Pace in terra …

«E questo l’annuncio degli Angeli che, 2000 anni fa, accompagnò la nascita di Gesù Cristo (cfr. Lc 2,14) e che sentiremo risuonare giorniosamente nella santa notte di Natale, quando verrà solennemente aperto il Grande Giubileo. Questo messaggio di speranza che giunge dalla grotta di Betlemme vogliamo riproporre all’inizio del nuovo Millennio: Dio ama tutti gli uomini e le donne della terra e dona loro la speranza di un tempo nuovo, un tempo di pace. Il suo amore, pienamente rivelato nel Figlio fatto carne, è il fondamento della pace universale. Accolto nell’intimo del cuore, esso riconcilia ciascuno con Dio e con se stesso, rinnova i rapporti tra gli uomini e suscita quella sete di frateità capace di allontanare la tentazione della violenza e della guerra».
Così scriveva Giovanni Paolo II nel messaggio per la pace dell’anno 2000, all’inizio del terzo millennio. Sono parole che mantengono tutta la loro attualità anche alla fine di questo 2011 che è stato così pieno di speranza e disperazione e sembra concludersi all’ombra di nuove minacce di guerra. Ho provato mentalmente a ripercorrere gli avvenimenti di morte che hanno segnato quest’anno. È una lista impressionante: terremoti, guerre, attentati, fame, crisi politica, crisi economica, alluvioni, l’ostinazione dei dittatori, licenziamenti, insicurezza, dimostrazioni violente… Da far dire «basta con 2011»! Ho poi pensato alle positività, agli avvenimenti che incoraggiano e danno speranza. Ne ho vissuti diversi a livello personale: è una lunga lista, ma non voglio tediarvi col mio particolare. Di quelli più universali ne ricordo alcuni, a caso: la nascita del nuovo Sudan, la primavera araba, la giornata della gioventù a Madrid, la bella solidarietà da gente a gente nelle calamità, la generosità contro la fame, l’incontro di Assisi…
Ecco, l’incontro di Assisi! Ci riporta al tema della pace, dono del Dio fatto Uomo e proposta d’impegno della Giornata della Pace all’inizio del nuovo anno. «Educare i giovani alla Giustizia e alla Pace» è il tema del 2012.
Educare alla pace: è una sfida per tutti. Si educa alla pace vivendo la pace. Ma come si possono educare i giovani alla pace se noi non la viviamo? E come possiamo viverla se non viviamo la fede in Colui che «la nostra Pace»? Papa Benedetto, ad Assisi, ha detto con forza che usare la fede cristiana per giustificare la violenza, l’esclusione, le barriere e le segregazioni, «è una vergogna», è «un utilizzo abusivo della fede cristiana, in evidente contrasto con la sua natura. Il Dio in cui noi cristiani crediamo è il Creatore e Padre di tutti gli uomini, a partire dal quale tutte le persone sono tra loro fratelli e sorelle e costituiscono un’unica famiglia. La Croce di Cristo è per noi il segno del Dio che, al posto della violenza, pone il soffrire con l’altro e l’amare con l’altro. Il suo nome è “Dio dell’amore e della pace” (2 Cor 13,11)».
Per educare alla vera pace è necessario allora ritornare alle radici della fede, perché la pace può essere davvero accolta e vissuta solo da quelli che vivono per piacere a Dio. Qual è il sacrificio davvero gradito a Dio? Fare la sua volontà, con cuore puro. «Questa è la volontà del Padre mio, che vi amiate… Questo vi comando: amatevi come io vi ho amato».
Una visione troppo idealista e spiritualista? Forse. Ma se davvero provassimo a vivere quello che diciamo di essere, a passare dall’apparire all’essere cristiani (di/in/con/per Cristo), dal relegare la fede alla chiesa al viverla nel quotidiano senza paura del prezzo da pagare e senza i compromessi del politicamente corretto, allora sì, la pace avrebbe davvero la possibilità di prevalere in questo mondo.

Pace in terra agli uomini in cui Dio si compiace…
Buon Natale e che la Speranza che è nel nostro cuore diventi amore e giustizia vissuta nel quotidiano dell’anno che viene.

Gigi Anataloni




Meru (5) Breve Storia

Adattato da una relazione di p. Valentino Ghilardi

Questa storia sintetica dei primi anni delle missioni del Meru fu scritta nel 1950 da p. Valentino Ghilardi (1905-1961). Lo sviluppo delle missioni del Meru è avvenuto alla chetichella, pagato con tanta sofferenza e dedizione e ha trovato la sua completezza nella creazione della Diocesi di Meru (1953). Da allora la dozzina di missioni che costituivano la nuova diocesi, ha fatto un balzo gigantesco raggiungendo in pochi anni e occupando praticamente a raggiera tutto il Meru, con 45 parrocchie e 730.000 cristiani (dati del 2005).

Da notare come in questa relazione p. Ghilardi usi un linguaggio e termini tipici del suo tempo e scriva i nomi locali secondo lo stile italiano proprio dei missionari prima che gli inglesi imponessero la loro sillabazione. Essi scrivevano come si pronunciava secondo la fonetica latina. In più la sillabazione corretta dei nomi era complicata dal fatto che la lingua locale non era scritta ma solo orale e soggetta a grosse variazioni da clan a clan, da collina a collina.
I dati del 2005 sono dal «Kenya Catholic Directory 2006», Nairobi 2006.

1911, gli inizi
Fu a questo paese, selvaggio e assai basso nell’ordine morale, che giunsero nel dicembre del 1911 quattro padri missionari della Consolata, lo zelo dei quali aveva fatto superare tutte le difficoltà e paure, ché i Meru eran descritti come i più selvaggi e crudeli di tutta l’Africa.
In un primo tempo si fermarono a Thigga nel Mwembe, ove pensavano di aprire una missione. Invece abbandonarono il luogo, forse perché trovarono molta malaria o per mancanza di acqua, e si divisero in due gruppi: p. Luigi Olivero e p. Giovanni Balbo proseguirono il loro cammino, mentre p. Toselli senior e p. Giuseppe Aimo salirono sull’altipiano e si fermarono a Egoji, ove, dopo difficoltà non poche e molto parlamentare, poterono intendersi coi notabili del paese per stabilirvi una stazione di missione.
P. Balbo e p. Olivero giunsero a Keeja nel basso Imenti ove trovarono quanto faceva per loro.
I quattro pionieri eran partiti da Nyere il giorno dell’Immacolata, e il giorno di Natale ebbero la gioia di celebrare, sia pure sotto una tenda, la prima messa nel luogo delle due erigende missioni.
Si posero con lena al lavoro, tant’è che solo dopo poche settimane era pronta l’abitazione dei Padri e una minuscola chiesa. Nel febbraio seguente il vicario apostolico mons. Filippo Perlo [il Vicario apostolico di Nyeri da cui dipendeva tutta l’area attorno al Monte Kenya] e il cofondatore Can. Giacomo Camisassa, accompagnati da sr. Carola e sr. Anania delle Suore Vicenzine, visitarono le due missioni che furono trovate adatte [vedi storia e foto in queste stesse pagine].

Metodo
Metodo di apostolato [era il] solito, quello cioè già adottato nel Kikuyu i primi tempi: visite ai villaggi con istruzioni spicciole, cure degli ammalati, mentre pure non si trascuravano le costruzioni in casa.

1913, Espansione
Ma lo zelo, come il fuoco, non rimane stazionario: o si spegne o si dilata. Ed è quindi con meraviglia, dato lo stato selvaggio del paese, che noi vediamo i nostri cercare nuova espansione nell’ancora più selvaggio Jombene. Nel febbraio 1913, p. Toselli d’accordo con S.E. Mons. Vicario, fissa il luogo della nuova missione di Tigania e nell’agosto 1913, la prima casa è fatta.
P. Aimo e p. Rosso non stettero inoperosi e non risparmiarono la fatica. Essi stessi cominciarono a squadrare le durissime pietre vulcaniche che pavimentano gran parte della regione e a mano preparare assi nella vicina foresta del monte Jombene. Il materiale era pronto: pietra su pietra cementate di fango, asse vicino a asse, fatiche giornaliere iniziate all’alba e terminate solo per l’oscurità; ma la chiesina venne su bella e massiccia come la montagna del Jombene. Nella notte santa del 1914, scrisse p. Aimo, «l’Onnipotente fattosi povero fanciullo scende per la prima volta nella povera chiesetta di Tigania». Nel dicembre 1913 pp. Olivero e Domenico Vignoli fondano la nuova missione di Egembe (ora chiamata Amung’enti [scritto anche Igembe o Ighembe]) proprio sul piazzale del ballo degli Nthaka sulla riva destra del fiumicello Mboone e abbracciante due clan.
Abbiamo così le prime quattro missioni del Meru, quattro roccheforti avanzate proprio nel cuore del paganesimo, che i  nostri chiamarono trappe, certo menandovi vita da trappista: preghiera, lavoro, visite ai villaggi, soli per la maggior parte dell’anno. Se i monti e le rocce e i fiumi e i sentirneri potessero parlare quante belle e meravigliose cose ci direbbero di Frate Ilarione (p. Rosso), di Frate Beardo (p. Aimo), di Frate Ginepro (p. Albertone), di Frate Pacomio (p. Bellani), e di tutti gli altri, come tante belle cose ha cantato il serafico p. Aimo nelle sue innamorate odi del Jombene.

1915, le suore
Nel 1915, il paese parve abbastanza sicuro, cosicché mons. Perlo permise alle Suore Vincenzine di stabilirsi a Imenti che nel frattempo (1913) aveva soppiantato la missione primitiva di Keeja malsana e senza acqua [Le autorità, sotto l’influsso dei protestanti ostili all’insediamento dei cattolici, avevano assegnato un terreno che durante le piogge si allagava facilmente. Dopo le giuste lamentele, fu permesso di scegliere un posto più sano nel giro di un’ora di cammino. Mandato dal vescovo, P. Giovanni Chiomio, proverbiale per la precisione dei suoi passi e la sua resistenza, percorse esattamente in un’ora di distanza che lo separava da Mojwa, posta in un luogo sano e ricco di acque].
Sr. Dolores, sr. Agnesina e sr. Antonia vi arrivarono dopo lunghi giorni di lenta carovana il 15 luglio 1915, e più o meno lo stesso tempo ricevono le suore anche Egoji e Tigania, e l’anno seguente 1916 anche Igembe.
Si iniziano asili, si sviluppano i dispensari, si aprono i tanto necessari brefotrofi che salvano centinaia di innocenti vite, si usano mille industrie per attirare la popolazione che oramai ama i missionari, li rispetta, ne approfitta per i malati e per mille altre cose e lavori, ma in quanto a religione: nessuna breccia nel millenario paganesimo.

1916, Progresso lento
Bisognerà attendere fino al 14 maggio 1916 per avere un primo battesimo a Egoji, fino al 17 luglio 1916 a Imenti, fino al 1917 a Tigania, e fino al 1920 a Igembe.
Guardate il quadro progressivo annuale dei cristiani dall’inizio delle missioni al 12 Dicembre 1950 e non vi sfuggirà certo la lentezza del progresso [vedi i box «Sette Sorelle»] in qualche stazione, nonostante il lavoro immenso compiutovi. Alla vostra domanda sottintesa rispondo: «Quanti scalpelli si consumano prima che abbian intaccato la roccia granitica?». Il paganesimo di questa gente è molto più duro a sfondare, guardato com’è dalle organizzazioni degli Njoli [sono gli Njuuri di cui si parla più sopra] che tengono tenacemente il paese in mano, e in molti luoghi impediscono ogni innovazione che mina alla sua base stessa il paganesimo. Le difficoltà di apostolato incontrate a Tigania e a Egembe non impedirono l’espansione ai nostri pionieri.

1922, quota sei
Salendo su da Tigania verso Kangeta, non sfugge in lontananza sui profili dei contrafforti del Jombene la visione di qualcosa che sembra un castello, una fortezza: è la missione di Toro [oggi chiamata Tuuru] fondata da p. Aimo e Calandri nell’agosto 1922, vera sentinella avanzata, posta quasi sui confini del Jombene, proprio sulle vie carovaniere dei Borana e Turkana, in mezzo a una popolazione fittissima. Nell’ottobre 1922, p. Balbo fonda la stazione di Mekindoli [Mikinduri, – in realtà lui fece solo i primi contatti, la fondazione vera e propria si deve a p. Dolza Vincenzo come raccontato più avanti], luogo già visitato dal p. Giuseppe Maletto qualche tempo prima, il quale lasciò scritto nel diario: «Il primo a dir messa a Mekindoli fui io, sotto la tenda, con i fratelli Benedetto Falda e Bartolomeo Liberini a servirla, e ciò il 2 luglio 1922». Poche missioni hanno incontrato tanta difficoltà come Mekindoli nel loro primo sviluppo. Basti dire che per ben dieci anni ebbe solo sempre dodici cristiani. Ma nelle difficoltà si temprano anche le missioni, ed è per questo che oggigiorno Mekindoli è quella più avanzata e più promettente fra le missioni del Jombene.

1923, le consolatine
Nel 1923, settembre, arrivano a Imenti le prime due suore Consolatine, la compianta sr. Giacinta e sr. Enrichetta. Con lo svilupparsi dell’Istituto delle suore missionarie della Consolata, altre ne arrivano, cosicché nel 1925 le suore Consolatine hanno già occupato le missioni del Meru, ad eccezione di Mekindoli, e le suore del Cottolengo possono rimpatriare.

1926, LA PREFETTURA APOSTOLICA
Abbiamo finora parlato delle sei stazioni di missione del distretto di Meru, che era parte del vicariato apostolico di Nyere. Nel 1926, succede un avvenimento d’importanza capitale per la storia della Chiesa nel Kenya. Precisamente il 10 Marzo 1926, una bolla da Roma erige la Prefettura Apostolica di Meru, staccando il distretto di Meru e parte di Embu dal vicariato di Nyere, piccola isola di 9-10.000 Km quadrati entro il vicariato, e una popolazione attuale (1950) di 400.000 (nel 1926 non raggiungeva i 200.000 [notare qui come la stima di 93mila capanne fatta nel 1910 fosse decisamente esagerata]). Primo Prefetto Apostolico è il venerato mons. Giovanni Balbo, nato a Torino il 22 ottobre 1884, e ordinato sacerdote il 29 giugno 1907, tempra d’apostolo antico stampo rotto a tutte le fatiche del pioniere. La nomina lo trovò in trincea, superiore della missione di Imenti, che reggeva, eccetto brevi periodi di interruzione, dalla sua fondazione. Tempi duri, quelli, per la nuova prefettura, in cui tutto era da organizzare, staccata da un vicariato che navigava bene [la disparità di risorse tra il vicariato di Nyeri e la prefettura del Meru, fu una delle questioni che più amareggiò i missionari].
Mons. G. Balbo non si perse d’animo. Le sette missioni della prefettura (nella divisione acquistò pure la missione di Kyeni iniziata nel 1923), nonostante la miseria, è la parola [giusta da usare], in cui si trovavano, cominciarono una nuova vita di sviluppo. Per prima cosa importò macchine per un laboratorio che avrebbe dovuto fornire il materiale per la costruzione di tutte le stazioni, i cui fabbricati erano ancor quelli all’indigena dei primi tempi, le mobilia per le abitazioni e le scuole che qua e là cominciavano a fiorire. E tutte le missioni avvantaggiarono di questo laboratorio.

