Padre Eusebio Francesco Chini
Ricorre quest’anno il 3° centenario della morte di uno tra i più grandi (e più sconosciuti) pionieri dell’America primitiva: padre Eusebio Francesco Chini (1644-1711), gesuita, cartografo, astronomo, scienziato, esploratore, scrittore, soprattutto missionario e difensore degli indiani; percorse immense distese di territori in Arizona, Califoia e altrove, fondando missioni, costruendo città, seminando fede e civiltà.
«Fu il più caratteristico pioniere e missionario di tutto il Nord-America: esploratore, astronomo, cartografo, costruttore di missioni e fattorie, grande allevatore di bestiame e difensore delle frontiere. La sua vita non è solo quella di un individuo eccezionale: essa illumina la storia della cultura di gran parte dell’emisfero occidentale nella stagione pionieristica». Così il suo primo biografo, Herbert Eugene Bolton, presentava nel 1936 Eusebio Francesco Chini.
Figura poco nota tra noi, ma celebre anche fra i protestanti americani, è uscita da oltre due secoli di oblio grazie agli studi e pubblicazioni del Bolton, fino a meritare una statua nel Campidoglio di Washington, accanto ad altri due pionieri e fondatori di stati americani: il gesuita Jacques Marquette (Michigan) e il francescano Junipero Serra (Califoia).
La sua formazione
Eusebio Chini nacque nel 1645 a Segno, nella VaI di Non, poco distante da Trento, ma abbastanza per mettere in questione la sua nazionalità: «Sono un trentino tirolese; non so se definirmi italiano o tedesco – scriveva alla marchesa di Aveiro nel 1680 -. La città di Trento, anche se si trova ai confini del Tirolo, appartiene per lingua, tradizioni e leggi all’Italia. D’altra parte, il Tirolo appartiene alla Germania… Comunque, per 18 anni sono vissuto quasi nel cuore della Germania».
Ricevuta la prima educazione nel collegio dei gesuiti a Trento, completò la sua formazione al di là delle Alpi: liceo vicino a Innsbruck (1662-65), studi superiori di filosofia e teologia nelle università di Ingolstadt, Friburgo, Monaco, senza trascurare matematica, astronomia, geografia, cartografia.
A 20 anni, nel 1663, entrò nella Compagnia di Gesù, emise la professione nel 1667 e aggiunse al nome di battesimo quello di Francesco, in onore del Saverio, al quale aveva fatto voto di farsi gesuita e missionario in caso di guarigione da una grave malattia. Ogni anno scrisse al superiore generale, manifestando il desiderio di essere un giorno mandato in Cina, dove il suo celebre cugino Martino Martini aveva speso ingegno e vita per una quindicina d’anni.
Ordinato prete nel 1677, venne finalmente esaudito: fu destinato alle «Indie»; ma nel sorteggio tra lui e un compagno, invece di quelle orientali (che includeva la Cina) gli toccarono le Indie occidentali: fu destinato alla Nuova Spagna, cioè al Messico.
Imbarcatosi a Genova con altri 18 compagni nel marzo 1678, arrivò a Cadice a metà luglio, quando la Flotta Reale era già partita per il Nuovo Mondo.
In attesa di una nuova spedizione, rimase a Siviglia per due anni e mezzo: ne approfittò per praticare lo spagnolo; si interessò di agricoltura, farmaceutica e scultura; si occupò di matematica e astronomia: con strumenti costruiti da lui stesso studiò il corso di una cometa apparsa tra il 1680-81, e ne pubblicò la descrizione appena giunto in Messico. A Siviglia cambiò l’ortografia del cognome in Kino, per evitare la cattiva pronuncia spagnola.
missione quasi fallita
Arrivò in Messico nel 1681 mentre si stava preparando una spedizione per esplorare e colonizzare la Bassa Califoia. Padre Kino fu scelto come «cosmografo regio» e cappellano del gruppo. Composta di due navi, 100 soldati e tre gesuiti, la spedizione salpò da Sinaloa nel gennaio 1683; sballottata dai venti, approdò nella baia di La Paz il 1° aprile. Dopo una settimana di esplorazione apparvero i primi indiani guaicuros che minacciosi intimarono agli intrusi di uscire dalla loro terra. Padre Kino e padre Goñi offrirono loro mais, biscotti e collane; pochi giorni dopo essi tornarono con frutta, piume oamentali e altri doni.
