più profondo e più grande: ad approfondire il significato simbolico delle nozze dell’alleanza che con Gesù assume un valore nuovo ed eterno (cf Ger 31,31). Crediamo che al racconto dello sposalizio di Cana si possano attribuire le parole con cui il midràsh presenta il Cantico dei Cantici:
«Un re diede a un mugnaio un moggio (= 450 litri) di frumento, e gli disse: “Ricàvane dieci staia (= 150 litri) di farina scelta. Poi toò e gli disse: “Dalle dieci staia ricàvane sei”. E Poi: “Dalle sei, ricàvane quattro”. Così il Santo – benedetto Egli sia – dalla Toràh scelse i profeti, dai profeti gli agiografi, e ultimo dopo tutti fu scelto il Cantico dei Cantici»4.
Come il Cantico, anche il racconto dello sposalizio di Cana è il succo del succo di tutta la salvezza che entra nella storia ed esprime nella sua densità il cuore stesso dell’intera rivelazione: l’amore di Dio per il suo popolo, segno dell’amore a perdere di Dio per l’umanità intera, di cui il simbolo è la relazione uomo donna, l’esperienza umana più radicale di conoscenza che esiste in natura.
(19 – segue)

Paolo Farinella

1 – Cf P. Farinella, Bibbia, parole, segreti, misteri, Gabrielli editori 2009, 37-47.
2 – Per l’approfondimento cf Dej ad «Lekhàh Dodì», 639.
3 – Cf Bibbia, parole, segreti, misteri, pp. 61-65.
4 – Cantico Zuta, 1,1; cf U. Neri, Il Cantico dei Cantici. Targum e antiche interpretazioni ebraiche, Roma 1987, p 54.

Paolo Farinella




Pelle nera, cuore indio

Nabasanuka: evangelizzazione e culture

Padre Josiah K’Okal, missionario fra gli indios warao, del Venezuela, ci parla della sua comunità, dei progetti, delle sfide, ma anche del grande entusiasmo con cui affronta quotidianamente il suo lavoro di pastore nel delta del grande fiume Orinoco.

Josiah, sono passati ormai quattro anni da quando ci hai raccontato gli inizi della vostra missione nel delta del fiume Orinoco (cf. MC, marzo 2007). Sarebbe ora di fare il punto della situazione. Per esempio, ti avevamo lasciato alle prese con il sogno di costruire un salone multi-uso per la tua comunità, che ne è stato di quel progetto ambizioso?

Ambizioso, hai detto bene: infatti, continua ad essere un sogno. Alcune organizzazioni ci hanno aiutato con diversi progetti, ma poche di esse si sono impegnate con costruzioni perché il lavoro risulta essere troppo costoso. Il problema è rappresentato dal trasporto del materiale che avviene esclusivamente per via fluviale. Tuttavia, il salone resta una priorità.
La struttura del popolo warao è cambiata; un tempo le comunità erano «comunità-famiglia», numericamente ridotte, e quindi in grado di trovare facilmente posti in cui incontrarsi. Oggi questo è impossibile ed è necessario identificare luoghi dove recuperare l’abitudine a ritrovarsi, raccontare la propria storia, insegnare le tradizioni ai più giovani e ai bambini. Vorremmo anche creare una specie di biblioteca-museo della cultura warao all’interno dello stesso salone. Dovrebbe diventare un posto dove i warao possano investigare le radici della propria cultura. Il sogno c’è, un giorno si realizzerà.

Lo stato non potrebbe dare una mano? Mi sembra che la politica dell’attuale governo sia abbastanza aperta alla difesa del patrimonio indigeno.
Dobbiamo riconoscere che questo governo si è sforzato più di altri nel dare uno spazio e un riconoscimento ai popoli indigeni. Sono anche stati investiti più fondi nella costruzione di scuole. Questo non solleva però il governo dalle sue responsabilità. Mi spiego: nel comune Antonio Diaz, dove sorge la missione di Nabasanuka, vi sono quattro scuole secondarie. Quando arrivammo, nel 2006, ne esistevano soltanto due, mentre altre due hanno aperto recentemente. È un fatto apparentemente positivo, ma quando si va a guardare nel concreto si nota che, per esempio, mancano moltissime cose fondamentali, a partire dalle strutture. Parlo per esperienza personale, dato che io stesso insegno inglese in una di quelle scuole: non abbiamo aule, non abbiamo una sede propria. L’unico modo per garantire il normale svolgimento delle lezioni in uno spazio che sia idoneo è ritrovarci di pomeriggio nelle aule della scuola elementare. L’istituto è a carattere scientifico e non abbiamo laboratori, né di chimica, né di fisica, tanto meno di informatica. Mancano i libri di testo e se voglio usare il gesso per la lavagna me lo devo comprare di tasca mia. I professori sono pagati, ma come maestri di scuola primaria; nessuno riceve uno stipendio di scuola superiore. Continuano a a lavorare solo perché ci credono. Ho qui sul computer due rapporti inviati in passato al ministero dell’Educazione, ma … nulla, non ci hanno degnati neppure di una risposta.

E per quanto riguarda la salute?

In Nabasanuka c’è un ambulatorio di quelli che chiamiamo «Centro di attenzione integrale di secondo livello», che secondo la legislazione del Venezuela prevede la presenza di un medico residente. Ne abbiamo avuto qualcuno in passato, ma oggi non più. Inoltre, non ci sono farmaci; a volte riceviamo la visita di medici di passaggio e non hanno medicine con cui trattare i pazienti.
Quello della salute è un vero problema: per andare da Nabasanuka a Tucupita, che è la capitale dello Stato e sede dell’ospedale a cui fare riferimento, un’imbarcazione normale impiega almeno quattro ore. Se il motore della barca è meno potente se ne possono impiegare anche sei e, inoltre, a Nabasanuka non abbiamo un’ambulanza fluviale. Abbiamo prestato anche l’imbarcazione della missione per portare pazienti, ma più di una volta abbiamo dovuto constatare con molto dolore la morte di persone che si sarebbero salvate se avessero avuto l’opportunità di essere trasferite tempestivamente all’ospedale.
E poi c’è la tragedia del combustibile…

In che senso?

Devi partire dal presupposto che per i warao l’unico mezzo di comunicazione e trasporto è il motoscafo e lungo il fiume ci sono moltissime imbarcazioni a motore. Bisogna riconoscere che il Goveo ha fatto investimenti affinché le comunità indigene abbiano più imbarcazioni e si possano muovere più agevolmente per il fiume, ma alle barche serve la benzina e qui sta il problema. Nei caños, ovvero nei canali del delta, c’è un solo luogo oltre a Tucupita dove si può comprare combustibile, e bisogna a volte fare code di quattro giorni per poterlo acquistare. Ecco allora che nella stessa Tucupita c’è chi lo vende al mercato nero, evitandoti lunghissime attese ma facendo pagare fino a dieci volte il prezzo corrente. Ci sarebbe anche un altro posto più vicino, Curiaco, ma la gente preferisce a volte andare fino a Tucupita perché Curiaco si trova vicino al confine con la Guyana inglese; lì c’è molto contrabbando e traffico di carburanti e uno corre il rischio di andarvi senza riuscire ad approvigionarsi.
Per rispondere alla domanda iniziale: il governo ha una chiara linea a favore degli indigeni, la qual cosa è positiva; ma, allo stesso tempo, queste buone intenzioni non vengono tradotte in pratica dalle autorità locali. Ci si ricorda dei warao in tempo di campagna elettorale; allora sì che c’è una presenza continua dei politici… ma dopo?