1928, Tempi duri
Ma i tempi erano durissimi, e solo la tempra adamantina dei sette missionari, che formavano tutto il personale della prefettura di Meru, poté affrontare e superare quelle difficoltà che provenivano dall’interno del paese e dall’esterno.
«Siete eroi», disse mons. Arthur Hinsley (poi Cardinale di Westminster) ai missionari nella sua visita apostolica nel novembre 1928, visita che portò qualche benefizio materiale alla prefettura, e di cui mons. Balbo subito approfittò per costruire le abitazioni dei padri e delle suore della missione di Kyeni [non era stata una visita di cortesia, perché il monsignore, allora non ancora vescovo, era stato mandato da Roma per risolvere alcuni problemi, soprattutto economici, pendenti tra il vicariato di Nyeri e la nuova prefettura].
La visita di mons. Pasetto nel Giugno 1929 portò nuovi miglioramenti amministrativi alla prefettura. Ma la fibra forte di mons. Balbo non poté resistere alle crescenti difficoltà della Prefettura. La sua salute ne fu scossa, e verso la fine del 1929 rassegnò le dimissioni. Gli succedette come pro-prefetto, mons. Carlo Re, carica che tenne fino al 1936. Durante questo periodo mons. Re rifece i fabbricati di parecchie missioni e aprì la stazione di Chuka. Nuovo sviluppo presero pure le scuole sia alla centrale che nelle out-schools.

1936, mons. Nepote
Finalmente nel 1936, la prefettura ebbe il suo nuovo prefetto apostolico nella persona di mons. Giuseppe Nepote. Scriveva il «Da casa madre» [il bollettino interno dell’Istituto] del novembre 1936: «L’Angelo della Chiesa di Meru: ce l’ha portato la Madonna del Rosario come dono della sua festa: un dono materno quindi, prezioso e bello come i frutti di questa ottima raccolta autunnale. La lunga attesa della Chiesa di Meru non poteva certo sperare un premio più gradito e munifico di questa illuminata scelta».
Il periodo di mons. Nepote segna lo stabilizzarsi della vita cristiana nelle Missioni. Catecumenati fiorenti, scuole, cristianità in aumento in ogni luogo. [Ma l’idillio durò poco].

LA II GRANDE GUERRA
La grande guerra risparmiò nessuno, nemmeno il prefetto apostolico, il quale in un primo tempo fu inteato in un campo di Kabete, e in seguito confinato in una missione del Tanganika . Eventi successivi del dopo guerra portarono alle dimissioni di mons. Nepote nel novembre del 1946. E la chiesa di Meru [rimasta priva del suo pastore fu] retta dall’amministratore apostolico mons. Carlo Cavallera, vicario apostolico di Nyeri.
Durante l’inteamento di tutti i missionari [nel campo di Koffiefontein in Sudafrica] e suore, la prefettura venne temporaneamente affidata a quattro padri della Congregazione dello Spirito Santo, troppo pochi per il grande lavoro della prefettura, cosicché parecchie missioni furono chiuse e visitate solo periodicamente.
Con il ritorno globale dei padri e suore nell’agosto 1944, tutte le missioni presero nuovo sviluppo: catecumenati, cristianità, dispensari, ospedale, scuole primarie e secondarie, con un ritmo che ha del prodigioso.

A cura di Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Meru (4) Le sette sorelle

1. IMENTI (o MUJWA)
Fu fondata nel 1911. Il primo cristiano fu battezzato il 17 sett. 1916. Nel 1926, alla creazione della prefettura, i Cristiani erano appena 72. Al 31 dicembre 1950 sono 3.932 [nel 2005 sono 34.900, senza contare Mitunguu e Nkubu]. Le 18 out-schools (scuole cappelle) contano un 2.000 allievi. [Al 1950] vi è un catecumenato presso ogni scuola.
Altre opere della stazione: asilo infantile; famulato per le ragazze sposande, opera questa che scioglie tante difficoltà e che prepara le ragazze al matrimonio cristiano; una efficiente scuola industriale diretta dal fr. Serafino; un laboratorio fornito delle macchine più modee, diretto dal fr. Cesare Balagna; una scuola di scalpellini in pietra, creata e diretta dal fr. Virgilio e che ha già fornito statue e altari e oamenti alla nuova Cattedrale e forma l’ammirazione di quanti ne vedono le opere.
Non vanno dimenticate le numerose squadre di calcio, quasi una per scuola, e due presidi della Legione di Maria.

2. EGOJI
Fondata nel 1911. I primi cristiani furono battezzati il 14 maggio 1916. Nel 1926 [Egoji o Igoji] contava 148 Cristiani e a fine 1950 il numero era di 2.602 [35.738 nel 2005, senza contare quelli delle out-schools diventate parrocchie].
Qui lavorò molto il p. A. Bellani, profondo, linguista ed etnologo che alzò il prestigio della missione non solo tra i pagani, ma anche tra i protestanti e presso il governo. Fu il primo a riconoscere la necessità delle scuole a Meru, e personalmente stampò con una piccola macchina tipografica i primi libri usciti in lingua Kemeru. Anima zelante dell’espansione missionaria non risparmiò fatiche e preparò, con la sua opera e tattica di muta comprensione con la popolazione, quel grande sviluppo che prese la missione in seguito.
[Nel 1950] C’è un buon dispensario, una scuola primaria con oltre 400 allievi, e 17 out-schools con un complesso di 2.360 allievi, di cui 892 sono ragazze; tre prayer houses; una scuola secondaria femminile, la St. Mary’s Girls’ Boarding School con una sessantina di ragazze; annessa a questa una scuola magistrale femminile che prepara maestre diplomate per la prefettura; una scuola domenicale per donne, unica nel suo genere, ove sr. Carmelina impartisce la prima  istruzione letteraria e conferenze appropriate alle donne; il circolo festivo San Karolo Lwanga per i bambini; il circolo festivo Sant’Agnese per le bambine; quattro truppe di Boy Scouts e numerose squadre di calcio.

3. TIGANIA
Fondata nel 1913, il primo battesimo si ebbe il 7 ottobre 1917. All’erezione in Prefettura nel 1926 contava 50 cristiani, e al 1950 ben 768 Cristiani [non ci sono dati per il 2005, ma anche questa missione è stata divisa in più parrocchie].
Due belle figure di missionari che ne hanno dissodato il terreno spirituale sono il serafico p. Aimo e l’ascetico p. Rosso, veri pionieri della Chiesa, i cui sacrifizi e vita austerissima solo Dio conosce.
Nel diario della missione [anno 1936] si trova scritto: “Il terreno di Tigania è pietroso e arido e a stento vengono su i raccolti. Altrettanto si può dire dei cristiani: ogni anno si aggiunge qualche nuovo convertito, ma la massa si conserva restia. Solo il missionario sa quanto costa un solo cristiano nel Jombene”. Ma ora [1950] i tempi vanno decisamente cambiando. Il catecumenato è fiorentissimo. La scuola centrale conta 126 allievi. Vi è un buon dispensario, un asilo infantile che è una grazia, un gruppo di azione cattolica che compie un lavoro di apostolato impagabile. Le tre out-schools contano 236 allievi.

4. IGEMBE (o AMUNG’ENTI)
Fondata nel 1913, il primo Cristiano si ebbe solo dopo sette anni, nel 1920. [Nel 1926] i Cristiani erano 33; a fine 1950 sono 227 [mancano dati per il 2005].
Egembe con Toro [Tuuru] sono il vero centro del paganesimo del Meru e, pare, anche la culla della società degli Njoli, che regolano tutta la vita del Meru sulle basi tradizionali pagane. Tuttavia anche qui come a Tigania ci sono i segni di un buon risveglio.
I catecumeni sono 80; la scuola centrale con lo standard V [classe V] conta già ben 192 allievi, e le quattro out-schools hanno già 326 allievi.
La missione di Egembe è ancora ora impregnata del ricordo del p. Vincenzo Dolza, che si faceva chiamare «padre Cencio», che rese questa missione una delle più belle, con viali e vaghi giardini dai mille fiori, tra cui primeggiano numerosi i rosai. Il padre li piantava in onore di santa Teresina («Agli altri, diceva, la Santina manda le rose, a padre Cencio solo le spine delle rose»).
Non è possibile che le preghiere, i lavori, i sacrifizi di tanti padri e suore che hanno seminato nel dolore rimangano sterili. A suo tempo i rosai di p. Dolza non daranno più solo, spine, ma sbocceranno in quella pioggia di rose predetta dalla Santa.

5. MEKINDULI
Fondata nel 1923. I primi cristiani furono 10 Jaluo [Luo provenienti dalle zone attorno al Lago Vittoria] che lavoravano nella missione, battezzati ne 1927, cui l’anno seguente si aggiunsero due indigeni del luogo, e poi fino al 1936, non si hanno più cristiani. Ora [1950] ne conta 807 [33.217 nel 2005, senza contare quelli delle parrocchie da essa generate].
La missione di Mekinduli [oggi chiamata Mikinduri, pronuncia Mekindori] ha una storia interessantissima e meriterebbe di essere scritta più diffusamente. Il primo sito della missione era su un poggio, un vero santuario del paganesimo, luogo di balli e circoncisioni. La popolazione vide mai di buon occhio questa profanazione e in conseguenza ostacolò la missione fino alla sua rimozione. La missione era hopeless [senza speranza], e nel febbraio 1929 venne [temporaneamente] chiusa. Riaprì verso la fine dello stesso anno, ma le difficoltà continuarono a ostacolare ogni apostolato, tanto che a differenza delle altre stazioni, solo nel marzo 1930 poterono essere inviate le prime Suore Consolatine, sr. Orsola e sr. Eliana.
Nel 1932 [in accordo col governo la missione viene spostata] a circa mezzo miglio di distanza. Il fr. Davide Balbiano inizia i lavori: casa padre, casa suore, chiesa, scuola, fabbricati omogenei nello stile, eleganti e adatti allo scopo. Verso la fine dello stesso anno, si [occupa] la nuova missione, abbandonando l’antica. La nuova Mekindoli è adagiata sul fianco della collina Njoro, mentre di fronte si apre a spiraglio la meravigliosa veduta della pianura di Tharaka e Ikamba.
Nel 1936, il p. Umberto Bessone viene nominato superiore e la missione comincia a risvegliarsi dal letargo secolare. Viene aperto un colleggino che fiorisce fino all’inizio della grande guerra, durante la quale la missione viene quasi abbandonata.
Terminata la grande guerra, p. Giulio Peirani ne prende possesso con tre suore. Nei primi due anni, risveglio lento, ma progressivo.

6. TORO
Fondata nel 1923, primi battesimi nel 1930, conta ora [1950] 216 cristiani [non ci sono dati per il 2005, ma Toro – o Tuuru – è la madre delle floride parrocchie di Maua, Mutuati e Kangeta]. In questa missione per molti mesi dell’anno si hanno nebbie fittissime, fattore questo che concorre a rendere quella popolazione indolente, molle, senza iniziative, contenti di vivere nella loro miseria fisica e morale, che li rende apatici a tutto, specie a quello che importa innovazioni. Pagani fino al midollo e refrattari a qualunque sforzo. I Protestanti in questa zona hanno ottenuto molto meno di noi, e lo stesso Goveo, nonostante le multe, la prigione e gli askari (soldati), trova difficoltà a eseguire i suoi piani di miglioramento del paese.
Nonostante tutte queste difficoltà, cui bisogna aggiungere quella degli Njoli, i nostri bravi missionari che vi hanno lavorato, hanno ottenuto in quei 216 cristiani un vero successo. Un profano potrebbe meravigliarsi: un successo 216 Cristiani in 27 anni? Noi che conosciamo il luogo e le sue difficoltà e la popolazione ripetiamo che è un vero successo.
Ora [1950] la Missione ha un centinaio di catecumeni, una scuola centrale ben avviata, due out-schools con oltre 100 allievi, un buon dispensario, un collegino di 20 ragazze e persino una squadra di calcio.
La Missione fu dedicata a Santa Teresa del Bambino Gesù dal p. G. Airaldi che vi lavorò per ben sei anni, apparentemente senza risultato come il suo predecessore p. E. Manfredi. Ma il movimento che comincia a manifestarsi ora è frutto del loro apostolato silenzioso di preghiera e sacrificio.

7. CHUKA
Fondata nel 1933 da mons. Carlo Re, era fino allora una out-schools dipendente da Kyeni [nell’Embu]. I primi 24 cristiani di Chuka furono battezzati a Kyeni nel 1932. Ora la missione conta 2.721 cristiani, la seconda della prefettura per numero [36.608 nel 2005].
Primo superiore fu p. F. Comoglio, che rese popolare la missione anche tra i Protestanti e riuscì a stabilire parecchie scuole, alcune delle quali staccatesi in massa dalla missione protestante. Se si considera il carattere della popolazione di Chuka, molle, effeminato, privo d’iniziative, molto dedito al vino, viene da meravigliarsi come mai in così poco tempo abbia raggiunto tali progressi, da imporsi a pagani e protestanti. Specialmente la località Kamachuku e Mothambe sono fra le più progredite del distretto.
Durante la guerra fu visitata periodicamente dal Padre risiedente a Egoji. Mentre la missione di Chuka estendeva i suoi tentacoli nelle out-schools il centro e residenza rimaneva per lungo tempo un deserto. Solo nel periodo postbellico, con l’arrivo dei Padri nella Prefettura, cominciò un periodo che può chiamarsi di splendore.

Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Meru (3) «You are heroes», voi siete eroi

Antologia

Così disse dei missionari del Meru mons. Arthur Hinsley nel 1928.
è incredibile avventura di un manipolo di missionari in un ambiente difficile, isolato e certo non favorevole che, cent’anni fa, pur con pochissimi mezzi e quasi ignorati in quelle aree remote, riuscirono nell’impresa di conoscere a fondo il popolo dei Meru, farsi accettare e mettere le basi di una cristianità oggi viva e rigogliosa.
A loro sono dedicate questi brani antologici che raccontano di uomini e donne, protagonisti di una storia che comincia ufficialmente il 13 dicembre 1911.
Queste pagine, tratte da pubblicazioni dei missionari della Consolata (scelte in modo totalmente arbitrario), coprono un arco di tempo volutamente limitato tra il 1911 e il 1940 (quando i missionari furono inteati dagli inglesi e spediti in Sudafrica), con alcune statistiche che arrivano fino al 1950.
Rimandiamo ad un futuro appuntamento l’aggioamento sulla situazione attuale della diocesi di Meru.
A.L.

