Tu vuoi fare l’italiano
Inchiesta: le nuove povertà / 1
Crisi e disoccupazione stanno colpendo anchemigliaia di immigrati. Aumentano gli stratagemmi dei datori di lavoro per risparmiare qualche soldo. Intanto qualcuno cerca di occuparsi di loro. Storie dall’ufficio migranti.
Ogni anno, 300 mila immigrati, provenienti soprattutto dall’America Latina e dall’Europa dell’Est, arrivano in Italia, in aereo o in autobus, con un visto turistico, o con la semplice carta d’identità, per costruirsi nel nostro paese una nuova vita.
Molti di loro sono zii, fratelli, figli o genitori che lasciano la patria per ricongiungersi ai loro cari, che li hanno preceduti in Italia e da cui sono, a volte, separati da anni. I nuovi arrivati coprono tutta la gamma delle età, dai neonati di pochi mesi ai nonni ultrasessantenni.
Oggi l’Italia ospita circa cinque milioni di immigrati in regola con i documenti di soggiorno. Oltre un quinto di loro proviene dalla Romania. Otto anni fa, gli immigrati in Italia erano un milione e mezzo.
In Piemonte, gli stranieri sono circa 400 mila, di cui circa 126 mila vivono a Torino.
Un ufficio per i migranti
A Torino l’Ufficio pastorale migranti (Upm) della diocesi si occupa delle persone immigrate, non importa se arrivate ieri o trent’anni fa. Ogni giorno, decine di persone attendono con pazienza di essere ricevute dagli operatori per chiedere assistenza nel rinnovo dei permessi di soggiorno, nell’ottenimento della cittadinanza italiana e, soprattutto, nel cercare un lavoro.
I migranti vengono da decine di paesi diversi, ma la maggioranza è originaria di quattro stati che si sono evidentemente legati a questa città: Romania, Marocco, Nigeria e Perù.
Nonostante le tante preoccupazioni, la grande maggioranza degli utenti dell’ufficio migranti sono persone rispettose e cordiali, pronte al sorriso. L’invito a prendere una bibita a casa loro, o addirittura a un pranzo non è un evento raro. Alcuni, quando tornano da un viaggio nel loro paese, portano un dono: una bottiglia di vino romeno, una camicia africana. Altri, quando ricevono il nuovo permesso di soggiorno o ottengono la cittadinanza, non mancano di far pervenire all’ufficio uno o più vassoi di dolci.
Certo, tra gli immigrati che si rivolgono all’Upm, capita ogni tanto anche qualche testa calda.
A «caccia» di un lavoro
La prima preoccupazione per un immigrato è riuscire ad ottenere il permesso di soggiorno, una volta ottenutolo, comincia la ricerca di un lavoro.
Oggi, la crisi ha indotto aziende e famiglie a pensarci due volte prima di assumere un nuovo dipendente. Alcune aziende, invece di stipulare contratti di assunzione per i nuovi lavoratori, utilizzano il sistema dei voucher, introdotto dalla legge Biagi nel 2003. Si tratta di buoni che vengono acquistati presso l’Inps e usati come mezzo di pagamento di prestazioni lavorative. In generale, il lavoratore riceve un voucher del valore di 10 euro per ora lavorativa. Un quarto dell’importo viene devoluto all’Inps come contributo previdenziale. Il vantaggio per l’azienda è che non deve stipulare con il lavoratore un contratto, dati tutti gli oneri che questo comporta.
Nonostante l’economia traballante, a Torino ci sono ancora aziende che si rivolgono all’Upm per chiedere candidati ad un impiego, ad esempio: profumerie, negozi di articoli di lusso, di indumenti di marca; alberghi, ristoranti, locali pubblici; piccole e medie industrie; cornoperative sociali che gestiscono mense, reception, servizi di pulizie; famiglie, che necessitano di personale domestico: badanti, colf, baby sitter.
Ma sulle decine di immigrati che quotidianamente chiedono un lavoro all’ufficio, solo quattro o cinque ogni mese, trovano un impiego.
Quello che «tira» di più è il lavoro domestico presso famiglie con un anziano in casa bisognoso di assistenza più o meno continua, per cui viene richiesta una «badante convivente», cioè che viva nella casa della persona da assistere.
Squali e pesciolini
Alcuni direttori del personale non sembrano molto contenti dei neodiplomati delle scuole secondarie. Quando un commercialista torinese ci ha chiesto di procurargli un assistente, abbiamo pensato di aver finalmente trovato un impiego a un giovane africano, laureando presso l’Università in «Borsa, Assicurazione e Banche», un corso di laurea specialistico. I nostri pensieri sono stati subito fugati quando abbiamo constatato che il candidato non era in grado di scrivere una semplicissima registrazione contabile e nemmeno sapeva distinguere tra un conto patrimoniale ed un conto di reddito.
I giovani che escono dalle scuole professionali, con tre o cinque anni di formazione in mestieri come saldatore, addetto alle macchine utensili, elettricista, veiciatore ecc. sono invece molto apprezzati da fabbriche ed officine.