La missione dovrebbe tenere una proiezione verso la città. Come state vivendo questa sfida

Ormai i warao non si trovano più soltanto nei canali del delta. Oggi si muovono seguendo flussi migratori di vario tipo. Ci sono coloro che emigrano per sempre e vanno in città, convinti che la vita sull’Orinoco non porterà loro alcun futuro. Poi ci sono quelli che emigrano perché vogliono fare studiare i loro figli e non possono mandarli in città da soli. Una caratteristica sorprendente dei warao è che sono capaci di spostarsi con tutta la famiglia, arrangiarsi con qualche lavoretto, tirarsi su una baracca alla bene e meglio, pur di accompagnare due figli che vanno a fare le scuole superiori in città. Terzo, ci sono quelli che vanno e vengono. Si spostano soprattutto per motivi di salute, visto che nel delta non ci sono centri di attenzione medica, oppure per incassare soldi che lo stato deve loro, come il personale infermieristico o gli insegnanti che vanno a ritirare lo stipendio. Il paradosso, cosa che trovo sommamente ingiusta, è che la gente spende per andare in città gran parte dei soldi che va a incassare. È mai possibile che non si possa trovare il sistema di fare arrivare i pagamenti direttamente a Nabasanuka e negli altri centri all’interno del delta?
Infine ci sono quelli che vanno temporaneamente a chiedere l’elemosina. Per il warao andare a chiedere l’elemosina non è propriamente mendicare, ma piuttosto un vero e proprio lavoro. Del resto, per loro tutto viene dalla natura e se qualcuno ha di più deve condividerlo con chi non ha. Una volta in città le donne e i bambini vanno a chiedere l’elemosina, mentre gli uomini rimangono a casa a guardare la baracca che si sono costruiti oppure vanno in giro a cercare di guadagnare qualche bolivar. Le famiglie si fermano in città un mese o due, il tempo di raccogliere un po’ di soldi, qualche vestito che la gente dà loro, e poi ritornano alla loro comunità. A volte si spingono fino a Caracas.

Non c’è il rischio che l’indio emigrante perda i suoi valori culturali e religiosi?

In effetti ci siamo resi conto che i warao che andavano in città non frequentavano più la chiesa, mentre nelle loro comunità sono fedelissimi a tutte le funzioni. Appena arrivano in città iniziano invece a vedere la chiesa come un qualcosa che appartiene al criollo, al bianco, qualcosa che non sentono più loro.
La migrazione crea molte baraccopoli, cresciute ai margini della città; e lì, oltre al lavoro pastorale, c’è molto da fare nell’organizzare le nuove comunità. Occorre infatti accettare il fatto che sono nuove realtà, cresciute in un contesto urbano e che come tali vanno trattate. È nata da questa presa di coscienza la nostra decisione di andare in città. Oggi, un missionario della Consolata, padre Zachariah Kariuki, keniano, vive a Tucupita e lavora in questo settore. La sua presenza è importante affinché i warao possano sentirsi accompagnati, fare chiesa. Nel nostro piano pastorale cerchiamo anche di includere elementi della loro spiritualità tradizionale, come la cura della natura, l’ecologia, perché tutta la loro vita di popolo è nata totalmente immersa nella natura. È importante aiutarli a pensare come possono vivere oggi in una città, senza i loro fiumi e con la presenza dell’inquinamento: una bella sfida.

Come la spiritualità warao influenza lo stile missionario?

Il warao è molto rispettoso del divino. Alcuni antropologi affermano che i warao non hanno Dio, ma nei miei pochi anni di esperienza ho scoperto di avere a che fare con un popolo profondamente spirituale, che vive il rapporto con l’essere supremo sullo stile dell’Antico Testamento, con grande paura del castigo che può essere comminato, ma anche con grande rispetto.
In secondo luogo, secondo la loro cosmovisione, tutto merita di essere rispettato e trattato con dignità perché ogni cosa ha il suo spirito: l’acqua ha il suo spirito, la foresta ha il suo spirito… Ne consegue che uno non può entrare in una selva e iniziare a tagliare alberi così come gli pare, perché, se lo fa, può venire castigato dallo spirito della foresta.
Per i warao la vita è una sola realtà. Noi, che siamo intrisi di cultura occidentale, tendiamo a frammentare la vita, distinguendo per esempio ciò che è politico da ciò che è invece religioso, economico. Essi, al contrario, hanno una visione olistica della vita. La chiesa non è vista soltanto come un luogo dove la gente va a pregare, ma come uno spazio dove la comunità si incontra in assemblea.
Un altro elemento importante è la fiducia. Il warao è una persona che dimostra la fiducia che nutre in te e, di conseguenza, si aspetta che tu ce l’abbia nei suoi confronti. Nel nostro lavoro siamo quindi chiamati, come missionari, a dimostrare che noi vogliamo loro bene, ma anche che abbiamo fiducia in loro.
La famiglia occupa un luogo simbolico importante nella comunità warao. La prima cosa che un warao ti chiede, anche un bambino, è il tuo nome, poi il nome dei tuoi genitori, quanti fratelli hai… e hanno una memoria tremenda perché qualsiasi nome tu dica loro, se riguarda la tua famiglia, viene ricordato. La famiglia dorme in una sola casa. Risulta per esempio molto strano ad essi che noi e le suore dormiamo ciascuno nella propria stanza. Il valore warao della famiglia ha influenzato molto il nostro stesso modo di vivere. Viviamo con ciò che è necessario, cercando di condividere uno stile povero e semplice, cercando di condividere molto il poco che abbiamo.

Parlando della famiglia, parliamo anche della vostra famiglia. Pur riservandovi spazi fisici separati, avete creato una comunità di vita fatta da missionari e missionarie della Consolata, in linea con le scelte dei nostri istituti. Cosa ci puoi raccontare al riguardo?

Ciò che fino ad oggi siamo riusciti a costruire a Nabasanuka è stato il frutto di una riflessione e di un cammino fatto insieme, un progetto dinamico che si è venuto realizzando poco a poco. In teoria si erano fatte delle ipotesi, poi la realtà ci ha insegnato qualcosa di diverso.
Quando le sorelle arrivarono, il piano prevedeva la costruzione di una casa per loro, da eseguirsi il prima possibile. Ricordo bene il momento in cui ricevetti una lettera da Suor Ivana, una delle tre missionarie italiane che con padre Wilson, brasiliano, e il sottoscritto formano la nostra comunità. Ivana mi scriveva: «Abbiamo deciso che non è conveniente costruire una casa indipendente, ma preferiamo costruire una piccola estensione della casa attuale e continuare a vivere insieme». Quella lettera conteneva una delle decisioni più sagge da noi prese nel corso della nostra esperienza missionaria. Viviamo in mezzo a un popolo molto semplice e povero e avere due case, con strutture complicate, non era ideale per l’ambiente in cui ci trovavamo a vivere. Una volta salvaguardati gli spazi personali, il resto si poteva provare a condividere. Eravamo convinti che il nostro modo di vivere sarebbe stato più eloquente di tante parole.
Volevamo fare un’esperienza che fosse più di un semplice lavoro in équipe; una vera e propria comunità: preghiamo insieme, pianifichiamo insieme, cuciniamo e laviamo insieme le nostre cose, condividendo ciò che appartiene alla vita quotidiana di ogni famiglia.
Facciamo tutto noi, al punto che l’unico impiegato della missione è colui che guida la barca.
Una delle chiavi del successo del nostro stare insieme è stata quella di provare a condividere da subito la nostra storia: «Chi sei tu, da dove vieni, che cosa hai fatto finora?». Questo esercizio ci ha aiutato molto, ci ha fatto arrivare al cuore l’uno dell’altra. Una delle cose molto belle di cui facciamo oggi tesoro è che quando uno di noi non c’è per una ragione o per l’altra, il resto della comunità ne sente la mancanza. Per noi hanno contato l’esperienza, l’apertura all’altro, il lavorare insieme, il voler vivere fianco a fianco ed accettarci per quello che siamo. Ci siamo resi immediatamente conto, sin dall’inizio, che avevamo dei pregiudizi reciproci, ma abbiamo avuto la forza e la saggezza di condividerli. Questo ci ha fatto sperimentare la nostra umanità e la nostra fragilità, aiutandoci a riconoscere che abbiamo ricevuto una formazione differente e veniamo da culture differenti.

