Cari missionari

Moschee e reciprocità
Abbonato da tanti anni, apprezzo il respiro universale della rivista […]. Mi permetto però di dissentire dall’orientamento delll’editoriale del gennaio 2011. È inammissibile paragonare le stragi di cristiani effettuate a sangue freddo in vari Paesi islamici (e non) ad episodi di intolleranza che in Italia non hanno mai travalicato il dibattito politico. Nel nostro Paese stragi di islamici non se le sogna nessuno! è vero invece che, in nome di una malintesa apertura ad altre religioni (in particolare l’Islam) si passa sotto silenzio la necessità di rispettare reciprocamente diritti e doveri. Nel nostro caso l’ostilità all’apertura di moschee nella maggior parte dei casi è motivata dal giustificato timore che si possano costituire luoghi privi di controllo, dove col pretesto della pratica religiosa si possa dare attuazione a programmi politici eversivi, ispirati da collegamenti inteazionali.
Per chi vive a Milano questa situazione è purtroppo ampiamente documentata. L’esperienza ci insegna che l’Islam è anche terrorismo e che si avvale di notevoli strumenti finanziari per alimentare una penetrazione capillare nelle nostre città. Non bisogna trascurare che anche i cristiani hanno diritto di costruire chiese e semplicemente di testimoniare la loro fede in paesi che spesso nella loro legislazione negano il diritto elementare di libertà religiosa.
Sul piano dei diritti/doveri lo Stato e le istituzioni locali non possono prescindere da questi punti fermi riguardanti la reciprocità delle effettive libertà di credere e praticare la propria religione. Questi principi vanno calati nella realtà, chiedendo per esempio delle garanzie, che nel caso dell’Islam vuol dire per es. selezionare gli Imam con la creazione di albi, ovvero poter controllare i testi, che spesso non sono solo preghiere ma anche messaggi politici (come avviene in Germania); la trasparenza deve valere anche per loro! Creare delle regole servirà prima di tutto a garantire chi nell’Islam ha soltanto a cuore gli insegnamenti dell’unico Dio. Ne trarranno giovamento anche i cristiani che saranno aiutati a liberarsi da diffidenze non sempre ingiustificate e a stabilire un’effettiva collaborazione con tutti i credenti. Cordiali saluti.
Franco Bianchi
via email, 25.01.2010

Gent.mo  Direttore,
nulla da eccepire sul contenuto del suo editoriale del gennaio 2011, ma ritengo prematuro il concedere le moschee ai musulmani. Noti, non sono contrario, ma vorrei la reciprocità. Noi giustamente dovremmo concedere loro le moschee, ma loro non ci concedono chiese, ci perseguitano e ci ammazzano anche. Guai a parlare di proselitismo, mentre loro il proselitismo lo fanno e costringono anche alla conversione forzata. Da noi la conversione deve essere voluta, mai forzata. Da queste considerazioni mi pare che concedere loro le moschee sia uno spalancare le porte all’islamismo. […] Se spalanchiamo le porte all’Islam nessuno di noi avrà la forza di arginare l’invadenza e la violenza delle correnti estremiste. Cordiali saluti.
Graziano Grua
via email, 24.01.2010

Grazie del vostro contributo su questo tema scottante. Certamente gli avvenimenti passati e recenti, come i massacri di cristiani in Iraq, Egitto, Indonesia, Pakistan e in altre nazioni a maggioranza islamica non fanno che aumentare le legittime riserve e paure riguardo all’apertura di luoghi di culto e centri islamici nelle nostre città. Tuttavia credo sia necessario affrontare il problema nella giusta prospettiva, aprendo un dialogo tra le varie parti, ciascuno secondo le proprie competenze. A mio avviso ci sono due livelli da considerare: il livello politico-sociale e quello religioso. A livello politico-sociale mi pare sia accettato che lo scopo della legge non è solo quello di prevenire abusi e violazioni e stabilire doveri, ma anche quello di garantire e difendere i diritti fondamentali della persona e della comunità. È quindi giusto e doveroso che una nazione da una parte assicuri a tutti i cittadini l’esercizio dei diritti fondamentali (tra cui la libertà di culto) e dall’altra esiga l’osservanza delle leggi da parte di tutti richiedendo quindi ad ogni nuova «istituzione» una ragionevole garanzia «di conformità» affinché il bene comune sia salvaguardato. Per questo concordo pienamente con molte delle osservazioni del sig. Franco.
Ma porre come condizione essenziale la «reciprocità», mi pare vada oltre il dovuto, soprattutto quando questo si applica a livello locale. Una piccola comunità islamica (spesso di nazionalità eterogenee) che vuol costruire un luogo di preghiera, non ha più potere di influenza nello scacchiere della reciprocità di un singolo missionario in Cina, in Buthan o in Egitto alle prese con la burocrazia locale per il permesso di costruire una nuova chiesa. La reciprocità ha un suo ambito specifico, rafforzato da diritti e doveri codificati a livello internazionale, nelle relazioni tra stati e organizzazioni sovra-nazionali.
Dal punto di vista religioso, soprattutto della nostra religione, le cose vanno oltre la logica del diritto-dovere. È nel contesto religioso che ho osato chiamare traditori de «la loro religione e il loro Dio» i fondamentalisti sia islamici che cristiani, anche se oggettivamente l’ammazzare cristiani e l’opporsi alla costruzione di una moschea non sono certo la stessa cosa (come voi fate giustamente notare). Tuttavia, se l’azione finale è di una gravità ben diversa, l’atteggiamento di fondo può essere ugualmente sbagliato. E questo è importante per noi. Per un cristiano (= una persona che segue la via di Gesù Cristo e con lui si identifica) non conta tanto l’azione finale, ma l’atteggiamento di fondo, la mentalità, quello che uno sente nel cuore. Un cristiano ha come punto fondamentale di riferimento la «via di giustizia» insegnata da Gesù, non la logica della legge umana. Basta andare al capitolo 5 del vangelo di Matteo per sapere qual è la logica che ci deve guidare, anche se agli occhi del senso comune può sembrare «stoltezza». In quel capitolo Gesù non declina la parola reciprocità, ma gratuità, che è amore misurato sulla perfezione di Dio. «Vi è stato detto… ma io vi dico: porgi l’altra guancia, ama i nemici, a chi ti chiede la tunica dà anche il mantello… Se amate quelli che vi amano che merito ne avete? Siate perfetti come il Padre…».
Ideale? Certamente. Questi comandi, «legge» del cristiano da 2000 anni, non sono una norma stabilita dalla Chiesa (che, tra l’altro, ha tradito questa stessa legge troppe volte!), ma «Parola» di Gesù stesso. Gesù è il punto di verifica del vivere sociale e politico del cristiano, non la cosiddetta «cultura cristiana» di cui qualcuno si fa paladino. Questa legge di Cristo – per i cristiani – è l’anima della legge umana, pur nel rispetto della reciproca autonomia.

Congo belga
Egregio Direttore,
sono un occasionale lettore della vostra bella e interessante rivista che ho sempre apprezzato, e mi è capitato di leggere l’articolo di Giusy Baioni sulla R. D. Congo (MC 10/2010, pp. 47-50). Ne riporto un passaggio: «… un passato remoto segnato da una delle colonizzazioni più feroci, quella Belga, che ha dimezzato la popolazione di allora con una schiavitù inumana…» (p. 47).
Vorrei, molto brevemente, affermare quanto segue, e Le sarei molto grato se potesse pubblicarlo, per amore della verità. Premetto che ho vissuto venti anni, fino al 1966, in Congo, prima colonia belga, poi Repubblica del Congo/Zaire, e posso affermare nel modo più assoluto che non ho mai visto, conosciuto, né sentito raccontare la colonizzazione feroce di cui parla la dott.ssa Baioni. Mio nonno, con nonna e figli, nel secolo scorso ha attraversato tutto il Congo perché era un esploratore; mio padre vi ha vissuto tanti anni, e riposa nella regione del Kivu/Sud. I miei suoceri con la loro famiglia e fratelli hanno lavorato nel Katanga/Lubumbashi; le mie figlie sono nate a Bukavu, ed erano la terza generazione residente in Africa; amici hanno trascorso la loro vita nella zona del Virunga/Kivu Nord; ho conosciuto la famiglia, moglie, figli e nipoti di uno dei primi comandanti del battello di servizio sul fiume Congo e molti altri, nessuno di loro ha mai visto o conosciuto questa colonizzazione feroce. Avrei molto da dire sui lati positivi della colonizzazione belga, e sono obbligato a contestare nel modo più assoluto certe affermazioni penso basate sul «sentito dire». Cordialmente La saluto.
Saverio Giancarlo
Riva del Garda (TN)

Egregio Sig. Saverio,
grazie per la sua testimonianza che nasce dal vissuto. Vorrei farle però notare che le affermazioni della dott.ssa Baioni non si basano affatto sul «sentito dire». Tutta la documentazione storica è concorde nel provare che il primo periodo della colonizzazione belga (1876-1908, quando il Congo era considerato «proprietà privata» del re del Belgio Leopoldo II) è stato terribile, cinico e violento, con la soppressione spietata di qualsiasi forma di opposizione allo sfruttamento commerciale soprattutto del caucciù, che in quel tempo era molto richiesto. Perfino la nostra Enciclopedia Italiana Treccani nel 1929 scriveva: «Sembra che specialmente nello sfruttamento del caucciù alcune società concessionarie e senza dubbio anche agenti dello stato si fossero resi colpevoli di abuso in pregiudizio degl’indigeni. Questi fatti provocarono in alcuni paesi una violenta campagna di protesta, specialmente in Inghilterra, dove le critiche furono esagerate al punto da assumere spesso carattere di vere calunnie. Tutto ciò affrettò l’annessione del Congo allo stato belga: il 15 novembre 1908 una legge faceva dello Stato del Congo una colonia belga» (Treccani XI, 142/2).
Una delle vittime più note di queste violenze fu Isidore Bakanja (1885-1909), morto a seguito delle punizioni ricevute dal suo padrone e beatificato nel 1994 da papa Giovanni Paolo II.
Le parole, datate, della Treccani ammettono una realtà molto grave, tanto grave che il governo belga intervenne nel 1908 togliendo il Congo dalle mani del re e delle compagnie private.
P. Benedetto Bellesi, nostro redattore, scrisse su questa rivista (MC 10-11/2004, pag. 17): «La scoperta della vulcanizzazione della gomma e il suo impiego industriale fecero della colonia uno dei più grandi serbatorni mondiali di questo prodotto fondamentale per l’industrializzazione dell’Occidente. Ma occorreva mano d’opera per raccoglierlo e trasportarlo al mare. Il problema fu subito risolto: tutti gli africani (ironicamente chiamati «cittadini») furono obbligati a raccogliere il caucciù senza alcun compenso e ogni villaggio doveva consegnare agli emissari del re-proprietario una certa quota del prezioso prodotto vegetale. Chi si rifiutava, o consegnava quantità minori di quelle richieste, era punito duramente, fino alla mutilazione: a chi non produceva la quota di caucciù veniva tagliata una mano o un piede, alle donne le mammelle. Contro i ribelli si ricorreva all’assassinio, a spedizioni punitive, distruzioni di villaggi e presa in ostaggio delle donne.
A fare il lavoro sporco erano circa 2.000 agenti bianchi, disseminati nei punti più importanti del paese: molti di essi erano malfamati in patria e mal pagati in Congo. Ogni agente comandava un certo numero di nativi armati (capitani), presi da etnie diverse e dislocati nei singoli villaggi, per assicurare che la gente facesse il proprio dovere. Se la quota era inferiore a quella stabilita, anche i capitani subivano fustigazioni o mutilazioni. Era il metodo del terrore, tanto efficace quanto diabolico.
In 23 anni di esistenza, nel Libero stato del Congo morirono circa 10 milioni di persone, direttamente per la repressione o indirettamente per epidemie o fame, dovuta alla distruzione punitiva dei raccolti. Fu un vero genocidio, in cui perì quasi metà della popolazione congolese, stimata a circa 20-25 milioni di abitanti nel 1880.
A ciò si aggiunga la caduta del tasso di natalità: un missionario giunto in Congo nel 1910 fu stupito dall’assenza quasi totale di bambini tra i 7 e i 14 anni, nati cioè tra il 1896 e il 1903, periodo in cui la raccolta di caucciù raggiunse il suo apice».
Quanto scrisse p. Bellesi non sono calunnie, ma informazioni documentate raccolte da una commissione d’inchiesta mandata dal governo belga in Congo nel 1906.
Con una riserva: la cifra di 10 milioni pare molto esagerata e andrebbe valutata realisticamente contro i dati della popolazione presente prima dell’inizio della colonizzazione e il censimento del 1928, rapportati anche al numero di coloni bianchi coinvolti (poche migliaia). Questo però non toglie nulla all’estrema gravità di quello che p. Bellesi chiama «genocidio dimenticato»: fossero state anche solo 100 mila le vittime di questa violenza, non renderebbero la tragedia più accettabile.
Che lei e i suoi familiari non abbiate avuto sentore di questo dramma, non stupisce. Il re Leopoldo II prima di consegnare la sua proprietà privata al governo bruciò sistematicamente gran parte dei documenti incriminanti, mentre i coloni belgi avevano tutte le buone ragioni per passare il tutto sotto silenzio.