L’offerta di lavoro è oggi molto elevata, così le aziende cercano di ottenere quante più facilitazioni possibili quando devono assumere un candidato: tirocini formativi, contributi all’assunzione, sgravi fiscali previsti per chi assume disoccupati pluriennali, contratti d’apprendistato, ecc.
Una di queste è la «borsa lavoro». Si tratta di uno stage della durata di tre o sei mesi, durante il quale il tirocinante riceve un compenso mensile da un ente finanziatore (per esempio il Comune o una fondazione), che peraltro la legge italiana non prevede in forma obbligatoria. Il «borsista» non è considerato un lavoratore, ma uno studente in formazione e non comporta per l’azienda alcun costo. La borsa lavoro è di norma utilizzata per facilitare, nell’ambito di determinati progetti, l’assunzione di disoccupati in condizioni di particolare svantaggio: età elevata, bassa professionalità. Nella realtà, l’assunzione del borsista da parte dell’azienda al termine della borsa lavoro, non è un evento frequente, soprattutto quando si tratta di supermercati, alberghi, cornoperative edili, sempre a caccia di manodopera a costo zero.
Altre aziende ospitano con regolarità tirocinanti provenienti da scuole professionali, che concludono la formazione con uno stage di uno o due mesi. Ma si guardano bene dall’assumere nuovo personale, sapendo di poter contare sulla manodopera gratuita foita dagli stagisti.
A volte, le ditte chiedono al tirocinante di svolgere straordinari (vietati dalla legge) non sempre retribuiti o di lavorare in località fuori dalla provincia (altra pratica vietata). In altri casi, i tirocinanti sono considerati una sorta di lavoratori di seconda categoria e non vengono nemmeno provvisti di indumenti e calzature di sicurezza. Capita che cornoperative sociali chiedono al lavoratore un notevole numero di ore di lavoro non retribuito, cioè a titolo di volontariato.
Infine, ci sono aziende (tra cui piccole e medie industrie manifatturiere) che si dimostrano più positive e assumono i borsisti che abbiano dato buona prova. Si tratta di imprese con responsabili un po’ «all’antica», ossia non tanto interessati alle facilitazioni delle borse lavoro, quanto piuttosto all’inserimento di lavoratori affidabili, seri ed onesti, con la prospettiva di farli rimanere in azienda per anni e sui quali investire risorse. Purtroppo, molto più frequenti, sono imprenditori che non si fanno scrupolo a considerare i lavoratori come animali da lavoro, sostituibili alla prima occasione di risparmiare qualche soldo.
Certo che alle volte anche i lavoratori ce la mettono tutta per rimanere disoccupati. Una ragazza marocchina, ex borsista, dopo pochi mesi di lavoro come commessa in un negozio di scarpe di lusso, ha pensato bene di dimettersi per andare nel meridione, perché un parente le aveva assicurato che c’era del lavoro. Il lavoro in effetti c’era, ma è durato appena poche settimane, trascorse le quali la «nostra» è tornata a Torino con le pive nel sacco e nuovamente a spasso.
«No parlo italiano»
Il primo problema che l’immigrato in cerca d’occupazione deve risolvere è la conoscenza della nostra lingua. In passato quando c’era più richiesta di lavoro non qualificato, il parlare o meno l’italiano non era tanto importante, ma oggi la situazione è cambiata radicalmente.
Chi vuole lavorare deve parlare e capire bene l’italiano. Questo vale per chi deve accudire ad una vecchietta, magari mezza sorda e abituata al dialetto d’origine e per chi deve lavorare come addetto mensa o alle pulizie in un ospedale. Infatti, eventuali errori dovuti a incomprensioni delle istruzioni, possono avere serie conseguenze, sia per la vecchietta, sia per la cornoperativa, che può vedersi arrivare anche multe da 500 euro per una pulizia male eseguita.
Purtroppo non pochi immigrati utenti dell’Upm hanno difficoltà ad esprimersi in italiano.
Chi soffre di più questo problema, secondo la nostra esperienza, sono le persone di origine bengalese, ma anche i nigeriani. Tra i marocchini, sono le donne a presentare delle difficoltà nella conoscenza dell’italiano, anche perché a volte hanno trascorso la vita in casa e sempre tra connazionali, fino a che, improvvisamente, le difficoltà economiche della famiglia le obbligano a catapultarsi nel mercato del lavoro.
Il secondo problema per molti immigrati è costituito dalla formazione scolastica bassa o inesistente e dall’esperienza professionale di basso profilo.
Mentre le scuole professionali della Romania sono generalmente apprezzate dai datori di lavoro italiani, lo stesso non può dirsi per le scuole di altri paesi. Molti immigrati arrivano con un diploma di scuola secondaria a indirizzo generale in tasca, in realtà è molto se sanno leggere e scrivere con una certa proprietà la lingua del loro paese.
Quanto all’esperienza professionale, troppi immigrati hanno fatto per tutta la vita i braccianti, i manovali, gli addetti alle pulizie e tutta una serie di «aiuto-qualcosa» che non sono mai sfociati in una professionalità completa: aiuto-magazziniere, aiuto-cuoco, aiuto-decoratore, aiuto-elettricista. Il terzo problema è dato dal modo di comportarsi durante i colloqui di selezione per un posto di lavoro.
