Cana (27) Ubbidire è imitare

Il racconto delle nozze di Cana (27)

Gv 2,5: [e] dice sua madre ai diaconi/servitori: «Quello che vi dirà, fate[lo]»

Riprendiamo il versetto cinque che abbiamo iniziato ad analizzare nella puntata precedente, dove abbiamo visto che il rapporto tra Sinai e Cana è intenso e profondo, ma non si esaurisce, perché l’autore del vangelo vuole portarci a spaziare anche nella storia prima dell’esodo: la storia dei patriarchi, che è come il preambolo all’epopea dell’Esodo e quindi anche premessa della rivelazione di Gesù Cristo «figlio di Davide, figlio di Abramo» (Mt 1,1).

«Vergine madre, figlia del tuo Figlio»
Dopo la risposta di Gesù («Donna, che c’è tra te e me», Gv 2,4) che abbiamo spiegato a lungo, la madre non si rivolge a Gesù per supplicarlo di intervenire, ma ai «diaconi». Ella sa di non avere alcun potere sul figlio, perché da questo momento mutano i rapporti precedenti e la relazione di sangue lascia il passo a quella della fede: «Che c’è tra me e te?». O meglio, il rapporto naturale madre-figlio si trasforma, arricchendosi, nel rapporto tra Figlio e madre/figlia, tra il Signore e la Chiesa. La fede, infatti, non elimina la natura, ma, inglobandola, la trasforma: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli? … chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre» (Mc 3,33-35). Solo Dante Alighieri, ispirato dallo Spirito Santo, ha colto la profondità di questa relazione unica: «Vergine madre, figlia del tuo Figlio» (Par. XXXIII,1).
Le parole che la madre rivolge ai diaconi/servi sono prese alla lettera dalle parole che il faraone di Egitto rivolge al suo popolo all’inizio della siccità che durerà sette anni. Al popolo che ha fame e chiede da mangiare, il faraone non dà pane, ma un invito ad andare oltre di lui. L’onnipotente faraone si mette in seconda fila e lascia il posto a Giuseppe, l’ebreo schiavo divenuto governatore, che aveva previsto la carestia e aveva indicato la soluzione per superarla (Gen 41,53-57).
La madre conosce la Scrittura e, forse, è a Giuseppe che volge lo sguardo del cuore quando garantisce alla parente Elisabetta che il Signore «ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili» (Lc 1,52). La madre non è il faraone, ma la voce di un popolo affamato del Messia e della sua liberazione, è la figlia di Israele che geme nella morsa della fame, dell’emarginazione e dell’impurità cultuale; la madre è il simbolo dell’abbandono desolato in cui versa il suo popolo:

«6Dalla figlia di Sion è scomparso ogni splendore…7Gerusalemme ricorda i giorni della sua miseria e del suo vagare… 9 e nessuno la consola… 11Tutto il suo popolo sospira in cerca di pane; danno gli oggetti più preziosi in cambio di cibo, per sostenersi in vita… 17Gerusalemme è divenuta per loro un abominio… 19cercavano cibo per sostenersi in vita. 20Guarda, Signore, quanto sono in angoscia; le mie viscere si agitano, dentro di me è sconvolto il mio cuore» (Lam 1,6.7.9.11.17.19.20).
La figura di Giuseppe è l’àncora di salvezza che viene in soccorso dal passato e indica la prospettiva futura. Davanti alla madre che invoca i giorni della salvezza per il suo popolo, ora c’è il nuovo patriarca Giuseppe, «colui che aggiunge/aumenta» e che inaugura il nuovo tempo, il «kairòs» dell’abbondanza senza fine, come il patriarca antico salvò Israele dalla carestia, salvando l’Egitto dalla fame: «Tutta la terra d’Egitto cominciò a sentire la fame e il popolo gridò al faraone per avere il pane. Il faraone disse a tutti gli egiziani: “Andate da Giuseppe; fate quello che vi dirà”» (Gen 41,55). L’autore di Genesi ci tiene a sottolineare che «Giuseppe aveva trent’anni quando entrò al servizio del faraone, re d’Egitto» (Gen 41,46). Anche Gesù ha circa la stessa età quando la madre invita i servitori a ubbidirgli.
Purtroppo nella lingua italiana non si coglie il nesso stretto tra le parole, che invece per l’autore ha un’importanza capitale, perché fa vedere e sentire il rapporto stretto tra le parole dette e le idee e i personaggi che stanno dietro.
A questo scopo, per rendere più comprensibile il testo e per farlo gustare in tutta la sua profondità, riportiamo lo schema in greco della LXX, traslitterato, con relativa traduzione (il testo ebraico della Genesi dice esattamente il contenuto letterale del testo greco):

Come può vedere anche chi non conosce il greco, dalla trascrizione emerge che la corrispondenza tra i due testi è totale: siamo certi che l’autore metta «apposta» le parole del faraone in bocca a Maria.
Nella colonna 2a la particella dell’eventualità (an/ean) esprime indeterminatezza e quindi apertura a ogni evenienza (le due forme an o ean sono equivalenti): «Qualunque cosa vorrà dirvi, fatelo».
Nella colonna 3a si ha lo stesso verbo (lègō – dire) con due radici diverse perché le due forme sono di tempi differenti: in Gv si ha il presente congiuntivo attivo (lèghēi – nell’eventualità che dica), mentre in Genesi si ha l’aoristo (un tempo proprio del greco) congiuntivo dello stesso verbo.

Il bacio dell’ubbidienza
Le somiglianze tra i due testi, oltre a quelle letterali, sono di contenuto: a Cana manca il vino, in Egitto manca il pane; in Egitto è il faraone, cioè il capo assoluto che indica Giuseppe come la soluzione del problema; a Cana è la madre, in rappresentanza di Israele, che indica Gesù come la soluzione per risolvere la mancanza del vino messianico e dare corpo all’alleanza.
Da una parte il faraone, come abbiamo già accennato, pur essendo il capo assoluto dell’Egitto, dichiara la sua impotenza di fronte alla fame di pane e invia il suo popolo da Giuseppe, riconoscendone così l’autorità indiscussa; dall’altra parte la madre, rinviando i servi/diaconi da Gesù, preparandoli ad ogni evenienza, in quanto rappresentante del popolo d’Israele fedele all’alleanza sinaitica, invita tutti a riconoscere l’autorità indiscussa di Gesù, il solo che possa aprire la nuova alleanza e sfamare e dissetare il nuovo popolo, la Chiesa, che è la casa di tutti i popoli.
Lo studioso Frédéric Manns (L’Évangile, 102) sostiene che nel testo di Genesi, manca il tema dell’«obbedienza» e quello della «rivelazione», espliciti invece nel testo di Esodo: «Quanto il Signore ha detto, noi [lo] faremo!», che in Es 24 si trasforma in «noi faremo e ubbidiremo» (Es19,8; 24,3). Giovanni mette in evidenza – continua Manns – che l’alleanza nuova è basata sull’obbedienza alla Parola di rivelazione portata da Gesù.
La corrispondenza, quando si applica la tecnica del midràsh, non deve necessariamente essere espressa al millesimo, ma può anche essere allusiva, anche se riteniamo che nel testo di Gen 41,55 il tema dell’obbedienza non è solo implicito, ma abbastanza evidente. Inviando il popolo da Giuseppe, con l’invito esplicito «fate quello che vi dirà», è evidente che il faraone sottende il tema di «ubbidire» all’uomo che dovrà cornordinare i sette anni di siccità, specialmente se si tiene conto delle parole che egli pronuncia davanti alla sua corte, appena Giuseppe finisce di spiegare i sogni: «38Il faraone disse ai ministri: Potremo trovare un uomo come questo, in cui sia lo spirito di Dio?… 40Tu stesso sarai il mio governatore e ai tuoi ordini si schiererà tutto il mio popolo» (Gen 41,38.40).
La traduzione di questo versetto non esprime l’intensità dell’ebraico; il confronto con la versione greca della LXX serve a dare al lettore anche il senso armonico dell’immaginazione linguistica: il testo ebraico di Gen 41,40 dice letteralmente: «Tu stesso sarai il governatore della mia casa e sulla tua bocca ti bacerà tutto il mio popolo»; la versione greca della LXX invece traduce, interpretando (come fa il midràsh): «Tu sarai [governatore] sulla mia casa e alla tua bocca obbedirà tutto quanto il mio popolo» (anche la Vulgata traduce dalla LXX).
Il IV vangelo, come tutto il NT, dipende dalla Bibbia greca della LXX, per cui il tema dell’obbedienza è evidente. Baciare sulla bocca qualcuno in occidente significa avere intimità e quindi reciprocità di dipendenza. L’espressione biblica invece è propria della cultura egiziana faraonica ed esprime l’idea di una dipendenza totale e significa «al tuo comando»: al comando di Giuseppe tutto il popolo egiziano deve prostrarsi, bocconi a terra, pronto a obbedire senza alcuna remora.
Quanto al secondo tema, quello della rivelazione, riteniamo che sia il faraone con tutta la sua autorità solenne a «manifestare» Giuseppe come «il salvatore» dell’Egitto, colui che impedirà al popolo di morire di fame e di sete; e lo stesso Giuseppe si manifesta: «Giuseppe partì per visitare l’Egitto» (Gen 41,46) per mostrarsi a tutto il paese e dare ordini e prepararsi in vista della carestia. Attraverso Giuseppe l’Egitto e lo stesso faraone sanno che non è Giuseppe «il salvatore», ma il Dio di Israele perché «non io, ma Dio darà la risposta» (Gen 41,16).
Giuseppe e Gesù sono «pieni dello spirito di Dio»: come il faraone vide lo spirito di Dio su Giuseppe (cf Gen 41,38), anche Giovanni Battista vede scendere lo Spirito di Dio su Gesù (cf Gv 1,32).
Citando le parole del faraone, la madre di Gesù, o meglio l’Israele fedele all’alleanza, vuole mettere espressamente in rapporto Giuseppe e Gesù, presentando quest’ultimo come il nuovo patriarca che si prende cura della fame e della sete, cioè della vita del popolo. In ebraico Giuseppe si dice «yasàph» e vuol dire «Dio aggiunge/aumenta» e in questa circostanza Giuseppe, il patriarca, aumenta il pane e fa arretrare la carestia. Gesù in ebraico si dice «Joshuà» e significa «Dio è salvezza». Nel loro risultato finale i due nomi s’incontrano, perché ambedue sono la salvezza dei rispettivi popoli: danno la vita.
Come tutto il popolo di Egitto deve schierarsi agli ordini di Giuseppe, ora a Cana i servi/diaconi devono eseguire tutto quello che Gesù dirà loro di fare.