Suor Eugenia, grazie
Cari Missionari
e Missionarie,
desidero ringraziare ed esprimere tutta la mia stima e condivisione alla consorella che domenica scorsa 13.02 u.s., a Roma, in P.za del Popolo, è intervenuta a favore della dignità della donna. Per televisione si è visto e sentito solo uno stralcio del suo discorso, che, però, mi piacerebbe leggere per intero. Il suo intervento, la sua presenza, la sua partecipazione mi hanno dato speranza e fiducia nel sapere che anche nei nostri difficili tempi c’è chi segue, con la vita, in prima persona, la linea del Maestro Gesù. Penso che la stessa mia speranza e fiducia sia arrivata ad altre persone che credono nei valori della fede e della Verità. Provo tanta pena per i fatti che succedono in Italia, non solo ora, ma da anni e mi chiedo quando crollerà quell’immenso castello di sabbia costruito da un solo uomo, ricco oltre ogni misura e sostenuto da tanti servitori che lo difendono a spada tratta perché ricompensati abbondantemente da ogni grazia che un uomo può desiderare ed una donna sognare.
Nemmeno il Papa, del quale anche i non credenti sanno che è persona buona, dedita a servire Dio ed il prossimo, è stato così difeso, quando da molte parti era attaccato per lo scandalo della pedofilia. Evidentemente non paga così bene, non offre denaro a volontà, festini hard e neanche pregiata erbetta verde. Il Signore però gli ha dato forza, fede, salute e, sia pure con sofferenza, ha saputo affrontare le difficoltà e le problematiche che si sono presentate. Quando si lavora con il Signore e per il Signore, l’aiuto viene da Lui, altrimenti – e questo mi consola, come dice Samuele, nel 1° libro – «certo non prevarrà l’uomo malgrado la sua forza». Questa è la vera giustizia a cui nessuno sfugge. Affidiamo al Padre Beato Giuseppe Allamano, del quale oggi ricordiamo la festa, a 85 anni dalla morte, la nostra patria, chiedendo la sua intercessione per ognuno di noi perché riusciamo a fare sempre bene il bene. Grazie, cara sorella missionaria per la tua limpida testimonianza. Un abbraccio.
Bruna Dalbesio
Terzuolo, via email

Penso che moltissimi dei nostri lettori abbiano già visto quel video. Per chi lo volesse rivedere lo si trova in http://tv.repubblica.it/politica/suor-eugenia-bonetti-riprendiamoci-dignita/61991?video. Il testo si trova sul sito delle Suore Missionarie della Consolata http://www.consolazione.org/donna-nel-mondo/379-messaggio-di-suor-eugenia-bonetti.html e anche nel nuovo sito di Amico (http://amico.rivistamissioniconsolata.it) con link al video. Il mese scorso, in queste pagine, abbiamo pubblicato una sua «rifessione sulla dignità della donna» (MC 3/2011, pag. 5-6).

PLASTICA & MC
Leggo sul numero di gennaio, in questa rubrica, la vostra risposta alla lettera di Isa Monaca sulla richiesta di avvolgere la vostra rivista in una pellicola biodegradabile.  Contrariamente a quanto dite voi, di pellicole biodegradabili ce ne sono. Mi piacerebbe vederla usata anche da voi, visto che spesso trattate in maniera ammirevole temi ecologici. Cordialmente.
Andrea Paolini
via email, 29.01.2011

Dopo aver consultato la tipografia, che cura anche la spedizione della rivista, Le posso assicurare che la pellicola che usiamo è in polietilene totalmente riciclabile (naturalmente il totalmente si realizza solo grazie alla collaborazione di chi fa raccolta differenziata). La tipografia è stata certificata conforme alle norme inteazionali UNI EN ISO 9001:2008 e UNI EN ISO 14001:2004 (vedi il sito www.canale.it). Abbiamo inoltrato anche a loro la questione della pellicola biodegradile. La ricerca di una possibile soluzione è avviata. Grazie della pazienza.

Sì, in teoria (la pellica) è riciclabile, come tutta la plastica. Anche i sacchetti del supermercato erano in polietilene, eppure si è dovuto vietarli. Biodegradabile è molto meglio, come i nuovi sacchetti per la spesa. Cordialmente,
Andrea Paolini
via email, 12.02.2011
Speriamo un giorno di poterLe dare la buona notizia che la rivista è spedita in pellicola biodegradabile. Per ora contiamo sulla collaborazione dei lettori per la pratica di un riciclaggio responsabile.




Italia, 150 anni

Sarà che sono invecchiato e che mi vergogno meno di quando ero giovane nel rivelare i miei sentimenti e che oltre venti anni all’estero hanno approfondito il modo con cui sento il mio paese. Sarà che quando a Nyeri, in Kenya, la seconda domenica di novembre di ogni anno, la comunità italiana cantava l’inno di Mameli prima di cominciare la messa nell’ossario dove riposano oltre 700 nostri soldati mi venivano i lucciconi, e che quando la BBC parlava male dell’Italia – più dei suoi politici, in verità – mi sentivo ferito dentro, mentre mi si riempiva il cuore di giornioso orgoglio al vedere l’ottantenne signor Cassini venire a messa guidando una splendida Alfa Romeo rossa degli anni Venti che lui aveva costruito pezzo per pezzo con le sue mani nella sua officina nella zona industriale di Nairobi. Sarà pure che percorrendo da Naivasha a Limuru la bella e duratura strada «degli italiani», che continua a sfidare la strapiombante scarpata della Rift Valley e i camion sovraccarichi che fanno spola con l’Uganda, mi fermavo a gustare quel grido di dignità, di genio e di fede che è la cappellina colà costruita e decorata dai «nostri» prigionieri di guerra; e che guardando al Monte Kenya mi emozionavo al ricordo dell’impresa di Felice Benuzzi e compagni (raccontata nel libro «Fuga sul Kenya»), i quali, scappando dal campo di prigionia, scalarono quel grandissimo monte per provare a se stessi e ai loro carcerieri che la vera libertà non può essere contenuta da nessun filo spinato; e che visitando, sempre a Nyeri, le tombe dove riposano decine di missionari e missionarie provenienti da ogni angolo d’Italia, non potevo non essere ammirato dal grande lavoro da essi fatto in terra d’Africa, essi che, disarmati, hanno conquistato molto di più di ogni impresa coloniale nazionale. Sarà che entrando nella mostra dedicata a san Giuseppe Cafasso a Castelnuovo Don Bosco, e vedendo la ricostruzione di una cella sotterranea con tre preti incatenati, non ho potuto fare a meno di pensare che la storia d’Italia l’hanno scritta anche i preti che, gettati nelle prigioni sabaude nella seconda metà del 19° secolo, hanno dato testimonianza di coerenza e fedeltà alla loro coscienza contro la ragion politica; e che nella nuova Italia unita, con una Chiesa «assediata», ci fu un’incredibile esplosione di energia missionaria con la nascita di ben quattro Istituti specificamente missionari e la partenza per i quattro angoli del mondo di migliaia di missionari e missionarie, volontari e volontarie che spesso hanno pagato con la vita la loro dedizione ai poveri e al Vangelo…

Sarà che non digerisco il fatto di essere stato classificato, senza essere consultato, come «padano» mentre ho sempre saputo di essere «italiano» dalla nascita, anche se ho mangiato polenta mattino, mezzogiorno e sera tutta la mia infanzia e ho scoperto con piacere la bontà di un piatto di spaghetti e una bella pizza calda solo «da grande»; e che mi rattrista il «particolarismo» dalla memoria corta di chi vuol costruire muri per difendere il proprio benessere e punta il dito contro gli «altri» e si richiama a tradizioni che non sono mai esistite se non nei miti di chi manipola la storia; e che, per di più, sono fiero di essere un italiano-padano frutto di incroci sconosciuti che mescolano sangue e genio dai quattro venti (come da sempre è successo nelle nostre pianure che hanno visto il passaggio di popoli da ogni dove, amici e nemici).

Sarà che …
Potrei andare avanti ancora, ma non serve. Il fatto è che sono felice di essere italiano, di far parte di un’Italia unita, pur con la sua storia non sempre gloriosa e le contraddizioni congenite. Questa nostra nazione non è certo perfetta, in più oggi è corrotta e resa egoista dal troppo benessere, oltre che essere governata da una classe dirigente a dir poco discutibile e azzoppata da una burocrazia che uccide la responsabilità; ma è la mia nazione, dove ho le mie radici e la famiglia e la mia storia. Occorre certo rimboccarsi le maniche affinché la logica del profitto non corrompa tutto, e farlo mentre siamo ancora in tempo, perché, grazie a Dio, l’Italia vera non è quella delle Tv di monopolio o della propaganda politica. Amo quest’Italia fatta di gente normale, né santa né diavola, generosa ed emotiva, fantasiosa e creativa, arroccata spesso nel suo «particolare» eppure così altruista, miscuglio stupendo di razze e popoli che nei millenni qui si sono amalgamati, trasformati e unificati. Amo il verde speranza della sua bandiera, e il bianco che ricorda fede e pura bellezza, e quel rosso che richiama i martiri, e non solo quelli politici, ma per me soprattutto quelli che han dato la loro vita per la Fede, dai tempi antichi ad oggi, visto che ogni anno missionari italiani pagano il prezzo del sangue.
Concludo con un «ciao» a tutti. Il bel «ciao» che, da veneto che era, è ormai è diventato internazionale. Ciao… sciao… schiavo (suo!), forse una volta un saluto servile, oggi invece un semplice, concreto atto di cortesia, affetto, disponibilità e accoglienza. Un saluto italiano e veramente cristiano: farsi servi gli uni degli altri! Ciao.

Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Cana (20) Tre villaggi per una sposa assente

Il racconto delle nozze di Cana (20)