ESPANSIONE AL MERU
Da Igino Tubaldo, Giuseppe Allamano. Il suo tempo – La sua vita – La sua opera, Vol. III, Torino 1982, pp. 735-738

Al vicariato del Kenya, affidato ai missionari della Consolata, appartenevano anche i due distretti di Embu e di Meru. Embu è la regione a sud del monte Kenya, compresa nella grande ansa del fiume Tana. Il Meru invece è la regione sulle falde del monte Kenya ad est.
La regione di Embu poteva dirsi persa per i cattolici, per il fatto che appena il paese fu occupato militarmente vi si recarono i missionari protestanti, – quasi un compenso per essere stati prevenuti dai missionari cattolici nel Kikuyu. Il Meru era stato occupato militarmente dagli inglesi tra il 1905 e il 1908; nell’Imenti, in una località chiamata precisamente Meru, era stato eretto un fortino (Fort Meru); il paese era ricchissimo di foreste, di torrenti, molto fertile; solo nella parte bassa regnava la malaria.
La popolazione – i Meru – è una tribù affine ai Kikuyu, con una certa somiglianza anche nella lingua e nei costumi. In questa regione e tra questa gente mons. Perlo pensa di fondare qualche missione e nel 1910 invia in perlustrazione i pp. Gays e Bertagna. La difficoltà per aprire delle missioni nel Meru erano più che altro burocratiche col governo inglese. Ecco come il Camisassa (il canonico Giacomo Camisassa, cofondatore dell’Istituto che visitò il Kenya dall’8 febbraio 1909 al 26 aprile 1912, ndr.) scrivendo all’Allamano il 4 agosto 1911 presenta la situazione:
«[ … ] Dal Goveatore precedente e dallo stesso Dr. Hinde, era stato adottato il principio che noi [cattolici] dovessimo stare a destra del Sagana, e la sinistra (Embu, Meru, ecc.) fosse pei protestanti. Questo Goveatore, [attualmente in carica] – nelle colonie i Goveatori sono affatto dispotici – non volle sapere di quella divisione tra destra e sinistra del Sagana, e volle adottare il principio che cattolici e protestanti potevano mescolarsi in tutta la Provincia del Kenya (come fan nell’Uganda) a patto di stare distanti 3 ore gli uni dagli altri. Questo ci fu favorevole, ché a Meru, pur essendovi già due applicazioni dei Protestanti (Presbiteriani e Metodisti, ndr.), ci restava posto (nei luoghi più popolati) per due missioni almeno, e sono queste due che avrebbero ora concesso a noi […]. Però, come ho detto, questo Goveatore ha il chiodo fisso delle 3 ore di distanza, e ciò praticamente ci chiude Embu, che con tre missioni protestanti distanti sei ore una dall’altra lo occupano nominalmente tutto».
Fu l’intraprendente mons. Filippo Perlo (dal 1909 vicario apostolico del Nyeri e primo vescovo residenziale del Kenya, ndr.) a spuntarla anche in questo caso. Ottenuta la licenza del governo per due missioni, il Camisassa comunicò immediatamente la notizia all’Allamano.

«Fattoria (del Mathari, Nyeri) 16 giugno 1911
Amat.mo Sig. Rettore,
«A soli tre giorni di distanza le scrivo nuovamente: 1° per darle la fausta notizia che è venuto finalmente il permesso di impianto di una Missione a Meru… La Consolata ha voluto pagarci la festa prima ancora del 20! E Deo gratias proprio di cuore. […] A giorni vi andrà Mons. e due missionari (non so ancora quali) a sceglier il posto e iniziar l’impianto. Non so ancora se v’andrò subito io, o se solo più tardi, come vorrebbe Mons. per timore che i disagi dei primi tempi di una Missione, quando si deve viver sotto la tenda, mi possano nuocere. Vedremo. Meru è perfettamente a nord del Kenya, con 93 mila capanne paganti tassa (mezzo milione di anime – stima esagerata, vedi la «Breve storia» qui sotto, ndr.), popolazione meno sveglia di quella di Nyere, ma buona e semplice, e molto agiata, perché il paese è fertilissimo, intensamente coltivato, ed i nostri PP. Cagliero e Saroglia, tornati ieri di là col bestiame sono concordi nel definirlo un Paradisus Domini venientibus in Segor [cf. Gen 13,10: «come il giardino del Signore, venendo da Seor/Segor», ndr.] molto più bello che il Kikuyu. Negli otto giorni che passarono colà furono festeggiatissimi dai molti lavoratori di Meru stati già qui alla Fattoria… che li riconobbero ed erano fieri di presentarli a tout le monde». […]
A fine giugno mons. Perlo, certamente non da solo, si recò nel Meru in perlustrazione, allo scopo di scegliere le due località. Vi rimase quasi tutto il mese di luglio. Il 25 luglio il Camisassa scrive all’Allamano:
«Finalmente Mons. è arrivato cinque giorni fa da Meru dopo quasi un mese di permanenza colà. E sì che non perdette tempo, avendo sempre girato ad esplorare il paese, accompagnato dallo stesso comandante del forte, col quale finì per indicare due posti ove vorrebbe stabilirsi [Keja, divenuta poi Imenti, ed Egogi, ndr.]. […]: ora Monsignore presentò regolare domanda del terreno su cui impiantarci, e spero fra 15 [giorni] aver (da Nairobi) risposta affermativa e definitiva. Solo allora si potrà essere certi che la cosa potrà effettuarsi… Così credo potrà far anche lei quando avrà ricevuto tale annuncio con altra mia lettera».
Per recarsi da Nyeri o da Fort Hall alle due progettate missioni occorrevano rispettivamente sei o cinque giorni di marcia. […]
Le pratiche però s’incepparono a Nairobi. Ne dà notizia il Camisassa da Fort Hall (Murang’a) all’Allamano con lettera del 30 ottobre 1911:
«Vorrei poterle dire che le due Missioni del Meru sono un fatto compiuto, ma pur troppo non lo sono ancora. […]; all’insistenza di Mons. [presso il Goveo], che reclamava l’osservanza dei patti, risposero chiedendo che ritornasse loro tutto l’incarto per esaminarlo for inspection!! E dire che di tale incarto debbono aver essi tutto il duplicato [ … ]. Col Goveo le cose son sempre un po’ rotte, ma ci dev’essere della vera persecuzione in parte del basso personale… di burocrazia. Non c’è che da pregar sempre la SS. Consolata che ci aiuti Lei».
Tutto dev’essersi appianato ai primi di dicembre. Il diario della stazione di Imenti (Keja – pronunciato Kegia, ndr.) inizia:
«Inviati da S. E. Mons. Filippo Perlo, Vic. Ap. di Nyeri, i due Rev. PP. Balbo Giovanni ed Olivero Luigi, provenienti dal Gekoyo, giungevano in questa località il giorno 13 Dicembre 1911. La carovana di 32 portatori agekoyo e dei due Padri sopranominati sostò e piantò le tende a Keja presso il Capo M. Kerundu; e la popolazione corse in gran folla a vedere i nuovi venuti, portando regali in cibarie di ogni genere. […]. Il 24 dicembre era pronto il primo capannone che servì per abitazione dei padri e cappella privata, in cui si celebrò la prima messa la notte di Natale 1911».
Nell’altra località Egoji, furono destinati i pp. Giovanni Toselli e Giuseppe Aimo-Boot. Il Camisassa ne dà notizia all’Allamano il 18 dicembre 1911. Ma già il 5 dicembre da Torino l’Allamano aveva scritto al Camisassa:
«Le ripeto, che sarebbe anche buona cosa una visita a Meru e nell’Uganda, se Monsignore potrà accompagnarla».
Al 2 gennaio 1912 il Camisassa scrive che partirà fra breve per il Meru. Il diario della missione di Imenti al 22 febbraio 1912 annota:
«Giunge alla missione il Rev. Vice-rettore Can. G. Camisassa, Sua Ecc.za Mons. Perlo, accompagnati dal Cd. Anselmo e dalle Rev. Suore Vincenzine, Sr. Carola e Sr. Anania. Gli Eccellentissimi visitatori possono constatare i disagi e le fatiche del missionario all’inizio di una nuova missione fra queste popolazioni non ancora tocche dall’ombra di alcuna civiltà».
E il 4 marzo 1912 il Camisassa scrive all’Allamano da Nyeri:
«Da due giorni son giunto dalla visita alle missioni di Meru, un giro completo attorno al Kenya, con un percorso di 450 kílom., viaggiando in media da 30 a 35 kilom. al giorno» […].
«Le popolazioni sono evidentemente affini agli Akikuiu, come ne è quasi identica la lingua: quei di Keja appaiono molto più semplici e bonari che gli Akikuiu – quei di Igogi più svegliati, robusti e ben piantati» […].
«I nostri missionari, tanto a Keja e che a Igocci [sic] furono accolti molto cordialmente – assai più che non ai primi tempi nel Kikuiu – senza mostrar diffidenza e sospetti… sicché tutti i Padri ne sono entusiasmati, e più soddisfatti che quando erano nel Kikuiu. […] Non le dico altro di questo viaggio, che mi fu veramente faticoso, ma grazie a Dio non ne soffersi».

INCIDENTI DI MISSIONE
Di p. Luigi Olivero da Ihembe da «La Consolata» 2/1915, pp. 26-27

Da una lettera del nostro missionario P. Olivero, addetto alla nuova stazione di Ihembe nel distretto di Meru a nord del Kenya, stralciamo questo brano drammatico e impressionante.
[Questo è il primo e unico racconto pubblicato sulla nostra rivista circa le nuove missioni del Meru. Il missionario scrive al canonico Allamano dalla prima missione ancora provvisoria, prima del trasferimento a Imenti/Mojwa. Il racconto è abbastanza insignificante in sé, ma contiene descrizioni interessanti della realtà, dei primi contatti con la gente ed è rivelatore dello zelo missionario di quei primi pionieri per i quali dare un battesimo era il massimo risultato possibile.]

Permetta, venerato Superiore, che le racconti ora un fatto alquanto tragico capitatomi il 27 luglio [1912?], che viene a confermare sempre più due verità: la prima, che Maria SS. Consolata ha una cura specialissima dei suoi figli missionari; la seconda, che Iddio tutto dispone per il nostro meglio, giacché è proprio in questa circostanza che giunsi a tempo per amministrare un battesimo.
In compagnia di un neo-catechista mi recavo, per la visita giornaliera, a Soria, luogo di popolazione densissima, ad un’ora dalla missione, dove pochi giorni prima avevo lasciato una madre con due bimbi malaticci. Speravo che la medicina loro data avesse prodotto qualche buon effetto, e, nel caso contrario e di aggravamento del male, avrei amministrato il santo battesimo.
Cammin facendo pensavo appunto al come avrei potuto compiere quest’atto, senza dare troppo nell’occhio ai circostanti, per non ingenerare prevenzioni nella loro mente così facile a fantasticare, per lo più in male, su ogni nostra azione, e per non sollevare sul nostro conto dicerie ancor più strane e dannose. Da parte sua il neo-catechista che mi camminava a fianco: un giovane sui 20 anni alto e tarchiato della persona, tanto che stonava non poco vicino a me piuttosto mingherlino, mi esprimeva confidenzialmente il suo timore di ricevere i soliti affronti e rimproveri dagli indigeni, solo per il fatto che ci indica le strade e le capanne. Questi poveri selvaggi, non conoscendoci ancor bene, ci classificano generalmente come spioni degli ufficiali del governo inglese. Era uno stretto sentirnero quello per cui si camminava, fiancheggiato a destra e a sinistra da una fitta siepe, a guisa di muricciuolo, e corrente in una valletta che è probabilmente l’antico cratere di un vulcano aperto da una parte o dalla lava, o dall’erosione di secolari piogge. Del resto questa regione presenta costantemente il medesimo fenomeno di configurazione. Vista dall’alto, sembra seminata di tanti monticelli conici dalla cresta rotondeggiante, perfettamente tornita e rivestita di fine erbetta, alcuni dei quali presentano al loro fianco una grande squarciatura che costituisce appunto una piccola valle. Lascio ai geologi di studiae le origini e m’accontento di indicare il fatto.
Da più di un’ora camminavamo solleciti, quando d’improvviso risuona dalla parte opposta il grido assai noto dello mbu, corrispondente al nostro allarme. È dapprima un grido isolato, che si fa subito più intenso, per diventare poi un formidabile coro di voci alte e concitate, e al grido di mbu si aggiunge quello esplicativo di: Ngiogo! Ngiogo! – l’elefante! l’elefante! -.  A quelle grida che si facevano sempre più rumorose, a quel nome che mi indicava tutta la gravità del pericolo, confesso che il sangue mi si rivoltò nelle vene: m’arrestai, volsi rapido lo sguardo in tutte le direzioni, e non vedendo capanne vicine nelle quali rifugiarmi, affretto col mio compagno il passo, per cercare altrove un qualsiasi riparo.
Avevo percorso appena un cento metri, che vediamo le peste fresche fresche del passaggio dell’elefante. Il catechista ha un brivido, e facendomisi più dappresso, me le mostra col dito teso e gli occhi sbarrati. Anch’io però come lui ho già compreso il grave pericolo scampato: se fossimo stati un tre minuti più avanti saremmo caduti senza dubbio vittime sotto i piedi di quel bestione […].
Passato quel momento di emozione, acceleriamo nuovamente il passo e ci portiamo su di un piccolo poggio dominante la valletta. Vi troviamo affollati molti indigeni, specialmente donne e fanciulli, che avevano abbandonato inconsideratamente i villaggi ed erano saliti su quell’altura per essere più al sicuro, non pensando che all’elefante era tanto facile la salita lassù, come ad un cavallo la corsa per una via piana. […] La maggior parte di quegli indigeni si aggruppava attorno ad un uomo, il quale, tutto tremante per lo sbigottimento e con i fianchi ammaccati, raccontava ai presenti la sua avventura. Non appena aveva sentito dietro a sé l’iroso barrito dell’elefante e il pesante calpestio delle poderose zampe, era corso al primo albero che aveva veduto, vi si era aggrappato e aveva cominciato ad arrampicarvisi, quando l’elefante lo raggiunse e cercò colla proboscide di afferrarlo a metà vita. Fortunatamente un colpo di coltello, di cui i neri son sempre muniti, ben diretto e menato con la forza della disperazione, ebbe per effetto di far ritirare per un istante la proboscide all’animale, cosicché il pover uomo poté finire di arrampicarsi e mettersi in salvo.
Intanto al suono del corno da più parti accorrono i cacciatori, fra cui alcuni Wakamba specialisti in queste cacce e che appunto per cacciare erano venuti a passare un po’ di tempo qui a Ihembe. Chi palleggia la lancia, chi brandisce il coltellaccio, chi agita lo ngiogoma (clava), chi semplicemente urla a più non posso: tutti cercano di far ritornare 1’elefante alla piana, per poterlo colà uccidere senza contravvenire al divieto di caccia posto dal governo inglese su questi altipiani. L’animale però non ne volle sapere; che anzi, uscito dalla bananiera ove erasi rifugiato, barrendo furiosamente, si diresse verso di noi, e ad un trecento metri, raggiunta una donna la quale fuggiva, esasperato dall’inseguimento, l’assalì, l’infilzò colle zanne, lanciandola a terra semiviva a parecchi passi di distanza, e, come soddisfatto da questa vendetta, ritoò indietro, mentre un grido di orrore usciva dalla bocca di noi tutti. Ma non era tempo di lamentarsi, bensì di agire; ed ero io che dovevo agire ad ogni costo, affrontando qualsiasi pericolo. Non si trattava della salvezza di un’anima? Invocando la Consolata e l’angelo custode vado di corsa verso l’infelice per soccorrerla, mentre i circostanti si dicono a vicenda: «Il Patri va a risuscitarla».
La poveretta che riconosco subito per la Ghecioe, una tra le più assidue ai catechismi domenicali, giaceva a terra immersa nel proprio sangue, giacché le zanne dell’elefante, data la violenza dell’assalto, le avevano squarciato il ventre. Constatai però che viveva ancora, e subito tolsi di tasca l’acquasantino per battezzarla, ma nella fretta esso mi sfugge di mano e l’acqua si versa. Corro allora nel villaggio poco distante, cerco in tutte le zucche e in tutti i recipienti in cui m’incontro, e finalmente trovo al fondo di uno un po’ d’acqua, quanto è sufficiente per il sacramento: la raccolgo, ritorno presso alla moribonda, e mentre ella volge verso di me gli occhi quasi spenti, come a pregarmi con quello sguardo insistente e pieno di dolore di ridonarle la vita che le sfugge, io verso sulla sua fronte, anch’essa intrisa di sangue, l’acqua battesimale e pronunzio commosso le parole sacramentali. La pupilla già vitrea dell’infelice pare in questo istante rianimarsi come vivificata da un raggio di luce soprannaturale, poi nuovamente si spegne; il suo volto si contrae, il suo corpo ha un leggero sussulto, ed essa spira, ridonando a Dio l’anima bella e santificata.
Mi alzo e rifaccio la strada, portando ai presenti la notizia di quella morte. Un urlo di indignazione fa eco alle mie parole e tutti, inaspriti da questa vittima umana, gridano: «Bisogna uccidere l’elefante, bisogna ucciderlo anche se l’uffiziale del Forte ci impiccasse tutti!». E la caccia alla belva ricomincia. I cacciatori, armati tutti di archi e di frecce avvelenate, si radunano, si intendono, si dispongono, ed avanzando cautamente cercano di accerchiare l’animale. Questo, sempre più furioso, tenta la fuga da una parte, ma un nugolo di frecce, alcune delle quali gli si conficcano nelle cai, lo arresta suo malgrado; egli scrolla come in un brivido violento la grande carcassa, barrisce spaventosamente e si volge dalla parte opposta; ma anche da questa parte lo accoglie un buon numero di frecce ben dirette. Disperato, alzando minacciosamente la proboscide, ansando, grondando sangue, si aggira su se stesso per tentar un’altra via, si arresta, riprende la corsa, ma oramai il veleno inoculatogli dalle frecce produce il suo effetto; i suoi movimenti si fanno sempre più lenti, i suoi barriti sempre più fievoli, si ferma, si piega, e tutta quella gran massa con un sordo rumore si rovescia pesantemente a terra. Gli altri indigeni, che dal poggio avevano seguito con ansia lo svolgersi dell’impressionante caccia, alla caduta della belva emettono grida di gioia, e i più arditi corrono in un coi [insieme ai] cacciatori a vedere l’elefante ucciso. Era ancor giovane; le zanne misuravano solo m. 1,20; era alto m. 2,30; lungo m. 3. Squartato lì sul momento dai cacciatori, tutte le donne con le loro bisacce andavano a gara nel portar via la carne, lasciando le ossa alle iene e agli sciacalli. Le zanne furono portate all’uffiziale del Forte.
Per quel giorno, vedendo la gente così impressionata dell’accaduto, non credetti più opportuno proseguire la visita ai villaggi, ma ritornai alla Missione ringraziando il Signore e Maria SS. Consolata. Ero scampato da un grave pericolo, ed avevo salvato un’anima!
P. Olivero M. d. C.