Ubbidire è imitare nella testimonianza
Non solo i servi/diaconi, ma anche la madre di Gesù non sa quello che egli farà; infatti l’invito ai diaconi è fatto nella forma dell’eventualità («qualunque cosa vorrà dirvi»). I servi somigliano ai discepoli che partecipano alla lavanda dei piedi, ma non sanno quello che egli fa, fino al punto che Gesù stesso deve chiarirlo per due volte:

«7Rispose Gesù [a Simon Pietro]: “Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo”… 12Quando ebbe lavato loro i piedi, riprese le sue vesti, sedette di nuovo e disse loro: “Capite quello che ho fatto per voi? 13Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. 14Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. 15Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv 13,7-15).
L’episodio citato si trova all’inizio della seconda parte del vangelo di Gv, esattamente nel «libro dell’ora», quello della rivelazione definitiva sulla croce, che è il trono della gloria del Messia. Si usa sempre lo stesso verbo di Cana «poièō – io faccio/opero/creo». Se consideriamo l’insieme del vangelo, possiamo concludere che l’invito della madre non è solo quello di ubbidire senza condizione, «fate quello che vi dirà», ma anche di «fare quello che lui stesso fa», cioè di imitarlo come Gesù medesimo richiede: «Vi ho dato l’esempio perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv 13,15).
Non basta ubbidire, bisogna imitare. Senza imitazione l’obbedienza può essere alienazione, deresponsabilità. Nessuno può abdicare da se stesso, creato «a immagine e somiglianza di Dio» (Gen 1,27). Ubbidire imitando è il modo per mettere sempre più a fuoco l’immagine divina che c’è in ciascuno di noi e mantenerla sempre nitida e trasparente.
A questo punto si può aprire un capitolo sull’obbedienza religiosa vincolata anche con un voto: il monaco, la suora, il religioso sono chiamati non a rinunciare alla loro volontà, ma a conformarla a quella del Signore, imitandolo nelle scelte e nell’impegno della vita: cosa farebbe Gesù se fosse adesso, qui e ora presente e al mio posto? Qui sta il cuore dell’alleanza sia del Sinai che di Cana: è la rivelazione e la manifestazione dell’esempio che si fa profezia di evangelizzazione.
Oggi nella Chiesa abbondano le parole, le esortazioni, le prediche, estrapolate dalla vita e per questo sono parole deboli, fragili e di conseguenza vuote. Domina il principio di autorità che si basa sull’obbedienza passiva e senza intelligenza: bisogna obbedire perché lo dice chi comanda. Il fondamento della fede in questo contesto non è la persona di Dio o la sua Parola rivelata, ma il culto della personalità, che in termini biblici è idolatria peccaminosa.
La vera profezia del Regno, il vero «vangelo dell’alleanza» si esprime nella testimonianza della vita, nella profezia dell’esempio, che s’impone da se stesso prima ancora di esigere una spiegazione. L’esempio/testimonianza prima della parola è l’esatta incarnazione del principio dell’alleanza dell’Esodo: «Faremo prima e obbediremo dopo».
Fare quello che egli dice e compiere quello che egli fa è la sintesi perfetta della fede adulta e libera, perché ciascuno dei credenti diventi a sua volta «Dabàr», una parola ebraica molto importante nella logica biblica. Essa ha due significati, apparentemente contrapposti, ma intimamente connessi e identici. Significa «parola/detto», ma ha anche il senso di «fatto/evento». È ciò che avviene nella creazione: «Dio disse… E così avvenne» (Gen 1, passim). In Dio mai la Parola è separata dall’evento, perché Dio parla agendo e agisce parlando. In lui parola e azione s’identificano.
A Cana obbedienza, rivelazione e testimonianza sono sinonimi, perché sono l’anticipo e la premessa dell’evento degli eventi: «Il Lògos carne fu fatto» (Gv 1,14), la Parola diventa Pane, il Pane rivela la fragilità di Dio che è il «luogo» privilegiato, l’arca dell’alleanza dell’incontro con gli uomini e le donne, i fragili dell’umanità.
(27- continua)

Paolo Farinella

Paolo Farinella




WWW Terra di missione

Missione oggi: l’inculturazione digitale

La rete è la riproposizione della realtà, un’espressione di un contesto esistenziale.
Ma occorre educare al mondo digitale. E mancano delle regole di comportamento. Nella rete ci sono i valori come pace, giustizia, riconciliazione, e si possono «incontrare» molte persone di buona volontà. Per questo si può considerare la nuova frontiera della missione. Breve incontro con padre Albanese.

Giulio Albanese, giornalista e missionario, è convinto che «Inteet, o la rete, sia terra di missione», perché quel fenomeno epocale chiamato «rivoluzione dell’era digitale» ha cambiato indelebilmente il nostro stile di vita. Lui, tra le altre cose, ha fondato nel 1997 la Missionary service news agency (Misna, www.misna.org) che ha avuto il merito di concretizzare un cornordinamento tra gli istituti missionari con uno strumento digitale.
Padre Giulio ha appena pubblicato insieme al medico Sergio Pillon il saggio «Cliccate e troverete», con Infinito edizioni. Riflessioni, come le definisce lui, sulle trasformazioni causate dall’avvento del digitale, anche per il mondo missionario e la chiesa in generale.
«La rete è terra di missione, i social network sono luoghi di missione, perché in essa c’è tutto e il contrario di tutto. È una riproposizione nel contesto del digitale di quella che è la realtà.
Troppe volte siamo manichei nelle nostre valutazioni e sottolineiamo la contrapposizione che c’è tra il mondo reale e quello che consideriamo virtuale. Ma questo non è costruttivo» sostiene padre Giulio. Perché «il mondo digitale è oggi una delle espressioni dei contesti esistenziali all’interno dei quali ogni persona, o almeno chi vi ha l’accesso, ha a che fare». Quindi è parte della realtà.
E non parla solo di Inteet, ma dei cellulari, che nel bene e nel male, «sono diventati una nostra protesi di cui non possiamo fare a meno».
Giulio Albanese è nato nel 1959, quindi, come sostiene lui stesso è un «immigrato digitale», termine con il quale si connota chi è nato prima della rivoluzione digitale, che si contrappone al termine «nativi digitali», riferito a coloro venuti al mondo e cresciuti con il computer in mano.

Una rivoluzione culturale
«Attenzione, molte volte, soprattutto come missionari, rischiamo di avere un approccio unicamente strumentale rispetto al web. La rivoluzione digitale è molto di più. In una maniera o nell’altra, ognuno di noi, attraverso alla rete, è messo nelle condizioni di comunicare. Ci sono dei limiti oggettivi, come quello della fisicità. Però è importante tenere a mente che dietro a ogni computer c’è sempre una persona creata a immagine e somiglianza di Dio».
Il meccanismo che ha innescato questa «rivoluzione culturale», come sostiene Nicholas Negroponte, del Mit (Massachussetts Institute of Technology), è un’accelerazione spazio-temporale. Prima dell’avvento delle «e-mail» perché una lettera arrivasse oltreoceano passavano dei mesi, oggi si comunica in tempo reale. Questo accelera il tempo, al punto tale che lo stesso Negroponte fa corrispondere un «anno Inteet» a un mese solare.
«La vita è più frenetica, certo – continua il missionario – ed è per questo che è importante l’azione di evangelizzazione. Pensiamo alle parabole di Gesù riguardo al Regno, ad esempio proprio a quella della rete che gettata in mare prende pesci buoni e pesci cattivi, oppure al campo nel quale cresce grano buono e zizzania. Nel web c’è tutto questo, tutto è parte del Regno e il compito del mondo missionario, degli operatori della pastorale è quello di sapere realizzare un sano discernimento, andando oltre ad ogni forma di manicheismo».
«Un discernimento s’impone, proprio perché a noi, come missionari, stanno a cuore dei valori fondamentali, quelli del regno: pace, giustizia, riconciliazione, il grande tema del rispetto del creato».
Valori che nelle società occidentali (e non solo) si stanno perdendo, o sono messi in secondo piano, anche a causa della frenesia e quindi delle accelerazioni dovute ad Inteet. Allora occorre capire come si può intervenire ad esempio in un social network e far passare dei messaggi.
«Credo che la rete ci consenta tutto questo. Nel mio piccolo, già ai tempi della Misna, io ho intercettato molti giovani, alcuni dei quali hanno poi avuto la possibilità di fare esperienze di missione, altri di entrare in organismi di volontariato internazionale, in alcuni casi addirittura all’interno di un istituto missionario. Il fatto è che la stragrande maggioranza dei missionari, tranne i giovanissimi, sono “immigrati” rispetto alla rete, cioè sono nati primi della rivoluzione digitale».

Inculturazione digitale
Per gli immigrati digitali la difficoltà è maggiore. «Occorre capire che noi, venuti dal pre-digitale, dobbiamo accettare la sfida. Questo esige uno sforzo a livello di inculturazione: dobbiamo adottare linguaggi che la maggioranza di noi non conosce. Come succede quando si vuole andare in missione, si deve imparare la lingua del posto, per entrare nella rete bisogna utilizzare un linguaggio che sia consono ad essa».
Vent’anni fa si parlava di inculturazione nel senso di fare propria la cultura del popolo presso il quale si andava a lavorare, ad esempio gli indios Yanomami, oggi dobbiamo inculturarci nel mondo digitale…
«Ma ho la sensazione che da parte nostra, alle volte, non ci sia ancora questa convinzione. Non abbiamo capito che dobbiamo entrare nella rete con il cuore e con la mente, con spirito cristiano. La verità è che attraverso il web si riesce ad entrare in contatto con tanta gente di buona volontà. Tra l’altro, la barriera geografica che fino a ieri era un ostacolo, viene abbattuta».
Ma non è un percorso così facile.
«Per prima cosa è necessario essere molto pazienti, perché di fronte all’innovazione tutti sperimentano il disagio. Gli innovatori sono solitamente insopportabili, perché dicono l’esatto contrario di quello che i genitori vogliono dire ai figli, i capi di stato ai cittadini, o gli industriali agli operai. Eppure senza innovazione, dice Negroponte, siamo destinati tutti al declino. Prendendo il linguaggio del Concilio, si parla di “aggioamento”».
Qualche consiglio.
«Nella preparazione dei giovani seminaristi alla vita missionaria, le materie sono quelle canoniche, nelle migliori delle ipotesi la missiologia. Dobbiamo iniziare a capire la necessità di preparare i quadri di domani con forti competenze nel digitale, perché la rete è terra di missione. E questo significa attrezzarsi a livello di corsi, investire maggiori risorse finanziarie su questo versante.
Il mondo missionario è entrato in rete, ma a parte l’esperienza della Misna, tutti fanno fatica a fare sistema, ci si muove in maniera molto auto referenziale e il rischio è che restiamo fermi al web 1.0. Utilizziamo cioè Inteet quasi fosse una bacheca per fare vedere quello che fa il mio o tuo istituto, o rivista. Ma Inteet è molto di più: è interazione, scambio, confronto, è una grande Agorà. San Paolo e gli apostoli sono scesi nell’Agorà e lì hanno incontrato la gente.
La missione è nata nelle città. All’inizio del terzo millennio, si propone in questa grande urbe internettiana».