Come hai vissuto da africano in quel contesto?

Ti racconto un aneddoto. Ero a Nabasanuka da circa tre mesi. In una cittadina vicino a Tucupita, dove vanno molti warao, viveva un sacerdote che io ancora non conoscevo. Un giorno ci incontriamo e lui mi dice: « Ah, tu sei K’Okal, il famoso K’Okal». «Famoso perché?». «Sai – mi risponde – sono venuti alcuni da Nabasanuka a dirmi che avevano un problema serio: era arrivato un padre negro! Al che ho chiesto loro qual era il problema, se li maltrattavi o mancavi loro di rispetto». «No No – è stata la risposta –  assolutamente. È solo che è davvero “molto” negro».
Questo popolo non aveva mai visto un sacerdote nero. Anzi, i pochi neri con cui erano entrati in contatto erano gente della Guyana, passata di lì rubando motori, comprando la loro roba per niente, sfruttandoli. Chiaro che c’era una certa repulsione nei confronti del colore della mia pelle. Oggi mi chiamano bare mekoro, padre negro, ma lo dicono con moltissimo affetto.
Credo che al di là del colore, la missione offra sempre e a tutti la possibilità di fare lo stesso tipo di esperienza.  Ciò che le persone cercano in un missionario è una persona che sappia farsi fratello nella realtà in cui vivono, accettandole, aprendo loro il suo cuore.
A livello personale, ti posso dire che da quando sono arrivato a Nabasanuka sono cresciuto nella consapevolezza di essere luo, di appartenere a questa cultura del Kenya in cui sono nato e cresciuto. Questo mi aiuta non poco nel momento in cui mi relaziono con la cultura indigena. Il popolo warao è stato sfruttato, da sempre, anche a livello culturale e l’autostima di molti è finita sotto i tacchi. Un giorno ero in città, in banca, quando improvvisamente mi sono imbattuto in una donna warao che conoscevo; era una professionista, oggi deputata dipartimentale. Pensando di farle un piacere mi sono avvicinato e le ho rivolto la parola con il poco warao che avevo appreso e lei, acidamente, mi ha redarguito per averle parlato nella sua lingua in pubblico, in città. Le provocava vergogna. Questa è stata un’esperienza che mi ha nel contempo ferito e fatto riflettere. Vorrei che la gente indigena si sentisse fiera, orgogliosa e felice di essere ciò che è. Per questo mi sento luo e sono contento di esserlo, di tornare a casa e poter parlare la mia lingua, leggerla, usarla nella liturgia.
Il mio sentirmi tale ha fatto sì che oggi possa dire loro che è possibile imparare lo spagnolo, l’inglese, ciò che si vuole, senza perdere ciò che è proprio e, anzi, sentendosi orgogliosi di ciò che per cultura ti appartiene.
Se non aiutiamo queste culture a conservarsi, possono rapidamente perdersi. In un ambiente, come quello indigeno, il ruolo del missionario è estremamente delicato. Io credo che se un domani si dovesse perdere la cultura del popolo a noi affidato, Dio ce ne chiederà conto. Un politico può visitare frequentemente una comunità al fine di conquistae il voto, può anche costruirsi una casa in mezzo ad essa, ma il suo modo di vivere sarà sempre distinto da quello della gente. Il missionario può avvicinarsi di più al cuore vitale di un popolo perché è stato inviato a condividere con esso la Parola di Dio, e anche la sua stessa vita.

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Diamo un calcio alla dittatura

Intervista ad Aung San Suu Kyi

La liberazione di Aung San Suu Kyi, agli arresti domiciliari per 15 anni, è di buon auspicio per il ritorno alla democrazia. Un cammino che richiede alla «Signora» di cambiare strategia: ricompattare il partito, dialogare con i militari, rispondere alle minoranze etniche, non inimicarsi la Cina. Ma l’Occidente deve mutare atteggiamento.