L’IMPIANTO DI UNA SEGHERIA nella foresta degli elefanti a Meru
Di Fratel Benedetto Falda da «La Consolata», 10/1922, pp. 156-159

[Dopo dieci anni dall’inizio delle missioni nel Meru, padri e suore vivevano ancora in case di fango e di tronchi costruite alla spartana. Passata la bufera della guerra e ritornati tutti i missionari al loro ministero, era finalmente ora di dare anche alle nuove missioni delle strutture decenti. Nel Nyeri tutte le case venivano prefabbricate alla «stazione industriale» di Tuthu e in pochi giorni portate alle loro destinazioni dove venivano assemblate. Ma il Meru era troppo distante. Si decise quindi di installare una segheria provvisoria in loco, in una foresta assegnata dal governo coloniale inglese. Dell’impresa fu incaricato il provetto fr. Benedetto Falda con l’aiuto di un altro fratello e due padri. Dopo un’accurata preparazione, trasportò tutto il materiale  su «quattro carri vagoni, 80 buoi e la macchina a vapore». Il viaggio durò quindici giorni per coprire oltre 150 km. Dovevano costruire «6 case per i padri, 6 per le suore, 6 scuole, mobilia per case e per scuole, ecc.». Il 15 maggio 1921 il fratello scrisse un lungo resoconto la cui prima parte fu pubblicata sull’antenata di questa rivista nell’agosto 1922. Qui vi presentiamo la seconda puntata.]

Come un bolide fra i scimioni
Se la salita era stata penosa, la discesa del versante di Meru, dove eravamo diretti, ci si presentò difficile per le numerose pietre che ingombravano la strada e che cagionavano ai pesanti carri continui scivolamenti, colpi, balzi e rimbalzi. Finalmente la via si fece più pianeggiante, scomparirono le pinete e ci trovammo in piane un po’ ondulate, con pasture di erba finissima, e, all’orizzonte, la linea di montagne che forma la frontiera abissina di Moiale.
Piegammo a destra, costeggiando sempre il Kenya, e peottammo nella piana dei famosi Maasai, i greggi dei quali erano pascolati da giovani selvaggiamente fieri, armati di lunga lancia. Il giorno seguente proseguimmo il viaggio, che ora si compiva tranquillamente; la strada si estendeva in quei piani che parevano senza fine; ma non ci fu dato di veder selvaggina sino alla sera, quando facemmo una vera distruzione di galline faraone grosse come tacchini, che, ai colpi di fucile, rimanevano intontite, senza saper darsene ragione, finché cadevano colpite.
Non sto a dilungarmi nel racconto di tutti gli altri incidenti; solo vi dico che, il dì seguente, arrivammo nelle foreste di cedro, dove cominciammo ad avere comunicazione cogli abitanti. Il forte governativo distava ancora una giornata di cammino. Passammo alcune ore a pulire la macchina e suoi accessori, come si farebbe per una persona; ed invero ci era troppo cara, ed ogni sua piccola parte era vitale anche per noi, perché costituiva, per la nostra futura segheria, il cuore pulsante.
Il giorno dopo, i due Padri rimasero all’accampamento; io invece colla bicicletta, che avevo portato sui carri, partii alla volta del forte e poi verso la Missione di Maria Ausiliatrice (Tigania), per vedere se i ponti, che dicevano numerosi, erano resistenti; e nello stesso tempo cercare il punto della foresta adatta al nostro scopo. L’altro mio confratello, accompagnato dai neri del paese, doveva esplorare un’altra strada, o meglio dire sentirnero indigeno, e veder se si sarebbe potuto passare colla macchina nella brughiera, nel caso che i ponti fossero stati troppo deboli. Dirvi quel che provai in quel viaggio, tutto solo in paese sconosciuto, non è facile.
La strada era aperta in una magnifica foresta di cedri e altissimi mogani, che guardavo con una voglia matta di fae tante vittime per la erigenda segheria, ma forse quel luogo era ancor troppo distante dal punto dove ci saremmo impiantati. Dopo un’ora e mezzo di magnifiche volate, rallentate qualche volta con trepidanza dove scorgevansi i segni evidenti del passaggio degli elefanti, arrivai dove la foresta, aprendosi, lascia scorgere tutto il Meru. Che meraviglia! Là in basso, fra la verdura, erano le case del forte che, dipinte in bianco e rosso, facevano un magnifico contrasto col selvaggio panorama del paese.
Il primo saluto, quando ancora mi trovavo lontano dall’abitato, lo ricevetti da una lunga processione di scimie rosse, dal muso di cane e che come questi ab-baiavano. Potete immaginarvi come rimasi, quando, venendo giù da una discesa a passo di volata, mi trovai di fronte a un centinaio di questi scimioni! Non, ebbi il tempo di levarmi il fucile da tracolla e sparare per impaurirli – che, quanto a ferirli, me ne sarei guardato, perché allora diventano terribili – che entrai in quelle file come un bolide, suonando a distesa il campanello ed emettendo grida da ossesso. Se aveste visto che corse! Quella massa in un baleno si divise, si smembrò, ed eccoli tutti sugli alberi fiancheggianti la strada, emettendo essi pure grida indiavolate: un vero pandemonio! Ad ogni modo mi liberai bene, e pensando poi chi avesse avuto più paura, io o loro, conclusi che tutti assieme eravamo contenti di essere… fuggiti!

La scelta della foresta
Mezz’ora dopo ero al forte, consistente in due case: una per la posta e per gli ascari; l’altra per il comandante. Scritte e spedite alcune cartoline per informare i miei Superiori del felice arrivo, ripresi la via per strade ancor più piane e magnificamente tenute, facendo la conoscenza cogli indigeni Wameru. Il loro parlare è così musicale che il saluto pare una carezza; sono molto più socievoli e gentili degli aghekoio, e tutti per strada salutano. Gli uomini sono bei tipi di guerrieri, colle lunghe lance, ma non hanno, come i Maasai, la ferocia di assassinare facilmente i viandanti forestieri. Portano i capelli lunghi, fermati a treccia dentro uno straccio ornato all’esterno di perline; il corpo unto di olio e ocra. Così pure le donne portano molti oamenti che dan loro un aspetto gioviale. Ebbi l’impressione di arrivare in un paese in festa.
Contai 18 ponti solo tra il forte e la missione, ma tutti abbastanza buoni; e passai anche la foresta dove più tardi avremmo deciso di impiantare la segheria. Vicino ad un torrente, alcuni neri intenti a guardare qualcosa come impauriti, mi fecero segno di fermarmi. Scesi e vidi subito un enorme pitone sul ciglio della brughiera, gli sparai un colpo di fucile che lo fece attorcigliare come una salsiccia, ma occorsero due altri colpi per finirlo. Nella sua agonia si stese per lungo, occupando tutta la strada: era lungo circa cinque metri. Peccato che, essendo io solo, e i neri non avendo voluto toccarlo, dovetti lasciarlo preda alla iena, mentre sarebbe stato un bel esemplare per il nostro museo di Torino.
Arrivai alla stazione Maria Ausiliatrice [Tigania] accolto festevolmente dalle suore, che da un anno si trovano colà a far del bene, e dal padre che mi fu largo di gentilezze. All’indomani cercammo un punto adatto della foresta, e, dopo molto aggirarci di qua e di là, concludemmo col scegliere un tratto di foresta a tre ore dalla missione, quello appunto per cui ero passato in bicicletta e che mi era parso il migliore per qualità di alberi. Il giorno dopo, lasciata la bicicletta alla missione, ritornai all’accampamento per un sentirnero indigeno, per meglio osservare le foreste, e vi arrivai alla sera, stanco morto. Il mattino seguente ricaricammo tutto sui carri e partimmo per la meta che avevamo scelta.

L’incontro cogli elefanti
Il mio confratello coadiutore ed io ci davamo il cambio a guidare la locomobile; e mentre uno guidava la macchina che camminava adagio, l’altro badava alla carovana dei carri che precedeva. Mi trovavo appunto addetto a questo secondo ufficio, quando uno dei nostri carrettieri viene di corsa e tutto trafelato a chiamarmi e dirmi di arrestare la carovana perché un gruppo di elefanti stava sulla strada per cui dovevamo passare. Too indietro ad assicurarmi ed armarmi, se del caso, e trovo radunati alcuni indigeni del paese che concitatamente indicano colla mano, in lontananza, dove la strada costeggia un pendio, nella brughiera non folta, grosse macchie rossastre che si muovono e si rincorrono. Contro il parere degli indigeni, che ci volevano dissuadere, decidemmo di avanzare cautamente, essendo abbastanza sicuri sui nostri grandi carri. Raccomandai solo ai neri di non parlare, che, se assaliti, allora tutti insieme avremmo fatto il più grande baccano possibile. Ero contento di vedere così da vicino tanti elefanti.
Così, io sul primo carro, gli altri carrettieri sul proprio, avanziamo. Quando stiamo per oltrepassare il punto dove si trovano le bestie, e quasi pensiamo che già siano fuggite, un barrito, che par emesso da una cornetta, ci fa dare un più rapido giro al sangue. In una mano tengo il fucile e nell’altra una trombetta, pronto, se assaliti, a far rumore ed anche a sparare. Dopo il barrito, di nuovo silenzio. I neri stanno accovacciati sui rispettivi carri, e i buoi, per nulla intimoriti (cosa che io temevo), avanzano adagio e tranquilli; i carri su queste strade molli non producono il più leggero scricchiolio, e così, ritto sul carro, posso godermi uno spettacolo indimenticabile. In un pianoro, a destra della strada, dolcemente in declivio, stanno scherzando tranquillamente dieci enormi elefanti, che, visti così da vicino, paiono bestie antidiluviane. Alcuni si rincorrono, altri pascolano e mangiano foglie di alberelli che curvano con la loro tromba. Paiono sacchi enormi di carne.
Non sembrano avvedersi per nulla del nostro passaggio, cosicché possiamo contemplare, a nostro bel agio, quello splendido giardino zoologico. Ma non appena tutti i carri sono passati e si odono i primi rumori della locomobile avanzante pesantemente, i bestioni si ristanno come sorpresi, volgono dalla nostra parte i loro occhi sproporzionatamente piccoli, tendono in ascolto le enormi orecchie prima penzoloni, e… meditano il colpo. Non diamo loro il tempo. Ad uno squillo della mia cornetta comincia un sì assordante pandemonio, che i pachidermi, impauriti, si danno alla fuga. La locomobile fischia disperatamente e ininterrottamente; i carrettieri, ora ritti sui carri, si scalmanano a batter chi i tamburi e chi le latte di petrolio; altri soffiano dentro a coi speciali per trae suoni inqualificabili; altri, non sapendo a che appigliarsi, gridano a squarciagola agitando le lunghe fruste. E il pandemonio dura finché gli elefanti scompaiono nella foresta.
Poche ore dopo raggiungevamo la mèta sani e salvi, e con il macchinario in buone condizioni, nonostante il lungo e difficile viaggio. Ringraziammo assieme e di cuore il Signore e Maria Vergine Consolata, poi ci mettemmo all’opera, incominciando il disboscamento del tratto di foresta dove la nuova segheria doveva essere impiantata.