Gv 2,1b: «[Uno sposalizio] avvenne a Cana di Galilea»
La Bibbia-Cei, ultima edizione (2008) fa spesso una scelta semplificativa nella traduzione, perché ha come obiettivo la proclamazione liturgica, e predilige quindi la comprensione immediata (orecchiabile) all’esattezza semantica del testo. Questo fatto crea problemi di notevole rilievo: da un lato esprime la coscienza che il popolo di Dio ha poca dimestichezza con la «Parola»; dall’altro rivela espressamente che si fa un uso strumentale della Bibbia che diventa così «supporto», ora della liturgia, come ieri lo fu della teologia. Sarebbe opportuno, anzi necessario, che la Bibbia fosse «incontrata» in se stessa indipendentemente dalla teologia o dalla liturgia o spiritualità. Sono queste che devono nutrirsi e «fondarsi» sulla Bibbia, non questa giustificare quelle. Se «il Lògos carne fu fatto» (Gv 1,14), noi ci troviamo non davanti a un libro, ma a una Persona che deve essere incontrata, frequentata e conosciuta.
Un esempio di questa scelta poco lungimirante è proprio Gv 2,1 che la Bibbia-Cei traduce con «Il terzo giorno “vi fu” una festa di nozze a Cana di Galilea». Dire che «vi fu» uno sposalizio significa dire una banalità, affermare il fatto in sé, neutro e senza alcuna incidenza nella vita di chi legge. Il testo della Cei guarda al fatto delle nozze come un fatto passato, occasionale, di quel tempo senza alcuna connotazione o conseguenza.
L’evangelista invece connota lo sposalizio e dice con solennità che vi sono conseguenze che ci riguardano. Il testo greco, infatti, riporta: «kài thê(i) hēmèra(i) thê(i) trìtēē gàmos eghèneto en Kanà thês Galilàias – E nel terzo giorno uno sposalizio “avvenne/accadde” in Cana della Galilea». Anche un lettore che conosce poco il greco si accorge immediatamente che il verbo «eghèneto – avvenne/accadde», in italiano un passato remoto, ha qualcosa di grandioso in sé, perché è la spia che qualcosa di nuovo e non previsto sta per accadere. Dal punto di vista della morfologia il verbo è una 3a persona singolare del tempo aoristo indicativo medio del verbo «ghìnomai – divento» che in forma impersonale si traduce con «accade/avviene». Si trova in due costruzioni: «kài eghèneto» e «eghèneto dé» che traducono l’ebraico «wayehî», espressione frequentissima nella Bibbia. Spesso è usata all’inizio di frase sia in ebraico che in greco per dare importanza narrativa alla frase che segue, che altrimenti sarebbe una frase secondaria.
Nella doppia forma l’espressione ricorre circa 60 volte nel NT (greco); si trova 619 volte nell’AT greco (versione della LXX), mentre nella Bibbia ebraica si conta 816 volte. L’espressione è pregnante, perché si trova sempre a inizio di frase compiuta e ha un valore narrativo, cioè, mette in primo piano quello che segue immediatamente, rendendolo necessario per la comprensione dei lettori o ascoltatori. Una cosa è dire: «Vi fu una festa di nozze» e altra cosa è affermare: «Avvenne uno sposalizio»; oppure, non è lo stesso dire: «In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse un censimento su tutta la terra» (Lc 2,1), perché è ben diverso dire o scrivere: «Avvenne che in quei giorni, un decreto di Cesare Augusto …».
La seconda forma annuncia con solennità che non si tratta di un fatto banale, ma di un evento portatore di senso e mette in guardia il lettore/uditore che qualcosa di unico e straordinario sta succedendo. Questo fatto spiega anche perché la Scrittura ne fa uso ricorrente, quasi costante: è un modo letterario per rendere imminenti, contemporanei e vivaci gli interventi di Dio che in questo modo entra nella storia con un passo che imprime cambiamenti e suscita eventi rilevanti: «Il Dio biblico imprime le orme del suo passaggio nell’argilla della nostra ferialità» (Serra, Le nozze di Cana, 191). Se lo sposalizio «storico» di Cana è un fatto banale in se stesso, non lo è più nella penna dell’autore del vangelo di Giovanni che ci avverte che quel fatto banale è portatore di un senso nuovo che bisogna scoprire.
La geografia di Dio
L’avvenimento che «accade», cioè lo sposalizio, si compie in una località geografica: Cana della Galilea, sulla cui identificazione da secoli si discute con altee posizioni. L’espressione «Cana della Galilea» nel vangelo di Giovanni ricorre 4 volte (cf Gv 2,1.11; 4,46; 21,2) e viene a formare una inclusione, trovandosi sia all’inizio del vangelo (2 volte nel racconto delle nozze di Cana) sia alla fine (apparizione del risorto ai discepoli). In mezzo ritroviamo la stessa espressione «Cana della Galilea» all’inizio del racconto della guarigione del figlio del centurione romano (cf Gv 4,46), per cui potremmo dire che i primi quattro capitoli del vangelo si svolgono «da Cana a Cana», passando per Gerusalemme (cf Gv 2,13.23; 5,1), il Giordano (cf Gv 3,23), la Samaria (v. la donna dai cinque mariti + uno; cf Gv 4,4) e Cafaao (cf Gv 2,12).
È la geografia della salvezza perché senza geografia Dio non parla e non agisce: l’incarnazione e la rivelazione dell’alleanza deve avvenire nella «storia» cioè in «un luogo» che diventa sacramento dell’incontro con Dio. Nessun credente può vivere senza geografia, perché questa segna i confini della propria esperienza, unita alla storia come sviluppo degli eventi. Nessuna spiritualità è possibile al di fuori della geografia della storia individuale e di popolo perché il Dio di Gesù Cristo è «Emmanuel, Dio-con-noi», cioè Dio verificabile in un tempo e in uno spazio. Gv non cita questi luoghi per curiosità o per amore di cronaca, ma per ragioni teologiche: è il Lògos che vive «presso Dio, rivolto verso Dio, che era Dio» che opera da «Cana a Cana», che «sale a Gerusalemme», oppure «parte per la Galilea» oppure ancora si sposta «nella regione della Giudea».
È il Lògos eterno, la Sapienza esistente prima della creazione che «pianta la sua tenda» nella geografia e nella storia di Israele, il nuovo Tempio dove possiamo incontrare Dio faccia a faccia senza il terrore di dovere morire (Gen 33,31; Es 33,11).
Cana: una o tre?
Il villaggio di Cana, nel IV Vangelo, è sempre accompagnato dal complemento denominativo/specificazione «della Galilea», quasi un accorgimento necessario per distinguerlo da altre omonimie. Ancora oggi essa indica la località, custodita dai francescani e frequentata dai pellegrini che la tradizione indica come il luogo del «segno» dell’acqua trasformata in vino. Le ricerche archeologiche e gli studi delle fonti hanno però riproposto la problematica della sua identificazione, per la quale addirittura si sono ipotizzate tre località:
1- Qana: 12 km a sud-est di Tiro, di cui si parla nel libro di Giosuè, collocata nella tribù di Aser (cf Gs 19,28), nel Libano meridionale (antica Fenicia), che non ha nulla da spartire con la Cana del IV vangelo, anche se il Libano la sfrutta per motivi turistici.
2 – Kefr/Kafr Kenna: 6 km a nord di Nàzaret, a est di Sèfforis, nella regione della Galilea e che, ancora oggi, corrisponde alla Cana tradizionale.
3 – Khirbet Qana: 14 km a nord di Nàzaret nella valle di Battòf o Bet Netòfa, ai piedi del monte Asamòn.
Schematicamente si può affermare che le fonti antiche sono incerte; fino al Medio Evo i pellegrini conoscono e frequentano Khirbet Qana; dal XVII secolo i pellegrinaggi dirottano verso Kefr/Kafr Kenna, specialmente per impulso del francescano Francesco Quaresmi, uomo di grande cultura che, come responsabile della Custodia di Terra Santa, visitò tutti i luoghi scrivendo tra il 1619 e il 1626 l’opera «Historica Teologica et Moralis Terrae Sanctae Elucidatio» (Descrizione storica, teologia e morale della Terra Santa, in 2 volumi), ancora oggi considerata dagli studiosi l’opera più considerevole sui luoghi della memoria del Signore. In modo particolare, la tradizione di Kefr/Kafr Kenna si diffonde dal XIX secolo con l’edificazione di una chiesa, forse su una sinagoga preesistente. Per quest’ultima si schierano archeologi e studiosi di matrice francescana come padre Bellarmino Bagatti e il biblista, suo confratello, Emmanuele Testa1.
Secondo Eusebio di Cesarea (265-340, che riporta la testimonianza di Giulio Africano, morto nel 240)2 a 4 km a ovest da Khirbet Qana, esisteva al suo tempo un villaggio, Kaukàb, dove risiedevano ancora parenti di Gesù. Ancora oggi, è questa località a mantenere il monopolio di mèta indiscussa di pellegrinaggi identificata come la Cana delle nozze evangeliche.
Sulla identificazione archeologica, si crede che la parola definitiva sia stata detta dall’ultimo lavoro scientifico dovuto a un prete spagnolo, Júlian Herrojo3; non è un archeologo, ma ha svolto un lavoro straordinario di ricerca, analizzando criticamente tutti i testi letterari esistenti, pervenendo a una conclusione obbligata: la Cana evangelica non è quella dei pellegrinaggi abituali o Kefr/Kafr Kenna, ma è Khirbet Qana, nascosta ancora in parte sotto il terreno e che nascosta resterà, perché sarà difficile scalzare una tradizione ultramillenaria che continua a guidare i pellegrini all’altra Cana.
Fonti bibliche
L’esame delle fonti bibliche non è complicato in se stesso, ma pone qualche problema, perché l’interpretazione che ne danno i documenti posteriori di epoca cristiana non sempre sono univoci e chiari. Nell’AT il lemma «Qānāh» ricorre solo nel libro di Giosué: due volte per indicare il nome di un torrente (Gs 16.8; 17,9 che il greco della LXX traduce rispettivamente con «Chelkàna e Karàna») e una volta per indicare una località della tribù di Aser, localizzata in Libano: «La quinta parte (della terra) sorteggiata toccò ai figli di Aser… Il loro territorio comprendeva: …Cammon e Qānāh fino a Sidone la Grande» (Gs 19,25-30, qui vv. 24.25 e 28). Il nome Qānāh appare in una lista di località conquistate da Ramses II (ANET, 256; LOB, 181) e, con buona probabilità, corrisponderebbe al villaggio arabo di Qāna, 10 km a sud est di Tiro, cioè la Cana fenicia o del Libano (ABEL, Géographie II, 412), come accennato sopra. L’ortografia ebraica, Qānāh, è nota anche da una lista di località sacerdotali che, dopo la rivolta di Bar Kochba nella terza guerra giudaica (132-135), attesta la presenza a Cana della famiglia del sacerdote Eliasib (cf. GEIB, 244; DALMAN, Les Itinéraires 110). Lasciando da parte il Libano che dista non meno di 100 km dal luogo che ci interessa, restano le altre due località che sono contese dagli studiosi (v. nota 1).
Nel NT il villaggio di Cana è menzionato 4 volte e sempre nel IV vangelo (cf Gv 2,1.11; 4,46; 21,2) e in tutte le 4 occorrenze, probabilmente per distinguerla dall’altra, è chiamata «Cana della Galilea».
Gv 2, 1.11: inizio e chiusura (inclusione) del racconto delle nozze di Cana.
Gv 4, 46: guarigione a distanza del figlio del centurione di servizio a Cafaao (cf Gv 4,46b).
Gv 21, 2: qui si dice che l’apostolo Natanaele è originario di «Cana della Galilea».
Nel racconto dello sposalizio di Cana, l’attenzione è centrata sulla trasformazione dell’acqua in vino: fatto così importante che l’autore sente la necessità di ricordarlo come evento quando parla della guarigione del figlio del centurione romano: «Andò di nuovo (dalla Samarìa) a Cana della Galilea, dove aveva cambiato l’acqua in vino» (Gv 4,46). Subito dopo l’autore aggiunge che il centurione romano si trovava (in missione?) a Cana, ma viveva di norma a Cafaao, la città dove Gesù era sceso con sua madre e i suoi discepoli subito dopo le nozze (cf Gv 2,12). Gesù dunque scende a Cafaao, va in Samarìa dove incontra la donna samaritana al pozzo (cf Gv 4,1-42) e risale a Cana. Qui incontra il centurione romano che è di Cafaao: questi indizi non ci dicono dove sia Cana, ma affermano che deve essere vicina a Cafaao se si verifica questo «via-vai» frequente.
In tutti e 4 i testi, quando l’evangelista nomina la località usa sempre l’articolo individuante: non dice «Cana “di” Galilea», ma è più preciso perché non vuole sbagliare né ingannare i suoi lettori; egli parla di «Cana “della” Galilea», con una denominazione specifica che indica una località ben conosciuta nelle vicinanze di Cafaao o comunque del lago di Tiberiade. Tutte e due le località sono vicine, se consideriamo che le distanze al tempo di Gesù non erano quelle odiee che seguono vie asfaltate e tortuose, ma erano più contenute perché strade che si percorrevano a piedi o mulattiere. C’è un diario di viaggio dell’«Anonimo Piacentino» (560-594) che è interessante perché ancora nel VI secolo accenna a una liturgia rituale di due idrie usate per offrire vino e all’usanza diffusa nei luoghi santi e in tutto il mondo di scrivere i nomi di chi si vuole ricordare sul tavolo di legno:
«Da Tolemaide (Akko), lasciammo il litorale e giungemmo ai confini della Galilea, nella città di Diocesarea, in cui adorammo in molti il cestello (testo incerto) della santa Maria. Nello stesso posto c’era la sedia di quando l’angelo venne a lei. Quindi, dopo 3 miglia, giungemmo a Cana, dove il Signore partecipò alle nozze, e ci sedemmo sullo stesso sedile, dove, indegnamente, scrissi il nome dei miei genitori. Delle due idrie che sono qui, una la riempii con vino e così piena la caricai sul collo e l’offrii sull’altare e nella stessa fonte ci lavammo in benedizione» (Recensio Prior Rhenaugiensis 73) .
L’excursus letterario, archeologico e geografico che abbiamo fatto potrebbe sembrare arido ed eccessivo nell’economia di una rubrica «giornalistica», ma solo ai superficiali, perché la Parola di Dio è sempre «Parola» sia in chiesa, sia in un libro, sia in una rivista e dovunque deve essere onorata e approfondita con lo stesso zelo e ardore. La geografia non è estranea alla fede, perché è il luogo dove ciascuno di noi ha incontrato il Signore e come gli innamorati conservano memoria viva dei luoghi e tempi del primo innamoramento, anche noi dovremmo conservare «memoria innamorata» degli spazi fisici dove il Signore a ciascuno di noi «manifestò la sua Gloria». La Bibbia ci insegna come fare.
 (20 – continua)

Paolo Farinella




Non ti è lecito

«Se verrete a conoscere chiaramente che sono in pericolo la salvezza e l’onestà delle figliole,
non dovrete per niente consentire, né sopportare, né aver riguardo alcuno.
Se non potrete provvedere voi, ricorrete alle madri principali e, senza riguardo alcuno,
siate insistenti, anche importune e fastidiose» (Sant’Angela Merici).

Da anni, insieme a tre mie consorelle (suore Orsoline del S. Cuore di Maria), sono impegnata
in un territorio a dire di molti «senza speranza». Un territorio, quello casertano,
sempre più in ginocchio per il suo grave degrado ambientale, sociale e culturale, dove
anche la piaga dello sfruttamento sessuale, perpetrato a danno di tante giovani donne
migranti, è assai presente con i suoi segni di violenza e di vera schiavitù.
Come donna, come consacrata, provocata dal Vangelo di Gesù che parla di liberazione e di speranza,
insieme alle mie consorelle, ho scelto di «farmi presenza amica» accanto a queste giovani
donne straniere, spesso minorenni, per offrire loro il vino della speranza, il pane della vita e il
profumo della dignità.
Oggi, osservando il volto di Susan chinarsi e illuminarsi in quello del suo piccolo Francis, scelto e
accolto con amore, ripensando alla sua storia – una tra le tante storie accolte, la quale ancora
bambina (16 anni) si è trovata sulle nostre strade come merce da comprare, da violare e da usare
da parte di tanti uomini italiani – sono stata assalita da un sentimento di profonda vergogna, ma
anche di rabbia.
Ho sentito il bisogno, come donna, come consacrata e come cittadina italiana, di chiedere perdono
a Susan per l’indecoroso spettacolo a cui tutti, in questi giorni, stiamo assistendo. E non solo a
Susan, ma anche alle tante donne che hanno trovato aiuto e liberazione e alle tante, troppe donne,
ancora schiave sulle nostre strade. Ma anche ai numerosi volontari e ai tanti giovani che insieme
a noi religiose credono nel valore della persona, in particolare della donna, riconosciuta e rispettata
nella sua dignità e libertà.
Sono sconcertata nell’assistere come da «ville» del potere alcuni rappresentanti del governo,
eletti per cercare e fare unicamente il bene per il nostro Paese, soprattutto in un momento di così
grave crisi, offendano, umilino e deturpino l’immagine della donna. Inquieta vedere esercitare, in
maniera così sfacciata e arrogante, un potere che riduce la donna a merce e dove fiumi di denaro
e di promesse si intrecciano con corpi trasformati in oggetti di godimento.
Di fronte a tale e tanto spettacolo l’indignazione è grande!
Come non andare con la mente all’immagine di un altro «palazzo» del potere, dove circa duemila
anni fa al potente di tuo, incarnato nel re Erode, il Battista gridò con tutta la sua voce: «Non ti è
lecito, non ti è lecito!».
Anch’io oggi, anche a nome di Susan, sento di alzare la mia voce e dire ai nostri potenti, agli Erodi
di tuo, non ti è lecito! Non ti è lecito offendere e umiliare la «bellezza» della donna; non ti è lecito
trasformare le relazioni in merce di scambio, guidate da interessi e denaro; e soprattutto oggi
non ti è lecito soffocare il cammino dei giovani nei loro desideri di autenticità, di bellezza, di trasparenza,
di onestà. Tutto questo è il tradimento del Vangelo, della vita e della speranza!
Ma davanti a questo spettacolo una domanda mi rode dentro: dove sono gli uomini, dove sono i
maschi? Poche sono le loro voci, anche dei credenti, che si alzano chiare e forti. Nei loro silenzi
c’è ancora troppa omertà, nascosta compiacenza e forse sottile invidia. Credo che dentro questo
mondo maschile, dove le relazioni e i rapporti sono spesso esercitati nel segno del potere, c’è un
grande bisogno di liberazione.
E allora grazie a te, Susan, sorella e amica, per aver dato voce alla mia e nostra indignazione, ora
posso, come donna consacrata e come cittadina, guardarti negli occhi e insieme al piccolo Francis
respirare il profumo della dignità e della libertà.

Sr. Rita e sorelle, comunità Rut

Suor Rita




Il formaggio di malga khizabavra

Una storia di cooperazione partita dal palato

Isolata e senza prospettive la zona si era spopolata. Poi, nel 2005, Temur e Nana pensarono che con le mucche e i pascoli avrebbero potuto cambiare il presente e il futuro di Khizabavra.
Con l’aiuto dei missionari camilliani, della Caritas e di alcuni esperti venuti da Belluno è nato un caseificio che produce un formaggio apprezzato da tutti: cattolici e ortodossi, georgiani, armeni e italiani. 