I sette giorni che cambiarono il Myanmar. Così potrebbe passare alla storia, nel Paese asiatico, la seconda settimana di novembre 2010. Alle prime elezioni dopo vent’anni tenutesi domenica 7, è seguita, ad appena sei giorni di distanza, la liberazione, tanto attesa quanto insperata, di Aung San Suu Kyi.
Pur rivelandosi un bluff istituzionale, le consultazioni generali hanno mostrato che la giunta militare sta cercando di riaprire la «road to democracy», il percorso politico e sociale che dovrebbe traghettare il Myanmar verso un regime democratico e pluralista.
Il rilascio della leader del movimento democratico birmano sarebbe la seconda importante tappa di questo tragitto, peraltro sconnesso e ricco di incongruenze.
«sgraditi» i giornalisti
Una di queste contraddizioni l’ho sperimentata direttamente, allorché, a poche ore dall’apertura dei cancelli della sua villa sul lago Inya, ho potuto avvicinare la «Signora», come viene spesso soprannominata Aung San Suu Kyi in Myanmar.
L’incontro avrebbe dovuto essere un primo approccio per un’intervista più estesa e dettagliata, per cui avevamo già concordato tempi e modalità, che però non ha mai potuto avere luogo. Il severo controllo del regime sull’informazione, atta a filtrare ogni notizia che trapela dal Myanmar, si è tramutato in un’immediata espulsione dal Paese. «Il visto turistico non permette di effettuare servizi giornalistici» è stata la spiegazione data da uno dei due funzionari che mi ha notificato l’allontanamento dalla nazione.
In effetti, il solo fatto di essere riuscito a ottenere un visto d’entrata a ridosso delle elezioni, dopo che le ambasciate di Roma, Bangkok, Singapore e Kuala Lumpur me lo avevano negato in quanto «persona non grata», è stato un successo. L’essere riuscito, tra mille difficoltà e continui cambi di hotel per non essere rintracciabile dalla polizia, a seguire tutto il percorso elettorale fino a incontrare Aung San Suu Kyi, è stato un ulteriore trionfo.
libertà senza compromessi
Dell’incontro con Aung San Suu Kyi riporto le poche frasi che ci siamo scambiati.
Finalmente libera. Ci credeva o pensava che la Giunta ritirasse all’ultimo momento anche questa promessa?
«Non mi sono mai posta il problema. La giunta e io abbiamo idee contrapposte sulla democrazia e ho sempre sostenuto che la mia libertà non dovesse essere un pegno utilizzato dalla giunta per raggiungere compromessi».
Libertà significa anche azione, responsabilità e quindi essere oggetto di critiche. Cosa farà come prima cosa?
«Vorrei girare il Paese, incontrare gente, sentire i problemi direttamente da loro. Fare, insomma, quello che ho sempre fatto quando la Giunta me lo permetteva».
In carcere ci sono ancora più di 2 mila prigionieri politici: la sua liberazione non rischia di far dimenticare al mondo queste persone dai nomi meno noti del suo?
«Ha ragione, la mia libertà non deve far dimenticare questi difensori della democrazia che, per le loro idee, sono ancora incarcerate e io mi batterò affinché anche loro possano vedere aprirsi le spranghe delle celle».
La Lega Nazionale per la Democrazia non si è presentata alle elezioni e quindi non avrà nessun rappresentante al Parlamento. Come pensa di continuare la sua lotta politica dall’esterno?
«Il problema non è l’assenza dei nostri rappresentanti al Parlamento. Del resto la nostra posizione è stata chiara fin dal principio: chi l’avesse voluto, poteva candidarsi liberamente alle elezioni. Il problema però, è che le consultazioni del 7 novembre, così come la costituzione, si sono dimostrate un colossale imbroglio. Parteciparvi significava accettare la costituzione e ingannare il popolo. Noi abbiamo scelto di stare dalla parte della democrazia e della verità».
Ma L’intransigenza non paga
Le poche frasi scambiateci e le successive interviste rilasciate a media inteazionali e locali, mostrano che Aung San Suu Kyi è sempre più determinata a continuare l’attività politica che le è valsa la popolarità mondiale e un Premio Nobel per la Pace nel 1991. Govei di tutto il mondo e organizzazioni a favore del movimento democratico birmano hanno salutato, a ragione, la liberazione di Suu con soddisfazione.
Ma valutando attentamente ciò che la Lady ha sino ad oggi detto, appare chiaramente un mutamento della sua prospettiva politica. Sembra che i lunghi anni di segregazione le abbiano insegnato che per cambiare il regime dei generali non serve il pugno di ferro, ma una tattica vincente, prerogativa indispensabile per ogni politico, che a lei, però, è sempre mancata.
All’interno della Lega Nazionale per la Democrazia (Lnd), il partito da lei fondato nel 1988, sono sempre più numerosi coloro che si chiedono quali frutti abbia portato l’intransigenza mostrata sino ad oggi dal Segretario generale. Troppe, infatti, sono le occasioni mancate, a partire dal fallimento dei colloqui con Khin Nyunt, nel 2003, considerato da molti, e a ragione, come l’unico militare in grado di cambiare le sorti della nazione.
Pur continuando a rappresentare la maggioranza dell’elettorato birmano, l’Lnd sta perdendo pezzi. Un primo gruppo è stato espulso dalla stessa Aung San Suu Kyi nel 1997, un secondo, più consistente, nel 2003 all’indomani della rottura dei negoziati con Khin Nyunt, allora numero uno della giunta militare e principale interlocutore con il movimento democratico. Nell’ottobre 2008, cento membri dell’ala giovanile dell’Lnd hanno lasciato il partito perché il nepotismo non lasciava loro spazio; infine, nel maggio 2010, un altro gruppo di dissidenti guidato da Khin Maung Shwe, ex portavoce e membro del Comitato Centrale, ha deciso di formare il National Democratic Force per partecipare alle elezioni di novembre, contravvenendo alle decisioni del partito di boicottare le votazioni.
«Gli ideali e i principi di democrazia e di giustizia di cui sono intrisi gli animi delle persone che formano il nucleo storico della Lega Nazionale per la Democrazia, purtroppo si stanno dissolvendo» spiega Raymond Sumlut Gam, vescovo di Bhamo, che continua: «Molti membri che negli ultimi anni sono entrati nella Lega non sono poi molto differenti dagli amministratori militari che abbiamo oggi».
Occorre, a questo punto, chiedersi cosa succederebbe se improvvisamente Aung San Suu Kyi o un membro del movimento per la democrazia, potesse assumere le redini del governo. «Il popolo pretenderebbe cambiamenti radicali immediati che nessuno, attualmente, sarebbe in grado di garantire» afferma un diplomatico occidentale. «Ci sarebbe il rischio di un malcontento diffuso e la rabbia crescerebbe assieme al sentimento di frustrazione e di disperazione. Il Paese sarebbe seriamente esposto a disordini sociali» conclude il diplomatico, che pur rappresentando un governo che critica aspramente il regime militare, non esita ad esprimere il suo scetticismo su un improvviso cambiamento di regime.
strada molto diplomatica
La diplomazia, si sa, viaggia sempre su piani paralleli: ciò che viene detto quasi mai rispecchia la reale conduzione politica che viene discussa a porte chiuse.
Molto probabilmente è quanto accaduto con Aung San Suu Kyi. Non a tutti è piaciuto quanto la leader della Lega Nazionale per la Democrazia ha detto appena liberata. La richiesta di dialogo e di incontro con Than Shwe a molti, specialmente a coloro che nel 2003 erano stati espulsi dal partito per aver criticato l’intransigenza di Aung San Suu Kyi verso Khin Nyunt, è apparsa un voltafaccia inconcepibile: «Than Shwe è il militare più ottuso e incapace che abbiamo mai avuto: perché ora Aung San Suu Kyi decide di voler aprire un negoziato con lui quando con Khin Nyunt ha interrotto le trattative?» si chiede polemicamente Zaw Lin Oo, del Myanmar Democratic Congress, un partito formato principalmente da esponenti democratici e attivisti birmani.
Anche l’assoluzione data alla Cina riguardo al suo coinvolgimento nella gestione economica delle risorse del Myanmar, è apparsa a molti incomprensibile. La dichiarazione secondo cui «non vi è alcuna prova che la Cina stia depredando le ricchezze della Birmania» ha dell’incredibile, se non dell’eresia, soprattutto per le centinaia di organizzazioni che in Occidente da anni si battono a fianco del Premio Nobel per la Pace e che hanno sempre sostenuto che Pechino, uno dei principali alleati di Naypyidaw, sia complice di un bracconaggio economico ai danni del popolo birmano.
Pur essendo stata agli arresti domiciliari negli ultimi sette anni, Aung San Suu Kyi non può non sapere che la più grande economia asiatica è pesantemente coinvolta nel depauperamento delle risorse naturali birmane. La Signora ha semplicemente capito che la chiave della svolta politica nel suo Paese si trova proprio in Cina ed è con essa, più che con i governi occidentali, che dovrà trovare un modus vivendi.
Lo stesso governo cinese ha tutto l’interesse affinché il processo di democratizzazione proceda in Myanmar. La Cina, come hanno dimostrato i recenti conflitti etnici del Kokang nel 2009 e negli stati Kayan e Mon nel novembre 2010, è indispensabile affinché i gruppi minoritari abbiano un interlocutore valido e affidabile. Aung San Suu Kyi, in quanto bamar e figlia di Aung San, che non gode di buona fama tra le etnie del Myanmar, non ha potere sulle periferie del Paese. Una svolta democratica che non escluda a priori i militari, indispensabili per mantenere unita la nazione, è quindi necessaria affinché non si ritorni sull’orlo dell’instabilità etnica. E la Cina potrebbe fare da mediatore tra il governo centrale, i movimenti democratici e le spinte autonomiste delle minoranze etniche.
boicottaggio: non serve più
A una studiosa di storia come Aung San Suu Kyi non è certamente sfuggito l’insegnamento delle vicende passate della nazione birmana: tutto, nel Paese, può essere rimesso in discussione in brevissimo tempo. Dal 1988, anno in cui rientrò in patria per assistere la madre morente, Aung San Suu Kyi ha trascorso 15 anni agli arresti domiciliari, venendo liberata in diverse riprese, per poi ritornare coercitivamente alla sua villa al N. 54 di University Avenue.
Gli stessi generali non sono immuni da improvvise defenestrazioni: Ne Win, il compagno dell’eroe nazionale e padre di Suu Kyi, Aung San, e protagonista del putsch che nel 1962 pose fine alla breve parentesi democratica birmana, è morto agli arresti domiciliari e il suo successore, Khin Nyunt, è tuttora segregato nella sua dimora a Yangon.
Than Shwe e Maung Aye, rispettivamente numero uno e due del regime, sanno che, giunti oramai alla fine della loro carriera, le piaggerie di cui sono stati circondati sino ad oggi, potrebbero tramutarsi in ostilità. I due generali stanno quindi preparando il terreno per una pensione tranquilla e ricca, per sé stessi e per i loro accoliti, ritagliandosi probabilmente un posto puramente onorifico all’interno del nuovo assetto istituzionale.
Anche sul boicottaggio economico e turistico, Aung San Suu Kyi si è detta pronta a rivedere le sue posizioni, «se il popolo vuole veramente che queste siano cambiate». Haral Bockman, presidente del Norwegian-Burma Committee e presidente della Democratic Voice of Burma, afferma che, «guardando nel passato, il solo Paese dove l’embargo ha avuto successo nel cambiare politica, è stato il Sud Africa. In altre nazioni, come Iraq o Iran, il boicottaggio non ha portato a nulla. Ma in Birmania i generali sono imbevuti di nazionalismo e un’apertura economica verso il Paese asiatico, potrebbe radicare ancora di più questo sciovinismo».
Eppure, viaggiando per il Myanmar, risulta chiaro che, specialmente nel campo turistico, la popolazione accoglie con favore l’arrivo degli stranieri, specialmente quelli che arrivano individualmente. «Chi è favorevole all’embargo non è mai stato in Birmania, non ha mai parlato con un birmano, non ha mai visto le condizioni in cui viviamo» polemizza Ka Bawi, uno studente di Mawalamyine, sulla costa orientale del Paese.
Del resto all’interno stesso della Lega Nazionale per la Democrazia, non ci sono visioni unanimi sul boicottaggio. La stessa Aung San Suu Kyi nel 1985 ha scritto un libro dal titolo inequivocabile: Let’s go to Burma. Ha Yanghwe, figlio del primo presidente della Repubblica Birmana e direttore dell’Euro-Burma Office di Bruxelles, interrogato sulla questione, ha dichiarato che «i turisti che visitano il Paese tramite agenzie di viaggio locali private o hotel non statali, possono essere utili perché interagiscono con la gente; ma quelli che utilizzano agenzie governative o arrivano con pacchetti turistici, generalmente visitano solo monumenti e si godono il sole sulle spiagge. Questo è un turismo di cui beneficiano solo i generali ed è questo ciò che noi non accettiamo».
Anche l’ovest deve cambiare
Una voce controcorrente proviene dalla Chiesa cattolica: l’arcivescovo di Yangon, mons. Charles Bo, dice che «ufficialmente siamo contrari all’embargo, non solo per il Myanmar, ma per tutti i Paesi. È vero che il boicottaggio colpisce i militari, ma ferisce ancora di più i birmani. I generali hanno innumerevoli possibilità per aggirare l’embargo. Sono i semplici cittadini birmani a non poterlo fare».
Mons. Bo si inoltra anche nella delicata questione affrontata da Aung San Suu Kyi a proposito della Cina, avallando la nuova posizione assunta dall’eroina birmana: «Premesso che la situazione in Myanmar cambierà solo dopo la morte dei quattro leader militari, il problema principale che riscontriamo è che la comunità internazionale, e gli Stati Uniti in modo particolare, continuando a criticare la giunta, la spingono sempre più verso le braccia della Cina. Quindi ecco due chiavi da utilizzare per riportare il Paese al dialogo: per prima cosa l’Occidente deve cercare di influenzare la Cina affinché questa induca i militari ad accettare i cambiamenti. Come seconda cosa gli Stati Uniti devono smetterla di criticare violentemente il Myanmar e di imporre l’embargo; dovrebbero, invece, cambiare atteggiamento ed essere più aperti verso il Myanmar».
L’amministrazione Obama sembra aver capito che questa è la strada da intraprendere. Hillary Clinton si è detta disposta a rivedere la posizione di Washington sul problema del boicottaggio e a intraprendere un dialogo con la giunta militare. Da parte loro i generali sembrano finalmente disposti ad allentare la presa sul Paese. Le elezioni, seppur falsificate nei loro risultati, e ancor più il rilascio di Aung San Suu Kyi, potrebbero essere le prime pedine mosse sulla scacchiera birmana.

Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali




Il papa ama l’Africa

A due anni dal viaggio di Benedetto XVI

A quasi due anni dalla visita di Benedetto XVI nei paesi dell’Africa occidentale (17-23 marzo 2009) pochi si sono domandati quali sono stati i suoi sentimenti e quali i contenuti dei suoi messaggi. Ci accontentiamo di essere spettatori alla televisione o di leggere sui giornali la cronaca della sua accoglienza e delle dimostrazioni di gioia e di affetto che gli sono state riservate. Non sempre invece ci chiediamo lo scopo del suo viaggio apostolico e quali problemi sente dentro di sé quando pensa all’Africa e alle difficili condizioni della sua gente.

Proviamo allora a ripercorrere insieme questo suo primo viaggio «missionario» africano da pontefice che ha cura di tutte le Chiese, anche le più dimenticate, come sono in genere quelle di alcune parti del continente africano, per scoprire così quali sono i problemi che tormentano l’Africa.
«Con questa visita – ha ricordato prima di partire da Roma per il Camerun e l’Angola – intendo idealmente abbracciare l’intero continente africano: le sue mille differenze e la sua profonda anima religiosa; le sue antiche culture e il suo faticoso cammino di sviluppo e di riconciliazione; i suoi gravi problemi, le sue dolorose ferite e le sue enormi potenzialità e speranze. Intendo, inoltre, confermare nella fede i cattolici, incoraggiare i cristiani nell’impegno ecumenico, recare a tutti l’annuncio di pace affidato alla Chiesa dal Signore risorto». «Penso in particolare – ha ancora aggiunto – alle vittime della fame, delle malattie, delle ingiustizie, dei conflitti fratricidi e di ogni forma di violenza che purtroppo continua a colpire adulti e bambini, senza risparmiare missionari, sacerdoti, religiosi, religiose e volontari».
«Io amo l’Africa», ha detto ai giornalisti mentre il Boeing 777 dell’Alitalia lo portava da Roma a Yaoundé in Camerun. «Ho tanti amici africani già dai tempi in cui ero professore. Amo la gioia della fede, questa fede giorniosa che si trova in Africa».
Con la sua prima visita in Africa (marzo 2009) il papa ha infatti voluto promuovere la fede che caratterizza la Chiesa africana. Ma poiché la Chiesa, qualsiasi Chiesa, non è mai una «società perfetta», ha fatto anche appello a «una purificazione» non tanto delle strutture estee, quanto piuttosto del cuore e della coscienza, perché le strutture sono il risultato di ciò che è il cuore.
Ha inoltre parlato dei moltissimi movimenti religiosi, che nascono come funghi in varie parti del continente, e ha ricordato che la fede cristiana è frutto di un annuncio sereno e giornioso, perché propone un Dio vicino all’uomo e dà vita a una grande rete di solidarietà umana e cristiana. Le stesse religioni tradizionali africane si aprono sempre più al messaggio evangelico, perché vedono che il Dio dei cristiani non è un Dio lontano, ma un Dio vicino a ciascuno di noi.
Durante il suo viaggio in Africa il papa ha ancora affrontato l’impatto che l’attuale crisi economica può aver avuto nei Paesi poveri e l’importanza dell’etica per un retto ordine economico mondiale. La causa della recessione – ha sottolineato – è soprattutto di carattere etico, perché «dove manca l’etica, la morale, non può esserci correttezza di rapporti». Questo vale non soltanto per i paesi più ricchi, ma anche per l’Africa, dove la corruzione è uno dei mali da sconfiggere.
È, quello di combattere la corruzione per il bene della gente, un compito quanto mai urgente e necessario di qualsiasi governo, ma lo è soprattutto di coloro che si dicono cristiani. «Di fronte al dolore o alla violenza, alla povertà o alla fame, alla corruzione e all’abuso di potere – ha affermato il papa rispondendo alle parole di benvenuto del presidente della Repubblica camerunese, Paul Biya – un cristiano non può mai rimanere in silenzio». Il messaggio del Vangelo esige di essere proclamato con forza e chiarezza, «così che la luce di Cristo possa brillare nel buio della vita delle persone». In Africa, come pure in tante parti del mondo, «innumerevoli uomini e donne anelano a udire una parola di speranza e di conforto».
In un tempo di scarsità di cibo, di scompiglio finanziario, di cambiamenti climatici, l’Africa soffre in modo sproporzionato rispetto ad altri continenti. Un numero crescente di suoi abitanti finisce preda della fame, della povertà, della malattia, in particolare dell’Aids, mentre il traffico di esseri umani, specialmente di donne e bambini inermi, sta diventando una modea forma di schiavitù, e i «conflitti locali lasciano migliaia di senza tetto e di bisognosi, di orfani e vedove».
Nelle parole del papa si percepiscono sentimenti di amarezza, di angoscia profonda, di rammarico e sofferenza. Egli chiede a gran voce riconciliazione, giustizia e pace. È quanto la Chiesa offre: «Non nuove forme di oppressione economica o politica, ma la libertà gloriosa dei figli di Dio, non rivalità interetniche e interreligiose, ma la rettitudine, la pace e la gioia del Regno di Dio, descritto in modo così appropriato da papa Paolo VI come civiltà dell’amore».
Appena toccato il suolo africano per la prima volta durante il suo pontificato, Benedetto XVI si è fatto portavoce del grido di giustizia e di pace che risuona in tutto il continente. Citando una frase di un sacerdote camerunese, il presidente Biya, che ha accolto il papa ed è al potere dal novembre 1982, si è chiesto «Come è possibile non ascoltare il grido di dolore dell’uomo africano?». È il grido di molte donne rimaste vedove e di innumerevoli bambini che sopravvivono come possono per strada.
Per questo il papa in Africa è stato accolto come una «benedizione». Lo ha detto il grande iman di Yaoundé, lo sceicco Ibrahim Moussa: «Nel Corano il profeta Maometto ci raccomanda di accogliere bene gli stranieri, perché spesso vengono in pace. Per noi, quindi, l’arrivo del papa è una benedizione». Lo sceicco ha perciò rivolto un appello ai musulmani invitandoli a «rispettare la religione degli altri e a unirsi per accogliere questo grande uomo». Anche le comunità protestanti del Camerun hanno considerato l’arrivo del papa «una grazia che non può lasciare un cristiano indifferente» e hanno ritenuto il suo arrivo «un avvenimento di grande portata spirituale».