La chiesa nella rete
Parlando in generale della Chiesa, come sta affrontando questa rivoluzione? «Sia da parte del Papa, anche nel messaggio per la giornata delle comunicazioni sociali di quest’anno, e più in generale da parte della Conferenza episcopale italiana, a livello istituzionale, c’è stata una grande attenzione a questo tema. L’anno scorso si è svolto a Roma il convegno “Testimoni digitali” e vi hanno preso parte tutti i rappresentati delle diocesi del nostro paese. C’era anche una discreta presenza di religiose, religiosi e missionari. Ma molto di più deve essere fatto.
A mio avviso occorre far sì che a livello della base si comprenda che si tratta di cambiare radicalmente mentalità.
Ma questo esige una grande umiltà: dobbiamo ammettere che siamo ancora molto analfabeti».
Proprio perché Inteet ha a che fare con la dimensione esistenziale, come tutte le realtà ha i suoi punti di forza e i punti di debolezza.
Consente di navigare e intercettare un mare magnum di notizie, sulle quali, però, si deve operare un sano discernimento.
«Quando si naviga in rete si è sottoposti a due fenomeni: la dispersione e la contaminazione.
Ogni volta che faccio un’indagine in Inteet attraverso un motore di ricerca, la rotta è sempre diversa, vuol dire che nel mare del web ho sempre delle cornordinate molto variabili: dispersione.
Inoltre più mi allontano dai portali che conosco e che utilizzo con la mentalità pre-digitale, più posso sperimentare la contaminazione, ovvero faccio fatica a valutare le fonti. Occorre fare il confronto tra più fonti.
Questi due fenomeni hanno un impatto a livello psicologico sulle nuove generazioni. Qui è importante offrire alla gente delle “istruzioni per l’uso”».
Istruzioni, regole, ma esiste una «morale internettiana»?
«Quando ero bambino i miei genitori mi hanno insegnato ad attraversare la strada sulle strisce. La strada è un “non luogo”, realtà di passaggio funzionale al camminare, all’andare. Per poter navigare devo rispettare il “codice della strada”, avere un regolamento che mi consenta di essere sicuro, tranquillo.
Il problema della rete è che purtroppo anche a livello di Chiesa e comunità cristiana, non abbiamo fatto abbastanza per fornire queste regole. Così si innescano meccanismi che dal punto di vista etico sono discutibili.
Nel mondo reale se entro in un negozio e rubo della merce è peccato, perché non ho pagato. Ma se nella rete, usando dei programmini, scarico illegalmente video o musica sembra non esserlo. Saltano le cornordinate. Importante è affermare il bene comune, anche nella rete, perché non è un mondo che non esiste. Il termine virtuale è ambiguo. È un’altra dimensione, la riproposizione di un mondo reale che comunque c’è».
Qui si pone un problema importante per educatori e genitori, che sono «immigrati», mentre i figli sono dei «nativi». Le preoccupazioni relative ai pericoli della rete e alla dissipazione del tempo sono molte.
«Nell’azione catechetica, le parrocchie dovrebbero offrire servizi per la comunità.
Bisogna educare anche nella rete. Il ragionamento applicato anni fa alla Tv: non è buona, non è cattiva, ha una sua neutralità. È uno strumento di comunicazione. Nella Tv puoi trovare grano buono e zizzania, lo stesso nella rete. È importante consentire agli utenti, soprattutto i giovani, di operare un sano discernimento: la sfida educativa nella rete è fondamentale, è uno degli aspetti essenziali che caratterizzano l’azione di evangelizzazione. Dobbiamo investire risorse, energie, anche soldi.
La capacità di operare una scelta tra i valori del regno e dell’anti regno».

Libertà e diritti
Il web è il mezzo di comunicazione più libero, ma siamo tutti tracciati, le nostre mail, conversazioni e foto memorizzate nei data base, così come i nostri comportamenti, i profili. Ne consegue uno strapotere dei provider (fornitori di servizio in rete) e delle compagnie telefoniche.
«È vero. Si pone una questione fondamentale, spesso strumentalizzata in maniera ideologica.
È chiaro che bisogna riaffermare il potere politico sulla rete, non all’insegna dell’oscurantismo o della censura, ma per governarla, per permettere a tutti la libertà di espressione, ma affinché comunque il bene comune venga preservato. Da questo punto di vista oggi la rete è anarchica. Bisogna mettere delle regole, proprio perché essa rappresenta un bene comune, e significa che la politica deve vigilare perché non vi siano abusi, perché l’individuo molte volte non è tutelato dalla rete. La privacy può essere stravolta. Il legislatore deve fare la sua parte.
Bisogna soprattutto vigilare su quelli che detengono il potere nella rete, mi riferisco alle compagnie telefoniche, a chi ha la proprietà delle linee e dei data base. Il rischio che corriamo è che la politica diventi non solo ancella dell’economia, con tutti i disastri che ne comporta, ma anche della rete e questo sarebbe un dramma ancora più grave».

Marco Bello

Giulio Albanese e Sergio Pillon,
«Cliccate e troverete, un missionario e un esploratore a spasso per la Rete». Prefazione di mons. Domenico Pompili, sottosegretario Cei, Direttore dell’ufficio nazionale per le comunicazioni sociali.
Infinito Edizioni, 2011, pp. 144.
€ 12,00. Disponibile E-book € 6,90.
www.infinitoedizioni.it.

Marco Bello




Dacci oggi … il pane quotidiano

Inchiesta: le nuove povertà / 2

Una mensa per i poveri in una grande città. Una come tante. Uomini che si affrettano a consumare un pasto caldo. Il disagio di chiedere di che sfamarsi. Lingue, molteplci e diverse. Ma anche dialetti nostrani. E volontari, che fanno in quattro per degli sconosciuti. Pennellate di povertà e solidarietà.  

Via Cibrario a Torino è il confine tra i ricchi e i poveri, tra i bianchi e gli stranieri in genere. Forse nessun’altra via torinese ha questo ruolo di cerniera, oppure, dipende dai punti di vista, di barriera. A Nord Cit Turin, quartiere liberty molto elegante, abitato dalla buona borghesia sabauda. A Sud la vecchia classe operaia giunta dal meridione durante gli anni del boom economico, e gli immigrati arrivati negli ultimi anni. In via Cibrario la domenica mattina, davanti ad una casa di accoglienza vincenziana (San Vincenzo), si allunga una coda di uomini e donne che devono risolvere il problema del pranzo. Hanno fame? Probabilmente solo alcuni delle circa duecento quaranta persone che si ammassano sentono l’impellenza di riempire lo stomaco.
più mense che affamati?
Paolo Miglietta, presidente della mensa festiva vincenziana, racconta questa piccola fetta di poveri della città: «Il povero di Torino, sia esso italiano o straniero, non ha in genere problemi di fame. La città, con i suoi servizi di assistenza sociale laica e religiosa, offre una quantità di cibo molto superiore alla domanda, che comunque è in forte aumento. Paradossalmente la possibilità di usufruire di pasti spesso ipercalorici ha portato al paradosso dello sviluppo di patologie in chi usufruisce quotidianamente delle mense. In questo momento esistono tavoli di lavoro che studiano la creazione di diete bilanciate per evitare l’insorgenza, o l’aggravamento di malattie come, ad esempio, il diabete, piuttosto diffuso». La mensa vincenziana di via Cibrario, «capeggiata» da suor Angela, figura totemica che un po’ tutti i volontari raccontano nei loro discorsi, la domenica mattina assomiglia ad un caos ordinato. I tre saloni rimbombano di lingue che raccontano provenienze distanti. C’è il piemontese dei vecchi autoctoni che ormai sono di casa, l’italiano, molto rumeno, un po’ di arabo. Anche se questi ultimi sono più silenziosi degli altri. Si passa velocemente tra i tavoli per un saluto perché i poveri che mangiano alla «mensa dei poveri» raccontano già di per sé tutto, senza aggiungere parole.
volontari di ogni razza
Domenica quattro settembre c’è una gran ressa. Forse perché il gruppo di volontari può vantare una specialità? È formato da circa venti persone con storie molto diverse: pare che sia una caratteristica di questa mensa vincenziana.
La più giovane è una studentessa del «durissimo» liceo classico Cavour. In mano ha il vassoio del caffè e alla domanda: «Perché sei qua, mentre il novanta per cento dei tuoi coetanei è al centro commerciale» risponde: «È bello fare qualcosa per queste persone che sono in difficoltà. Mi fa stare bene».
E poi si sale con gli anni. Non solo anzianità anagrafica, ma anche di servizio: si arriva fino ai venticinque anni di volontariato. Tutti fanno un po’ tutto, anche se esistono le specializzazioni.
Gli ospiti hanno appena finito di mangiare e apprezzare un ottimo risotto, specialità preparata solo da questo gruppo di volontari. Tra chi lava piatti, spazza il pavimento, serve a tavola, chiacchiera con i commensali, cucina, condisce il risotto dentro pentoloni visti solo in caserma, prepara il caffè, apparecchia e sparecchia. C’è di tutto. Chi giunge dal Rotary Club e chi dalla contestazione politica degli anni Settanta, chi è religioso e chi la messa la frequenta saltuariamente. Una volta ogni quattro settimane i gruppi di volontari dedicano circa sei ore della loro domenica ai poveri, dalle dieci del mattino fino alle quattro del pomeriggio. E dato che è una mensa festiva un po’ tutti i volontari hanno lavorato a Natale, capodanno o in altre ricorrenze.
Racconta Giulia: «C’è una gran confusione durante queste feste e alla fine della notte la stanchezza e tanta. Ma è bellissimo, c’è una gran voglia di far festa qua dietro i fornelli e di là nei saloni».
Mentre i volontari lavorano tanto da sembrare un combattivo plotone di formiche rosse, nei tre saloni gli ospiti consumano rumorosamente il pasto scambiando quattro chiacchiere. Sono seduti molto vicini gli uni agli altri, e, come da clichè, alcuni di essi non si liberano dell’armamentario che si portano sempre con sé neanche quando mangiano.
Nuovi poveri
Ancora Paolo Miglietta racconta: «Un aspetto che anche dopo molti anni di volontariato con questi uomini e donne mi sorprende sempre è la loro fretta perenne. Pur avendo una giornata ricca di tempo libero sono sempre di corsa: devono entrare velocemente, sedersi velocemente, mangiare velocemente, andarsene velocemente. Come è ovvio questo racconta il disagio che prova, anche chi ormai è diventato un membro della famiglia,chiedere del cibo per sfamarsi».
Chi è seduto ai tavoli e mangia primo, secondo, contorno e frutta non rappresenta l’unica tipologia di utente della mensa festiva vincenziana. Costoro sono circa centoquaranta ed in tasca hanno una tessera rilasciata dai servizi sociali della Città di Torino, che certifica il loro stato di grave disagio e dà loro diritto ad entrare nella struttura e sedersi. Per chi invece rifiuta di passare attraverso i servizi sociali, altro momento problematico a livello psicologico soprattutto per i cosiddetti «nuovi poveri», esiste un servizio che distribuisce circa centoquaranta pranzi al sacco: panini, acqua o succo, un frutto.
La linea «intea» opera da circa quindici anni e chi ne usufruisce è un gruppo variegato: barboni italiani e lavoratori stranieri. Uomini che pur avendo un lavoro, non riescono a coprire i loro fabbisogni primari. Magari pagano l’affitto, in condivisione, ma i soldi per il cibo scarseggiano. Molti anche gli anziani, spesso soli. Idem per chi ha avuto problemi con la giustizia e, uscito dal carcere, non sa dove andare a sbattere la testa.
Il gruppo che usufruisce del pranzo da asporto invece è composto prevalentemente da ragazzi con problemi di dipendenza da sostanze, siano esse droghe o alcolici, e molte donne, mandate avanti dagli uomini che non hanno il coraggio di andare alla mensa dei poveri in prima persona. Il ricambio in questo gruppo, circa centocinquanta persone ogni domenica, è molto rapido. Assenti ad entrambe le distribuzioni, le famiglie, ma non perché il problema non esista. Per loro è previsto un apposito pacco che viene portato dai volontari direttamente a casa.
fame in aumento
Racconta Paolo Miglietta che la richiesta di cibo è in vigoroso aumento: «Se devo dare una data di inizio di questa tendenza è la primavera del 2011. Un incremento massiccio, composto per la maggior parte da lavoratori stranieri ma anche da tantissimi italiani che hanno esaurito ogni tipo di ammortizzatore sociale, compresa le rete famigliare». E questa di per sé è una novità in Italia. Lo Stato, per risparmiare, taglia i servizi sociali e delega alla famiglia. Questa, in balia della crisi e priva anch’essa di un supporto accettabile, non riesce più a sostenere gli anelli più deboli che la compongono. Il volontariato rappresenta così l’ultimo approdo per chi ha bisogno di aiuto in questa Italia sempre più sgangherata.
Per questa ragione la distribuzione di tessere è stata interrotta dato che non esiste più lo spazio fisico dove far sedere gli ospiti.
Alle due del pomeriggio di una uggiosa domenica di settembre chi aveva fame esce dalla mensa vincenziana e torna da dove era giunto. Le sale sembrano colpite da un violento terremoto. Le formichine passano all’attacco e rimettono tutto in ordine. Fuori capannelli di uomini e donne si fermano per le ultime chiacchiere e commenti.