Il Javakheti è un altopiano che si estende dal confine armeno-turco fino alla valle del Mtkvari, il principale corso d’acqua della Georgia. Il fiume scorre in un ampio corridoio inciso nell’altopiano, le cui pareti, le coste dei monti, salgono dapprima assai ripide per poi bruscamente distendersi in ampie praterie. La strada che porta a Khizabavra sale erta fino a raggiungere il limite di questa balza da dove la vista si spalanca sul pianoro, in fondo al quale si scorge il borgo raccolto intorno alla chiesa. Qui gli abitanti sono georgiani, ma se si sale ancora, addentrandosi nell’altipiano, s’incontrano villaggi interamente armeni. La convivenza tra i due gruppi etnici non è mai stata semplice. Da secoli georgiani e armeni si contendono primati culturali, artistici, religiosi, nonché la terra, su cui hanno sempre vissuto insieme.  
Le rivalità etniche, rimaste sopite sotto il regime sovietico, si sono risvegliate con l’istituzione della repubblica indipendente di Georgia, quando gli armeni del Javakheti si sono sentiti, e non del tutto a torto, cittadini di seconda categoria. Sono nati partiti politici che chiedevano maggiore autonomia dal governo centrale, il quale, dal canto suo riservava poche attenzioni a questo territorio isolato e arretrato. Fortunatamente, a differenza di Abkhazia e Ossezia, le aspirazioni irredentiste non hanno portato a un conflitto armato, sebbene le condizioni per una secessione ci fossero qui molto più che altrove. Il Javakheti, infatti, non solo confina con l’Armenia, ma è abitato per il 95% da armeni.

L’ARRIVO DEI CATTOLICI
La fine del regime comunista ha creato le condizioni per una rinascita religiosa in tutto il territorio dell’Urss, e la Georgia non ha fatto eccezione. Nel paese c’è una presenza cattolica non numerosa ma di vecchia data. Negli anni Novanta cominciarono ad arrivare i primi sacerdoti cattolici per prendersi cura delle comunità di fedeli che stavano riorganizzandosi e tentando di riaprire le chiese rimaste chiuse per decenni.
Sebbene la Georgia sia un paese tradizionalmente cristiano ortodosso, i rapporti con il mondo cattolico nei secoli sono stati generalmente non conflittuali, e in certi periodi, apertamente amichevoli. Così in disparte com’era rispetto al teatro delle dispute teologiche che occuparono i cristiani nel corso del primo millennio, la Georgia non ha vissuto il dramma della frattura tra le chiese d’Oriente e d’Occidente, consumatosi con lo scisma del 1054. Solo nel XIII secolo prese coscienza che era avvenuta una separazione tra la sua chiesa e quella di Roma, ma nessun atto ufficiale la sancisce. I missionari cattolici erano accolti con benevolenza dai signori georgiani, che, tra l’altro, speravano di ottenere dall’Occidente cattolico un aiuto contro i più potenti vicini musulmani; aiuto che non giunse mai.
Francescani e domenicani furono i primi ad arrivare in Georgia proprio nel XIII secolo. Nel 1329 fu istituito a Tbilisi (capitale della Georgia) il vescovato cattolico. Nel XVII secolo anche i teatini e i cappuccini fondarono proprie missioni nel paese. Intoo ad esse si crearono piccole comunità cattoliche che sono giunte fino a noi, attraverso secoli di dominazione musulmana e settant’anni di ateismo di stato. Queste comunità erano rimaste senza pastori durante il periodo sovietico, per cui, non appena fu possibile, furono inviati loro sacerdoti dall’Europa. Vi arrivarono gli stimmatini da Verona e i camilliani dalla Polonia. Ai polacchi la Santa Sede ha tradizionalmente affidato la cura dei fedeli cattolici nei paesi dell’area ex sovietica, contando sulla loro conoscenza del russo, che ha continuato a essere lingua di comunicazione anche dopo il crollo dell’Urss. La scelta degli italiani si spiega, invece, per le evidenti affinità di carattere che esistono tra i due popoli.

I CAMILLIANI E PADRE PAATA
La presenza cattolica in Samtskhe-Javakheti è concentrata in alcuni insediamenti: ad Arali, Vale, Ude, Khizabavra e Vargavi. Khizabavra fu affidata ai camilliani. Il primo fu padre Pawel Szczepanek nel 1997. Lui e i suoi confratelli, che nel frattempo avevano aperto una missione permanente aTbilisi, si dovettero rimboccare le maniche. Si trattava di ricominciare quasi da zero un’attività pastorale dopo decenni di vuoto totale.
Sotto il regime comunista la chiesa cattolica, costruita nel 1898 dall’architetto Varzelashvili, era stata chiusa e adibita a deposito, la casa parrocchiale era diventata un distaccamento della scuola locale. Adesso gli edifici non recano più le tracce del triste passato sovietico. La casa parrocchiale ha ripreso la sua funzione originaria ed è stata completamente ristrutturata. La grande chiesa in cima al villaggio è fresca di pittura. Un busto a Varzelashvili, il cui figlio fu fucilato nel 1937, è stato posto nel giardinetto accanto alla scuola. Caritas Georgia ha aperto un ambulatorio, dove si possono ricevere gratuitamente assistenza e farmaci, i camilliani hanno costruito un asilo per circa settanta bambini.
Molto più difficile, però, si è dimostrato ricostruire una vita di comunità. I fedeli dovevano riprendere pratiche di culto abbandonate da decenni senza sacerdoti che parlassero la loro lingua. Ai camilliani toccò imparare il georgiano e dedicarsi al catechismo, alla formazione dei giovani, all’attività pastorale con adulti e anziani, in attesa che i primi seminaristi locali terminassero gli studi e potessero sostituirsi a loro. Ora a Khizabavra c’è finalmente un sacerdote georgiano, padre Paata.
Sembrerebbe, dunque, che ormai non rimanessero più ostacoli alla rinascita di una piena vita religiosa. Paradossalmente, però, il senso di appartenenza alla chiesa, sopravvissuto all’ostracismo e alle persecuzioni riservate alla religione sotto il comunismo, in questi due decenni di libertà si è andato dissipando. Ora che il culto è tornato libero, ad esempio, ci sono tanti che scelgono di non battezzarsi.
Padre Paata vede le ragioni di tale scelta in parte nelle difficoltà economiche: mancano i soldi per fare una festa come si deve, secondo i grandiosi criteri locali; in parte nel timore di avere problemi con gli ortodossi in quanto cattolici.
Se pensiamo che in Georgia cristiani ortodossi e cattolici, ebrei e musulmani hanno convissuto in pace per secoli, raro esempio di tolleranza in epoche in cui tale virtù era poco praticata, si può dire che la fase attuale costituisce una rottura col passato. Il dopo Urss si è inaugurato con lo slogan «la Georgia ai georgiani». Un esasperato nazionalismo è stato iniettato nel sangue degli abitanti di questa terra generosa.  Questo nuovo corso ideologico ha fatto dell’Ortodossia la bandiera della rinascita nazionale. Essere georgiani s’identifica con l’essere ortodossi; per questo motivo oggi in Georgia l’unica chiesa riconosciuta e ufficialmente registrata dallo stato è quella ortodossa.

LA CRISI
All’indomani della fine del sistema sovietico i georgiani si sono trovati a fare i conti anche con una gravissima crisi economica. In Samtskhe-Javakheti, area prevalentemente rurale, le occupazioni tradizionali sono agricoltura, allevamento e produzione di latte. Negli anni Novanta la chiusura totale, o parziale, delle imprese alimentari e l’interruzione del sistema distributivo ebbero come conseguenza un drastico calo della produzione agricola e un declino nel numero degli animali.
La crisi cominciò a spingere molte persone fuori dei villaggi, della regione, o addirittura del paese. «Un tempo qui c’erano 300 famiglie, ora saranno al massimo 250. Molte case sono rimaste vuote», spiega padre Paata, «perché le persone si sono trasferite in città, o sono espatriate in cerca di lavori più remunerativi. A Vargavi, un villaggio a qualche chilometro da qui, sono rimasti solo in venticinque. Tutti anziani».
Sono arrivata a Khizabavra una domenica di fine agosto, giusto in tempo per assistere alla liturgia nella chiesa, tutta ridipinta e spaziosa ma semivuota. I fedeli erano in prevalenza bambini e ragazze, che sostenevano i canti. C’era anche qualche anziano. Gli uomini avevano preferito riunirsi a pochi passi dalla chiesa, sotto il grande albero accanto alla fontana, evidentemente un punto di ritrovo. Chiacchieravano o giocavano a carte. È il loro modo di svagarsi nel giorno di festa.
Tra di loro ce n’erano alcuni trasferiti in città e tornati al paese natale solo per qualche giorno di vacanza. Sono considerati fortunati perché sono riusciti a ottenere condizioni di vita più agevoli.  Gli «sfortunati» sono rimasti a lavorare nei campi o con gli animali. È una vita dura, perché il lavoro deve essere fatto quasi senza l’ausilio di macchine, troppo costose per essere acquistate da un singolo.  Così, chi può se ne va e chi non può tira avanti senza troppa convinzione, limitando il lavoro agricolo a una pura attività di sussistenza.
Questo decadimento dell’agricoltura ha portato a uno dei paradossi più sorprendenti dell’economia georgiana: un paese che sembra benedetto dal cielo per il suo clima e per la fertilità della terra, dove l’industria alimentare e conserviera dovrebbe prosperare, si rifornisce di frutta e verdura in gran parte dalla vicina Turchia. In piena estate le massaie di Tbilisi si lamentano di non riuscire più a trovare sul mercato pomodori e cetrioli nostrani, ma solo quelli turchi, fibrosi e insapori.
Con le loro ampie praterie gli altopiani dello Samtskhe-Javakheti sono luoghi ideali per il pascolo. Vi cresce un’erba fitta, succosa, ricca di fiori odorosi. Ai tempi sovietici alla comunità di Khizabavra furono date in dotazione una porzione di pascolo e una malga quasi al confine con la Turchia, dove nei mesi estivi venivano portate le mucche del kolkhoz, l’azienda agricola statale che raggruppava gli allevatori del villaggio. Vi si faceva il tradizionale formaggio georgiano, il suluguni, non stagionato e conservato in salamoia. Anche quest’attività non aveva retto alla crisi generale. Quando il kolkhoz era stato privatizzato e il suo patrimonio distribuito tra gli allevatori, costoro avevano cominciato a vendere le proprie mucche e la montagna si era andata vuotando.
Questo processo sembrava inarrestabile quando Temur e sua moglie Nana decisero di investire le proprie risorse per riprendere la produzione di formaggio. Non avevano molta esperienza in materia, ma avevano un sogno, maturato vedendo i compaesani lasciare le proprie case e non farvi più ritorno: ripopolare la montagna e riportarvi le attività tradizionali di modo che la gente avesse lavoro e potesse restare. Per far ciò, però, le loro risorse non bastavano. Bisognava incrementare gli animali, pagare l’affitto dei pascoli, ristrutturare la malga in rovina. Ne parlarono con padre Pawel Dyl, il camilliano che aveva preso il posto del primo, compianto, padre Pawel, morto in un incidente stradale nel 1999.

GLI UOMINI VENUTI DA BELLUNO
Il progetto appariva interessante: non solo avrebbe creato lavoro e fatto rivivere un’economia rispettosa del territorio, ma parte della produzione di formaggio sarebbe stata destinata all’asilo di Khizabavra e alle mense dei poveri gestite dai camilliani e da Caritas Georgia nelle città. Il sacerdote si offrì di aiutarli e si mise alla ricerca di uno sponsor. Approdò nel Bellunese, terra con una lunga tradizione nella gestione dei pascoli e nella produzione di formaggio. Caritas Belluno non era contraria a finanziare un progetto di sviluppo in un territorio che presenta caratteristiche simili a quelle della montagna dolomitica e inviò in Javakheti due esperti del Gruppo di Azione Locale Alto Bellunese.
«Non dimenticherò mai come avvenne in nostro primo incontro», racconta Temur. «Finalmente eravamo riusciti a portare alla malga gli italiani e dovevamo conquistare la loro fiducia, dimostrare quanto eravamo capaci di fare. Padre Pawel si era raccomandato di non fargli fare brutta figura ed eravamo tutti in tensione. Si trattava di far vedere come facevamo il formaggio. Mentre eravamo attorno al pentolone di latte che stava sul fuoco, si avvicina il nostro aiutante Sasha, con mani e braccia sporche fino al gomito, perché aveva tentato di aggiustare un vecchio trattore che non partiva. Alza un mignolo e lo immerge nel pentolone. “Non ci siamo ancora”, commenta, e torna al suo lavoro.
Sprofondai nello sconforto. Ora tutto è perduto, pensai, gli italiani non vorranno più sapee di noi e del nostro formaggio. Osservai le loro facce, pensando di trovarvi disappunto, ma vi lessi stupore. “Perché l’ha fatto?”, mi chiesero. “Per misurare la temperatura del latte”, spiegai. Scoppiarono in una fragorosa risata: “150 anni fa nelle nostre montagne non usavamo già più questo metodo!”, esclamarono. Questo episodio li convinse che dovevano assolutamente darci una mano».
Fu così che iniziò una felicissima collaborazione per la produzione di un formaggio molto speciale: il lavoro, i pascoli e il latte, sono georgiani, la tecnologia e la «ricetta», italiane. Molto è stato fatto da quel giorno del 2005, con gli sforzi di tante persone, in primo luogo di coloro che lavorano alla malga e dei due italiani, Luigi Pellegrini e Battista Attorni, che ogni anno vi trascorrono parte delle loro vacanze, controllano la qualità della produzione, si portano via un po’ di latte da analizzare. Ci sono, poi, la Caritas di Belluno-Feltre, le fondazioni Cariverona e San Zeno che hanno sponsorizzato il progetto, Caritas Georgia che segue la logistica e la parte amministrativa. Tanti sforzi che incominciano a dare i loro frutti.
Ora a 2.000 metri sull’altipiano c’è un piccolo caseificio, dotato di macchine italiane e organizzato secondo i migliori criteri d’igiene e sostenibilità. D’altra parte, è la natura stessa del luogo che spinge gli uomini a razionalizzare il più possibile il lavoro. Troppo impegnativo, e costoso, trasportare i bomboloni del gas su per l’orribile mulattiera: così si è pensato di sfruttare il salto d’acqua del vicino ruscello per produrre elettricità. L’operazione, in cui avevano fallito gli ingegneri chiamati da Tbilisi, è finalmente riuscita a un armeno del villaggio vicino, privo di diplomi ma vivo d’ingegno. Il prossimo passo sarà produrre combustibile biologico, utilizzando il letame che si accumula nella stalla.
Nel 2010, i due italiani hanno chiesto a Temur di anticipare la fienagione, che di solito nell’altopiano avviene a fine agosto, alla fase di prefioritura delle piante, quando il loro contenuto nutritivo è maggiore.  Se si migliora la qualità del fieno, dicono, gli animali si svilupperanno meglio e produrranno più latte. Così è stato fatto. Quando a fine agosto ho visitato la malga ho trovato due montagne di balle di fieno già pronte per l’inverno. Bisognerà aspettare la primavera per vedere se il nuovo sistema dà buoni risultati.