Il ghiaccio era rotto; le visite si ripeterono e cominciò l’evangelizzazione; ma i soldati continuarono a diffidare e uccisero senza ragione una decina di indigeni. «L’uso sconsiderato delle armi – scrisse padre Kino il 16 luglio 1663, commentando questo e altri fatti – fa fuggire i nativi, i quali si rifugiano sui monti. I metodi pacifici e gentili, insieme con la carità cristiana, aiuteranno invece moltissime anime a fare ciò che sarà loro insegnato e richiesto. Colpiti infatti dai nostri metodi pacifici, i nativi avevano cominciato a temere e abbandonare tutto ciò che avevamo spiegato loro che non era bene fare. Avevano cominciato a recitare alcune preghiere… a farsi il segno della croce, a mezzogiorno s’inginocchiavano alla recita l’angelus».
Dopo tre mesi la spedizione toò nel continente per vari motivi: paura dei guaicuros, assenza di metalli, pietre preziose e perle (cose che interessavano gli spagnoli), difficoltà di rifoimenti. Intanto padre Kino aveva tracciato alcune mappe e raccolto 500 vocaboli indigeni.
Organizzata una seconda spedizione, il 6 ottobre approdarono più a nord, nel luogo poi chiamato San Bruno, in onore del santo del giorno. L’impresa fu più fortunata della precedente: gli indigeni si mostrarono molto cordiali e aiutarono subito a costruire la cappella; i coloni cominciarono a coltivare la terra per dare autosufficienza alla colonia; il territorio veniva esplorato da costa a costa, fino al Pacifico.
Intanto i missionari imparavano la lingua e annunciavano il vangelo, rispondendo alle domande che gli indiani ponevano guardando il crocifisso che pendeva davanti al loro petto.
Le risposte fluivano con facilità, ma il discorso si inceppò quando dovettero spiegare la risurrezione. Quale parola usare? Come far capire l’idea di risurrezione dai morti? Lo racconta padre Kino in una lettera scritta il 6 ottobre 1684: «La parola “risorgere dai morti”, tanto importante per la nostra fede… sono riuscito a ricavarla… prendendo delle mosche che, soffocate nell’acqua, ripulite con certi succhi e ricoperte di cenere, poi messe al sole le ho richiamate in vita; con continue domande sono riuscito a ricavare la parola “ibimu huegite” che significa “risuscitò”».
Ma la Califoia non offriva né perle né oro per pagare le spese di spedizione; il viceré tagliò i fondi e San Bruno fu abbandonato nel maggio 1685, con grande delusione di padre Kino, costretto anche lui a troncare 18 mesi di missione, in cui erano state battezzate solo 14 persone in punto di morte, ma aveva istruito 400 catecumeni. Il missionario promise di tornare; cercò inutilmente di convincere i confratelli a fare una terza spedizione: la missione fu ripresa 12 anni dopo da un suo caro amico Giovanni Maria Salvaterra.