Giampietro Casiraghi

Giampiero Casiraghi




A tutto gas

Viaggio in uno dei paesi più repressivi del mondo

Dal 12 marzo 2010, dopo 13 anni di attesa, la Chiesa cattolica è ufficialmente
riconosciuta in Turkmenistan, paese di forti contraddizioni politiche, economiche e sociali. Dopo 21 anni di regime qualcosa sta cambiando, ma il rispetto dei diritti umani è ancora un miraggio.

Fino a 90 anni fa il Turkmenistan, nella sua forma attuale, non esisteva. Il suo territorio, 85% formato dal deserto del Karakum, non ha mai fatto storia, ma è passato da un impero all’altro via via che vi si accampavano gli eserciti in marcia verso territori più ricchi. La sua storia si è confusa per secoli con quella della potenza di tuo: achemenide, greco-battriana, partica, sasanide, araba, mongola, persiana, finché le tribù turkmene (o turcomanne) costellarono la regione di isole feudali, con relative roccaforti, e cominciarono a ingaggiare scaramucce con le altre tribù e, soprattutto, depredare e fare schiavi tra le carovane di passaggio sulla via della seta.
Quando cominciarono a rapire pure i russi, lo zar mandò le forze militari contro le tribù ormai incontrollabili, facendo anche migliaia di vittime tra i gruppi resistenti (1881), finché tutti i territori centroasiatici furono sottomessi alla Russia, sotto l’amministrazione speciale del Turkestan (1885). Dopo la rivoluzione russa, questi territori furono divisi in 5 repubbliche, con confini ben definiti: nasceva così la Repubblica Socialista Sovietica Turkmena (1924).
comunismo senza fine
Le politiche sovietiche volte a collettivizzare l’agricoltura, trasformare il territorio, bandire la religione, scatenarono resistenze e guerriglie, ma alla fine riuscirono a cancellare le tradizionali divisioni etniche, linguistiche e claniche dei turkmeni nomadi, costringendoli anche con la forza a diventare stanziali, per coltivare il cotone. Per espandere tale coltura, il deserto del Karakum divenne teatro di importanti opere d’irrigazione, una delle quali attraversa il Paese dal confine usbeco a quello iraniano.
Ma la vera fortuna del Turkmenistan è stata la scoperta di giacimenti di gas metano e petrolio, che hanno permesso alla Repubblica di diventare uno dei maggiori fornitori energetici della Russia.
Negli anni ’80, il Turkmenistan non fu sfiorato dai venti di cambiamento che soffiavano nelle altre repubbliche sovietiche. Nel 1989 un gruppo di intellettuali turkmeni tentarono di fondare un partito progressista e di opposizione democratica, il Fronte popolare Agzybirlik (unità), ma fu subito bandito dal Partito comunista turkmeno (Pct), guidato da Saparmyrat Niyazov.
Al potere dal 1985 fino alla morte (2006), Niyazov ha governato il Paese in puro stile sovietico; anzi, peggio. Dichiarata unilateralmente l’indipendenza dall’Urss (1991), per i turkmeni il comunismo ha cambiato solo pelle: il Partito sovietico è diventato «Partito democratico turkmeno» (Pdt); la Costituzione, varata nel 1992, ha accresciuto i poteri del capo di Stato e di Goveo. Il potere politico assoluto ha permesso a Niyazov d’impadronirsi anche di quello economico, accaparrandosi i proventi derivanti dall’estrazione del petrolio e gas naturale, di cui il Turkmenistan è quinto produttore mondiale. Disponendo di enormi finanze, il dittatore iniziò a progettare opere faraoniche e bizzarre e a plagiare letteralmente l’opinione pubblica, con promesse più che patealistiche: acqua, gas e luce gratis, benzina a prezzi stracciati, biglietti aerei per voli interni a circa 2 euro; gratuite anche istruzione, assistenza a partorienti e malati terminali.
Nel 1999, dopo un plebiscito, Niyazov fu «costretto» ad accettare la presidenza a vita; ma preferì farsi chiamare «Turkmenbashi», «padre e duce/guida dei turkmeni», mentre all’estero veniva accusato di essere «in preda a un delirio di onnipotenza da satrapo orientale».
Il culto della personalità del dittatore raggiunse il parossismo; nei suoi confronti, Stalin e Mao Tse Tung sembrano dei timidoni. Una serie di città sono state ribattezzate «Turkmenbashi», così pure aeroporti, numerose scuole; persino la montagna più alta del Paese e un meternorite caduto nel 1999 al confine con l’Uzbekistan portano il suo nome.
Il Paese fu letteralmente disseminato di statue e ritratti del dittatore e familiari; il suo volto cominciò a campeggiare su manifesti, banconote, bottiglie di vodka, scatole di tè, boccette di dopobarba… Cambiati i nomi dei mesi, gennaio si chiamò Turkmenbashi, aprile Gurbansoltan, nome di sua madre, usato per ribattezzare perfino il pane, ora chiamato: Gurbansoltanedzhe.
Per non sfigurare di fronte al «grande timoniere» dei cinesi, anche il «duce dei turkmeni» ha voluto scrivere il suo libretto, anzi un grosso libro in due volumi, intitolato Ruhnama (Libro dell’anima). Esso contiene i suoi precetti, il suo pensiero filosofico e folklore epico del suo popolo.
Per legge, il Ruhnama doveva essere accanto al Corano nelle moschee, in bella vista nelle librerie, scuole e uffici pubblici; tutti i cittadini dovevano impararlo pressoché a memoria; bisognava conoscerlo per superare il «test di moralità» per esercitare un pubblico impiego e per avere la patente di guida. Gli insegnanti devevano conoscerlo e diffonderlo, pena il licenziamento; giornalisti e studiosi erano invitati a scrivere periodicamente sui giornali elogi filologici dell’opera; i medici giuravano non su Ippocrate, ma su Turkmenbashi.
I «precetti» toccavano molti aspetti della vita quotidiana dei turkmeni: nessun uomo poteva portare la barba o capelli lunghi; vietata la musica registrata («uccide la nostra cultura» spiega), come pure opera e balletto; i cani erano banditi dalla capitale, Ashgabat, perché puzzano.
libertà religiosa cercasi
Bizzarrie e patealismo a parte, Niyazov è stato un despota tra i più oppressivi della storia: sotto di lui il Turkmenistan è diventato il terzo Stato al mondo con i più bassi livelli di libertà di stampa e di espressione, religiosa compresa: biblioteche e teatri rurali sono stati chiusi; oppositori politici incarcerati, esiliati o zittiti; giornalisti ridotti a impiegati statali; chiusi i canali televisivi privati; impedito l’accesso ai giornali stranieri.
Fin dall’indipendenza (1991) in Turkmenistan c’è stato un crescendo di attacchi contro i gruppi religiosi minoritari, da fare impallidire le purghe staliniane.
La Costituzione prevede la libertà di religione; ma il governo impone che ogni gruppo religioso sia registrato ufficialmente. Non esiste una religione di stato, ma un modesto risveglio islamico si è registrato dopo l’indipendenza, e il governo ha incorporato alcuni elementi della tradizione musulmana nei suoi sforzi di definire l’identità turkmena. Il governo dà qualche contributo per la costruzione di nuove moschee, quasi vuote eccetto durante il Ramadan.
Per ottenere la registrazione governativa, il gruppo religioso deve provare di essere composto da almeno 500 persone di età superiore ai 18 anni e residenti nella stessa città. Con tali requisiti possono ottenere il riconoscimento legale solo i musulmani sunniti (87% su 4,5 milioni di turkmeni) e i russi ortodossi (6,4%); le altre comunità religiose, pur presenti nel Paese, contano poche decine di fedeli e non possono radunarsi, fare proselitismo o distribuire materiale religioso.