FRESCO E STAGIONATO
Oltre al tradizionale suluguni, ora alla malga di Khizabavra si fa uno squisito formaggio stagionato, una novità per la Georgia, dove il formaggio è per lo più fresco. Prodotto seguendo la ricetta del signor Battista, questo formaggio è così gradito al palato, che la scorsa estate si è aggiudicato il primo premio alla fiera alimentare di Sighnaghi, un’amena cittadina della Georgia orientale. È così buono, che non ho potuto trattenermi dal fae dono ai miei amici di Tbilisi e dal mettee una forma intera nella borsa prima di rientrare in Italia.  Alla prima occasione ne ho dato un pezzetto da assaggiare a un’amica di origini valtellinesi. Vi ha subito sentito qualcosa di famigliare: «Ha dentro il sapore dell’erba, proprio come quello che un tempo ci portavano dai nostri alpeggi».
Così il formaggio di Khizabavra, alla fine, ha messo d’accordo tutti: cattolici e ortodossi, italiani, georgiani e armeni; e sono sicura che ne sarebbero conquistati anche i turchi, se solo potessero assaggiarlo.

Bianca Maria Balestra

Bianca Maria Balestra




Profezia e utopia

Incontro con Abdessalam Najjar, primo abitante di Nevé Shalom

In territorio israeliano c’è un villaggio dove ebrei e palestinesi vivono insieme: lo ha inventato un domenicano ebreo, Bruno Hussar, profeta di grande fede, per testimoniare e insegnare che la pace non è solo un sogno e i conflitti possono essere superati con accettazione, rispetto e collaborazione reciproca.

«Mi chiamo Abdessalam e da oltre 30 anni sono in questa comunità chiamata Nevé Shalom-Wahat as-Salam, un villaggio in cui vivono insieme ebrei e palestinesi di cittadinanza israeliana, impegnati nel lavoro di educazione per la pace, l’uguaglianza e la comprensione tra le due popolazioni. La nostra esperienza è la dimostrazione tangibile che i due gruppi possono coesistere, vivere in pace e lavorare insieme».
Inizia così l’incontro con il professore Abdessalam Najjar, uno dei fondatori dell’«Oasi di Pace»: è questo il significato letterale della duplice espressione, in ebraico e in arabo,Nevé Shalom-Wahat as-Salam; termine ispirato alla promessa del profeta Isaia: «Il mio popolo abiterà in un’oasi di pace» (Is 32,18).

SOGNO DI PACE
«L’oasi nasce da un sogno di un domenicano ebreo: padre Bruno Hussar. Uomo di grande fede, arrivato a Gerusalemme nel 1960, aveva subito attratto attorno a sé un gruppo di persone di differente credo religioso e promosso incontri di dialogo tra cristiani, ebrei, musulmani. All’inizio era spinto da entusiasmo e buona volontà, senza sapere cosa avrebbe raggiunto: diceva che parlare è meglio che litigare».
Sorride Abdessalam e continua: «Dopo tanti incontri, padre Bruno cominciò a riflettere: “Siamo qui seduti in un piccolo gruppo, cristiani, ebrei, musulmani, tutta brava gente, tutti vogliamo la pace… ma perché fuori non c’è pace? Forse il gruppo di dialogo non basta; dobbiamo fare qualcosa di più”».
Alla fine degli anni ‘60 egli ottenne un pezzo di terra in prestito dal monastero trappista di Latrun e cominciò a sognare la sua «oasi di pace», iniziando a tenervi i suoi incontri soprattutto nei fine-settimana. Cominciò ad arrivare varia gente, soprattutto dall’Europa, giovani capelloni, nella loro strada verso l’India o di ritorno dall’India in cerca di un guru. Padre Bruno accoglieva tutti con molta cordialità, ma non era sua intenzione essere un guru. Il suo progetto era ben differente: mirava alle persone in conflitto, ebrei a palestinesi, disposti a vivere insieme, esplorando le cause del conflitto, per superarle ogni giorno, prendendo insieme le decisioni adeguate.
«A quei tempi – continua Abdessalam – quando incontrai per la prima volta padre Bruno, ero impegnato insieme a mia moglie nel dialogo tra studenti universitari ebrei e palestinesi e stavamo progettando una scuola per ebrei e palestinesi insieme. Egli mi invitò a costruirla nel suo villaggio di Nevé Shalom. Non vi immaginate la delusione che provammo quando andammo a visitarlo: mi aspettavo alberi e case come si addice a un’oasi; trovai solo un vecchio autobus in disuso, un pergolato di bambù e alcune pietre per sedersi. Padre Bruno cominciò a parlare del suo villaggio, di bambini che si arrampicavano sugli alberi… Domandai dove fosse realmente tale villaggio: “Ora ci siete voi e abbiamo Nevé Shalom; poi arriveranno anche i bambini” rispose seraficamente. Era fatto così: pensava una cosa ed era convinto che sarebbe diventata subito realtà».
Naturalmente ci vollero altri incontri per esplorare le varie possibilità, finché fu deciso di organizzare un campo estivo, tanto per dare vita a qualcosa di concreto: nell’estate del 1977 c’erano circa 300 giovani, ebrei e arabi, seduti insieme a discutere su che cosa significhi dialogare, lavorare, vivere insieme. Fu un evento importante, ma il sogno di padre Bruno divenne realtà l’anno seguente: alla fine del 1978 si stabilirono le prime quattro famiglie, tre ebree e una palestinese. Da quel momento la comunità continuò a crescere gradualmente, con l’arrivo di due-tre famiglie l’anno. Ora esse sono 60, metà ebree e metà palestinesi, tutte hanno la cittadinanza israeliana. Il progetto continua per raggiungere le 140 famiglie.

EDUCAZIONE BILINGUE
Narrata l’origine di Nevé Shalom, il dottor Najjar passa a spiegare la vita attuale del villaggio, guidandoci nella visita alle varie strutture della comunità, prime tra tutte gli asili nido. «Il problema educativo si è imposto fin dall’inizio, con la nascita dei primi figli. Fu deciso di educarli insieme. Ogni asilo ha una madre ebrea e una madre araba; ognuna parla la propria lingua ai bambini, in modo che ognuno cresca secondo le proprie tradizioni culturali, e al tempo stesso impari la lingua dei compagni di cultura differente. Col crescere dei bambini abbiamo deciso con padre Bruno di aprire la scuola matea, seguita poi da quella elementare. La comunità mi chiese di lasciare l’impiego nella scuola statale per insegnare qui, insieme a una maestra ebrea».
Nasceva così, nel 1984, la scuola bilingue ebreo-araba, la prima del genere in Israele. «Benché non fossimo preparati a tale impresa – continua il dottor Najjar -, dato che non esisteva alcuna struttura per preparare insegnanti di scuole del genere, l’esperienza riscosse un successo superiore alle aspettative: molte famiglie attorno chiesero di accogliere e istruire i loro figli nella nostra scuola».
Oggi la scuola elementare e quella matea contano complessivamente circa 300 bambini, oltre il 90% dei quali provengono dai villaggi vicini sia arabi che ebrei. Un nuovo edificio è stato richiesto per estendere il curriculum scolastico alla scuola media.

MODELLO DA ESPORTARE?
Nel 1997, il Ministero israeliano dell’Educazione riconobbe ufficialmente la scuola matea e l’anno seguente quella elementare; nel 2000 «incorporò» la scuola matea nel sistema scolastico nazionale. «Era uno degli obiettivi del nostro metodo educativo: lanciare un modello che potesse essere imitato particolarmente in città o regioni con popolazione binazionale. I nostri sforzi sembrano avere successo: oggi in Israele abbiamo 5 scuole come questa, bilingue arabo-ebrea. Abbiamo lavorato in altri paesi con situazioni di conflitto, come Irlanda, Cipro e nella ex Yugoslavia».
A Skoplie, in Macedonia, per esempio, è sorto un asilo infantile bilingue: le insegnanti sono state a Nevé Shalom per prepararsi a una scuola del genere. Si è tentata un’esperienza anche in Kosovo, con le comunità di albanesi e serbi, ma con gruppi separati, perché i serbi sono chiusi in enclaves e le restrizioni non permettono ancora di organizzare una scuola biligue.
Più che un modello da esportare, Nevé Shalom vuole essere un esempio, un laboratorio di metodologia educativa, da adattare alle situazioni concrete dei popoli in conflitto. Le pubblicazioni che descrivono i percorsi e i metodi educativi sperimentati a Nevé Shalom sono ora disponibili in ebraico, arabo e inglese.

SCUOLA PER LA PACE
Scopo di Nevé Shalom non era solo di formare una comunità, ma anche di espandee l’impatto educativo all’esterno. Già prima che le famiglie si stabilissero a Nevé Shalom, erano stati organizzati incontri di studenti di scuole arabe e di scuole israeliane per incontrarsi e discutere insieme. «Le chiamavamo “scuole di pace”. Non era una vera scuola, dato che l’incontro durava un giorno solo – racconta Abdessalam -; però si parlava di pace. Molte altre scuole vollero venire a parlare di pace. Quando le discussioni si svolgevano con calma e i giovani tornavano a casa tranquilli, dicevamo che l’incontro aveva avuto un bel successo. Ma una volta ci fu una discussione accesa e sperimentammo fortissime tensioni: non sapevamo cosa fare. La sera concludemmo che era stato un fallimento.
Qualcuno, invece, ci disse che le forti discussioni non significavano fallimento e che era meglio discutere i problemi piuttosto che non affrontarli. Ci spiegò che, trattandosi di problemi emozionali, non basati sulla razionalità, avremmo dovuto chiamare qualche persona qualificata per organizzare i gruppi, adottare le strategie per guidare le discussioni, valutare i risultati finali e i metodi adottati».
Dopo quattro anni di valutazione e studio, si giunse alla conclusione che un giorno era troppo poco, una settimana troppo lunga; la durata ideale per la scuola di pace era di tre giorni, con gruppi misti ristretti di 15-18 partecipanti, con due facilitatori, uno arabo e uno ebreo. La Scuola per la pace (School for peace, Sfp) cominciò ad avere una fisionomia più regolare e metodica anche nella struttura di lavoro, con meno lezione o informazione e più dinamica di gruppo.
Fu cambiato anche il fine da raggiungere: all’inizio si parlava di trasformazione politica. Cosa impossibile. Primo traguardo da raggiungere era prendere coscienza di se stessi, pensare e agire senza stereotipi e generalizzazioni, in modo da comprendere e capire gli altri. «Per raggiungere tale comprensione reciproca, tra ebrei e palestinesi, ci vuole tempo – spiega il dottor Najjar -. Non basta un incontro, ma occorrono più esperienze in altre situazioni e in altri gruppi, dopo di che è possibile che qualcosa cambi».
centro spirituale
La terza istituzione educativa, sogno di padre Bruno, è stato il Centro spirituale pluralista. Anche se in questa terra i conflitti non sono di natura religiosa, negli ultimi anni, purtroppo, la religione ha cominciato a giocarvi un ruolo importante. Padre Bruno si domandava: «Come mai noi popoli del libro ci facciamo guerra in nome di Dio? Deve esserci una interpretazione sbagliata della sacra scrittura. Nulla è più sacro dell’umano: non è la terra che fa la santità di un popolo, ma è il popolo che fa santa la terra. Più che parlare di cose spirituali, bisogna parlare in modo spirituale, poiché ogni aspetto della nostra vita ha una dimensione spirituale» insegnava padre Bruno.
Ci furono molti incontri di dialogo interreligioso, non a livello di contenuto teologico, ma a livcello esistenziale: si discuteva su come devono essere le relazioni umane tra persone di diversa fede religiosa; sul perché in certi periodi i rapporti erano più pacifici o più ostili; su cosa bisogna fare per creare relazioni di pace.
«Anche oggi – continua Abdessalam – le iniziative di dialogo interreligioso sono sempre legate alla realtà che stiamo vivendo; partecipiamo agli incontri come esseri umani, cioè portando con noi tensioni e problemi, conflitti e paure, emozioni e pregiudizi… per cercare di esplorarli psicologicamente e trattarli in modo spirituale, in modo religioso».
Un’altra intuizione di padre Bruno, suggerita dalla sua prima collaboratrice Anne Le Meignen, fu di non edificare una chiesa, una sinagoga o una moschea, ma un luogo speciale, aperto a tutte le religioni: la «Casa del silenzio» (Bet Dumia-Sakina, in ebraico e arabo rispettivamente). L’ispirazione era venuta dalla meditazione sul Salmo 65,2: «Per Te il silenzio (dumìa) è lode, o Dio…».
È una cupola candida, sul dorsale della collina boscosa, affacciata sulla pianura sottostante; unici arredi sono alcuni cuscini per sedersi. Qui ciascun abitante del villaggio, religioso o no, a qualunque fede faccia riferimento, può raccogliersi, per pregare, meditare, riflettere. L’unico linguaggio che vi si parla è, appunto, il silenzio.
«Dio si rivela nel silenzio – spiega Anne Le Meignen -. Ricordate l’esperienza di Elia sull’Oreb: Dio non era nel vento impetuoso, nel terremoto, nel fuoco, ma nel “qol demama daqqa, una voce di silenzio lieve” (1Re 19,12)».
Nel 2006 attorno alla Dumia è sorto appunto il «Centro spirituale pluralista Bruno Hussar», una struttura per incontri, giornate di studio e corsi dedicati a una riflessione spirituale sui problemi che costituiscono il cuore del conflitto in Medio Oriente e sulla ricerca di una possibile soluzione, attingendo le risorse disponibili nella propria cultura e tradizioni religiose. 
Un altro sogno di padre Bruno sta per realizzarsi: la «Casa degli studi silenziosi», un edificio con sale riunioni, biblioteca, spazi per la creatività artistica… un ulteriore strumento di carattere spirituale per educare al dialogo, alla riconciliazione ed alla pace, attraverso la ricerca dei punti comuni, da rintracciare anche nelle rispettive scritture sacre delle diverse religioni.