Il lavoro compiuto
Da una lettera successiva dello stesso coadiutore Benedetto Falda, apprendiamo alcune notizie sui primi lavori compiuti dalla nuova segheria nella foresta degli elefanti.
Foresta degli elefanti, Meru, 23 aprile, 1922.
Piantammo il laboratorio vicino ad un fiume per aver abbondanza d’acqua per la macchina a vapore, e in un pianoro per facilità di trasporto. La macchina a vapore fa funzionare la grande sega circolare, la piallatrice, la mortasatrice, un piccolo mulino e un’altra sega circolare. In nove mesi, essendo noi tre coadiutori e due padri, tagliammo 476 alberi dei quali molti hanno il diametro di un metro; poi 2.500 stepponi; preparammo il materiale per 18 case con pavimenti, soffitti, parti estee ed intee; ed ancora una riserva di legname per altre tre case complete. Inoltre si fecero 36 letti, 26 tavole, 60 porte, 40 battenti doppi per finestre, 52 vasestas per finestre. S. E. Mons. Perlo ci scrive di incominciare i trasporti colla macchina a vapore, e, a questo fine, ci mandò lo splendido tamagnone Tolotti che, in un coi due grandi tamagnoni (nome in piemontese italianizzato di grandi carri agricoli) fatti da noi, ci aiuterà a trasportare in pochi mesi le 300 tonnellate di materiale.
Noi qui ci troviamo benissimo. Gli indigeni impiegati al lavoro, mentre da principio erano affatto incapaci e scappavano ogni volta che mettevo in moto la sega, adesso si sono assai bene abilitati. Il grande frastuono della macchina è per noi come un inno di gloria a quel Signore che ci diede la vocazione all’apostolato e ci fece membri di questa schiera di pionieri del Vangelo, che si ripromettono di condurre a Gesù milioni di anime.
Coad. Benedetto Falda M. d. C.

MEKINDORI
Da Ottavio Sestero, I fioretti di padre Cencio, pp. 61-63, EMI Bologna 1992

La missione di Mekindori era allora solo un segno topografico segnato sulla carta geografica privata di mons. Perlo. In realtà non esisteva ancora nulla, eccetto la brughiera e le iene che l’abitavano.

Prima notte
[Questo capitoletto è tratto da Ottavio Sestero, Il Nibbio e altri racconti, pp. 117-118, EMC – Torino 1959]
Il padre Dolza, di felice memoria, se ne arrivò a Mekindoli, a prender possesso della nuova missione, la sera del 20 ottobre 1922. La missione non era che un tratto di brughiera con un mucchio di tavole per la futura costruzione.
I portatori dei pochi bagagli, ricevuta la mercede, si squagliarono in cerca di qualche capanna ospitale per passarvi la notte. Il padre, rimasto solo col suo cagnolino, si affrettò a piantare una vecchia tenda sdruscita. Consumò la sua magra cena, dividendola cameratescamente col suo botolo fedele, che con gli occhi fissi sulla bocca del padrone contava i bocconi, aspettando impaziente e supplice che di quando in quando venisse il suo tuo. Poi il padre Dolza, recitate le orazioni, stese due tavole nella tenda, si avvolse in una coperta e vi si coricò come in un morbido letto.
Si era nella stagione delle piogge. Il cielo appariva carico di nuvoloni pesanti e l’oscurità profonda. Allegra esperienza, trovarsi in un angolo sperduto dell’Africa, lontano le diecine di miglia dal primo centro civile, solo, di notte, in una tenda precaria, con un uragano imminente e numerose iene affamate vaganti all’intorno!
E l’uragano venne più violento e più rabbioso che mai, con un ventaccio sì furioso che pareva che tutti i diavoli del Jombene soffiassero su quella povera tenda. Il padre Dolza conosceva l’Africa e sapeva che il terreno rammollito dalla pioggia rallentava la sua presa sui piuoli; perciò stimò prudente alzarsi e aggrapparsi tenacemente al palo centrale della tenda, la quale già dava segni di collasso. Fatica inutile! Un colpo di vento furibondo investì la tenda; il palo bagnato gli scivolò dalle mani e la tenda scomparve nel buio; la fioca lampada da campo, rovesciata, diede un guizzo e si spense.
La pioggia veniva giù come una doccia a tutta pressione e in pochi minuti il povero missionario fu bagnato fino all’osso. Brancicando nel buio, cercò affannosamente la cassetta dell’altarino portatile, e, trovatala, vi si sedette sopra per salvare dal diluvio le ostie e gli indumenti sacri. Così raggomitolato e assiderato, la pioggia lo flagellava senza pietà. Il cagnolino gemeva pietosamente e invano cercava un riparo sotto le ginocchia del padrone. Tutt’intorno si sentivano i grugniti soppressi, i singulti e le sghignazzate beffarde delle iene. A tratti, lividi lampi squarciavano l’oscurità. Il padre Dolza non era un pusillanime, e tanto meno un novellino d’Africa, eppure confessò che in quella notte molte lacrime si mescolarono con la pioggia. Quanto durò questa tortura? Durò fino a quando una pallida luce annunziò il nuovo giorno. Allora, malgrado fosse rotto e fradicio, dovette muoversi per non morire assiderato. La pioggia cessò a poco a poco con l’inoltrarsi del giorno e il missionario si accinse a preparare l’altarino e a celebrare la prima messa nella nuova missione.
Così ebbe inizio la sua vita di missione vera e propria.

La casa e la malaria
Nel frattempo il fratel Benedetto Falda lavorava con ritmo accelerato e febbrile, ed un bel giorno arrivò a Mekindori una carovana che portava il necessario per fabbricare una casetta decente e solida. Ma fratel Davide, incaricato di questa costruzione, era impegnato altrove e per alcuni mesi non sarebbe stato disponibile.
Il padre Dolza fece accatastare tutto quel legname avendo cura di lasciarvi un buco nel mezzo, un antro buio e scomodo per dimorarvi, che però aveva il vantaggio di non venire asportato, come la tenda, nelle notti di tempesta.
Nel frattempo, con l’aiuto della gente del luogo, provvide a far fabbricare una capanna per ospitare il fratello che doveva venire a costruire, ed intanto cominciava a farsi una cerchia di amici fra gli abitanti dei dintorni.
Ma lasciato a se stesso e propenso com’era a far penitenze e digiuni per vincere, come diceva lui, i diavoli del Jombene, e più ancora fiaccato da violenti attacchi di malaria, in breve venne ridotto a tal punto di esaurimento che i padri delle missioni limitrofe ne rimasero seriamente preoccupati.
Un giorno il padre Calandri, residente a Ighembe, si incontrò col padre Manfredi, che veniva da Toro, e discutendo sul caso, gli disse: «Se rimane ancora qualche tempo in quella tana, da solo, un giorno o l’altro lo troveremo stecchito… o pazzo!».
I due missionari decisero quindi di andare in suo soccorso; si recarono assieme a Mekindori per portarselo ad Ighembe finché si fosse ristabilito. Arrivati a Mekindori, il padre Dolza non si vedeva.
Un nero accennò loro la catasta di legname. Bussarono alla barricata della tana; silenzio di tomba.
Gridarono forte: «Padre Vincenzo, apra! Siamo noi!».
Nessuno rispose. Certamente qualcosa non andava.
Puntarono le spalle e sfondarono l’uscio posticcio. Il padre Dolza era là, coricato sulle tavole, non ancora morto, ma neppure molto vivo.
Lo svegliarono dal suo dormiveglia affannoso e incosciente; gli somministrarono una bevanda tonificante che a buon conto avevano portato e gli dissero: «Padre, siamo venuti per portarla a Ighembe».
«A Ighembe?», mormorò con voce flebile. «Che ci vado a fare? Lasciatemi qui. è la mia missione… e voglio morire qui».
«Suvvia, Padre, non dica sciocchezze! Chi parla di morire? Bisogna lavorare, altro che morire! E deve venir via di qua».
«No, no. Ho deciso. Io non mi muovo. Morirò qui. Scavatemi solo una fossa, che io non ce la faccio più».
Vedendo la sua testardaggine, i due ricorsero ad una bugia strategica e il padre Calandri gli disse in tono severo: «Finiamola con queste storie. Ordine del vescovo: lei deve recarsi a Ighembe». «Ordine del vescovo?» fece eco il padre Dolza rianimandosi. «Dov’è quest’ordine?».
Il padre Calandri frugò nelle tasche, fingendo di cercare una lettera che naturalmente non c’era. Il padre Manfredi gli venne in aiuto dicendogli in tono di rimprovero: «Al solito! L’ha dimenticata a casa quella benedetta lettera del vescovo». «Oh, vero! L’ho dimenticata sul tavolo! È seccante!», e poi, rivolto al padre Dolza, aggiunse: «Ma non importa, la lettera c’è e lei deve venire».
«Se è così», mormorò il padre Dolza rassegnato, «verrò, forse domani. Oggi non riesco a stare in piedi».
«Così va bene», disse il padre Calandri, e aggiunse: «Gli ordini dei superiori vanno eseguiti».
In quella tana non c’era assolutamente posto per altri. I due samaritani somministrarono al malato una buona dose di chinino e ritornarono alla loro missione.
Padre Dolza ci pensò seriamente nella notte e decise di obbedire a qualunque costo, anche se ciò fosse costato quattro ore di marcia su gambe incerte e tremanti.
Il mattino seguente, quando i due amici arrivarono per aiutarlo, la tana era vuota e l’usciolo ben chiuso. Si guardarono sorpresi: «Acciderba, che fegato! Come avrà fatto a partire da solo in quelle condizioni?».
P. Manfredi si gettò subito all’inseguimento temendo di trovarlo svenuto sul ciglio del sentirnero, ma per quanto trottasse non riuscì a raggiungerlo per via. Lo trovò a Ighembe che si era buttato, senza forze, su un pagliericcio per smaltire la dura maratona.
(Ottavio Sestero)

Autori vari




Meru (2) I Meru: «Selvaggi» pieni di sorprese

Un incontro a dir poco complicato

Cento anni non sono pochi anche visti con gli occhi di oggi. Se – per un colpo di magia – potessimo trasportarci a cento anni orsono ed osservare con l’occhio satellitare la regione che attornia il monte Kenya, vedremmo una gran macchia verde scura circondare un largo anello di verde chiaro che abbraccia un’enorme montagna tutta roccia con una punta bianca e lucente al centro: il monte Kerenyaga (= montagna splendente, oggi Monte Kenya). Attoo al monte c’era allora un’enorme distesa di foreste impenetrabili di alberi secolari e di bambù, macchiata qua e là dal verde più chiaro di pochi prati, che di colpo cedeva alle immense savane digradanti, verso nord ed est, nello spoglio color sabbia rosso-nera di vaste zone semi-desertiche. Sono passati cento anni e quell’immenso mare di verde si è ristretto assai, eroso dalla continua espansione delle aree coltivate.

Cento anni orsono la regione che oggi chiamiamo Meru, sul versante nord-est del grande monte (il versante sud-ovest essendo occupato dai Kikuyu e quello sud-est dai Kamba), nascondeva nelle sue foreste e nelle piane semidesertiche che facevano da sponda a quel mare di verde, poco più di 40 mila africani (altre stime dicono addirittura 400mila, 93mila capanne). Inutile cercare strade, ponti, costruzioni e città come oggi siamo abituati. I volenterosi che si erano spinti in quel verde erano tornati con notizie di popoli che abitavano nelle foreste ai piedi della grande montagna sacra. Tra di essi un popolo, che non molti secoli prima aveva sfidato l’ignoto giungendo dal mare, per nascondersi e poi stabilirsi in quei luoghi.

Un popolo venuto da lontano
Quanto tempo prima? Forse appena trecento anni. Una leggenda di questo popolo, i Meru (o Ameru al plurale), racconta così.
«Tanto tempo fa il popolo Meru abitava al di là della grande acqua. Erano schiavi di un re potente che non lesinava angherie ai suoi sudditi. Sorse un giorno tra questo popolo un uomo che aveva parlato con Dio. Avendo visto l’afflizione della sua gente, si presentò al re nel nome del suo Dio, e implorò la libertà per sé e per il suo popolo. Il re rise divertito a questa richiesta. Poi, tanto per togliersi dai piedi quell’impiccione, rispose: “Bene, ti darò la libertà e lascerò andare la tua gente se tu riuscirai a portarmi un grosso elefante che faccia sterco bianco”. Oltre al prodigioso elefante il re volle altri meravigliosi quanto impossibili portenti (in alcuni racconti l’elefante diventa solo una mucca, si parla anche di cani con le coa, di una lancia tanto lunga da arrivare al cielo, e così via, le storie si abbelliscono secondo la fantasia dei narratori e secondo le tradizioni dei vari gruppi).
L’uomo non disarmò, toò a parlare con Dio sulla montagna e Dio l’aiutò a scovare l’elefante e a preparare tutti gli altri prodigi. La meraviglia del re fu grande e, pur non credendo ai suoi occhi, dovette a malincuore acconsentire alla richiesta e lasciar libero lui e tutta la sua gente. Il popolo tutto, seguendo questo grande uomo di Dio chiamato Mogwe, dopo il sacrificio di tre giovani chiamati Gaita, Kiuma e Muthetu (questi sono ancora oggi i nomi dei tre clan principali della tribù da cui deriverebbero tutti gli altri clan o mierega), passò la grande acqua. Per dividere e fermare le acque il Mogwe si servì di una magica lancia. I primi fuggiaschi attraversarono il mattino presto quando era ancora buio e si chiamarono Njiru (neri); i secondi attraversarono all’alba e si chiamarono Ntune (rossi); gli ultimi attraversarono in pieno giorno e si chiamarono Njaru (bianchi).
Dopo un lungo peregrinare arrivarono ai piedi della grande montagna sacra dalla quale scaturiva acqua buona e abbondante. E da quel giorno il popolo Meru abita nella terra che Dio gli ha donato, ancora fedele agli insegnamenti di quelli che hanno continuato l’eredità del “grande Mogwe”».