Maurizio Pagliassotti

Rapporto caritas-zancan sulla povertà

Sempre più poveri

Circa un quarto degli italiani è in caduta libera verso la povertà.
Mentre il 13,8% sono già classficati poveri.

Il nuovo rapporto Caritas – fondazione Zancan sulla povertà in Italia è stato presentato a Roma il 17 ottobre scorso, giornata mondiale di lotta contro la povertà. «Il titolo – Poveri di diritti – è fortemente evocativo» scrivono i curatori. «Un titolo che nasce da una semplice, ma scontata considerazione: alle persone che vivono in condizioni di povertà si pensa solo in termini di insufficienti risorse economiche, ignorando che eisste tutta una serie di altre privazioni che peggiorano lo stato di precarietà e ne impediscono il superamento. Il diritto alla casa, al lavoro, alla famiglia, all’alimentazione, alla salute, all’educazione, alla giustizia – pur tutelati dalla Costituzione italiana – sono i primi a essere messi in discussione e negati».
E i risultati del rapporto lo dimostrano. I poveri nel nostro paese sono in aumento: nel 2010 8 milioni e 272 mila persone, ovvero il 13,8% della popolazione contro i 7,810 milioni dell’anno precedente.
Ma ancor più eclatante è che le «persone impoverite», in caduta verso condizioni sempre peggiori sono il 25% degli italiani.
Rispetto al panorama europeo siamo i peggiori: sono a rischio povertà o esclusione sociale il 24,7 % degli italiani, contro il 21,2% dell’area Euro e il 23,1% dei paesi dell’Ue.

L’occupazione è diminuita in un anno di 153mila unità, mentre la disoccupazione di lungo periodo è in aumento.
Il primo dei diritti negati è quello alla famiglia: «la povertà colpisce con particolare violenza le famiglie numerose, con più di due figli. Senza un adeguato sostegno, le famiglie non saranno incentivate a fare figli e le ripercussioni a livello demografico saranno pesanti». In questo senso l’ottusità dell’attuale governo è palese: il Fondo  per le politiche della famglia è stato decrementato da 185,3 milioni nel 2010 ai 31,4 milioni previstri nel 2013. In contro tendenza con i diversi altri governi europei.
Diritto al lavoro: in Italia sono il 56,9% i cittadini tra15 e 64 anni con lavoro regolarmente retribuito. Una percentuale tra le più basse dell’Occidente. Parlando poi di giovani si scopre che l’occupazione è scesa dell’8% nel 2009 e del 5,3% nel 2010 con un tasso di disoccupazione che ha toccato il 27,8%. Mentre solo il 47% delle donne ha un lavoro (60% in Francia) e guadagna il 16,8% in meno di un uomo di pari livello.
Ma il rapporto punta anche il dito sui «Soldi spesi male». I dati evidenziano che gli enti locali continuano a investire tante risorse assistenzialistiche nel contrasto della povertà, ma con scarsi risultati. C’è una prevalenza della logica di emergenza, per la quale si preferisce erogare contribuit piuttosto che attivare servizi. Ma, sottolineano i curatori: «Questo modo di rispondere alla povertà non incentiva l’uscita dal disagioma , anzi rischia di rendere coico il problema».
La maggior parte della spesa pro capite per combattere la povertà è riservata a contribuiti economici una tantum a integrazione del reddito familiare.
Nel rapporto viene chiesto un «cambiamento di rotta»: «La prima strada da percorrere è quella di incrementare il rendimento della spesa sociale. La seconda è di recuperare i crediti di solidarietà destinandoli in via prioritaria a occupazione di welfare a servizio dei poveri». Ovvero creare servizi per i poveri dando lavoro ad altri potenzialmente poveri. Si ipotizzano alcune centinaia di miglia di impieghi.

Il divario resta elevato tra le regioni italiane, quelle che spendono di più (Nord) investono fino a 9 volte di quelle che spendono di meno (Sud).
Molto interessanti sono i dati provenienti dai 195 centri di ascolto Caritas. Il numero complessivo delle persone ascoltate è aumentato, negli ultimi 4 anni, di quasi 20%. Aumentano gli italiani che si rivolgono ai centri di ascolto, con particolare incidenza al Sud, mentre la presenza di «nuovi poveri» è crescita del 13,8% in 4 anni.
Da questi dati di «terreno» si deduce che: «Il raggio di azione della pvertà economica si sta prograssivamente allargando, e coinvolge un numero di persone e famiglie tradizionalmente estranee al fenomeno». Gli operatori della Caritas notano che «La crisi ha prodottu un notevole incremento di fenomeni di sottoccupazione e lavoro nero, aggravando una serie di aspetti negativi della flessibilità del lavoro».
Anche l’emergenza abitativa, contrapposta al diritto alla casa, è in aumento. Un problema aggravato dalla scarsità di risposte di governo e amministrazioni locali. I problemi abitativi sono aumentati del 23,6% negli ultimi 4 anni.
Molti più giovani si rivolgono oggi ai centri di ascolto Caritas, mentre una nuova povertà tra gli immigrati, anche di lunga data, si è fatta strada. In particolare i nuclei famigliari che si erano ricongiunti e che ora non riescono a soddisfare le spese in forte aumento, devono ripensare a loro progetto migratorio.
Le risposte ecclesiali a questa devastante tendenza sono molteplici. Da quelle più tradizionali come le mense dei poveri (al gennaio 2010 era presenti 449 mense socio-assitenziali) agli strumenti più modei, come microcredito per famiglie e imprese, botteghe solidali, carte magnetiche di spesa, progetti di «consulenza casa». Ai fondi diocesani di emergenza. Le nuove iniziative, nell’ultimo anno sono aumentate del 39,6%.

a cura di Marco Bello


Caritas Italiana, Fondazione Zancan,
«Poveri di diritti, rapporto 2011 su povertà ed esclusione sociale in Italia», ed. Il Mulino, pp. 272, € 22,00.

Marizio Pagliassotti




Georgia. Vite sfollate

I territori secessionisti del Sud Ossezia e dell’Abkhazia, appoggiati dalla Russia, sono costati alla Georgia tre guerre (1991, 1993, 2008). E migliaia di sfollati che continuano a vivere in condizioni miserevoli.
Oggi, con la presidenza Saakashvili e gli aiuti interazionali, Tbilisi cerca di costruire un futuro migliore per il paese e i georgiani.

Il 26 maggio in Georgia è festa nazionale. È il giorno dell’indipendenza e l’anniversario si celebra con una grande parata militare nella capitale, Tbilisi. La parata sfila lungo il centralissimo viale Rustaveli, dove è situato il palazzo del Parlamento, davanti al quale per l’occasione si allestisce una tribuna che ospita le massime autorità dello Stato.
Lo scorso maggio mi trovavo nuovamente in Georgia e ho deciso di andare a vedere la parata. A causa degli sbarramenti in centro ho tardato ad arrivare a destinazione. Quando sono giunta in prossimità della tribuna due ali di popolo erano già accalcate lungo i marciapiedi: lo spettacolo stava cominciando. Ho allungato il collo e, da dietro il muro umano, ho visto i soldati scorrere a squadre compatte, precedute dai loro comandanti. Risalendo la corrente per trovare un punto d’osservazione migliore, sono arrivata fino all’ampia piazza della Repubblica, dove mi ha accolto un rombare di motori: erano i carri da guerra e la contraerea, pronti a partire per accodarsi alle schiere dei soldati. Come in tutte le parate che si rispettino.
Osservando i soldati che, nonostante i movimenti rigidi e cornordinati, avevano un’aria trasandata e non molto militaresca, intravedendo sotto i berretti le loro facce compassate ma bonarie, mi è tornato in mente che nell’agosto del 2008 quello stesso esercito si era disfatto in quarantottore.
Per i georgiani era stato un duro colpo all’orgoglio nazionale. Da quando il presidente Saakashvili era salito al potere, quattro anni prima, con l’aiuto di esperti americani si era cominciato ad addestrare gli uomini, ad ammodeare e potenziare gli armamenti. Erano apparsi per le strade di Tbilisi grandi cartelloni pubblicitari, che mostravano immagini di soldati sorridenti, rassicuranti. Se ne esaltava la preparazione e s’invitavano i giovani ad arruolarsi per diventare, anch’essi, degli eroi.  Il loro coraggio sarebbe servito per riconquistare i territori secessionisti del Sud Ossezia e dell’Abkhazia, che si facevano forti dell’appoggio della Russia. In tempo di pace i georgiani avevano creduto di potercela fare contro un avversario mille volte più forte. Quella convinzione, però, era svaporata in poche ore sotto i fischi delle bombe e dell’artiglieria russa. L’unica cosa che i soldati avevano potuto fare era stato abbandonare tutto e tornare a casa.
A giudicare dai volti eccitati e lieti, la memoria di quegli avvenimenti non sembrava turbare l’atmosfera di festa che regnava intorno alla parata. Maggio era nel pieno del suo splendore, il sole inondava il viale Rustaveli e faceva brillare i colori delle uniformi, delle bandiere, dei fiori nei vasi delle fioraie. Grandi e piccoli si godevano la giornata primaverile e lo spettacolo offerto. Io, però, pur nella generale allegria, non riuscivo a scacciare dalla mente le immagini delle persone che fuggivano dai bombardamenti in quell’agosto di due anni prima. Allora ero a Tbilisi e mi capitò più volte d’incontrare gli sfollati, di udire le loro tragiche storie. Fortunatamente, la guerra sarebbe durata solo pochi giorni, presto la città e il paese avrebbero ripreso la loro vita normale.