La vita a Nevé Shalom
Il villaggio è gestito in modo democratico: ogni anno viene eletto un segretario che lo governa, affiancato da quattro consiglieri; almeno una volta al mese viene convocata l’assemblea plenaria per prendere le decisioni più importanti.
Attualmente vi sono una sessantina di famiglie, metà ebree e metà palestinesi, ma presto se ne aggiungeranno altre. La lista di attesa è lunga; un comitato studia i vari casi, ne analizza le motivazioni, istruisce sulle condizioni ed esigenze per vivere nella comunità, esamina le capacità di resistenza e alla fine fa la selezione.
Ogni famiglia deve costruirsi la propria casa. La terra è della comunità, la casa è proprietà privata, ma non può essere venduta; se una famiglia lascia il villaggio, terra e casa rimangono alla comunità, non viene venduta ad altra famiglia.
Lingua ufficiale è l’ebraico, anche perché gli arabi sono generalmente bilingui; d’altronde, i palestinesi hanno bisogno di conoscere l’ebraico per vari motivi; gli ebrei invece, non conoscono l’arabo; magari sono bilingui di una lingua europea.
Il villaggio non è affiliato ad alcun partito o movimento politico. Fino ad ora nessun governo israeliano ha considerato Nevé Shalom un’iniziativa o progetto di interesse nazionale; c’è rispetto e nulla più. È stato chiesto in concessione un pezzo di terra, come il governo fa per i kibbutz, ma fino ad ora la richiesta è stata rifiutata, con la scusa che non è una iniziativa di necessità nazionale; in realtà non si vuole la presenza di arabi in territorio israeliano.
Dal punto di vista religioso a Nevé Shalom risiedono ebrei, cristiani, musulmani e agnostici. Buona parte di essi non vi sono entrati per motivi religiosi; anzi, molti non sono neppure coscienti della loro identità religiosa. Era una delle critiche mosse a padre Bruno: come prete avrebbe dovuto interessarsi solo di cristiani, invece accoglieva tutti, senza chiedere la loro appartenenza religiosa. Padre Bruno rispondeva: «Da parte mia non rinuncio a nulla della mia fede; quanto a quelli che ancora non hanno trovato la strada che porta a Dio, sono certo che, al momento, agiscono secondo la parola di Dio; un giorno forse troveranno anche la loro via a Dio».

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Haiti: la voce della società civile

Il libro

Pezzo d’Africa nei Caraibi, Haiti è la prima repubblica «nera» indipendente del mondo. Ma questo primato l’ha sempre pagato caro. Ancora oggi, c’è chi vuole negarglielo. Esce in Italia il primo libro-testimonianza di questo popolo. Tre domande agli autori.

Perché questo libro?
«Sui mass media italiani (ma anche stranieri) a parte rare eccezioni, non si è mai presentato il punto di vista degli haitiani di fronte alla tragedia del 12 gennaio 2010. Le testimonianze erano sempre quelle del cornoperante, del funzionario delle Nazioni Unite o del missionario. Noi abbiamo voluto invertire questo schema.
L’idea è stata quella di mettere in luce le caratteristiche del popolo haitiano e sottrarre al lettore lo stereotipo di un popolo sfortunato che può vivere solo con l’aiuto delle grandi potenze. Per far questo si presenta il punto di vista di personaggi, leader, della società haitiana a diversi livelli. Vogliamo far conoscere Haiti attraverso una lente diversa: quella di un paese che rinasce dalla popolazione locale che vi abita e ne è la linfa vitale. Mostrae il vero volto facendo parlare gli haitiani che vogliono essere protagonisti di questa ricostruzione: sociologi, intellettuali, artisti, donne impegnate nei movimenti femminili, politici, giornalisti, religiosi, personalità del mondo vudù, leader contadini. Di fatto sono loro che “scrivono” il libro».

Parlando di Haiti si pensa a terremoto, uragani,
colera. Calamità di ogni genere. Non viene in mente che ci possa essere una società civile organizzata.
«Ad Haiti i movimenti sociali, sono stati fondamentali in alcune fasi della storia. Intendiamo il movimento contadino, quello femminista e quello operaio, le associazioni per la difesa dei diritti umani, i media indipendenti, e molti altri. I movimenti degli anni ’70-’80 riuscirono a cacciare il dittatore Duvalier e a portare un loro membro a capo del paese. Fu un caso molto significativo a livello di America Latina, di uno Stato in cui il potere era diventato emanazione della base. Ma anche un esempio troppo “scomodo” per i vicini Stati Uniti. Questa esperienza fu repressa nel sangue e si fece di tutto per indebolire la società civile haitiana.
Oggi assistiamo a una tragedia dopo la tragedia. La comunità internazionale, Usa in testa, con la “scusa” della ricostruzione sta mettendo il futuro del paese sotto tutela. Gli sta, di fatto, rubando l’indipendenza. E il popolo haitiano rischia, ancora una volta, di restare escluso anche dai piani per il proprio sviluppo. Ma la società civile fa sentire la sua voce e noi siamo andati a raccoglierla».

Una parte del libro è consacrata agli haitiani in Italia. Qual è il loro peso nel processo di ricostruzione?
«Gli haitiani qui da noi non sono molti. Ma, per loro caratteristica, sono molto legati al paese di origine. In questa fase di ricostruzione, la diaspora (come si fanno chiamare) può essere fondamentale per un appoggio economico e intellettuale. Certo i numeri importanti sono gli haitiani di Stati Uniti, Canada e Francia. Ma gli haitiani d’Italia si sono subito attivati con sensibilizzazioni sul paese e raccolte fondi per dare assistenza. È una realtà, quella dei migranti, che fa parte della nostra società, ma allo stesso tempo ci permette di capire meglio anche paesi così lontani come Haiti».

Dalla prefazione
«Questo libro ci porta in mezzo agli haitiani, ad ascoltare la loro voce, le loro visioni sulla ricostruzione o “rifondazione” del Paese e della società. Le “forze vive” della nazione chiedono di partecipare alla definizione del futuro, ma questo diritto viene loro sottratto dai grandi della terra grazie alla complicità del governo haitiano. Ascoltare queste voci ci porterà a creare un legame di solidarietà con questo popolo, per andare oltre la carità» .
Maurizio Chierici

Marco Bello, Alessandro Demarchi, Haiti, l’innocenza violata. Chi sta rubando il futuro del Paese? ,
Infinito Edizioni, Roma, 2011, € 13,00.
www.infinitoedizioni.it.




Il potere, prima di tutto

Costa d’Avorio: la battaglia di Abidjan

Due presidenti, due primi ministri, due governi, 179 morti e centinaia di feriti, violazioni massicce dei diritti umani. Il paese che era il più prospero dell’Africa dell’Ovest è di nuovo in balia della stupidità dei suoi dirigenti. Laurent Gbagbo, al potere da 10 anni, ha perso le elezioni ma non vuole passare la mano.

Guerra civile o riconciliazione nazionale? La Costa d’Avorio sta camminando sul filo del rasoio. Le elezioni del 28 novembre, che avrebbero dovuto porre il sigillo su un decennio di instabilità politica e sociale, non sono riuscite ad aprire una transizione democratica. Il risultato ottenuto è il caos, con i due candidati, Laurent Gbagbo e Alassane Ouattara, che si proclamano vittoriosi. Una comunità internazionale che appoggia apertamente Ouattara. Il rischio di sanzioni da parte di Francia e Stati Uniti. Le forze armate che sostengono Gbagbo e gli ex ribelli del Nord che appoggiano Ouattara. Ma da dove nasce questa crisi? E quali sono state le cause scatenanti?

Gbagbo e la Francia
Tutto ha origine nel 2000. «In quell’anno – spiegano alcuni osservatori ivoriani – il generale Robert Guei, che aveva perso le elezioni, non si rassegnava a lasciare la scena e voleva mantenere il potere a tutti i costi. I sostenitori di Laurent Gbagbo, allora sfidante, scesero per strada, sostenuti dalle forze armate, per impedire la vittoria di Guei». Laurent Koudou Gbagbo sale quindi al potere. Nato da una famiglia di etnia bété a Gagnoa il 31 maggio 1945, professore di storia all’università di Cocody-Abidjan, successivamente diventa preside della facoltà di Lingue e culture. Nel 1982 entra in politica fondando il Fronte popolare ivoriano (Fpi). Sono gli anni del potere quasi assoluto del presidente-padre della patria Félix Houphouët-Boigny, sostenuto massicciamente dalla Francia, l’ex potenza coloniale, che in Costa d’Avorio mantiene forti interessi commerciali. Nel 1985, il presidente costringe Gbagbo all’esilio (che terminerà solo nel 1988). Gbagbo partecipa alle elezioni presidenziali del 1990, ricevendo però solo l’11% dei voti. Ci riprova nel 2000 e il consenso popolare premia il suo programma che vuole rompere con il passato.
Quali sono gli elementi di novità introdotti da Gbagbo? A differenza dei suoi predecessori, Gbagbo, che è un leader nazionalista fortemente legato alle etnie del Sud, non fa nulla per compiacere la Francia. È significativo il fatto che la sua prima visita all’estero sia stata in Italia e non in Francia. Ciò ha irritato moltissimo Parigi. Oltre al fatto che Gbagbo cerca nuove alleanze sia a livello politico sia a livello economico (guardando con interesse a nuovi partner tra i quali Stati Uniti e Cina). Questa «indipendenza» non può essere accettata da Parigi che, tra gli anni Novanta e Duemila, non ha ancora rinunciato alla politica egemonica sull’Africa occidentale.

La ribellione
La politica di Gbagbo non scontenta solo la Francia, ma anche il Nord del paese (e le sue etnie) sempre più relegato ai margini della vita politica nazionale e discriminato dal Sud egemone. Così, il 19 settembre 2002, ribelli delle regioni settentrionali tentano di rovesciarlo. Il golpe fallisce e si trasforma in una rivolta. La versione, diffusa da alcuni giornalisti francesi e dai sostenitori di Gbagbo, parla di ribelli mercenari pagati dal governo francese per destabilizzare un potere politico nazionalista e intellettualmente autonomo. La versione ufficiale francese è invece di soldati ribelli che tentano di conquistare Abidjan, Bouaké e Korhogo. Non riescono a prendere Abidjan, ma hanno successo nelle altre due città. Il paese si spacca: il Sud controllato dai governativi, il Nord dai ribelli.
Dopo alcuni mesi di combattimento viene raggiunto un primo accordo tra le parti che prevede l’arrivo dei peacekeeper francesi a controllare la linea del cessate il fuoco.
Dopo altri tentativi di accordo, lo stallo si rompe solo nel 2007 con la firma a Ouagadougou (Burkina Faso) di un’intesa che prevede il disarmo dei ribelli, il loro arruolamento nelle forze armate ivoriane e, soprattutto, nuove elezioni. Secondo l’accordo, Gbagbo deve rimanere in carica (i ribelli ne avevano chiesto la destituzione), ma con un nuovo governo di unità nazionale guidato da un primo ministro «neutrale»: il leader della ribellione Guillaume Soro.
I rapporti tra Gbagbo e la Francia intanto continuano a deteriorarsi. All’inizio di novembre del 2004, in seguito al rifiuto di abbandonare le armi da parte dei ribelli, Gbagbo ordina raid aerei contro le loro basi. Durante un attacco a Bouaké, vengono uccisi nove soldati francesi. Il governo ivoriano dichiara che si tratta di un errore, ma i francesi sostengono sia stato voluto e distruggono gran parte delle forze aeree militari ivoriane.