Non è consentito neppure incontrarsi in case private: se vengono scoperti, e lo sono spesso, dato lo zelo della polizia di sicurezza, i partecipanti sono soggetti a multe e arresti amministrativi e accuse penali, che si traducono in carcerazioni, torture, deportazioni ed espulsioni, sequestri e distruzioni di proprietà.
L’accanimento si riversa soprattutto sui leaders dei gruppi cristiani, per spezzae la resistenza e forzarli a rinunciare alla fede o a lasciare il Paese. Alcuni predicatori evangelici sono stati costretti ad abiurare la propria fede e giurare sul Ruhnama, il libro spirituale di Niyazov.
Ma anche gli unici due gruppi religiosi riconosciuti dallo Stato sono soggetti a controllo, i musulmani soprattutto. Per impedire l’ingresso di movimenti islamici stranieri, il governo usa vari modi: vieta la distribuzione di materiale religioso islamico pubblicato fuori del Paese; paga lo stipendio al clero islamico e vieta l’insegnamento a certi imam; chiude scuole coraniche; seleziona e riduce al minimo i partecipanti ai pellegrinaggi alla Mecca.
La ragione di tale politica repressiva della libertà religiosa è spiegata chiaramente dall’ex ministro degli esteri turkmeno, Boris Shikhmuradov, rifugiatosi a Mosca perché in dissidio col regime: «Niyazov prende personalmente tutte le decisioni su ogni aspetto della vita del Paese, incluse le questioni religiose, sebbene egli non abbia alcuna idea di cos’è la religione. Egli non tollera alcun dissenso e si serve di servizi segreti e polizia di sicurezza per controllare il Paese».
nuovo corso?
Alla fine del 2006, il Turkmenbashi fu stroncato da un infarto. A sostituirlo fu chiamato il ministro della Sanità, Gurbanguly Berdymukhamedov, un dentista sopravvissuto alle numerose purghe del passato. Convocate le elezioni per febbraio 2007, egli sconfisse i cinque concorrenti, ottenendo l’89% dei voti. Era ovvio che, dopo 21 anni di lavaggio del cervello, la gente scegliesse un uomo dello stesso calibro e spessore del defunto leader.
Al momento dell’insediamento, il nuovo presidente fece molte promesse di cambiamento. Per cominciare ha tolto dall’inno nazionale tutti i riferimenti a Niyazov, ha rimosso il suo libro (Ruhnama) da edifici pubblici e moschee, moltre statue e ritratti da tutto il paese, ha cancellato dai muri le sue scritte; gli impiegati pubblici non furono più obbligati a studiare a memoria i suoi precetti.
Di fatto, però, Gurbanguly Berdymukhamedov ha cercato di stabilire una nuova forma di culto della personalità presidenziale, pur rimuovendo dalla sua persona ogni sfumatura religiosa. Statue, ritratti, scritte del passato dittatore sono ora rimpiazzati con immagini e poster dell’attuale presidente. Agenti dell’amministrazione presidenziale vendono alle pubbliche istituzioni (scuole comprese) i suoi libri di medicina, di storia della sua famiglia e sui cavalli akhal-teke.
Ha liberato una dozzina di prigionieri politici; ha istituito un paio di commissioni per studiare la riforma delle leggi del Paese riguardanti i diritti umani. Ma i rapporti di agenzie inteazionali esprimono diverse preoccupazioni circa i rischi individuali dei cittadini in Turkmenistan sia a causa di sparizioni forzate sia soprattutto per un ferreo controllo dei media che porta alla repressione del dissenso.
«Tutti gli organi di informazione, sia di stampa che elettronici, sono rimasti sotto il controllo statale. Gioalisti che lavorano con media stranieri indipendenti sono stati vessati dalla polizia e dai servizi di sicurezza nazionale (Rapporto Amnesty 2009). Human Right Watch, nell’aggioamento riguardante il 2009, afferma che il governo «ha reso ancora più dura la repressione in un Paese già molto repressivo e autoritario». Nell’indice mondiale della libertà di stampa, il Turkmenistan rimane al terzultimo posto, prima della Corea del Nord e della Birmania.
Per rompere l’isolamento in cui era piombato il Paese negli ultimi due decenni, Berdymukhamedov ha allentato parecchie restrizioni sulla libertà di movimento e di religione. Lui stesso, nel suo primo viaggio all’estero si è recato in Arabia Saudita, per incontrare i monarchi e fare il suo pellegrinaggio alla Mecca.
Nel rapporto all’Onu del gennaio 2010, il governo turkmeno afferma di aver registrato 123 nuovi gruppi religiosi in tutto il Paese: di essi 100 sono musulmani sunniti e sciiti, 13 russi ortodossi; gli altri 10 includono battisti, pentecostali, avventisti, evangelici, Baha’i, Hare Krishna.
Lo stesso rapporto, tuttavia, ribadisce il bando delle attività dei gruppi non registrati, la proibizione per tutti i gruppi, compresi quelli approvati, di pubblicare e importare materiale religioso; sono riconfermate altre norme invasive nella vita delle singole comunità, come ispezioni improvvise e controlli sugli aiuti provenienti dall’estero.
chiesa cattolica  riconosciuta
Fino a pochi mesi fa, ai cattolici era consentito di celebrare e svolgere attività religiose solo nel territorio diplomatico della nunziatura di Ashgabat. Il 12 marzo 2010, il Ministero della Giustizia turkmeno li ha ufficialmente riconosciuti come «Chiesa cattolica romana in Turkmenistan», nonostante la comunità non abbia una guida di cittadinanza turkmena, come richiede la legge.
L’attesa di questa registrazione durava da 13 anni, da quando fu eretta la «Missione sui iuris del Turkmenistan», nel 1997, staccata dalla giurisdizione dell’amministratore apostolico per il Kazakistan e affidata a padre Andrzej Madej e a un altro confratello, Oblati di Maria Immacolata.
Entrambi erano entrati nel Paese con status diplomatico, come rappresentanti dello Stato Vaticano. D’ora in poi la Chiesa cattolica ha una «presenza pubblica» ufficiale, con tutti i benefici che questo implica, a livello giuridico e a livello pastorale.
La Chiesa cattolica conta un centinaio di battezzati, in maggioranza di etnia polacca e tedesca, altrettanti catecumeni e un gruppo di «simpatizzanti della fede cristiana»; la maggior parte di essi risiede nella capitale; alcune famiglie sono a Turkmenbashy, a Mary e in altre città e villaggi. Superiore della missione è padre Andrzej, coadiuvato da altri due missionari Oblati.
Il Turkmenistan, come le altre repubbliche dell’Asia centrale, è una terra di «prima evangelizzazione», con una comunità piccolissima, ma già stanno nascendo le prime vocazioni: una giovane è entrata in una comunità religiosa in Polonia; un’altra in un carmelo a Kiev; un giovane è nella famiglia degli Oblati; altri stanno facendo un cammino di discernimento vocazionale.
Le speranze per il futuro della missione sono buone: la Chiesa riscuote forti simpatie tra la popolazione, le cui tradizioni islamiche sono state indebolite dal processo di secolarizzazione del periodo sovietico. «Con la crescita della comunità, avremo bisogno di strutture e più spazio – spiega padre Andrzej -. Pensiamo di chiedere al governo anche l’autorizzazione per costruire la prima chiesa cattolica nella nostra missione. Nell’attesa… continuiamo a edificare con “pietre vive”».