«prete a cavallo»
L’esperienza califoiana incise profondamente nel metodo missionario di padre Kino. Prima di tutto imparò ad apprezzare l’indole dei nativi e si convinse che essi andavano avvicinati con sistemi opposti a quelli usati dai soldati spagnoli, avidi e rozzi. Poi pianificò il modo di operare in modo indipendente, prendendo le distanze dalla burocrazia ufficiale, soprattutto, studiando i modi di sostenere finanziariamente le missioni. Con tale metodo coniugò gradualmente, per 24 anni, evangelizzazione e promozione umana nella Pimeria Alta, la regione dei Pima del Nord, oggi divisa tra Arizona (Usa) e Sonora (Messico). Vi arrivò il 15 marzo 1687 e si stabilì nel villaggio di Cosari, subito ribattezzato Dolores, dal nome della missione di Nuestra Señora de los Dolores, che divenne il suo quartiere generale. Era l’estrema frontiera settentrionale del Cristianesimo negli inesplorati deserti del Nord-Ovest. Oltre al quadro dell’Addolorata, portava con sé una copia della Real Cédula, cioè un decreto regio che esentava per almeno 20 anni dai lavori forzati nelle miniere e dalle imposte i futuri convertiti.
Padre Kino cominciò subito a esplorare il territorio. Organizzò e guidò 50 spedizioni, in media due viaggi l’anno, da cento a mille chilometri ciascuno; esplorò in lungo e in largo tutta la regione dell’Alta Pimeria, attraversando deserti e aprendo molti nuovi sentirneri, fino a raggiungere, primo europeo, i fiumi Gila e Colorado.
Tali esplorazioni erano anche missioni itineranti. Conquistata amicizia e simpatia degli indiani, egli predicava loro il vangelo, spesso mediante un interprete; dopo una sommaria istruzione battezzava bambini e moribondi; stabiliva una rete di comunità che poi lui stesso o altri visitavano regolarmente per continuare la catechesi, celebrare il culto e formare alla vita cristiana. In 24 anni fondò e fece crescere 24 missioni, sparse su un territorio di 4.200 kmq; percorse a cavallo complessivamente più di 30 mila km, attraverso il deserto più ostile del continente. Lo chiamavano il «padre a cavallo». Convertì più di 30 mila anime: è passato alla storia come «l’apostolo dei Pima».
missionario e ranchero
Per coniugare il binomio vangelo-promozione umana, padre Kino dedicò particolari cure all’agricoltura e all’allevamento. Dove passava, il deserto rifioriva. Fece arrivare dall’Europa semi di grano e ortaggi, piante da frutta e viti con cui organizzò una quarantina di fattorie agricole; insegnava agli indigeni a canalizzare l’acqua per irrigare le svariate coltivazioni intensive.
Fondò anche una trentina di ranchos, dove allevava con successo numerosi armenti di buoi, pecore e cavalli, da fare impallidire i cowboys arrivati due secoli dopo in quelle stesse zone.
Di suo non possedeva neppure un capo di bestiame; tutto faceva per dare alle missioni fondate o da fondare una base di autonomia economica e assicurare la sussistenza e il progresso degli indigeni delle medesime missioni. Riuscì perfino ad aiutare i confratelli che si trovavano in difficoltà: a padre Salvaterra, che stentava a mandare avanti la sua missione in Califoia, mandò 300 capi di buoi e cavalli in una sola volta; altri 1.400 capi alla missione di San Saverio, non lontana dalla quella di Dolores.
«grande padre» degli indios
Per trasformare i pima e altre etnie (meri, sobaipuri, pápago, gila) in agricoltori e allevatori, padre Kino dovette lottare su più fronti. Tanto ben di Dio attirava l’attenzione e i saccheggi degli apaches, stanziati a oriente delle sue missioni. Per difendersi dai loro saccheggi il missionario dovette insegnare agli indigeni anche l’uso delle armi. Fattosi «voce dei senza voce» padre Kino difese strenuamente i diritti degli indigeni, accusati di essere ladri, incostanti, viziosi, refrattari alla civiltà e spesso sfruttati e umiliati dai militari e coloni spagnoli. Furono anni di sofferenze e frustrazioni enormi, accresciute dalla ribellione dei Pima, nel 1695, che mise a ferro e fuoco ben sei missioni e varie fattorie e che causò, soprattutto, l’uccisione del suo caro amico, il gesuita siciliano padre Saeta. Padre Kino si fece mediatore e riuscì a riportare la calma: fu firmato un trattato di pace tra i capi dei Pima e le autorità coloniali. Ciò nonostante coloni e proprietari di miniere montarono una campagna di accuse, invidie e calunnie, credute dalle autorità civili e religiose, con lo scopo di chiudere le missioni in Pimaria, lasciando la frontiera della Nuova Spagna nelle mani dell’esercito e dei coloni.