Il rivale Ouattara
Il mandato di Gbagbo scade nel 2005, ma viene più volte prorogato. E quindi anche le elezioni vengono rimandate. Le parti non riescono a trovare un’intesa sui criteri per il riconoscimento della cittadinanza ivoriana, requisito indispensabile per potersi iscrivere alle liste elettorali. I sostenitori di Gbagbo sono a favore di criteri restrittivi del riconoscimento della cittadinanza, nel tentativo di limitare l’accesso alle ue della gente del Nord, in gran parte musulmani di origine burkinabè (arrivati in Costa d’Avorio per lavorare nelle piantagioni di cacao e di caffé) o di etnie diverse da quelle che abitano le regioni meridionali. Tra molti dissidi, la registrazione degli elettori viene portata a termine quest’anno e le elezioni vengono fissate il 31 ottobre. Il primo tuo ha visto il successo di Laurent Gbagbo (38,3%) seguito da Alassane Ouattara (32,1%) che così hanno avuto accesso al ballottaggio, tenutosi il 28 novembre. Al terzo posto, l’ex presidente Henri Konan Bedié (25,2 %), ora alleato di Ouattara.
Alassane Dramane Ouattara, 68 anni, è un politico ivoriano di lungo corso. Nominato primo ministro dal presidente Félix Houphouët-Boigny è rimasto in carica dal 1990 al 1993 (assumendo per alcuni mesi gli incarichi presidenziali in sostituzione del presidente malato). Dopo la morte di Houphouët-Boigny, Ouattara ricopre ruoli prestigiosi prima al Fondo monetario internazionale (Fmi) e poi alla Banca centrale dell’Africa occidentale (Bceao), istituzioni per le quali aveva già lavorato negli anni Ottanta. Ma non tralascia la politica. Nel 1994 aderisce al Rassemblement des Républicains (Rdr), un partito che ha la sua base elettorale fra le etnie del Nord. Ma Ouattara paga cara la sua provenienza e il suo essere rappresentante delle regioni settentrionali. Per evitare la sua elezione, infatti, il rivale Henri Konan Bedié promuove una modifica della Costituzione che impedisce di candidarsi a chiunque non sia figlio di entrambi i genitori ivoriani. Il padre di Ouattara non ha origini ivoriane. Per questo motivo Alassane non riesce a candidarsi né nel 1995 né nel 2000. Di fronte alla ribellione del 2002, va in esilio in Francia, da dove toerà nel 2006.
Arroccato al potere
La sua candidatura alle presidenziali del 2010 mette in serio pericolo la rielezione di Gbagbo. E, infatti, i primi risultati delle elezioni del 28 novembre, resi pubblici il 3 dicembre dalla Commissione elettorale (l’organismo che ha gestito tutta la consultazione), danno la vittoria proprio a Ouattara (51,4%) con Gbagbo sconfitto (48,6%). Ma poche ore dopo la pubblicazione di questi risultati, il presidente del Consiglio costituzionale (organo supremo al quale la Costituzione ivoriana affida il compito di valutare la validità delle elezioni), Paul Yao N’Dre, un fedelissimo di Gbagbo, annulla il voto in alcune regioni settentrionali. Secondo i giudici, in queste zone, i sostenitori di Ouattara avrebbero impedito a quelli di Gbagbo di votare.
«È vero – spiega un commentatore ivoriano – ci sono stati casi in cui i sostenitori di Ouattara hanno impedito a quelli di Gbagbo di esercitare il voto. E gli osservatori inteazionali hanno registrato queste violazioni. Però, come ha fatto notare Choi, il rappresentante del Segretario generale dell’Onu, anche se tutte le contestazioni presentate da Gbagbo fossero riconosciute valide, non sarebbero in grado di invalidare il secondo tuo e di rovesciare gli esiti delle ue».
Gbagbo comunque si proclama vincitore e sabato 4 dicembre giura nelle mani del presidente del Consiglio costituzionale. Ouattara fa lo stesso e giura solennemente in una cerimonia che si è tenuta all’Hotel du Golf, un prestigioso albergo di Abidjan (dove Ouattara risiede, protetto dai caschi blu dell’Onu).
Nazioni Unite, Unione africana e Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Cedeao) riconoscono la vittoria di Ouattara. Lo stesso fa la Francia e gli Stati Uniti.

Crisi
La tensione sale alle stelle. Si registrano ben presto scontri tra i sostenitori dei due presidenti. Almeno 179 morti e centinaia di feriti in pochi giorni.
Mentre l’Alto commissariato ai diritti umani dell’Onu denuncia violazioni massive e casi di rapimenti nottui e uccisioni selettive, ad opera delle Forze di difesa e di sicurezza (Fds), corpo militare fedele a Gbagbo.
Nei giorni successivi la pressione internazionale su Gbagbo diventa forte. Da più parti il presidente viene invitato a lasciare il potere. In un’intervista rilasciata venerdì 10 dicembre al quotidiano pubblico (a lui vicino) Frateité Matin, Gbagbo apre a un possibile dialogo con l’avversario: «Se c’è un problema bisogna sedersi e parlare». Una dichiarazione che può essere interpretata come un’apertura nei confronti di Ouattara.
In questo senso lavorano anche i rappresentanti religiosi. Tre arcivescovi guidati dal presidente della Conferenza episcopale, monsignor Joseph Aké, si sono recati da Gbagbo invitando a lasciare spazio ai negoziati. Esponenti musulmani e di altre fedi hanno seguito la stessa strada sottolineando che nessuno vuole che il Paese precipiti nuovamente in un conflitto interno.
Economia in difficoltà
La prima vittima di questa crisi politica è il sistema economico. Già duramente messa alla prova dalla rivolta del 2002, l’economia ivoriana stava lentamente riprendendo. Il tasso di crescita del Pil era aumentato del 3,6% dal 2008 al 2009. Nei primi giorni di dicembre, però, l’esito incerto delle elezioni (che ha causato un blocco decisionale e ha portato con sé anche il coprifuoco per gran parte della giornata) ha di fatto rallentato ogni attività. Il 14 dicembre 130 camion provenienti da Mali e Burkina Faso (paesi senza sbocco al mare e che si servono dei porti ivoriani) erano fermi al porto di Abidjan in attesa che le merci venissero scaricate e imbarcate sui mercantili. I negozi, ma anche le banche, gli uffici e molte fabbriche erano chiuse o marciavano a rilento. I prezzi di molti beni di prima necessità sono aumentati del 50%. Anche il settore del cacao (che rappresenta il 40% delle esportazioni e il 10% del Pil), già in difficoltà per la disorganizzazione della filiera e la corruzione dilagante, ne sta risentendo. L’incertezza politica rischia di far chiudere molte aziende e di allontanare gli investimenti stranieri.
Il 20 dicembre l’Unione europea dà seguito all’ultimatum e decide sanzioni contro Gbagbo, sua moglie Simone, e persone a loro fedeli, tra cui il presidente del Consiglio costituzionale e il direttore della Radio Televisione e alte cariche dell’esercito.
Si attende una decisione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sul rinnovo della missione Onuci (10.000 caschi blu e 900 francesi), che l’auto proclamato presidente Gbabgo vuole mettere alla porta.

Enrico Casale

Enrico Casale




La cittadella della salute

Una cardiologa all’ospedale di Ikonda

L’ospedale di Ikonda  è una delle opere più care ai missionari della Consolata in Tanzania.
Ad esso hanno dedicato passione e competenza molti missionari e missionarie della Consolata e tantissimi volontari da ogni parte d’Italia, e non solo. Anna Gennari, cardiologa, è una di questi volontari. Scopriamo l’ospedale con i suoi occhi.

La prima impressione che ho provato arrivando all’ospedale di Ikonda è stata di meraviglia: nonostante avessi parlato con diversi medici che erano già stati là e avessi visto la documentazione  fotografica non ero davvero  preparata a quello che ho trovato. Dopo due giorni di viaggio, in mezzo a una regione bellissima, ma poverissima, che vive di agricoltura di sussistenza e un lungo percorso su una strada sterrata attraverso villaggi privi di acqua ed energia elettrica, davanti ai miei occhi è apparsa una struttura nuova, perfettamente curata e pulita con prati verdi, piante e fiori e vialetti di ghiaia. Al nostro arrivo ci riceve Padre Sandro Nava, anima e amministratore dell’ospedale, con una piccola festa di benvenuto.
L’ospedale, una struttura bianca ad un piano, è nuovissimo e perfetto sia come costruzione che come manutenzione; ha 270 letti per i ricoverati che, in certi periodi, possono diventare anche più di 300! All’ingresso un servizio di accettazione, svolto dalle infermiere che effettuano un primo triage (smistamento/selezione), e  controllano frequenza cardiaca, pressione arteriosa e temperatura di tutti i pazienti, che così vengono smistati ai vari ambulatori. Anche nei momenti di maggiore affluenza (i pazienti arrivano spesso a gruppi con i pulmini di pubblico servizio e, ovviamente, senza prenotare) questo lavoro si svolge con code ordinate di persone tranquille ed educate.
con gli occhi dell’ospite
Il giorno stesso del mio arrivo sono condotta a fare un giro di tutto l’ospedale dalla dott. Manuela Buzzi, che tutti chiamano familiarmente Manu, vero pilastro dell’organizzazione. Come farmacista ella svolge il lavoro di approvvigionamento di tutti i farmaci e i materiali di consumo e li smista quotidianamente alla farmacia intea e ai vari reparti secondo le esigenze. Questo lavoro già molto impegnativo è reso più difficile da diversi problemi: la lontananza dalla fonte di approvvigionamento che è, per quasi tutto, Dar es Salaam, le pessima condizioni delle strade soprattutto nella stagione delle piogge e la precarietà organizzativa dei distributori centrali che a volte rimangono sprovvisti di farmaci o ne danno in quantità inferiore alle richieste e anche alle promesse! Si rende perciò necessario fare delle scorte a lungo termine prevedendo i consumi. Il miracolo è che non manca quasi mai niente e poiché questo è ormai risaputo dalla popolazione, chi ha bisogno di un farmaco particolare chiede all’ospedale di Ikonda invece che a Dar es Salaam!
Visito così tutti i reparti di degenza: la pediatria, la mateità, la medicina e la chirurgia per donne e uomini, le malattie infettive. Le camere, grandi a tre letti, sono separate dai bagni con acqua corrente calda e fredda (a Ikonda, durante i mesi invernali – da giugno ad agosto – fa proprio freddo, con delle belle brinate). C’è persino un reparto a pagamento con camere singole per chi se lo può permettere. Completano il tutto il blocco operatorio con due sale ben attrezzate, la grande farmacia e il laboratorio di analisi. Due corridoi sono riservati agli ambulatori, radiologia ed ecografia. All’esterno dell’edificio principale ci sono l’ambulatorio per i malati di AIDS e tutti i servizi: la lavanderia e stireria, alla centrale termica, la centrale elettrica, la produzione dell’ossigeno, la casa dei missionari della Consolata, quelle degli infermieri, dei volontari e delle suore, l’asilo, i magazzini. Appena fuori dai cancelli dell’ospedale ci sono un ostello per le gestanti che vi sono accolte se provengono da molto lontano, e un grande un edificio per alloggiare i parenti dei ricoverati che devono provvedere il cibo per i rispettivi congiunti degenti. Una piccola città insomma dove la vita scorre tranquilla e organizzata.

Subito al lavoro
Il primo giorno, durante la riunione del mattino alle 8 precise, ci sono le presentazioni e sono introdotta ai vari colleghi, medical officers e infermieri capi dei vari reparti e …inizio il mio lavoro vero e proprio. L’ambulatorio di Cardiologia ha già molte richieste perché del mio arrivo ha dato notizia anche il parroco del villaggio di Ikonda durante la messa della domenica, e perché altri tre colleghi mi hanno preceduto in questo lavoro. Mi affianca il dott. Abdon, tanzaniano, che ha già preso confidenza con i problemi di diagnosi e terapia dell’ipertensione, dello scompenso cardiaco, ce delle valvulopatie e inizia a familiarizzarsi con elettrocardiogramma ed ecografia, ma ha soprattutto un buon modo di parlare con i pazienti (ovviamente in kiswahili) ai quali traduce anche mie eventuali domande. Come tutte le persone che ho conosciuto durante il mio soggiorno a Ikonda è tranquillo e gentile in modo spontaneo, ciò che ha reso più facile il mio lavoro.
Durante la mattina, visitiamo un gran numero di persone, richiedendo, per alcune, esami supplementari (raggi-x, esami di laboratorio, …). Queste aspettano quindi di essere riviste se possibile nel pomeriggio, a volte anche il giorno dopo! Il problema del tempo è vissuto in un modo decisamente meno stressante che nel mondo occidentale. La difficoltà maggiore, soprattutto all’inizio, è affrontare delle patologie già avanzate senza documentazione di precedenti visite o esami: in effetti il ricorso all’ospedale è spesso visto come rimedio estremo di situazioni già molto gravi o per altri versi non rimediabili.
Il lavoro, specie nei primi giorni è stato intenso, ma sempre tranquillo perché a Ikonda si impara presto a non essere assillati dal tempo: si fa tutto con la necessaria calma e alla fine della giornata si trova sempre il tempo per fare una passeggiatina nei dintorni, per leggere un libro, ricevere e scrivere qualche e-mail o preparare qualche utile aggioamento di cardiologia per il personale locale che ne ha fatto specifica richiesta. La vita ad Ikonda trascorre serena, scandita dagli orari dei pasti che si consumano con i missionari e gli altri volontari che prestano la loro opera in ospedale. Dopo cena un appuntamento con le informazioni dall’Italia tramite la TV satellitare e poi una passeggiatina fino a casa sotto il magnifico cielo stellato dell’Africa .

La clinica mobile
Una mattina sono uscita con la clinica mobile: una fuoristrada con due infermiere che ogni giorno del mese visita un diverso villaggio della regione per un controllo dei bambini fino a cinque anni di età e delle loro mamme. Il viaggio, su strade sterrate piuttosto accidentate, richiede da una a due ore. Nel villaggio di tuo visitato si radunano tutte le mamme con i loro bambini che sono visti e pesati, mentre le mamme, riunite poi in un locale-consultorio, ricevono indicazioni sull’alimentazione e l’igiene. I nati da donne sieropositive sono seguiti secondo un preciso protocollo di controlli e sono registrati in un apposito libro. Il legame tra l’ospedale e le esigenze della popolazione è molto stretto, e il servizio sanitario offerto non viene somministrato dall’alto, ma è partecipato e apprezzato da tutta la popolazione. Durante la clinica l’atmosfera è serena e festosa: le mamme chiacchierano mentre i bambini giocano tutt’intorno.
Vi voglio raccontare un piccolo episodio che aiuta a capire la situazione: un pomeriggio, guidati dalla Dott. Manuela, siamo andati a visitare l’ospedale Regionale di Machete, organizzato e finanziato dal governo Tanzaniano, a circa 1 ora e mezza di strada. La sensazione è stata quella di abbandono e degrado, con pochissimi ricoverati di cui quattro puerpere. Chiediamo di fotografarle e loro acconsentono, ma chiedono di avere una copia della foto. Manuela dice: “Certo, ma dovete venire a prenderla a Ikonda” e una di loro: “Verrò la prima volta che sono ammalata!”.
La Tanzania gode di una situazione politica stabile e senza guerre da molti anni e la popolazione ha un atteggiamento veramente riconoscente nei riguardi di tutti coloro che si prodigano per la loro salute; un misto di gentilezza, rispetto e riconoscenza che rende più lieve il compito di fare i medici e più difficile il momento del commiato… molti (volontari) infatti tornano perché lasciano là un pezzetto di cuore.

Anna Gennari

Anna Gennari




«A Sud delle nuvole»

Lo Yunnan, cuore della multiculturalità

Schiacciato tra le montagne tibetane ed i confini con gli stati del sud-est asiatico, lo Yunnan è terra di frontiera, di scambi culturali e commistioni etniche. Pechino vi ha imposto uno sviluppo turistico rapidissimo, con effetti devastanti sulla regione e sulle minoranze.