Solo leggenda?
A corroborare questa leggenda vi è (meglio dire “c’era una volta”, visto che parliamo di circa 50 anni fa) una curiosa usanza che io stesso ho osservato nel lontano 1965.
Quando un anziano stautiva, pronunciava con forza una di queste espressioni: «Antu ba ntune», «antu ba njaru», «antu ba njiru». Con questo voleva dire: «Sono del gruppo che è passato attraverso l’acqua verso l’alba» (ntune = rosso, riferito al colore del tramonto), oppure «sono del gruppo passato durante la notte» (njiru = nero) o ancora «sono del gruppo passato al chiaro del mattino» (njaru = lucente, bianco). E così ricordava agli astanti la propria provenienza e il gruppo clanico da cui derivava. Inoltre è interessante ricordare che all’inizio del secolo scorso, alcuni maestri protestanti tentarono di mettere insieme una specie di ‘dramma teatrale’ in cui ricordare le origini del loro popolo, ma la cosa non fu per niente gradita agli anziani i quali anzi ne imposero l’abolizione, timorosi che la storia potesse arrivare agli orecchi della nuova autorità coloniale inglese e la spingesse a ricacciare i Meru verso il luogo da cui erano giunti, «al di là della grande acqua».
Secondo gli studi più recenti questa «grande acqua» potrebbe essere il fiume Tana che scende dal Monte Kenya e verso la foce ha vaste paludi stagionali dove cresce abbondante il papiro. In queste paludi trovarono rifugio gli antichi Meru che erano fuggiti dall’isola di Mbwaa (o Mbwa – all’italiana Mbua – forse l’isola di Manda, nell’arcipelago di cui fa parte l’isola di Lamu) attorno al 1722. In quest’isola gli antenati dei Meru erano stati resi schiavi da «uomini (dai vestiti) rossi», probabilmente schiavisti arabi provenienti dall’Oman o dallo Yemen che proprio in quei tempi (1698) avevano completamente cacciato i portoghesi da Mombasa. Seguendo il fiume alcune bande di Meru arrivarono alle pendici del Monte Kenya e ne occuparono progressivamente i pendii cacciando gruppi preesistenti. Entro la metà del XVIII secolo, i vari gruppi Meru si erano stabiliti attorno al monte, nonostante un continuo guerreggiare con i pastori Maasai (cf. Fadiman, Jeffrey A., When we began, there were withmen: an oral history from Mount Kenya. Berkeley: University of Califoia Press, 1993).
Il racconto sopra riferito ha subito evidenti influenze ebraico-cristiane di non facile spiegazione. Un’ipotesi è che gli antichi Meru dell’isola di Mbwaa avessero già avuto contatto con i missionari Agostiniani che da Mombasa visitavano regolarmente le isole lungo la costa del Kenya e avevano stabilito una parrocchia nell’isola di Lamu; l’altra è che abbiano subito l’influsso di tradizioni islamiche di origine arabo-yemenita.

L’incontro con i Maasai
Le prime nove generazioni (Nthuke) di Meru salirono verso la grande cima bianca (del Kenya) penetrando nelle foreste vergini e disboscando per far spazio ai loro villaggetti. Un disboscamento estremamente contenuto. In molti luoghi lasciarono – su suggerimento di un grande keroria (profeta) – dei ciuffi di foresta diventati in seguito i famosi “boschetti sacri” che ancor oggi ammiriamo nel panorama.
Non era conosciuta una vera agricoltura, che si concentrava su alcune specie indigene di cereali e fagioli. Mais, pomodori, né tantomeno il frumento e il caffè erano ancora conosciuti. La vita girava intorno agli animali domestici – mucche, pecore e capre soprattutto – portati dalla famosa regione “oltre la grande acqua” (il fiume Tana).
Su queste pendici fecero conoscenza con una fiera tribù: quella dei Maasai. E, si capisce, l’incontro con questi agguerriti pastori nomadi non fu dei più pacifici. Sebbene all’inizio (1810-1820 circa) per paura e per non sbilanciarsi oltre il necessario, la coesistenza non fosse da nemici, ben presto le cose divennero difficili e le ruberie da ambo le parti fecero le prime vittime. Strano a pensarsi, ad avere la peggio furono i temuti Maasai, che pur quasi sconfitti continuarono le loro razzie di bestiame per molto tempo fino a quando la generazione Mbarata (circa 150 anni fa) mise fine alla storia. Molti dei Maasai sconfitti non trovarono altra soluzione che quella di passare ai Meru e così diventare quello che oggi conosciamo come gruppo Tigania. Ciò spiegherebbe perché tante famiglie abbiano dei nomi che non sono meru, ma maasai. Di più: se guardiamo anche la cartina geografica notiamo come il gruppo dei Tigania sia quello che si spinge verso il nord più degli altri gruppi. E il nord era tradizionalmente il regno dei nomadi Maasai.
Gli anni trascorsero senza particolari eventi, se non quelli delle carestie, delle invasioni di locuste, delle razzie e di qualche periodo di tranquillità.
Nel 1908 il governo inglese prese possesso della terra dei Meru dichiarandola terra della corona (crown land) e assoggettandola a forza parte alla neo colonia del Kenya. Da questa data in poi entriamo nelal storia documentata.

Lo smarrimento dei missionari
L’origine di questo popolo di ceppo Bantu è quindi incerta. Certo è invece che i primi missionari della Consolata, conoscendo poco o niente di questa tribù e non avendo accesso ai segreti gelosamente custoditi dagli anziani, trinciarono anche dei giudizi a dir poco pesanti. Cito qui la testimonianza di uno dei nostri primi missionari, che oggi certo sembra alquanto sbrigativa, irrispettosa e anche un po’ razzista. Scriveva:
«[È un] Popolo senza storia né scritta né orale, senza una civiltà anche solo primitiva. Il popolo Meru, prima dell’arrivo degli inglesi, era di un grado appena superiore agli animali del loro deserto e delle loro foreste: riprodursi, lottare per l’esistenza e per la preda; morire e, come le carcasse animali, esser divorati da altri animali; questo è il compendio senza eccezione della vita di ogni Meru, per cui non si doveva parlare assolutamente di un livello morale. Stando così le cose, non è a stupire se non hanno una storia, nemmeno orale. La loro origine si perde nella notte dei tempi e dell’oblio, e il loro ricordo non sale oltre la generazione che li ha preceduti. E anche i fatti, i fasti e le gesta dei predecessori che ogni nazione, con un minimo di civiltà, ha cura di tramandare ai posteri e che formano l’orgoglio nazionale, nel Meru sono passati e trapassati in modo tale da perdee persino il ricordo e le tracce».
Mons. Filippo Perlo, il primo vescovo di Nyeri sotto la cui giurisdizione era il Meru e che aveva organizzato le prime spedizioni dei missionari in quel territorio, nel 1922 scrisse: «E’ strano fino a qual punto questa popolazione difetti di storia, e se fosse vero l’aforismo che felice è quel popolo che non ha storia, questo dovrebbe essere arcifelicissimo. Basti dire che nessun ricordo antecedente alla presente generazione vi è conservato in alcun modo: nessun monumento storico esiste sotto qualsiasi forma, e invano ricerchereste per tutto il paese, su terra e sottoterra, pur traccia di ruderi, che possano risalire a una decina di anni addietro, ché è pur ben poco nella storia.
«A spiegare quest’assenza assoluta di quanto ha relazione col passato, credo valgano due ragioni l’una morale e materiale l’altra, la prima ha il suo motivo nella superstizione universale dominante, per cui chi è morto, è talmente morto, che neppur il suo nome, per quanto in vita riverito e stimato, può più essere ripetuto, né fuori né tantomeno nella casa e nella stessa famiglia che fu sua. A vedere quant’evitino, non dico di parlare di coloro che furono, ma pur anche di fae un qualsiasi accenno, sembrerebbe che in realtà evitino persino di pensarvi…
«La ragione materiale, a parer mio, starebbe in questo: che usando essi costruire ogni lor abitazione con pareti di ramoscelli intrecciati, rinforzati di malta e coperti di tetto di paglia, né all’infuori di questa capanna familiare, altre costruzioni esistendo nel Paese: – che gli edifici pubblici per le adunanze e l’amministrazione della giustizia sono suppliti da spiazzati erbosi, o annosi alberi dalla folta chioma -, ne risulta per le lor case una durata effimera quanto il materiale di cui sono formate… cioè al massimo quattro o cinque anni. Quindi è facile arguire che neanche gli atti di valore compiuti dagli eroi nazionali, o le successioni nobiliari, o alcuna delle più memorabili gesta collettive possono perpetuarsi nel ricordo di un popolo: non usandosi materiale in alcun monumento che ne conservi la storia, e la tradizione orale rifuggendo per partito preso dall’occuparsi di quelli che passarono, e tanto più di quanto operarono. In conclusione se c’è paese in cui si visse letteralmente alla giornata era questo, con esclusione assoluta d’ogni ricordo del passato, d’ogni preoccupazione per l’avvenire».

Una cultura senza passato?
Quelle riportate sopra possono sembrare cose di altri secoli, ma personalmente – nella missione in cui lavorai come principiante – questa «memoria proibita» di quanti erano stati gli antenati poteva ancora trovare riscontri negli atteggiamenti di persone sia totalmente illetterate come di persone istruite, compresi i maestri. Due o tre esempi.
Dovevo compilare le schede dei battezzandi. «Come ti chiami?» «Njogu» (= elefante). Strabuzzai gli occhi. Il catechista fu veloce a spiegarmi che suo fratello era morto da piccolo e suo padre gli aveva messo il nome di un animale grande e potente perché impaurisse lo spirito del male impedendogli di prendere anche questo nuovo figlio. Va bene. Scrissi: «Elefante».
Arrivò una ragazza. «Il tuo nome?» «Nterietwa» (tradotto letteralmente: non ho nome!). Pensai che la battezzanda non avesse ancora scelto il nome cristiano da prendere per la funzione ed insistetti. Fu ancora il catechista che mi venne in aiuto: «Vedi padre, questa figlia ha avuto due fratellini prima di lei, morti in tenera età. Allora i suoi genitori le hanno messo il nome Nterietwa proprio per confondere lo spirito che così non troverà più una nuova vittima».
Aggiungo a queste due curiosità un’altra di qualche giorno prima, quando chiesi ad un candidato maestro il nome di suo padre. Non me lo volle dire. E mi spiegarono che su queste cose è meglio non insistere: chi è morto va lasciato in pace. Neppure nominarlo o ricordarlo! Così si possono a volte spiegare tante cose della storia… che non fa più storia!

Le classi di età
Ritorniamo alla storia o almeno ad alcuni elementi che possono darci una mano a ricostruire la storia del popolo Meru e capie la struttura sociale. Un elemento fondamentale è la comprensione della formazione e sviluppo delle loro classi di età (age set).
Noi missionari abbiamo imparato presto a considerare l’età e il tempo un po’ diversamente da come dice il vocabolario, sia che si prenda come base il tempo solare che quello lunare (più facile da contare  per via delle varie fasi lunari). Tra i Meru (e in genere tutti i popoli Bantu, e non solo) l’età di una persona era valutata non secondo la data di nascita ma secondo la classe di appartenenza, la cosiddetta classe di età (oggi, con le nuove regole imposte dal governo centrale, i bambini vanno registrati alal nascita e i nomi vengono perpetuati nei computer).
Più che fornire spiegazioni tecniche o antropologiche, mi permetto di usare un paragone prosastico ma efficace…
Anzitutto attenzione al numero sette. Sappiamo che tra i popoli orientali questo numero sin dall’antichità riveste un carattere sacro o quasi (basti pensare al settimo giorno della Bibbia). Su che cosa si fondi è difficile dirlo (anche se le fasi lunari – 4 fasi di 7 giorni ciascuna – sembrano essee l’origine per tutti i popoli del mondo). Il numero sette è importante anche per i Meru.
Chi ha osservato l’andamento delle stagioni in alcune regioni del Kenya ha scoperto che nel giro di sette anni (o quasi… uno più o uno meno) c’è una variazione regolare del ciclo delle piogge. Nella Rift Valley c’è addirittura un fiore, una liliacea, che sboccia ogni sette anni, e i Kipsigis (sud-nilotici del Kenya) attendono questo fenomeno per segnare l’inizio dei riti di iniziazione. Anche i Meru celebrano i riti d’iniziazione ogni sette anni. Durante questi riti, si celebra un vero passaggio di età, lasciando la classe precedente per entrare in una nuova. Un paragone può chiarire meglio.
Supponiamo che tutta una tribù sia stipata su un treno. Nella prima carrozza ci sono gli anziani (età dai 40… ai cento, per chi ci arriva). Nella seguente ci sono quelli di un’età compresa tra i 35 e gli …anta, che sono gli anziani minori, adulti che non hanno ancora un figlio circonciso. Un’altra carrozza raccoglie quelli che hanno dai 28 a 35 anni, i guerrieri maggiori e tira da quella di chi ha tra i 21 e i 28 anni: i guerrieri minori. C’è poi quella della nuova riika (guppo di età) o dell’ultima circoncisione (tra i 14 e i 21) e infine l’ultima carrozza dei fanciulli incirconcisi. Le donne hanno un’organizzazione sociale diversa essendo praticamente divise in due categorie di circoncise (sposate) e incirconcise (bambine).
Ogni sette anni (ci possono essere degli spostamenti se, contro tutte le previsioni, il settimo anno è un anno di siccità: non si può far festa quando non c’è cibo per gli uomini e il bestiame) il treno si ferma: tutti scendono, fanno una grande festa celebrando l’iniziazione alla vita adulta degli adolescenti, e poi risalgono sul treno cambiando posto ed avanzando di una carrozza.
Quanto agli anziani: o ci ha già pensato il Padreterno o vengono relegati a compiti di onore e non più di servizio, eccetto i grandi sacerdoti, gli stregoni e i capi. I nuovi anziani lasciano il posto ai guerrieri maggiori, questi a quelli minori e così via fino ai marmocchi che salgono nel carrozzone dei neo circoncisi.
A questi “carrozzoni” – sempre per stare nell’allegoria – i Meru hanno dato il nome Nthuke (che significa più o meno generazione, gruppo di età: neo-circoncisi, guerrieri, anziani…).

Un nome dinamico
Il nome è importante, ma non è un fattore permanente che accompagni una persona dalla nascita alla morte, come avviene nella nostra società. Nella cultura Bantu il nome cambia col crescere della persona. Può così succedere che un individuo cambi il nome anche una decina di volte nella vita, per la gioia di chi deve compilare l’anagrafe o tenere un registro parrocchiale. Ogni persona inizia con il primo nome datogle dai genitori (oggigiorno succede anche che ne sceglie un altro quando entra nella scuola e lo cambia se deve ripetere l’anno scolastico per via di bocciature), ne riceve uno nuovo al momento dell’iniziazione e poi magari ci penseranno gli stessi coetanei ad affibbiargli un nuovo nome per distinguerlo meglio, per onorarlo, per riconoscere una sua dote (ad es. Mto-Mugambi = il parlatore… l’avvocato) e così via. Quante volte è successo e succede ancora che anche ai missionari venga cambiato il nome! «La madre della misericordia», il «padre che ci vuol bene», il «silenzioso» (Mukiri), Mwereria (= il vagabondo per la buona causa…; anche se non è vero che proprio tutti i missionari abbiano ricevuto nomi così elogiativi). Un nome così esprime davvero la persona che lo porta. Il cardinal Otunga ricevette dai Meru dell’Igembe il nome di Mto-Baikiao (l’uomo della bontà). Un nunzio apostolico era chiamato Mzee Mwenda (l’anziano che è amato).
Così il missionario che voglia un po’ di ordine nei registri, deve spesso arrampicarsi sui vetri! In più c’è la complicazione dell’età. Un tempo non si insisteva sull’età, perché nessuno era in grado di “tradurre” nel gergo dei bianchi il numero degli anni che aveva sul groppone. Nemmeno il governo insisteva più di tanto ed è davvero recente la legge che obbliga i genitori a registrare i bambini alla nascita. Così sulle carte d’identità vi è un dato che a noi suona strano: età «sopra i diciotto». Oltre a tutto questo va ricordato – per complicare la faccenda – che contare portava sfortuna. Come nessuno contava i capi di bestiame che aveva, le mogli che possedeva, i figli generati, così non contava gli anni. Se era vecchio diceva: «tanti».