Capita che utenti dell’Upm abbiano rifiutato offerte di lavoro, perché il tratto di strada da Torino a Rivoli «è troppo lungo e fa freddo», o «devo ritirare gli esiti degli esami» o «devo finire di mangiare».
Altri candidati ad un lavoro di badante o di cameriere in albergo, portano con sé l’amico, da proporre come aiutante o sostituto nei fine settimana, o cercano di trattare su condizioni di lavoro già definite, provocando lo sconcerto e l’irritazione del datore di lavoro.
Disoccupazione e povertà
Per un disoccupato che riesce a rimediare il tanto sospirato posto di lavoro, migliaia d’altri continuano raminghi per le strade, facendo il giro delle agenzie interinali e delle fabbriche, sempre più scoraggiati e sfiduciati.
È una situazione difficile da accettare per chi è in Italia da anni ed è abituato da una vita a lavorare e mantenere la famiglia e che ha sempre insegnato ai figli ad andare a scuola, a rispettare la legge, a «diventare bravi come gli italiani».
A volte, incalzati dalle bollette, dalle ingiunzioni di pagamento che si ammucchiano sul tavolo, i coniugi si fanno prendere dalla rabbia, magari si accusano a vicenda di non essere capaci di trovare un lavoro, finché uno dei due, ormai avvilito non abbandona il cosiddetto tetto coniugale.
È quello che è successo ad una giovane mamma marocchina, che a 24 anni, pur avendo avuto quattro gemellini in un colpo solo è rimasta incinta di un quinto figlio dopo poco tempo.
Altre volte, il capo famiglia, ormai disperato, cade nel vortice della depressione, fino ad arrivare ad atti di violenza. Intanto la moglie deve fare il giro delle parrocchie e degli uffici pubblici, a caccia di un lavoro, di un sussidio, di un minimo segno di speranza cui aggrapparsi, tenendo sempre in mente che tre bambini piccoli aspettano di mangiare qualcosa e di poter andare a scuola con dignità. E spesso in questi casi di disperazione, l’uomo si fa maligno, accusa parroci ed operatori sociali di «aiutare solo i negri» di «odiare gli albanesi».
In altre famiglie, la fede aiuta i coniugi a mantenere la speranza e la pace.
Molti immigrati, ormai ridotti in miseria da lunghi anni di disoccupazione, ogni tanto sognano di fare rientro in Patria. Di fronte alla crisi, non poche famiglie di immigrati, romeni e nordafricani in particolare, devono dividersi. In genere, bambini e anziani tornano al loro paese, mentre gli adulti rimangono in Italia, in cerca di un qualsiasi lavoro, in attesa di tempi migliori.
Non è facile immaginare il trauma che deve colpire un bambino di cinque anni, che si vede rimandare in Moldavia dalla mamma trentenne, per facilitarle la ricerca di un lavoro presso una famiglia italiana come badante fissa.
Assistere i disoccupati
I servizi sociali non sempre riescono a svolgere al meglio le loro funzioni. Oltre che la drammatica diminuzione di risorse, devono fronteggiare l’incrollabile diffidenza che molte famiglie di immigrati nutrono nei loro confronti. Questo nasce dal timore che, venendo a conoscenza di famiglie in miseria, i servizi sociali segnalino la cosa al tribunale, chiedendo che i minori presenti in famiglia vengano affidati ad altri o chiusi in istituto.
Gli enti pubblici, le fondazioni, le organizzazioni assistenziali religiose o meno riescono ancora ad aiutare i poveri, con alimenti, vestiario, medicinali, piccole somme per pagare bollette urgenti (luce e gas) e quando possibile anche borse lavoro, ma anche qui le risorse sono in diminuzione.
Le comunità etniche aiutano come possono gli immigrati, con del cibo, l’offerta di un alloggio, almeno per risolvere un’emergenza, raccogliendo fondi per una famiglia in difficoltà.
In alcune comunità di immigrati, si stanno muovendo dei passi, per fare attività di volontariato a favore di famiglie italiane e straniere. Può trattarsi di servire nelle mense per i poveri, come nelle iniziative di doposcuola per i bambini.
Lavorando a contatto con gli immigrati si ha sovente riscontro della loro grande fede religiosa. Capita, per esempio, di ascoltare giovani donne nigeriane, che quando viaggiano in treno parlano ad alta voce (come loro costume). Si direbbe che stiano chiacchierando al telefonino, invece stanno elevando inni di ringraziamento a Gesù. Altre giovani in sala d’aspetto, invece di leggere riviste di pettegolezzi tirano fuori un libretto consunto, che poi si rivela essere un Vangelo. In certe chiese è comune vedere giovani africani, grandi e grossi, inginocchiarsi per raccogliersi in preghiera, prima che inizi la Messa. Così come ci sono musulmani che ci ricordano nelle loro preghiere e ci chiedono di essere a loro volta ricordati nelle nostre preghiere di cristiani. Sono persone che vivono ogni giorno difficoltà e preoccupazioni, ma perseverano nella loro fede, in modo del tutto naturale, senza troppo rumore.
Paolo Deriu