LA TRISTE ODISSEA DEGLI SFOLLATI
Il peso del ricordo di quei giorni funesti è rimasto sulle spalle dei circa trentamila sfollati interni che non hanno potuto fare ritorno alle proprie case e che ora trascinano l’esistenza in centri collettivi nelle città, o in villaggi ghetto, sorti precipitosamente nel mezzo del nulla. Li si può vedere percorrendo l’autostrada che collega Tbilisi e Gori, la terza città del paese: lunghe file di casette monofamiliari a un piano, tutte uguali. Non hanno nulla attorno, non terra da coltivare, non attività, non negozi. Chiunque veda questi improbabili villaggi si chiede a chi sia potuta venire l’idea di risolvere in tal modo il problema degli sfollati. Anche prima di costruirli, si sarebbe potuto facilmente immaginare che la gente mandata a viverci si sarebbe trovata senza un lavoro, senza infrastrutture, senza un collegamento naturale con la vita degli altri. Chi li visita racconta di persone sedute sull’uscio di casa, sfaccendate e avvilite. I villaggi sono stati costruiti con i soldi dell’aiuto internazionale e anche i funzionari delle istituzioni erogatrici, a quanto pare, non si sono opposti alla loro realizzazione.
Il problema di dare una sistemazione dignitosa ai vecchi e nuovi sfollati rimane più che mai attuale. Il conflitto del 2008 non ha fatto che aggravare una situazione rimasta irrisolta da quando, tra il 1991 e il 1993, due guerre civili costrinsero centinaia di migliaia di georgiani a lasciare le proprie case in Abkhazia e in Sud Ossezia. Costoro sono stati per anni lasciati in una sorta di limbo, senza che il governo affrontasse seriamente la questione di un loro re- insediamento in altri alloggi. C’è chi ha cercato di arrangiarsi, da solo o con l’aiuto di altri famigliari, chi ha trovato ricovero in strutture, messe “temporaneamente” a disposizione dallo stato. Tenere calda la questione degli sfollati serviva al governo come carta da giocare per dimostrare la necessità di recuperare i territori secessionisti. Va da sé che, quando l’Occidente si è mobilitato per aiutare la Georgia dopo la guerra del 2008, anche i vecchi sfollati hanno chiesto di essere finalmente aiutati a trovare una sistemazione definitiva. In accordo con gli stati donatori, è stato stabilito che sarebbero stati inclusi nel programma di assegnazione di nuovi alloggi. Anche nel loro caso, però, le soluzioni offerte dal governo spesso non sono adeguate. Famiglie che ormai da quasi vent’anni vivono in città ricevono alloggi in centri piccoli, o remoti, dove non c’è possibilità di lavoro, dove a volte mancano i servizi essenziali. Qualcuno opta per un compenso in denaro, ma molti rifiutano di trasferirsi. Dalla scorsa estate a Tbilisi sono cominciati gli sgomberi forzati degli edifici dove vivevano gli sfollati. La brutalità di questi interventi ha provocato un’ondata di denunce e proteste da parte sia dei diretti interessati, sia delle organizzazioni umanitarie. Ora il governo sta agendo con maggior cautela, ma gli sgomberi continuano.

QUALCHE SOFFIO, D’ARIA NUOVA
Mentre gli sfollati continuano la loro triste odissea, il resto del paese, anche se lentamente, va avanti. Gli ingenti aiuti inteazionali arrivati all’indomani dell’ultimo conflitto hanno rimesso in moto i lavori pubblici. Le infrastrutture stanno migliorando. Per il viaggiatore punto di osservazione privilegiato sono le strade. Ebbene, rispetto ai viaggi precedenti ho potuto costatare che sta diventando più facile muoversi nel paese. È migliorata la condizione delle principali strade di comunicazione, procedono i lavori per completare il tracciato della ferrovia che collegherà Kars, in Turchia, con Baku, in Azerbaigian, attraversando la Georgia da un capo all’altro. Tbilisi ha due nuove arterie, che alleggeriscono il traffico del centro città, perennemente congestionato.
L’edilizia privata non si è ancora ripresa dalla crisi postbellica, ma lo Stato ha riaperto i cantieri e ha, tra l’altro, messo in opera un grosso progetto, sostenuto dall’Unesco, di ristrutturazione del centro storico di Tbilisi. Tra qualche tempo il nucleo più antico della capitale georgiana avrà un volto forse anche troppo nuovo. Spariranno le case sbilenche e fatiscenti; altre saranno rifatte, i caratteristici balconi odoreranno di legno nuovo e offriranno ai turisti una perfetta immagine da cartolina, sia di giorno, che di notte, grazie alla nuova potente illuminazione nottua.
Piccoli progressi si stanno facendo anche nella sanità. Le fasce più deboli ricevono ora qualche aiuto in più dallo Stato, che dovrebbe assicurare loro, perlomeno, l’assistenza e i farmaci di base. In realtà, questo diritto non è sempre garantito, per mancanza di strutture adeguate sul territorio. Coloro che non rientrano nelle categorie previste dalla legge continuano ad affrontare da soli il problema della propria salute. Ciò vuol dire che, quando c’è la necessità d’interventi costosi, chi non ha le risorse sufficienti s’indebita, o rinuncia alle cure.
Sebbene i segni della povertà rimangano visibili in molte parti della capitale e del paese, in confronto ai cupi anni Novanta del secolo scorso, si deve ammettere che adesso in Georgia si respira un’aria più leggera.

CON LA PRESIDENZA SAAKASHVILI
Nell’appartamento da me preso in affitto sulle colline alla periferia di Tbilisi, al quattordicesimo piano di un casermone degli anni settanta, in salotto faceva mostra di sé un grosso caminetto. La sua presenza ha attirato subito la mia attenzione, giacché nell’edilizia popolare sovietica i caminetti non erano certo un elemento consueto. Non era, infatti, previsto nel piano originario. Lo aveva fatto costruire Irina, la padrona di casa, dopo che, con la fine dell’Urss, aveva cessato di funzionare il sistema di teleriscaldamento. A Tbilisi erano rimasti tutti al freddo e ognuno si era ingegnato come poteva per sopravvivere ai rigori dell’inverno, quando il vento soffia gagliardo dalle colline intorno alla città e penetra attraverso gli infissi. Così erano tornati in auge i caminetti. Il gas mancava, la luce pure. Compariva ogni tanto per un’ora o due; allora era una festa, ricorda Irina. Per cucinare si usavano le stufe a cherosene.
Il primo decennio dopo l’indipendenza dall’Urss fu il più duro. Il paese era stato sconvolto da due guerre civili e la situazione era rimasta molto precaria anche dopo la fine dei combattimenti. Chi avrebbe dovuto governare badava ai propri interessi e il paese era lasciato a se stesso. L’anarchia regnava sovrana. Ne sono una testimonianza sui generis le forme inconsuete che assunsero le case in quegli anni. Chi poteva, si accaparrava un pezzetto di terreno davanti a casa, ci costruiva un balcone, o un prolungamento del proprio appartamento. In alcuni casi gli abitanti si accordavano per agire con più metodicità e costruire un’aggiunta lungo tutta la lunghezza del proprio stabile. Se i soldi mancavano, si lasciavano i lavori a metà. Tali sono rimasti fino a oggi, con le armature di ferro che spuntano dai blocchi di cemento. Ci sono palazzi in cui, una volta eretta una carcassa in cemento armato, gli abitanti dei singoli piani si sono sbizzarriti nel riempirla a proprio piacimento.
Adesso non è più possibile prendere iniziative del genere. Dal 2004, con l’amministrazione Saakashvili (giunto al secondo mandato), lo Stato ha cominciato a rioccupare le posizioni perdute e a riprendere controllo dello spazio pubblico. La politica del nuovo presidente ha avuto risvolti senz’altro positivi. In confronto agli anni della presidenza di Shevardnadze, ora si avverte la presenza regolamentatrice dello Stato. C’è stato uno sforzo di rendere più efficienti i servizi pubblici, pagare gli stipendi, migliorare l’infrastruttura e, soprattutto, mettere un argine alla corruzione dilagante tra i pubblici ufficiali. Durante la vecchia amministrazione la corruzione aveva assunto proporzioni gigantesche e si era diffusa capillarmente a tutti i livelli dell’apparato statale.
Riprendere il controllo del territorio ha voluto, però, anche dire una rinnovata determinazione a riguadagnare le regioni perdute a seguito delle guerre civili degli anni Novanta. Saakashvili stabilì un ambizioso programma di riconquista, che prevedeva la riannessione di Abkhazia e Sud Ossezia entro la fine del suo primo mandato. Ciò inaugurò un periodo di crescenti tensioni tra il governo georgiano e la Russia, che sosteneva i secessionisti. Ogni spazio di dialogo si chiuse, le posizioni diventarono rigide e intransigenti, le reciproche provocazioni sempre più frequenti, fino a che il conflitto, da latente, non sfociò in guerra aperta.

STALIN RESISTE (A DISPETTO DI TUTTO)
Una vittima indiretta della guerra è stato il grande monumento a Stalin che campeggiava nella piazza centrale di Gori. Era sopravvissuto alla destalinizzazione, al crollo dell’Urss e persino al primo mandato della presidenza Saakashvili, durante il quale il periodo sovietico era stato riletto in chiave antirussa, come se i georgiani non avessero dato il proprio consistente contributo alla costruzione dell’Urss e del suo apparato repressivo.
Dopo la guerra, che ha inasprito ulteriormente il sentimento antirusso e il giudizio nei confronti del passato sovietico, il «padre della patria» è stato rimosso dal piedestallo nella piazza della sua città natale; uguale sorte è recentemente toccata ad altri suoi busti, che ancora erano rimasti al proprio posto, a decorare vie e giardini di altre città georgiane.
Tra il popolo, tuttavia, l’origine georgiana ha salvato Stalin da un’incondizionata condanna. Non ho ancora trovato nessuno in Georgia disposto a marchiarlo come uno dei dittatori più sanguinari che la storia conosca. Con chiunque abbia parlato, ho sentito giudizi indulgenti, che spiegavano le repressioni staliniane come il pegno da pagare per costruire un paese grande e potente. Stalin continua a essere considerato un grande uomo di stato, di cui, tutto sommato, c’è da andare fieri. In barba agli ultimi ritrovati della storiografia ufficiale, che vede nella Russia e nell’Urss l’origine di tutti i mali della Georgia, il simbolo di ciò che di peggiore ha prodotto il periodo sovietico è ancora considerato una gloria nazionale.
Un altro dei brutti scherzi che gioca, a volte, l’orgoglio nazionale.

Bianca Maria Balestra

 

Bianca Maria Balestra




Da San Nicola a Babbo Natale

Storia ed Evoluzione della più popolare tradizione natalizia

Babbo Natale rischia di scippare il vero significato al Natale; eppure le sue origini sono eminentemente cristiane e risalgono al 3° secolo d.C., alla figura di san Nicola di Mira (Turchia). Il suo culto è stato secolarizzato e banalizzato, fino a ridurre il santo a simbolo di buoni sentimenti e, soprattutto, a testimonial accattivante per stimolare mercato e consumismo.