Organizzazione sociale
Chi oggi prende un manuale di antropologia può subito scoprire come la grande etnia dei Meru non sia una realtà omogenea. A livello locale ci sono molte  diversità di lingua, usi, costumi e tradizioni, perché la tribù è in realtà costituita da sette gruppi simili, che occupano le sette zome principali del territorio del meru. Eccoli: Chuka, Muthambi, Igoji, Imenti, Tharaka, Tigania, Igembe.
Difficile dichiarare quale di questi gruppi è il vero rappresentante dei Meru! E non è detto che tutti siano contenti della denominazione ormai classificata! Nel censimento del 1989, ad esempio, successe che il gruppo dei Tharaka optò per essere denominato Meru e stop. Ma poi ci ripensò e nel censimento del 1999 toò con fierezza a definirsi Tharaka. Perché? La risposta è meglio cercarla nelle promesse a iosa fatte dai politicanti di quei giorni! Poco mancò che anche i Chuka e i Muthambi optassero per essere chiamati Kikuyu. Il motivo? La loro lingua è per una buona metà Kikuyu.
All’interno di questi gruppi ci sono i clan o mwerega. Il nome mwerega indica anche una serie di costoni e creste collinose ai piedi della grande montagna del Kenya, essendo i vari costoni divisi da fiumi che scendono precipitosi dalla montagna scavando profonde valli. La mwerega è allora un’organizzazione politico militare localizzata sul crinale dei lunghi collinoni che scendono dalla montagna. Il sistema dei clan ha permesso ai Meru di organizzare una efficace difesa contro i nemici, evitando l’annientamento in un ambiente tutt’altro che facile. I vari clan formano i gruppi, i gruppi la tribù. Ogni clan trae la sua origine da un capostipite – troppe volte dimenticato per via del tabù di cui ho parlato sopra. Questi clan sono esogamici: un individuo non può sposarsi entro il proprio clan, né in quello materno. L’individuo – per sé – conta poco nel proprio clan. È il clan a dar forza e valore nell’organizzazione della tribù. Vi sono tuttavia individui che per vari motivi assurgono a gradini sociali altissimi. Ne parlerò più avanti. Per i Meru non è possibile parlare di re e regine. Il governo della tribù è nelle mani delle Nthuke (generazioni) che cominciano il loro periodo di governo con una speciale cerimonia d’iniziazione chiamata Ntweko. Al termine del periodo di governo, l’autorità passerà automaticamente alla generazione seguente. Qualcuno parla di un vero e proprio sistema di governo realmente democratico.

Gli Njuuri
Sopra tutte queste “generazioni” vi è da secoli un sistema gerontocratico caratteristico dei Meru: i cosiddetti Njuuri (scritto anche Njori o Njuri). E la parola Njuuri mi porta ad un discorso un poco più particolareggiato poiché come missionari abbiamo dovuto per tanto tempo lottare, pazientare, rispettare ma a volte anche soffrire di tasca nostra… specialmente quando all’inizio dell’evangelizzazione ci furono episodi assai tragici.
Gli anziani della tribù erano e sono divisi in tre gradini: il primo era costituito dagli Areki (sing. Mwareki) ed era un onore sia per uomini come per donne, essere annoverati in questo rango. Il secondo gradino era formato dagli Njuuri Nceke ed il terzo dagli Njuuri Mpingiri. Gli anziani che formavano gli ultimi due ranghi erano selezionati con cura: meglio dire segregati dal resto della tribù. Per poter essere eletti Njuuri, i candidati dovevano pagare una forte tassa, in genere un gran numero di animali da sacrificare e mangiare durante una grande festa.
Ciascun Njuuri, e questo continua ancor oggi nelle remote regioni dell’Igembe, aveva la sua particolare maschera dipinta sulla faccia, specialmente durante cerimonie e riti e raduni solenni. Segni distintivi dello Njuuri erano (e sono): il Morai o bastone nodoso ricavato da un ramo di legno nero (in genere ebano); la Ncea o corona di conchiglie sulla testa; il Meu o scopino fatto di peli di coda di animale (si tratta in genere di peli della coda di mucca o anche giraffa) e lo sgabello a tre gambe scolpito da un unico pezzo di tronco. Alcuni Njuuri aggiungono il copricapo di pelle di scimmia guereza (per esempio gli Njuuri facenti funzione di capi, gli agwe, gli stregoni…) ed una specie di manto di pelle di montone o anche di scimmia.
Quando vi erano questioni gravi da dirimere questi anziani si radunavano in un prato presso Tigania, vicino alla foresta d’Uringo, e «sedevano e sedevano sull’erba» (sedere sull’erba è un modo eufemistico per dire: discutere, giudicare; la reiterazione del verbo indica la lunghezza del raduno). Questo prato, tempo addietro, era il più sacro e famoso luogo di convegno degli Njuuri. Vi giungevano da tutte le parti del Meru. A ricordo, negli anni Settanta, venne eretto un santuario a forma di capanna, ma non fu mai più usato come punto d’incontro.
Gli Njuuri sono ancor oggi un autorità tribale riconosciuta dal governo del Kenya e godono di rispetto indiscusso. Un giovane missionario africano che nel 2008 si permise di pubblicare affermazioni ritenute irrispettose nei loro confronti, dovette essere prontamente trasferito in un’altra zona del paese.
Parlando degli Njuuri non posso – a questo punto – non ricordare la figura di un nostro missionario, il p. Franco Soldati ribattezzato Mwereria (vagabondo per buona causa) il quale – con il beneplacito del vescovo mons. Lorenzo Bessone – fu accettato tra gli Njuuri Ncheke. È curioso il dialogo di Mwereria con il vescovo. «P. Soldati , mi fido di lei: se vede che la faccenda brucia, si tiri subito indietro!». «Monsignore, con l’aiuto di Dio cercherò di non lasciarmi bruciare!» (vedi un profilo di p. Franco in MC 10-11/2002, pag. 79).
P. Mwereria ha affidato questa esperienza a un interessante diario in cui descrive quanto ha scoperto degli Njuuri e quanto essi hanno scoperto in lui… cose belle e meno belle, ma soprattutto è riuscito a sfatare quella che i nostri primi missionari avevano definito tout-court «massoneria nera».

La Kagita, il tribunale degli Njuuri
La Kagita (tribunale indigeno) aveva potere sopra tutti gli Njuuri e la tribù; era costituita dalla cerchia degli Njuuri più rinomati, il Mogwe (lo sciamano-guaritore e sacerdote-sacrificatore) che descrivo più avanti) e il capo. Si radunava in una capanna particolare detta nyumba ya kagita. Era quella la capanna più temuta nella regione. Vi erano giudicati soltanto i casi criminali più gravi contro la comunità. E in genere, l’accusato, criminale o meno, una volta giudicato dalla Kagita, pagava con la vita. I giudici dovevano trovare assolutamente un responsabile.
Il modo di procedere era il seguente: i membri della Kagita insieme al presunto colpevole entravano per la porta principale della capanna. In pompa magna e seduti sullo scranno a tre piedi tabaccando abbondantemente, ognuno iniziava a parlare e ripetere o commentare il caso giudiziario. Nel mezzo del cerchio deglii anziani, accanto all’accusato, vi era una grossa zucca, ripiena di vino di canna. Non tutto il contenuto però era vino; una buona dose di veleno era stata previamente versata nella bevanda. Siccome il veleno era più pesante del vino, si depositava sul fondo della zucca. La sentenza contro il supposto criminale una volta entrato nella Kagita era sempre quella capitale. Ma doveva essere provata, con la prova del veleno. Il primo degli Njuuri, usando una zucchetta come mestolo, attingeva un po’ di vino, attento a non toccare il fondo del contenitore. Beveva dicendo: «Bevo di questo vino e rallegro il mio ventre, perché sono innocente…». Seguiva il secondo giudice, il terzo, il quarto e così via fino all’ultimo. Finalmente era la volta del condannato. A lui l’ultimo giudice offriva il vino dopo averlo attinto dal fondo della zucca. «Bevi di questo vino – scandiva – e vediamo se anche per te dimostrerà che sei innocente!». Il veleno agiva in meno di un quarto d’ora. Il disgraziato, ormai rigido nello spasmo degli ultimi attimi di vita, veniva spinto con dei bastoni fuori dalla capanna attraverso un buco nelal parete opposta all’entrata principale. Il buco veniva subito mimetizzato così che lo spirito cattivo non potesse più trovare la strada e raggiungere il “traditore”. Questo era uno dei tanti modi di amministrare la giustizia; molti altri erano lasciati alla fantasia dei giudici, come la “prova del fuoco” e la “prova dei funghi”.

Qual era la loro religione?
All’indizio del Novecento i nostri missionari trovarono grande difficoltà a districarsi nel sottobosco religioso di questo popolo. L’egemonia – o direzione suprema – degli Njuuri sia nel ramo maschile che femminile non lasciava troppe porte aperte per sbirciare fin dentro a ciò che accadeva nella tribù in modo particolare nei gruppi dell’Igembe, Tigania e Mikinduri, le zone più soggette al comando degli anziani.
Ci vollero cinquant’anni perché si potesse far breccia in questo monolito religioso. E dobbiamo dire davvero grazie al coraggio di p. Soldati – Mwereria – se tante cose si sono capite meglio e si sono sfatati tanti pregiudizi.
Nei pochi brevi diari dei missionari della prima metà del secolo (1910-1950) vi sono cenni e storie inficiati spesso da giudizi superficiali. Mwereria ha avuto il coraggio non solo di mettere  il naso in questo affare, ma di diventar lui stesso uno degli Njuuri, fino alla classe degli Njuuri Ncheke (magri), la classe ristretta che ancor oggi onora gli anziani più eminenti. Mwereria fece tante scoperte in quelle capanne dove nessuno che non fosse Meru era mai entrato.
È interessante leggere la descrizione che Mwereria fa di se stesso quando entrò nella capanna più riservata degli Njuuri. Per l’occasione aveva dovuto accettare di farsi dipingere sulla faccia i segni caratteristici dello Njuuri. Aveva anche dovuto pagare la sua bella tassa di un grosso bue… Quando lo invitai ad alzare il velo sull’organizzazione tribale dei Meru delI’Igembe, Mwereria mi diede un piccolo studio, dove narrava come fosse riuscito a penetrare nella “kiama kia Lamalle” (una delle classi di età degli adulti) e a “legare la chiesa” (uso un termine di Mwereria stesso) con gli Njuuri. Mi permetto di citare un brano del diario di Mwereria. Va ricordato che P. Soldati quando parla di Mwereria usa la terza persona come si trattasse di un’altra persona e non di stesso.
«Nel passato, Mwereria ha parlato di Njuuri ed Areki, affrontando problemi che coinvolgevano cristianesimo e tradizioni tribali. Non si era mai pronunciato sulla Kiama kia Lamalle. Ma ora la storia si ripete. I cristiani furono sempre sconsigliati a fare parte di quella kiama (gruppo, aggregazione, associazione, ndr.), se non addirittura esclusi dai sacramenti, come castigo alla loro adesione. Parecchie volte successe anche che giovani cristiani che si rifiutarono di fare questa iniziazione, fossero costretti fisicamente e magari portati di peso volenti o nolenti nelle varie capanne di iniziazione. Il missionario in questi casi cercava di aiutarli come poteva, magari nascondendoli per qualche tempo alla Missione. Ma era giusto? Perché rifiutare per partito preso tutto ciò che riguardava tradizioni africane? Perché questo muro di diffidenza tra chiesa e tribù? Ed allora perché meravigliarsi, se le varie chiese cristiane erano considerate come i peggiori nemici dell’africano? Se erano sopportate, il merito non era da attribuirsi solo alle opere innegabili di carità e di civiltà che queste chiese lasciavano abbondantemente al loro passaggio, ma anche all’influsso e al potere di un governo europeo dalla tinta cristiana. Indirettamente questa civiltà cristiana-europea aveva scalfito tutti i pilastri sui quali poggiava una tradizione secolare, ma la differenza rimaneva tra quelli che ancora cercavano di puntellare come potevano questi pilastri e coloro che invece volevano abbatterli completamente».
Questo fu sempre l’interrogativo di Mwereria: come conciliare la morale della Chiesa e la tradizione africana. Si domandava se fosse vero o falso che tutto ciò che conceeva le tradizioni era contrario ai comandamenti di Dio o della Chiesa. Scoprì poco alla volta che certi riti non erano esattamente santi, tuttavia la loro sostanza non era marcia: si trattava solo di regolae gli eccessi.

Ngai-Murungu: il nome di Dio
Come si può allora descrivere la religione tradizionale dei Meru? Cito anche qui un picciolo studio di un vecchio missionario dei primi tempi.
«La religione dei Meru è molto primitiva. Hanno due nomi per indicare Dio: Ngai (nome copiato probailmente dai Maasai, che hanno la dizione EnKai, o dai Kikuyu che hanno Ngai, che confondono spesso con fenomeni naturali), e Murungu (molto simile al nome Mungu, swahili per Dio). Questo Dio è personale, ma non gli prestano un vero culto, per quanto poi lo si senta invocare usando espressioni come «Murungu are o» (Dio c’è, specie nei pericoli o calamità pubbliche e private), oppure «Murungu ni Munene» (Dio è grande – frase presa forse dall’islam), «Kethera Murungu akwenda» (se Dio vuole – anche questa di sapore islamico). In rare circostanze i Meru fanno sacrifici direttamente a Dio, in caso cioè di carestia, di moria di uomini e animali, d’invasioni di locuste. Non è un individuo privato a compiere il sacrificio ma sempre una persona pubblica».
Fin qui le affermazioni di quel missionario. Ma ai suoi tempi era ancora sconosciuto – o forse semplicemente confuso nella cerchia non ben definita degli stregoni – un personaggio particolare di cui più tardi si venne a conoscenza e solo dopo uno studio approfondito sulla sua attività fu possibile valutae l’importanza: il Mogwe (plurale Agwe).