Benedetto Bellesi

La triplice CRISI

Il Turkmenistan deve affrontare contemporaneamente tre crisi: alimentare, mercato del gas e finanziaria.
1)  La crisi del grano che ha duramente colpito la Russia negli ultimi mesi si ripercuote pesantemente anche sul Turkmenistan, che di solito acquistava grano sul mercato nero da Russia e Kazakistan. Secondo fonti non ufficiali, solo la capitale, dove vivono numerosi stranieri, riceve approvvigionamenti di cibo adeguati, mentre nel resto del paese la crisi alimentare è grave.
2)  Il Turkmenistan possiede la quarta maggiore riserva di gas del mondo (dopo Russia, Iran, Qatar), con una produzione di 75 miliardi di metri cubi all’anno, ma non sa più a chi venderlo, dopo che la Russia ha ridotto le importazioni (da 50 a 10 milioni di metri cubi all’anno). Ashgabat ha stretto accordi con Cina e Iran, che importano rispettivamente 5 e 15 miliardi di metri cubi all’anno; nel 2011 sarà in funzione un nuovo gasdotto diretto in Cina; ma Pechino, non intende pagare il gas più di 100 dollari ogni mille metri cubi (per fare un paragone: la Russia lo compera a 250 dollari e lo rivende in Europa a 350-500 dollari). Prendere o lasciare.
3)  Il calo delle esportazioni di gas, da cui proviene il 50% del Pil, provoca una grave crisi finanziaria. Il resto del Pil viene dal cotone (35-40%) e da «altre fonti», traffico di droga incluso. Il Paese ha costantemente bisogno di prestiti per la spesa corrente. La Cina ha prestato al governo turkmeno 4 miliardi di dollari, a condizione che ne investisse 3 per migliorare l’infrastruttura per l’energia, e ne ha offerti in prestito altri 5. Il governo preferirebbe attrarre investimenti di compagnie occidentali (Eni, Chevron, Conoco), ma dovrà stare ai patti, più di quanto non ha fatto in passato.
(Fondazione CDF)

Benedetto Bellesi




Cari missionari

Omaggio ad un amico
Mi ha fatto tanto piacere vedere nella rivista Missioni Consolata di Novembre 2010 la foto del Dott. Silvio Prandoni con in braccio la bambina Marina nella sua casa famiglia di Mombasa.
Lasciamo stare le diatribe e i battibecchi. È chiaro che gli Amici di Wamba (includendo tutti i gruppi: Amici di Wamba, Wamba Athena, Lucia di Mestre, Belluno, la famiglia stessa del dottore e molti altri) hanno fatto moltissimo per quell’ospedale cornordinati com’erano dal Dott. Prandoni che tanto apprezzavano e amavano. Certamente senza di loro non ci sarebbe quella Rosa del Deserto che è l’ospedale Cattolico di Wamba, il quale, in 40 anni, da un semplice Health Centre di pochi letti è diventato quell’ospedale che è ora con 200 posti.
Con tutto il rispetto per i Benefattori che furono (e sono tanti, i nomi di alcuni di essi sono scritti nei muri dell’ospedale) la mia ammirazione va a lui, al Dott. Silvio Prandoni che dedicò i 40 anni migliori della sua vita e professionalità per creare quella bellissima struttura che è l’ospedale di Wamba a favore delle tribù nomadi locali.
Incontrai il Dott. Silvio Prandoni quando arrivò in Kenya verso il 1967 e aveva 30 anni. Dopo un breve tempo di apprendistato all’Africa nell’ospedale Cattolico del Mathari a Nyeri e poi a quello di Gaichangiro, andò subito al Nord fra le tribù nomadi nel semideserto ove diede tutto se stesso per creare quell’ospedale a favore della gente che ha tanto amato e dalla quale fu tanto apprezzato, stimato e ri-amato. Mi recai spesso a quell’ospedale per le mie necessità personali e per portare della mia gente ammalata, a volte con viaggi di 10-12 ore, senza preavviso e a tutte le ore del giorno e della notte. Quando arrivavo, lui, il dottore, era là, pronto ad attenderci. Lui era sempre là, presente nell’ospedale 24 ore al giorno. Tanto che, specialmente al sabato e la domenica, dagli ospedali governativi mandavano le emergenze a Wamba perché sapevano che lui c’era, con le suore della Consolata e lo staff locale, aiuto insostituibile nello svolgere un servizio indispensabile e tanto apprezzato dalla gente locale.
L’ho sempre ammirato perché vedevo in lui la vera vocazione del medico pronto a dare anche la vita per la sua gente. Non lo nego, mi fu pure di sprone nella mia vocazione missionaria: la sua dedizione, generosità, altruismo mi toccavano.
Il Dott. Prandoni era riuscito a crearsi molti amici in tutti gli ambienti specialmente nel campo medico: gruppi di specialisti (Ortopedici, Ginecologi, Farmacisti, Oculisti, Dentisti) disposti a venire ad aiutare nelle necessità dell’ospedale; quasi tutti i mesi c’erano degli amici a dare una mano. Il Dott. Prandoni preparava i pazienti poi gli specialisti venivano ad operare ed aiutare. Quale ammalato di quelle aree remote avrebbe potuto vedere uno specialista senza passare attraverso l’ospedale di Wamba?
Pochissimi o nessuno, sia per le distanze, 400 km da Nairobi, che per i costi insostenibili.
Quante gambe drizzate, quanti occhi riaperti, quante labbra leporine rimesse a nuovo, quante mamme hanno riacquistato speranza attraverso di loro.
Tutto questo fu sempre organizzato e portato avanti da lui con tanta semplicità, dedizione e bontà.
Il Dott. Prandoni non aveva a cuore solo gli ammalati, ma anche l’istituzione stessa dell’ospedale per il quale non mancavano altri tipi di amici: ingegneri, carpentieri, radiologi, meccanici, elettricisti ecc. che venivano pure a dare una mano a risolvere i vari problemi che sorgevano di tanto in tanto.
Direi che, nonostante il carattere che ogni persona può avere, all’ospedale di Wamba c’era un clima di famiglia, di amore vicendevole, di volontà di aiutare i fratelli ammalati nel miglior modo possibile senza risparmiare tempo, tecnologie e mezzi.
Per tutto questo io direi un grande grazie al Dott. Prandoni a nome di tutti noi che l’abbiamo conosciuto, apprezzato ed amato e a nome di tutti coloro che in un modo o in un altro hanno potuto usufruire dell’ospedale di Wamba ricuperando salute e gioia.
L’ospedale di Wamba, la “Rosa del Deserto”, e il nome del Dott. Prandoni non potranno mai essere divisi (un piccolo monumento li dovrebbe immortalare) perché sono nati così e vivranno così.
So che il Dott. Prandoni è molto schivo e restio a sentirsi ricordato, ringraziato e apprezzato, ma penso che l’unico ringraziamento che potrebbe piacergli e renderlo veramente felice sarebbe il sapere che l’ospedale di Wamba continua ad andare avanti bene svolgendo la sua opera medico-caritativa in favore di tutti, ma specialmente dei più bisognosi della zona per la quale è stato sognato, amato e fu realizzato.
P.L.G.
Diani-Ukunda (Kenya)