Se una volta, in aree di confine come questa, occorreva spargere molto sangue (in guerre senza l’obiettivo della pulizia etnica, ma tendenti all’annessione o sottomissione del potere locale), oggi, senza necessità di violenza fisica, la maggioranza etnica han è riuscita ad imporre la propria supremazia non solo numerica, ma anche culturale. A suon di denaro e mattoni. Ce ne accorgiamo appena scesi dall’autobus notturno Kunming – Zhongdian, quando la foschia dell’alba ci accoglie nella contea di Xianggelila, il nuovo nome esotico che il governo cinese ha affibbiato al distretto montuoso sul confine tibetano, adottando e cinesizzando il nome Shangri-La, che James Hilton negli anni Trenta aveva utilizzato nel suo «Orizzonte perduto» per descrivere la mitica e mistica regione montuosa del Kunlun, retta dai lama tibetani.
In realtà, i territori descritti da Hilton corrispondono oggi alla parte settentrionale dell’altopiano tibetano, estesi fino all’attuale provincia del Gansu, ma nel 2001 le autorità di Pechino hanno deciso di dare a Zhongdian e dintorni questo nome a forte carica evocativa mistica, iniziando con l’inganno un processo di modeizzazione ed imposizione del progresso su larga scala.
Zhongdian – chissà com’era dieci anni fa – nel 2010 è una città snaturata: camminando dalla stazione degli autobus al centro storico si rincorrono desolanti costruzioni squadrate ed austere, tipiche dell’espansionismo demografico cinese, hotel a sei o sette piani illuminati come discobar anche in pieno giorno, negozi di chincaglieria assortita, lavori in corso in ogni angolo, centri per la telefonia mobile e negozi di souvenir. Appena varcata la soglia immaginaria che divide la città vecchia dalla periferia, l’inganno assume delle fattezze disneyane.
La città vecchia, completamente ricostruita nel 2004, è un parco a tema plasmato intorno all’ideale tibetano prêt-à-porter: signore agghindate nei vestiti tradizionali gestiscono i negozietti di souvenir, che compongono almeno l’80% dell’intera città vecchia, dove si trova di tutto, dall’oggettistica del sacro ai pupazzetti celebrativi dell’Expo di Shanghai, passando per pashmine tibetane, scarpe tibetane, maglie tibetane, cappelli tibetani, occhiali tibetani, coltelli tibetani, nella perversione che qualsiasi cosa vendano i negozi di Zhongdian, oltre 3.000 m di altezza, debba per forza essere «tibetana». Gli spazi rimanenti, che si snodano tra le vie ciottolate del centro, sono tutti popolati da guesthouse o ristoranti per tasche occidentali o per cinesi dalle tasche occidentali, ricostruiti secondo i presunti canoni architettonici tibetani.

PER MILLE YUAN AL MESE:
Storia di John, il tibetano

In uno di questi alberghi finto-autentici, convinco un giovane cameriere a raccontarmi la sua storia, alternando il suo inglese approssimativo al mio cinese stentato.
Si fa chiamare John, ha 20 anni ed è di etnia tibetana. Proviene da un villaggio lontano da Zhongdian, e come molti coetanei ha deciso di spostarsi in città per tentare la fortuna. Dopo una serie di lavori come manovale, riesce a farsi assumere in un hotel fuori dalla città vecchia – lussuosi e costosi, come piacciono ai turisti cinesi – dove ricopre una quantità indefinita di mansioni. Il suo ruolo è il tuttofare, la paga è buona, oltre 1.000 yuan al mese. John vuole imparare l’inglese, che considera il lasciapassare per una vita migliore. Vuole essere «open to the world» (aperto al mondo, ndr), lo ripete spesso durante la nostra chiacchierata. Il giovane tibetano racconta che, dopo aver messo da parte i soldi necessari, si è licenziato dal lavoro ed è partito per Canton, una meta per nulla casuale. A Canton infatti si tengono dei corsi d’inglese full immersion di una settimana chiamati «Crazy English», delle lezioni comuni a gruppi di centinaia di giovani cinesi tenute dal celeberrimo Li Yang, il guru dell’apprendimento dell’inglese in Cina. Tariffa giornaliera 1.000 yuan, che per una settimana fanno 7.000 yuan, ovvero sette mesi di lavoro pieni, senza contare le spese per la sopravvivenza ed il trasporto. Dopo l’esperienza cantonese, John ha fatto ritorno a Zhongdian ed ha trovato lo stesso lavoro di prima, ma in una guesthouse della città vecchia, a 800 yuan al mese.
Nonostante abbia dilapidato presumibilmente un anno di lavoro per una settimana di english full immersion, il risultato è stato oggettivamente abbastanza deludente: John si è ritrovato di nuovo impantanato nel mercato dei lavoretti stagionali, gli unici ai quali hanno accesso le fasce della minoranza etnica tibetana di Zhongdian e dintorni.
Come mi confida un gentilissimo cameriere tibetano la sera seguente, il grosso del business lo muovono imprenditori non autoctoni. Dal 2004, tutte le vecchie case tradizionali del centro sono state comprate da uomini d’affari provenienti dal sud dello Yunnan, dallo Zhejiang e dal Guandong. Dopo averle ristrutturate, portato la corrente elettrica in pianta stabile – nonostante i numerosissimi black out – ed il collegamento ad Inteet, gli affaristi han hanno affidato a persone di fiducia la gestione delle loro nuove proprietà, escludendo di fatto la popolazione locale, relegata ai banchi del mercato coperto o all’artigianato. Molti di loro si reinventano guide turistiche, ripetendo sistematicamente il nuovo mantra «Do you need a car?» (Ha bisogno di un’auto?, ndr) non appena intravedono un turista occidentale.
Solo la sera, nella piazza principale della città vecchia, i tibetani della zona si riuniscono a ballare sulle note delle musiche tradizionali, diffuse da potenti amplificatori posizionati sul perimetro dello spiazzo: di fronte a turisti occidentali e cinesi entusiasti, la popolazione locale mantiene vivi, apparentemente in modo naturale, i brandelli della propria cultura inevitabilmente destinata all’estinzione, di fronte al progresso veicolato dalle infrastrutture per le telecomunicazioni ed il turismo sponsorizzate dal governo centrale di Pechino. La strada a due corsie che collega Zhongdian a Deqin, località più remota della provincia di Shangri-La, apre infatti un flusso turistico interno tanto inedito quanto devastante, fatto di lussuosi hotel a quattro stelle e souvenir a buon mercato; un fenomeno che trae dall’esperienza di Lijiang la propria ispirazione.

IL DESTINO DEI NAXI

Lijiang, a metà strada tra Zhongdian e la capitale della provincia Kunming, nel 1997 è stata iscritta nel registro dei patrimoni mondiali dell’Unesco: con alle spalle una storia di oltre 800 anni, è stata la capitale di un regno indipendente, inglobato alla fine del XIII secolo dall’Impero cinese sotto la dinastia Yuan, popolato dalla minoranza etnica dei naxi. Perfettamente conservata, la città vecchia di Lijiang è un giorniello architettonico che ha mantenuto pressoché immutati i caratteri distintivi dell’antico borgo cinese: strade di ciottoli, tetti di pietra decorati, canali e lantee hanno valso a Lijiang il titolo di patrimonio dell’umanità, un riconoscimento che automaticamente ha messo a repentaglio la sua sopravvivenza.
Dal 1997, il governo ha preso il controllo della zona, premendo l’acceleratore sullo sviluppo turistico che, con la sua assenza, aveva preservato la bellezza del luogo. Pur mantenendo in alcune parti dei tratti di autentica pace, dove la sera si passeggia sentendo l’eco dei propri passi, oggi la città vecchia di Lijiang è in larga parte un contenitore per turisti, una tappa dei pacchetti vacanze «Lo Yunnan in una settimana». La città vive in uno stato di sovreccitazione perenne, scandito dagli orari di apertura e chiusura di ostelli, hotel, negozi di souvenir e ristoranti. La minoranza etnica dei naxi, tradizionalmente matrilineare, come nel caso di Zhongdian, si è ritagliata la sopravvivenza grazie all’artigianato locale, abitando prevalentemente i villaggi circostanti. A testimonianza vivente di resistenza perpetua, le anziane donne naxi vestono ancora gli abiti tradizionali, caratterizzati dalle vesti a manica larga colorate di un blu acceso, abbinate al coprispalla di pelle di pecora; il dongba, la lingua dei naxi, secondo l’ultimo censimento cinese del 2000 è parlato da 310.000 persone, 110.000 delle quali non conoscono nessun altro idioma, mentre il sistema di scrittura a pittogrammi sta lottando contro l’estinzione grazie ai programmi specifici di insegnamento scolastico, promossi lodevolmente dal governo locale fin dal 1996.
Il destino dei naxi e della loro cultura, seppur meglio preservati rispetto alla minoranza tibetana di Shangri-La, si scontra con le conseguenze del miracolo economico cinese. Un miracolo che ha creato una classe media con un potere d’acquisto tale da nutrire un turismo interno dalle conseguenze devastanti: turisti cinesi arrivano letteralmente a migliaia da tutta la Repubblica popolare, in un adattamento contemporaneo dell’esercito imperiale. A cavallo di pullman con condizionatore interno, armati di carta di credito e macchine fotografiche, l’orda han si riversa euforicamente e rumorosamente nei luoghi diventati simbolo della grandezza della Cina nel mondo, portando con sé gli strumenti del benessere e dello svago tipici delle grandi metropoli: i karaoke, i fast food occidentali, i centri commerciali, i negozi di moda.

I MOSUO, DOVE IL MATRIMONIO È (era)  BANDITO

Fino agli anni Ottanta, il lago Lugu, al confine tra Yunnan e Sichuan, si poteva raggiungere solo dopo una settimana di cammino. Negli anni Novanta fu costruita la prima strada e furono portati elettricità, scuole e beni di consumo. Oggi, considerando solo Lijiang, una decina di autobus al giorno percorrono le strade tortuose e mozzafiato strappate ai clivi delle montagne, raggiungendo il lago in sei ore di tragitto (salvo il rischio frane, particolarmente alto nella stagione piovosa estiva).
Al riparo dalla Storia, felicemente isolati dal resto del mondo, i mosuo (47.000 secondo l’ultimo censimento nazionale del 2000) hanno abitato i dintorni del lago Lugu tramandando una società basata sulla sussistenza e sul sistema matrilineare. Le donne si occupavano della gestione del denaro, delle cerimonie religiose – i mosuo praticano il buddismo tibetano, la religione tibetana tradizionale del Bon e lo sciamanesimo – e dell’allevamento degli animali; ignorando completamente il concetto del matrimonio, nella società mosuo le donne vivono da sole, ospitando di notte in notte i loro amanti, che devono tassativamente fare ritorno nella propria casa matea prima che faccia giorno. I figli nati da questi walking marriages sono riconosciuti solo dalla madre, che passa loro il cognome, e cresciuti dalla famiglia matea. Il padre, quando sia possibile determinae l’identità, è tenuto a prendersi cura del figlio solamente per la durata della relazione con la madre, slegata da vincoli contrattuali.
Con la Rivoluzione culturale però le cose dovettero cambiare: disprezzando il sistema sociale mosuo, definendoli come «animali», i comunisti imposero il rito del matrimonio. Quando la frenesia delle Guardie rosse venne sedata, i mosuo in massa decisero di divorziare legalmente e tornare alle loro usanze.
Oggi, il lago Lugu è diventato una sorta di parco naturale protetto, con biglietto d’entrata di 75 yuan. Grazie alla strada impervia ed alla carenza di alberghi di lusso, le sponde del lago godono ancora di una pace quasi irreale; ma gli scheletri di cemento a dieci piani che spuntano qua e là lungo la strada costiera, in aggiunta alla costruzione già avviata di un aeroporto ad hoc nella provincia del Sichuan, lasciano presagire un futuro sulla scia della «commercializzazione etnica» di Shangri-La e Lijiang. I superstiti mosuo stanno progressivamente abbandonando le loro abitazioni tradizionali in riva al lago, spingendosi nell’entroterra montagnoso dove ancora sono in grado di mantenere in vita le loro tradizioni, ricreando un microcosmo fuori dal tempo e dallo spazio lontano dagli effetti collaterali dell’apertura al mondo. La tradizione dei walking marriages, declinata ad amore libero, ha alimentato il turismo sessuale interno: spacciandosi per mosuo, molte donne si sono stabilite nella zona in veri e propri distretti a luci rosse, mascherando la prostituzione come esercizio per il mantenimento della tradizione.

I COSTI DEL «PROGRESSO»

Senza dubbio, l’espansione economica cinese degli ultimi anni ha progressivamente arricchito molti strati del tessuto sociale, specie la classe media, migliorando le condizioni di vita su larga scala e proiettando il grande paese asiatico verso il gruppo dei paesi sviluppati. Gli evidenti progressi portati dal capitalismo, in Cina come nel mondo occidentale a suo tempo, non si sono fermati davanti all’ambiente o davanti alle peculiarità etniche e culturali a rischio sopravvivenza. Solo di recente, una maggiore consapevolezza ambientalista e multiculturale sta iniziando a penetrare nel sentito comune cinese, ed il governo si sta timidamente affacciando a politiche di salvaguardia delle diversità – come l’iniziativa per l’insegnamento del dongba a Lijiang – e di «sviluppo sostenibile».
Ma i nuovi benestanti cinesi, equiparabili agli yuppies della «Milano da bere», vogliono tutto e lo vogliono subito: la comodità, il lusso, le vacanze ed il consumo non sono più beni accessori fruibili da una stretta minoranza elitaria, ma sono lì a portata di portafogli, santificati dalla nuova Cina ricca e capitalista.
In mezzo a queste tempeste epocali, la fragilità delle minoranze etniche può preservarsi solo se difesa dal potere decisionale cinese. Il governo deve tracciare un limite oltre il quale, rinunciando a profitti immediati, la locomotiva economica cinese non deve avventurarsi: solo in questo modo l’inestimabile varietà etnica e culturale che la Cina vanta potrà sopravvivere, evitando al popolo cinese rimpianti fuori tempo massimo.

Matteo Miavaldi

Matteo Miavaldi