Alla vigilia di Natale del 2000 Vittorio Messori, dalle pagine del Corriere della Sera, lanciò una provocazione: traslare la festa della Natività dal 25 dicembre al 15 agosto per ritrovare una ricorrenza «non solo senza eccessi commerciali, ma pure senza renne, abeti, babbi natale…». La sfida di Messori partiva dalla considerazione che il giorno più suggestivo (sebbene non il più importante) del calendario cristiano, si era trasformato in un appuntamento commerciale e consumistico, dove la religiosità faceva solo da tenue sfondo al palcoscenico dell’apparire e dell’avere.
Per la verità, il pungolo non era cosa nuova: undici anni prima, nel 1989, un pittore newyorkese, Robert Cenedella, aveva suscitato un intenso dibattito con la sua opera intitolata Santa Claus: un Babbo Natale agonizzante su una croce piantata in un terreno cosparso di pacchi regalo. Lungi dal voler essere irriverente verso i valori cristiani, Cenedella affermava che il suo quadro «tende a mostrare come Santa Claus ha sostituito Gesù Cristo sino a prendee il posto come principale figura del Natale».
In effetti, le luminarie multicolori che addobbano i grandi magazzini e le strade delle nostre città durante le feste natalizie, rischiano di offuscare il vero significato della ricorrenza religiosa. Non è certo un caso che su internet, e in particolare negli Stati Uniti, si stanno moltiplicando i siti che esaltano la figura di Gesù rispetto a quella di Babbo Natale. Spesso (ma parliamo di scuole o sette cristiane radicali) Santa Claus viene demonizzato sino ad assimilarlo ad un anticristo o addirittura a Satana.
Tutta questa acredine ideologica, però, non permette di osservare l’interessante evoluzione che, lungo l’arco di diciassette secoli, ha portato un umile vescovo della costa turca, a trasformarsi nel moderno rubicondo omone dalla barba bianca che la notte del 24 dicembre passa di casa in casa a lasciare regali.

Tra storia e leggende
La storia di Babbo Natale iniziò infatti nel 260 d.C. a Patara, una città sulla costa meridionale dell’odiea Turchia, la cui popolazione era di cultura e lingua greca: qui, da una famiglia cristiana, nacque il futuro san Nicola.
L’impero romano, dopo la sconfitta di Valeriano contro la Persia, versava in grave crisi e alla sua guida si succedevano, uno dopo l’altro, imperatori inetti e poco rappresentativi. Nicola crebbe in questo clima di incertezza politica e di insicurezza economica. E proprio la miseria fa da sfondo alla leggenda che lo rese poi celebre.
Un padre di famiglia si struggeva per maritare le proprie tre figlie, ma la povertà in cui versava non gli consentiva di dare loro una dote sufficiente. Giunse così alla decisione di farle prostituire. Saputolo, Nicola decise di aiutare la famiglia donando, in via del tutto anonima, le somme di denaro sufficienti per combinare i matrimoni delle tre grazie.
Tra le tante versioni pervenuteci, una narra che, dopo aver lanciato alle tre sorelle, per due volte, il sacchetto con le monete dalla finestra, per non farsi scoprire, Nicola si arrampicò sul tetto lasciando cadere il terzo sacchetto dal camino. Un chiaro riferimento allegorico al tradizionale percorso seguito da Babbo Natale per lasciare i pacchi dono sotto l’albero. La storia ha comunque dato origine all’iconografia che distingue san Nicola da ogni altro santo cristiano: il virtuoso, difatti, viene sempre raffigurato con tre sfere d’oro ai suoi piedi o tra le mani.
A Bari, dove il santo è venerato come patrono cittadino, il culto di san Nicola ha portato all’istituzione del maritaggio, mantenuta in vita sino al 1984, grazie alla quale ogni anno venivano sorteggiate alcune ragazze orfane di padre e povere, a cui veniva assegnata una dote per contrarre matrimonio. Anche questa pratica aveva un chiaro riferimento alla storia delle tre sorelle aiutate dal patrono barese.
Ma altri racconti narrano innumerevoli meriti ascrivibili a san Nicola, grazie a cui marinai, bambini, ragazze nubili, ladri, prigionieri, macellai si pongono sotto il suo patronato.
Michele Archimandrita, monaco dell’VIII secolo, si spinge sino a dipingere un Nicola infante già destinato alla santità, scrivendo che il bambino rifiutava di succhiare il latte dal seno materno più di una volta al mercoledì e al venerdì, giorni dedicati al digiuno settimanale.
Il confine tra realtà e fantasia torna a farsi più evidente dopo la nomina a vescovo della città di Mira, un importante porto della Licia, avvenuta nel 295 d.C. Il vescovado di Nicola si protrasse nel periodo delle persecuzioni di Diocleziano, per prolungarsi oltre il Concilio di Nicea, a cui partecipò schierandosi dalla parte di Atanasio nella disputa con Ario sulla natura umana e divina di Cristo.
L’ennesima leggenda lo vede impegnato a spiegare la Trinità agli scettici, mostrando loro un mattone formato da terra, acqua e fuoco, quando dal laterizio si sprigiona una fiammella, cadono delle gocce d’acqua e nelle mani di Nicola rimane solo terra. Tale episodio riguardante un dogma basilare per la fede cattolica, definito per la prima volta proprio durante il Concilio di Nicea, vuole indicare l’elevata statura morale e teologica che i posteri avrebbero dato a san Nicola.
La morte del vescovo di Mira non fece altro che rafforzare la fede riposta in lui da parte della popolazione dell’Asia Minore. Ma sino al X secolo, la fama di san Nicola rimase relegata nella regione medio orientale.

Esportato e trafugato in Europa
Fu Teofano, figlia di Costantino Sclero, che nel 972 «esportò» la popolarità del santo in Europa. Promessa sposa al diciassettenne Ottone II, il 14 giugno 972 la principessa giunse a Roma portando con sé l’effige del suo patrono, san Nicola, appunto. Il riscontro dato dai fedeli fu immediato: in pochi anni la venerazione si espanse fino al nordeuropa, tanto che nell’XI secolo Mira divenne uno dei principali centri di pellegrinaggio di tutta la cristianità. I credenti andavano fin lì per pregare, ma anche per portare a casa l’olio sacro, un liquido che si diceva trasudasse dalla tomba del santo. L’espansione musulmana, però, raggiunse Mira, preceduta da un panico incontrollato, che indusse alla fuga i cittadini lasciando incustodite le spoglie del loro patrono.
Quale migliore occasione per una città come Bari, decaduta politicamente dopo la conquista normanna, per riacquistare il prestigio che aveva sotto l’impero bizantino? E così, nel 1087, 62 marinai baresi finanziati dal nuovo governo cittadino e con la benedizione di padre Elia, abate del monastero benedettino di Bari, sbarcarono a Mira trafugando, senza neppure combattere, le spoglie di san Nicola per trasportarle oltremare.
Con l’arrivo delle reliquie, la città pugliese riuscì a riemergere dal torpore religioso e, grazie al conseguente flusso di pellegrini, l’economia conobbe un nuovo sviluppo. La devozione a san Nicola fu talmente profonda che fino al XVI secolo le famiglie discendenti dai 62 marinai che avevano trasportato la tomba a Bari, ebbero diritto a una percentuale sulle offerte che i fedeli donavano in occasione delle due feste patronali del 9 maggio (giorno in cui arrivarono le spoglie del santo a Bari) e del 6 dicembre (giorno del calendario liturgico dedicato a san Nicola).
Ma Bari non avrebbe (il condizionale qui è d’obbligo) l’intero corpo di san Nicola: la riesumazione delle ossa e lo studio effettuato il 5 maggio 1953 da un professore universitario, Luigi Martino, conclusero che lo scheletro era incompleto, dando così credito alla tesi «veneziana», secondo cui i marinai baresi, nella fretta di trasferire le ossa di san Nicola sulla loro nave, abbandonarono alcune reliquie, in seguito ritrovate dai veneziani e portate nella Serenissima.
La contesa tra Bari e Venezia continua a protrarsi ancora oggi, ma sembra oramai assodato che nella chiesa di San Nicolò al Lido giacciano i resti delle spoglie mancanti a Bari. «Non vi è alcun dubbio su questo» afferma don Giancarlo Iannotta, parroco della chiesa veneziana, che continua: «Nel 1992 le ossa della tomba custodita a San Nicolò vennero esaminate e ogni reperto catalogato e confrontato con i resti delle ossa baresi. Le due serie combaciavano perfettamente tra loro».

NICOLA contro KRAMPUS
E se Bari e Venezia continuano a disputare il privilegio di custodire i frammenti sacri, nel nord Europa il culto di san Nicola si era radicato grazie alla principessa Teofano; la Riforma protestante epurò la festa del santo dal calendario liturgico, ma le famiglie, specie in Germania e nelle Fiandre, continuarono a ricordae la ricorrenza, tanto da elevare san Nicola patrono di Amsterdam. Proprio nelle regioni più toccate dal conflitto religioso, verso il XVI secolo, cominciò a diffondersi l’usanza di portare doni ai bambini in occasione della festa di san Nicola. È il primo passo verso la trasformazione del santo in Babbo Natale.
Una prima rappresentazione di quello che diventerà Santa Claus e Babbo Natale, avvenne nel cattolico Tirolo, dove la festa di san Nicola, preceduta dalla notte dei Krampus, i diavoli che si presentano sotto forma di enormi caproni con catene, campanacci e fruste, è tuttora la celebrazione natalizia più amata dalle famiglie.
Krampus contro san Nicola, il male contro il bene. «I Krampus rappresentano il male, l’oscurità perché dove c’è il bene, per contrapposizione, ci deve essere anche il male» mi spiega Francesca, direttrice dell’Ufficio Turistico di Villabassa ed esperta di tradizioni tirolesi. Sarà Nicola, portato su un carro, a sconfiggere i diavoli e ad allontanarli dalla comunità. La vittoria del vescovo porterà anche i tradizionali doni, un tempo cibarie esotiche troppo care per essere comprate regolarmente, oggi caramelle, dolciumi, giocattoli.
«Il collegamento tra Krampus e san Nicola è il modo in cui il cristianesimo è riuscito ad assorbire feste che un tempo erano pagane» continua Francesca.
Poco distante da Villabassa sorge l’abbazia di Novacella, dove l’abate Georg Untergassmair mi spiega che «san Nicola è il santo più amato dai tirolesi perché consegna doni senza pretendere nulla in cambio. È l’amore puro, quello che si dona senza aspettarsi nulla, neppure riconoscenza». Il timore è che la devozione verso san Nicola offuschi il vero significato del Natale cristiano, la venuta di Cristo.
«In realtà – aggiunge Georg Untergassmair -Gesù rimane comunque al centro della fede di ogni cristiano. Le faccio un paio di esempi: quelli che voi generalmente chiamate mercatini di Natale, da noi si chiamano Christkindmarkt, mercatini di Gesù Bambino, e noi non abbiamo l’albero di Natale, ma l’albero di Cristo. Direi che il momento più importante del periodo natalizio è il 24 dicembre, ma posso anche affermare che la festa di san Nicola è la vigilia della vigilia di Natale».