Padre Kino intraprese un viaggio di 2 mila chilometri a cavallo e raggiunse Città del Messico, dove incontrò i suoi superiori e il viceré, smontò una per una le calunnie e ottenne ciò che voleva: la missione della Pimaria continuava, con l’invio di cinque nuovi missionari, e lui stesso fu riconfermato nel ruolo di guida delle missioni. Ritornato a Dolores i Pima lo acclamarono loro «grande padre bianco».
Calunnie e invidie continuarono, anche da parte di qualche confratello, che lo accusava di stare più a cavallo che in chiesa, di dedicarsi più all’esplorazione e alla promozione umana che all’evangelizzazione; stava quasi per essere rispedito in Califoia, quando arrivò l’ordine da Roma, del superiore generale, di lasciarlo continuare nella Pimaria Alta. Dalla fine del 1697 fino alla morte poté consolidare il lavoro già svolto e fondare nuove missioni, la più celebre è quella di San Xavier del Bac presso Tucson in Arizona.
l’isola che non c’è
Gioie e dolori, successi e delusioni, incomprensioni, calunnie e persecuzioni… tutto era stimato e proclamato da padre Kino «favori celestiali», come scrisse nelle sue lettere (ce ne sono pervenute 93) e soprattutto nella Cronologia della Pimeria Alta: Favori Celestiali, diario che abbraccia il periodo della sua vita dal 1687 al 1706. Altro libro importante del 1695 è la biografia del suo confratello e protomartire della Pimaria Alta: Inocente, Apostolica y Gloriosa muerte del venerabile padre Francisco Xavier Saeta…
Fin dall’inizio, assieme al lavoro apostolico e organizzativo, il Kino non smise mai di effettuare accurate rilevazioni scientifiche e geografiche, che traduceva in mappe e relazioni che contengono aspetti politici, economici, etnologici, militari, geografici ecclesiastici e missionari.
Oltre agli scritti, ci sono pervenute 32 carte accertate; in esse sono registrati fiumi e valli, monti e selve, villaggi di cristiani e pagani, sentirneri e sorgenti d’acque… dati indispensabili per i futuri missionari, esploratori, viaggiatori e per la sopravvivenza degli stessi indigeni. Tra le 32 mappe, a procurargli più fama fu quella intitolata «Paso por Tierra a la Califoia», in cui dimostrò che la Califoia era una penisola e non un’isola come si credeva da oltre 50 anni (vedi riquadro).
Ormai anziano, stanco e ammalato, la morte lo colse, poco più che 65enne, il 15 marzo 1711, mentre consacrava la missione di Santa Magdalena de Sonora, chiamata poi Magdalena de Kino. Sepolto presso l’altare, la sua tomba divenne meta di pellegrinaggi da parte delle genti da lui evangelizzate. Poi il ricordo si affievolì per la soppressione dei gesuiti e per la cacciata successiva dei francescani (1828) che li avevano sostituiti.
La riscoperta di padre Kino partì dall’Arizona, dopo che questa regione fu incorporata negli Stati Uniti (1912). Nel 1965 una statua del grande missionario, proclamato secondo fondatore dell’Arizona, fu posta nella sala del Campidoglio di Washington, insieme ai grandi della patria.
Nel 1971 l’arcivescovo di Hermosillo ha iniziato il processo per la causa della sua beatificazione. Le popolazioni di entrambi gli stati, Arizona e Sonora, attendono che anche la Chiesa riconosca la santità del loro padre nella fede e nella civiltà.
Benedetto Bellesi