San nicola… americanizzato
Ma l’evoluzione vera e propria che ha portato san Nicola a trasformarsi in Santa Claus non avvenne in Europa, bensì in America, quando, nel XVII secolo, alcuni cittadini di Amsterdam sbarcarono sulle coste orientali del continente fondando New Amsterdam e portando con sé la devozione verso il loro patrono, san Nicola, chiamato Sinter Klaes.
All’inizio sia il villaggio che Sinter Klaes sembrava dovessero soccombere alle difficoltà. In particolare, il culto di san Nicola era osteggiato dai puritani, i quali vietavano a volte di pronunciae anche il solo nome. La devozione e la caparbietà dei coloni olandesi, però, ebbe la meglio e sia il gruppo di casupole, che Sinter Klaes ebbero un futuro brillante, trasformandosi rispettivamente in New York e in Santa Claus. Santa Claus altro non è che la storpiatura di Sinter Klaes fatta nel 1773 da alcuni giornali americani.
La definitiva consacrazione di Santa Claus avvenne il 24 dicembre 1822, quando un dentista con il pallino della poesia, Clement Clark Moore, scrisse una filastrocca per i suoi bambini: A Visit from Saint Nicholas, nota anche come The Night Before Christmas. In quel lunghissimo poema, le caratteristiche cristiane del protagonista si riscontravano solo nel nome Saint Nicholas; per il resto la trasformazione americanizzata che porterà all’iconografia attuale di Santa Claus era già in atto: Babbo Natale viaggiava per la prima volta su una slitta trainata da otto renne (Rudolph, la renna con il naso rosso, verrà aggiunta solo nel 1939 da Robert L. May); «scendeva dal camino (…) vestito di pelliccia da capo a piedi (…) con un gran sacco sulle spalle pieno di giocattoli, le guance rubiconde, il naso a ciliegia (…) la barba bianca come neve».
Ma Clark Moore descrisse solo a parole il suo Santa Claus; chi invece lo illustrò per la prima volta in fattezze e canoni ormai fissati anche per i successivi illustratori, fu Thomas Nast che nel 1863 disegnò per l’Harper’s Weekly un Santa Claus con il pancione e barba bianca, che indossava un vestito a stelle a strisce. Era un Babbo Natale politico, perché veniva mostrato mentre discuteva con i soldati dell’Unione in piena guerra di Secessione.
In barba alla carità cristiana di cui dovrebbe essere il rappresentante, il Santa Claus di Nast aveva in mano una marionetta che altri non era che Jefferson Davis, presidente degli Stati Confederati d’America. Il burattino era appeso a una fune attorno al collo, un’azione inequivocabile. Fu lo stesso Abramo Lincoln che chiese a Nast di disegnare un Santa Claus «partigiano» per demoralizzare i soldati confederali sudisti, inaugurando così la guerra psicologica.
Bisognerà però aspettare sino al 19 dicembre 1915 perché Santa Claus venga «assunto» come testimonial di un prodotto commerciale. Fu l’industria delle bevande analcoliche a sfruttare Babbo Natale.
Ma, a differenza di quanto si pensi, non fu la Coca Cola, bensì la White Rock, produttrice di acque minerali a utilizzare un Santa Claus barbuto con la giubba rossa bordata di un pellicciotto bianco che, tra il 1919 e il 1925, fece la sua comparsa sulle riviste americane più prestigiose, tra cui Live Magazine.
La Coca Cola riprese l’idea della White Rock assoldando il disegnatore più famoso del momento: Haddon Hubbard Sundblom che, dal 1931 al 1964, fece più di 40 disegni pubblicitari con Santa Claus: per immortalae il volto si ispirò a un suo vicino di casa, Lou Prentiss. «Riassumeva tutte le fattezze e lo spirito di Santa Claus. Le rughe che aveva sul volto erano rughe felici» ebbe a spiegare Sundblom.
«Il Santa Claus della Coca Cola personifica lo spirito della vacanza e ha aiutato a modellare l’immagine di Santa Claus in tutto il mondo» ha detto nel 2006, in occasione del 75° anniversario della prima vignetta di Sundblom, Phil Mooney, direttore degli Archivi della Coca Cola.

Nell’ufficio di Babbo Natale
Ma se la Coca Cola ha inteazionalizzato Santa Claus, la Finlandia è riuscita a monopolizzare l’attenzione dei bambini di tutto il mondo, creando attorno a lui un vero e proprio business turistico. A Rovaniemi, infatti, sorge quello che è da tutti conosciuto come il Villaggio di Babbo Natale. Gli ingredienti ci sono tutti: tanta neve, suggestione, l’aurora boreale, uno scenario mozzafiato, l’atmosfera naturale a cui è stato intelligentemente aggiunto un tocco di fantasia «artificiale».
E così il «vero» Babbo Natale vive tutto l’anno qui, seduto nel suo ufficio dove arrivano migliaia di lettere da tutto il mondo (la terza nazione come numero di mittenti è l’Italia) e accogliendo i bambini elettrizzati nell’incontrare il loro idolo.
«Il lavoro è duro, ma sapere che migliaia di bambini toeranno a casa con un ricordo che rimarrà impresso per tutto il resto della loro vita, mi appaga di tutta la fatica» afferma Babbo Natale.
Il Santa Claus della Coca Cola e di Rovaniemi sono il prodotto della modeizzazione e della secolarizzazione di una società rivolta al futuro, ma che riconosce nel proprio passato le radici su cui si fonda il proprio essere.
Joulupukki, Noel Baba, le Père Noel, Nikolaus, Santa Claus, Babbo Natale… comunque lo si chiami è sempre a lui che ci si riferisce: San Nicola vescovo di Mira.

Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali




Cari missionari

Dossier Nyerere

Ciao, padre Francesco,
ho letto con vero piacere il tuo dossier su «Nyerere santo» (MC 10/2011). Congratulazioni! Ti ho invidiato quando ho letto che Nyerere si è fermato sulla strada per parlare con te. Io l’ho incontrato tante volte a Iringa e a Dar Es Salaam, ma non ho mai avuto la fortuna di parlargli a tu per tu. Il giorno che gli sono stato assieme più a lungo è stato quando ha partecipato a Ubungo alla consacrazione della chiesa parrocchiale. Temo che non lo faranno santo per via della guerra contro l’Uganda e che l’Uganda non gli perdona.
Mi ha un po’ stupito che non abbia parlato della sua conferenza alle Suore di Mariknoll, radunate per gli Esercizi spirituali, quando fu in America per la prima volta. Era una conferenza illuminante e da lì è partito il motto: il missionario deve «lavorare con», non «lavorare per». Un altro discorso illuminante è stato quello fatto all’università di Makerere (Uganda), che dopo l’indipendenza gli aveva offerto la laurea honoris causa. Le parole che mi hanno colpito sono pressappoco queste: «Mi hanno condannato a sei mesi di prigione per il libello che ho scritto contro un ufficiale inglese, oppure a 5 mila dollari di multa. Avrei potuto scegliere i sei mesi di prigione (nelle prigioni inglesi non si stava male) e diventare eroe, col rischio di far sorgere venti di guerra. Ho preferito l’umiliazione di pagare la multa».
In preparazione all’indipendenza, in un incontro con il comitato che doveva stabilire le condizioni per la nazionalità del Tanzania, si è decisamente opposto a che l’africanità (o altro del genere) divenisse un requisito essenziale. Se non si fosse accettato di definire importante solo la lealtà al paese (il ministro delle finanze era un indiano), si sarebbe ritirato dalla politica.
Auguri a tutti che possiate fare tanto bene.
p. Giulio Belotti
Alpignano (TO)

Carissimo padre Giulio, grazie delle informazioni preziose. Grazie anche dei rilievi critici, che condivido. Non ho accennato al celebre discorso alle Suore di Mariknoll per mancanza di spazio. Avevo scritto anche un inserto sul «Tanzania oggi», ma non è stato pubblicato (penso) proprio perché lo spazio è tiranno in una rivista. Grazie, infine, dell’augurio di fare tanto bene. Io mi accontenterei di fae solo un po’.
 p. Francesco Beardi
Bunju, Tanzania, 4/10/2011
È vero, lo spazio è tiranno, e ci dicono anche che mettiamo sempre troppo testo! Lo scritto di p. Francesco su «Tanzania oggi» è solo rimandato. Apparirà presto.

RETTIFICA
Abbiamo anche ricevuto diverse telefonate e lettere a proposito della confusione fatta tra mons. Marinangeli e mons. Beltramino (ambedue Attilio) nell’ultima foto del medesimo dossier. La signora Elena Bottoni, affezionata lettrice della rivista e pronipote di mons. Beltramino, scrive:
«Alla pagina 50, c’è la foto del vescovo nel giorno della cresima del figlio di Nyerere. Vi voglio solo correggere, perché il vicario apostolico di Iringa lì raffigurato è mons. Attilio Beltramino e non Marinangeli come voi asserite. Visto che nella vostra edizione mensile non lo ricordate mai(!); almeno per una volta dategli il giusto nome, anzi cognome».
Chiediamo ancora scusa dell’errore! Quando mons. Beltramino è morto a Tosamaganga, il 3 ottobre 1965, questo direttore aveva fatto solo il suo primo anno di seminario tra i missionari della Consolata! (Non è un granché come scusa, lo so…)

Grazie
Ci siamo trovati improvvisamente, a inizio settembre, nella necessità di recarci in Venezuela per rimpatriare il fratello/cognato Gaetano, residente nel paese da oltre 35 anni, colpito da infarto cerebrale. Siamo partiti senza conoscere esattamente le condizioni di salute di Gaetano. Non conosciamo lo spagnolo, per questo abbiamo cercato un appoggio in grado di aiutarci sia nella logistica che nel risolvere le numerose pratiche necessarie per il rientro in Italia di Gaetano. Questo aiuto l’abbiamo trovato nella missione della  Consolata di Caracas. Il superiore, p. Lisandro insieme ai pp. Andrea e Vilson ci hanno accolto con grandissima attenzione e disponibilità sia al nostro arrivo (noi poi abbiamo proseguito per Cumanà, dove era ricoverato Gaetano) sia al ritorno a Caracas. L’assistenza a Gaetano nei giorni precedenti il viaggio di ritorno, le pratiche con il Consolato per il rinnovo del passaporto, l’ottenimento dell’assistenza al volo si sono concretizzate in tempi molto rapidi grazie all’aiuto generoso ed efficace dei padri della Consolata. Con grande affetto e riconoscenza ringraziamo anche a nome di tutta la nostra famiglia i padri che con estrema semplicità ci hanno offerto il grande dono della loro amicizia.
Luigi Veronesi
e Piero Bredi
Milano, 29/09/2011

20 giorni in Thailandia
Buon giorno, sono d’accordo con il vostro corrispondente da Bangkok Stefano Vecchia. Ho potuto constatare con i miei occhi durante il mio soggiorno per vacanza a Bangkok e Koh Tao l’estrema povertà e infelicità della popolazione. Frequentando la stazione dei treni ho potuto vedere dei poveretti che giacevano lungo il corso dei binari come i nostri senzatetto, ma molto malridotti, e bimbi che vivevano per strada soli senza famiglia. Al mercatino venivano vendute persino le dentiere usate e rientrando da una visita ad un’altra città alle quattro del mattino ho notato che la gente che vive nei tuguri della periferia di Bangkok dove passa il treno, lavora giorno e notte per cucinare quello che altri vendono lungo le vie della città, e per passare da una casa all’altra devono attraversare le case altrui senza nessuna privacy. Lo sguardo delle persone era molto triste anche perché stanno demolendo le case fatiscenti per farci degli hotel di lusso e quindi spingono gli abitanti meno abbienti ad andarsene in periferia dove ci sono le bidonville. Ho visto donne che sotto il sole cocente lavoravano nell’edilizia accanto agli uomini facendo lavori pesantissimi, senza parlare poi degli animali che sono trattati peggio delle cose. I thailandesi sono gentilissimi, ma penso che se si sono ribellati poco tempo fa con le camicie rosse al regime è per la forte disuguaglianza tra ricchissimi e poverissimi. Sono tornata a Milano veramente scioccata da questa realtà che tra l’altro sta distruggendo anche le isole più belle perché, non essendoci un sistema fognario, i liquami che si possono vedere e annusare in superficie accanto alle case vengono versati tutti a mare con conseguenze ben immaginabili. Spero che la situazione possa migliorare altrimenti non posso che compiangere quella popolazione! Cordiali saluti
Mirella De Gregorio
Milano, 1/10/2011

Due Chiese?
Salve, ho letto con molto interesse e frutto il numero di ottobre della vostra rivista. Mi permetto di rilevare tuttavia alcune imprecisioni conceenti l’intervista a Paolo Bertezzolo in merito al suo libro «Padroni a Chiesa nostra» (articolo «La croce e la spada», Mc 10/2011 pp.19-21). Se sono d’accordo con lo scrittore sulla realistica visione che ha della strategia politica e sociale della Lega nord, non credo che egli abbia molto chiaro il catechismo di base. Mi spiego: in primis, non esistono due Chiese, una «che si rifà al modello del cattolicesimo di Pio V» (che ricordo essere sempre San Pio V) e una del «Vaticano II». Questa esclamazione mi suona tanto come un’applicazione di criteri umani alla Chiesa che è «colonna e fondamento della verità», come afferma s. Paolo e, come Cristo, nella sua Fede è la stessa «ieri oggi e sempre» (ancora l’apostolo delle genti). Inoltre sarebbe opportuno contestualizzare con più cura affermazioni come «Io non posso combattere gli infedeli… Ce lo dice tutta la Parola di Dio». Forse il professore non conosce l’Antico Testamento o l’Apocalisse? Saranno simboli ma sono pur sempre S. Scrittura. Non è con un rancoroso disprezzo del proprio passato che i cristiani annunceranno il Vangelo nel XXI sec. Spero di non urtare la sensibilità di nessuno, ma amo profondamente la S. Chiesa e reagisco a questa divisione (pre o post-conciliare) come un figlio che vede la propria madre squarciata in due, da altri figli che considerano brutta una parte di lei. La Chiesa è per me Tota pulchra et nigra (a causa di noi suoi figli), sed formosa. Chiedo le vostre preghiere e assicuro le mie. Cordiali saluti.
lettera firmata
5/10/2011

Caro amico che hai chiesto di restare anonimo, quando si parla di due chiese non si intende certo dividere la Chiesa che Cristo ha voluto una in Lui, come sua sposa, anzi come suo corpo.
Ma questa Chiesa vive nella storia, ed è in questa storia, fatta di tempo e di spazio, che realizza la sua fedeltà al suo Capo/Sposo che è Cristo. Se la fede in Cristo, che ha la sua pienezza nell’amore, rimane sempre la stessa, il modo di vivere ed esprimere questa fede cambia nel tempo, offrendo risposte nuove, fresche e vive al mondo presente.
La Chiesa è fatta di persone che cercano di vivere al meglio la fede nel loro presente. Quando si parla di un cattolicesimo «stile (san) Pio V» o «Vaticano II» si sottolinea il fatto che, pur nella continuità, non si può portare indietro il tempo e vivere come se nulla fosse successo. Lo «stile s. Pio V» era certamente innovativo rispetto a quello di s. Gregorio Magno, vissuto circa mille anni prima, o a quello di s. Clemente I, del primo secolo, ma non è certamente del tutto adeguato al nostro presente. Non si tratta di un «rancoroso disprezzo del proprio passato», ma di apprezzare il passato, senza usarlo per delegittimare il presente ed evitare gli errori di cui il beato Giovanni Paolo II ha chiesto perdono a nome di tutta la Chiesa.
è vero che nella Bibbia si parla molto di lotta e combattimento, soprattutto contro il male e il maligno, ma è un linguaggio che va inteso nella sua valenza simbolica non letterale, alla luce del «ma io vi dico» di Gesù (cf. Mt 5) che parla di amore per i nemici e invita a non lasciar spazio alla rabbia nel cuore.
Il reale problema della Chiesa oggi, lo dice anche il Papa, non viene da fuori, ma sta soprattutto nei moltissimi battezzati che non vivono il battesimo, non amano la Chiesa, non pregano più, non ascoltano la Parola, non vanno a messa, non accettano guide morali e sono sicuri di essere nella verità, perfettamente a posto pur riducendo la loro fede ad alcune pratiche formali e burocratiche. Se tutti gli italiani che hanno ricevuto il battesimo lo vivessero davvero, la Chiesa sarebbe davvero «tota pulchra et formosa».

KENYA 2011
Ancora una volta siamo tornati in Africa, in Kenya. Eravamo stati undici anni fa, in un viaggio organizzato dai padri della Consolata, purtroppo la realtà del Kenya di ieri non è mutata in meglio, anzi è, per certi versi, peggiorata.
La globalizzazione ha investito in modo pesante anche i paesi poveri, portando un aumento dei prezzi dei beni di prima necessità (farina, riso, mais, fagioli) e quindi un peggioramento delle condizioni di vita per la popolazione più povera.
Fame, sete, aids, sono le realtà contro cui si combatte ogni giorno. I cambiamenti climatici, la deforestazione hanno determinato una siccità spaventosa, da due anni le piogge cadono irregolarmente e poco, per cui l’acqua sta diventando il bene più prezioso e più atteso. Ad ottobre dovrebbero arrivare le piogge, se non sarà così moriranno prima gli animali e poi tanti bambini.
In alcuni villaggi l’acqua delle fontane, da due anni, è razionata, ciò significa che solo una volta alla settimana è possibile fare rifoimento, con conseguenze facili da capire sul piano sanitario.
Quando pensiamo al Kenya la nostra fantasia corre alla savana, ai safari, alle distese sconfinate e selvagge, ma è sufficiente inoltrarsi nei villaggi per capire le difficoltà di vita soprattutto delle donne e dei bambini. Capanne di fango e di sterco di mucca, accolgono questa umanità che, comunque, pur tra mille difficoltà trova i mezzi per andare avanti. Esiste un’Africa fatta di donne che, da sole, sostengono la famiglia, provvedono all’acqua, alla legna (unica fonte di energia), zappano la terra con i bambini legati sulla schiena, partoriscono da sole.
Donne schiacciate da enormi bidoni d’acqua, da fasci di legna pesantissimi portati sulla schiena anche per diversi chilometri costituiscono un quadro che si ripete ogni giorno.
La donna è la vera forza della società africana, non per la sua emancipazione, ma per il coraggio con cui affronta la lotta quotidiana, non ultimo quella dell’aids. Abbandonata dal marito, vittima di credenze tribali, combatte per la sopravvivenza sua e dei suoi figli una battaglia talvolta dall’esito drammatico.
Ci sarà un futuro migliore per queste persone? L’unica strada da percorrere è l’istruzione, la donna istruita potrà prendere consapevolezza dei propri diritti, della propria sessualità; l’uomo istruito, non considererà più la donna un oggetto da sfruttare e da abbandonare quando è malata o incinta, ma insieme potranno intraprendere un cammino di cambiamenti.
è proprio la diffusione dell’istruzione, con la costruzione di aule scolastiche, l’obiettivo principale dei missionari e delle missionarie che, ogni giorno, condividono le difficoltà della gente.
Diffusione di scuole, formazione professionale, costruzione di pozzi e dispensari sono gli sforzi principali verso cui convergono gli aiuti dei centri missionari da noi visitati.
Anche la nostra associazione «I sogni dei bambini – onlus» si è unita a questi obiettivi provvedendo alla costruzione di due aule scolastiche in un piccolo villaggio nel distretto di Isiolo a nord di Nairobi, e aiutando un centro di formazione professionale per ragazzi di strada, a Nairobi, con l’acquisto di materiale e macchine per la realizzazione di finestre in ferro, sedie, mobili. Il nostro aiuto è una goccia in un mare di necessità e bisogni primari, di fronte ai quali ci si sente impotenti e angosciati, ma il sorriso di tanti bambini ci sprona ad andare avanti e a trovare quegli aiuti, anche piccoli, che laggiù possono salvare dalla fame e dall’ignoranza anche solo una vita.
Rosella e Mario
6/10/2011

Grazie della condivisione che fate. Il Kenya, come altre nazioni africane, è una terra di grandi contraddizioni e, più il tempo passa, più si nota il contrasto tra la vita di una minoranza ricca (anche ricchissima) e quella della gente normale.
Davvero i missionari hanno sempre investito, e continuano ad investire in educazione e formazione professionale, in questo aiutati proprio da chi sostiene i loro mille progetti, tra cui l’adozione a distanza. Grazie a tutti coloro che sostengono queste attività di lotta all’ignoranza e povertà, sia che lo facciano direttamente attraverso la nostra onlus che con le molte onlus legate a tanti singoli missionari.
Però il missionario non può limitarsi a sviluppo, educazione e sanità. Sua missione è quella di dare un’anima all’impegno per la promozione dell’uomo attraverso l’annuncio di Gesù. In Cristo ogni uomo ri-scopre e ri-apprezza le vere radici della sua dignità, perché in Lui ogni uomo si scopre per quello che è, figlio e figlia di Dio, uguale nella diversità, membro di una sola famiglia, la famiglia di Dio. Una famiglia chiamata a vivere nella pace, giustizia, solidarietà e corresponsabilità.
Così non basta che chi può aiutare lo faccia anche attraverso progetti meravigliosi. Occorre darsi da fare per cambiare la mentalità, per promuovere leggi più giuste, per una nuova economia solidale e corresponsabile, per una politica di pace e non di guerra, una politica della fiducia e non della paura, della cooperazione e non dell’egemonia, dell’integrazione e non del razzismo.
E questo è un lavoro «da laici», un passo in più per cambiare il mondo che va fatto da questa splendida costellazione di forze che sono già impegnate nella solidarietà ai missionari, siano esse le Ong di vecchia tradizione o le molte nuove onlus radicate nel territorio.