Gli Agwe
Con l’aiuto di P. Franco Soldati, da anni stabilito nella missione di Tuuru, l’antropologo Beardo Beardi riuscì a contattare i quattro Agwe della regione del Njombeni e ne scrisse in un libro intitolato «The Mogwe, a failing prophet», vita, autorità, pregi ecc.. Forse, esagerando un poco l’autorità di questo personaggio poteremmo accostarlo alle figure dei grandi sacerdoti del popolo d’Israele (magari addirittura a Melkisedek). Il compito del mogwe nella società Meru è quello di liberare dal male, dalle maledizioni e dalle influenze nefaste causate dallo stregone, il murogi (o urogi).
Personalmente ho conosciuto il mogwe di Amungenti che ricevette il battesimo dopo un lungo catecumenato ad opera di P. Emilio Canova (+ 2007) e P. Antonio Giustetto (+2002). Con il battesimo prese il nome di Giovanni MtoMugambi. Questo mogwe non lasciò a nessuno dei suoi figli la sua eredità spirituale e con lui si concluse la storia del Mogwe dell’Igembe. Osservando la condotta e l’ufficio tribale di questo personaggio, non mi è sfuggito il suo particolare stato di vicinanza a Dio, il rispetto che la gente aveva per lui, la scelta della sua persona per particolari sacrifici. Tant’è che non trovando altre parole più significative nella traduzione di certe preghiere e culti, noi missionari abbiamo usato il nome di Mogwe applicandolo a Gesù Cristo “Tu sei il Mogwe, il nostro sacrificatore”. La gente ha apprezzato e capito.

Il culto-timore degli spiriti
Ritorniano alla testimonianza già iniziata sopra. «Portano – i nostri Meru – invece un grande culto, forse per timore, agli Nkoma (spiriti e anime dei trapassati) il cui scopo sarebbe solo quello di tribolare l’umanità. La relazione dei viventi con questi Nkoma è solo tra parenti. Si ha cura allora di sacrificare qualche volta delle capre ed offrire vino di canna da zucchero (nchobi) per tenere quieti questi Nkoma ai quali viene attribuita in genere ogni malattia o accidente. Non hanno una classe sacerdotale, lo stregone (Moga) sarebbe un intermediario tra gli uomini e gli Nkoma».
Quest’ultima affermazione riflette la scarsa conoscenza che allora i missionari avevano della figura e ruolo del mogwe (scritto anche moga o muga all’inglese) con non è più possibile confondere con lo stregone vero e proprio, chiamato murogi.
Lo scopo di quete pagine è limitato, ma certamente la figura dello stregone e la loro occulta ingerenza nella storia delle missioni del Meru (ci sarebbe materiale per scrivere un vero thriller!) meriterebbe uno studio più approfondito.

Molto da scoprire
A questo punto, visto l’argomento, vorrei sollevare un poco il velo di mistero sotto il quale come missionari abbiamo sempre coperto alcuni aspetti di storia e di usanze occulte tra i Meru. Nel 1964 – come pivello missionario – mi trovai a sostituire per alcuni giorni il parroco di Tigania. A farmi compagnia c’era un nostro conosciutissimo (a quei tempi) missionario: p. Ottavio Sestero. Lo osservai a lungo mentre su uno sgualcito quaderno scriveva appunti. P. Sestero era un poco il “reporter particolare” delle nostre missioni del Kenya per la rivista Missioni Consolata.
Mi feci coraggio e gli chiesi alcune delucidazioni su quanto aveva scritto nel passato. Pochi anni prima aveva mandato alle stampe un romanzetto thriller intitolato «Il sacrificio del settimo anno», dove raccontava di un episodio avvenuto proprio nell’incipiente missione di Tigania. Tante cose a me sembravano inventate o quasi. Mi rispose, tra una pipatina e l’altra: «Non è un frutto di fantasia. Sono cose avvenute ma di cui nessuno parla e che ai nostri giorni nessuno o quasi più conosce. Io ho solo messo insieme a mo’ di romanzo tutta la faccenda… Se crede, potrei anche farle visitare i luoghi descritti nel romanzo a cominciare dalle cavee in cui uno dei protagonisti dovette nascondersi».
La località era Muthara, vicino a Tigania. In quella regione vi era un’usanza singolare chiamata da noi «il sacrificio del settimo anno», in parole povere un sacrificio umano. Durante la cerimonia settennale della circoncisione generale, il primo ragazzo che si presentava per la circoncisione era di fatto sacrificato con il veleno spalmato sul coltello usato per circoncidere. La cosa era tenuta nascosta al malcapitato e sovente offriva l’occasione per disfarsi di individui non voluti o inutili per la tribù, oppure per vendette trasversali. E così, veniva placato lo spirito. A scoprire questa usanza fu uno dei primi missionari di Tigania il quale vide – questo è narrato nel romanzo – portar via il figlio della prima famiglia cristiana che era venuta da Mojwa.
La relazione del mio vecchio informatore termina così: «I Meru hanno un numero infinito di pratiche che regolano tutta la loro vita, molte delle quali superstiziose, altre addirittura immorali, che per loro hanno forza di legge e che solo il cristianesimo, potrà poco per volta distruggere o modificare».
Queste cose sono state scritte prima della seconda guerra mondiale. Durante la guerra 1940-1945 tutti i missionari furono imprigionati e portati in Sudafrica nei campi di concentramento e le missioni abbandonate. In molte missioni – specialmente del Meru – la foresta si ripresa il suo dominio. Trovare cristiani fedeli nelle missioni del Meru era come cercare il famoso ago nel pagliaio. Per di più – per via di un ordine tassativo del governo coloniale inglese – il ritorno dei missionari (ottenuto dopo lunghissime trattative tra Goveo e Chiesa Cattolica) fu concesso ad un patto: i vecchi missionari del Meru non potevano più rientrare nella regione, ma dovevano effettuare uno scambio con quelli provenienti dalle zone Kikuyu. Prendere o lasciare. I missionari non ebbero scelta: presero! Impararono un’altra lingua, si scontrarono con un dedalo di pratiche religiose e non religiose che spesso non capivano e ripresero a seminare nei vecchi solchi
Come, o quasi, era successo nel lontano l911….

Giuseppe Quattrocchio




Meru (1) Quasi un’antologia

Cent’anni fa il Meru accoglieva la Consolata

Il 13 dicembre 1911 è la data dell’inizio ufficiale dell’evangelizzazione del Meru, una vastissima area allora quasi inesplorata a nord-est del Monte Kenya. Quel giorno i padri Balbo Giovanni e Olivero Luigi piantarono «le tende a Keja presso il capo Kerundu; la popolazione corse in gran folla a vedere i nuovi venuti, portando regali in cibarie di ogni genere. Il 24 dicembre era pronto il primo capannone che servì per abitazione dei padri e cappella privata, in cui si celebrò la prima messa la notte di Natale 1911».

Sono passati cent’anni da quel giorno. Da quella prima missione, piccolo seme alle falde del Monte Kenya, è cresciuto non solo un albero maestoso ma una foresta rigogliosa. Alla prima missione di Keja (o Kiija, chiamata poi Imenti e ora Mojwa o Mujwa) si aggiunse presto la missione di Egoji e altre ancora. Diventata Prefettura Apostolica del Meru nel 1926, raggiunse lo stato di diocesi nel 1953. Da essa furono poi create la diocesi di Garissa nel 1984 (da cui venne ricavata la diocesi di Malindi nel 2000), la diocesi di Embu nel 1986 e il Vicariato Apostolico di Isiolo nel 1995. Là oggi ci sono quasi un milione e mezzo di cattolici su una popolazione di oltre tre milioni di abitanti.
Queste pagine sono dedicate ai pionieri di questa grande avventura, quasi un’antologia dei loro pensieri e della loro vita.
Siamo andati a spulciare i vecchi numeri di questa rivista, i diari, le relazioni, le testimonianze di quel glorioso e sofferto periodo in cui un manipolo di missionari generosissimi, con pochi mezzi, cuore grande e tanta fantasia, furono capaci di piantare il seme del Vangelo in una terra nella quale «dietro ad ogni foglia si nascondeva un diavolo», come scrisse p. Vincenzo Dolza da Mekinduri. E le foglie non mancavano di certo sui fertili pendii e profonde valli ai piedi della grande montagna sacra.

Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Biopirateria

Commercio e industrie farmaceutiche

Si chiama biopirateria, è una nuova forma di colonialismo perpetrato ai danni del Sud del mondo. Colpisce prevalentemente i paesi più poveri del pianeta, dove preservare la biodiversità per molti governi è assai difficile. Il termine richiama una forma particolare di profitto che le multinazionali, con in testa i colossi farmaceutici, ottengono attraverso lo sfruttamento iniquo delle ricchezze naturali. Asia e Oceania, ma soprattutto Africa e America Latina, con i loro vastissimi ecosistemi, ospitano aree forestali di ricchissima biodiversità, con specie animali e vegetali uniche. È soprattutto là dove prospera questo fervido “saccheggio”.

La lotta alla biopirateria è una sfida globale a salvaguardia sia dell’ecosistema che del sapere ancestrale custodito dalle società tradizionali. C’è una ricchezza che rischia sempre più di scivolare nelle mani delle potenti élite locali, conniventi con le grandi industrie farmaceutiche per affari miliardari. Ma come è organizzata questa ignobile rapina?

Un meccanismo iniquo
Da almeno un ventennio, ricercatori e esploratori, ma anche mercenari e professionisti del profitto, sono impegnati nell’acquisizione di materiali e conoscenze appartenenti a culture indigene. Si tratta per lo più del cosiddetto oro verde, costituito da piante, semi, funghi, ma anche di animali e minerali. Ogni elemento setacciato in queste aree viene spedito nei laboratori di biotecnologia in Europa e America per essere analizzato, manipolato, brevettato e commercializzato, senza che i veri proprietari, le comunità etniche, possano opporvisi o partecipare all’utile derivante. Di fatto rimedi ed empirie tradizionali, testati in laboratorio, diventano fonti di guadagno esclusivo di chi non le possiede in natura. Mentre il 90% della diversità biologica si trova proprio nelle regioni del Sud, il 97% dei brevetti ad essa correlati sono in possesso esclusivo delle aziende del ricco Occidente. Un assurdo paradosso. E così accade che i paesi del Sud del mondo, da cui proviene la maggior parte delle specie vegetali brevettate, stanno perdendo il diritto di utilizzarle. Questo succede perché le normative di controllo a tutela del patrimonio locale sono ancora troppo limitate e demandate all’improbabile capacità coercitiva di molti governi locali.

Salvare le piante che salvano la vita
Troppo spesso, il confine che separa l’ispezione sperimentale degli ecosistemi a scopo scientifico dal puro saccheggio indebito è davvero labile. Purtroppo gli accordi inteazionali sui diritti di proprietà intellettuale (Dpi) siglati negli ultimi anni dai governi nazionali lasciano ancora spazi di ambiguità tali da permettere alle multinazionali dell’agroindustria e della farmaceutica di brevettare sementi e farmaci forzando i limiti normativi che tutelano blandamente le società tradizionali e gli ecosistemi. Eppure le grandi multinazionali farmaceutiche sono sempre più preoccupate di dimostrare che possono contribuire alla conservazione dell’ambiente oltre alla preservazione della biodiversità del pianeta. La chiamano responsabilità sociale dell’impresa, un’espressione di facciata dietro il quale si cela spesso una realtà ben diversa.
Negli ultimi anni la comunità scientifica internazionale sta cercando di proporre alcune linee guida su come intervenire in tema di lotta globale alle biopiraterie. Un impegno congiunto che pone l’attenzione sul legame fra conservazione delle piante medicinali e cura della salute. «Salvare le piante che salvano la vita!». E’ questo il monito e la consapevolezza di fronte al costante depauperamento di molte delle specie più richieste a scopo sanitario. Proprio a causa dell’utilizzo commerciale e della biopirateria, il problema si è aggravato. Anche i numeri parlano chiaro.
Globalmente, il valore corrente del mercato mondiale delle piante medicinali utilizzate secondo le indicazioni delle comunità locali e indigene, viene stimato in circa 43 miliardi di dollari. Di questi solo una piccolissima parte – in alcuni casi – è pagata come tassa di prospezione (cf. Vandana Shiva, Il mondo sotto brevetto, Ed.Feltrinelli). Un contributo ridicolo che rende davvero reale la dimensione smisurata della truffa perpetrata ai danni del Sud. Secondo alcune recenti ricerche elaborate dal WWF, OMS e IUCN (l’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura) il valore commerciale dei prodotti farmaceutici elaborati a partire dalle piante tropicali si aggira intorno ai 147 milioni di dollari. Una cifra enorme di cui, solo lo 0,001% delle cosiddette royalties, arriva alle comunità locali (cf. Davide Ranzini, in http://www.peacelink.it/ecologia/a/9978.html). Ma il rafforzamento della proprietà intellettuale inizia a colpire anche i cittadini del Nord: basti pensare ormai a quanto incide il costo dei farmaci brevettati sulla sanità pubblica occidentale. Inoltre, secondo quanto reso noto dall’organizzazione internazionale No Patents on seeds, l’Ufficio europeo dei brevetti (Ueb) ha brevettato ben 200 specie vegetali nel solo 2010! Mentre dal ’99 ad oggi sono state appena 1500 le specie registrate. L’organizzazione sottolinea come l’Ueb stia pericolosamente concedendo brevetti non solo sulle colture Ogm, ma anche su quelle convenzionali, il che non è contemplato né ammesso dalla normativa comunitaria.

Il brevetto: il vero pericolo della biopirateria
È ormai noto che le industrie farmaceutiche fanno abitualmente tesoro delle informazioni che i guaritori locali si tramandano da millenni, guadagnando così un accesso diretto ad un bagaglio smisurato di informazioni e pratiche che generalmente non sono né regolamentate né ordinate da un corpo di fonti scritte. Questa prassi orienta ogni nuova ricerca scientifica e commerciale con grande risparmio di tempo e di denaro. Con i progressi delle tecnologie modee, infatti, è assai più facile partire da un estratto naturale, isolae i principi attivi, per poi produrre il composto farmaceutico che creare un medicinale partendo da zero.
Il processo potrebbe essere di beneficio a tutti se non ci fossero due fattori molto negativi: la poca o nessuna ricaduta economica sui popoli indigeni e appropriazione indebita ed esclusiva del prodotto grazie al sistema dei brevetti. In pratica le popolazioni indigene ricevono compensi ridicoli e si ritrovano nella condizione di essere espropriati della loro stessa conoscenza: per usare quello che è loro devono pagare altri, gli stessi che li hanno derubati. Il tutto in nome del copyright intellettuale (garantito da agenzie ad hoc, create e finanziate dai grandi lobby industriali) che permette di reclamare un diritto esclusivo anche su una risorsa che di fatto esiste già in natura!

I protagonisti del business e della ricerca
Eludere le normative che impediscono questo meccanismo fraudolento non è impresa difficile per i professionisti del profitto: nella maggior parte dei casi, non sono le grandi case farmaceutiche a lavorare direttamente con i villaggi e i guaritori locali, quanto piuttosto enti e soggetti intermediari, soprattutto istituti di ricerca locali e università, ai quali conferiscono l’incarico di trattare e gestire il business miliardario. Numerose multinazionali, tra cui la Merck & Co., hanno affidato negli ultimi anni la sperimentazione di ben 10mila campioni vegetali in Costarica, all’Istituto Nacional de la Biodiversidad di San José. Per il colosso del New Jersey si tratta di un contratto da oltre un milione di dollari, ma nelle complesse dinamiche che disciplinano la produzione e il lancio di ogni nuovo medicinale sul mercato, l’intermediazione consentirà alla company statunitense un risparmio davvero ragguardevole, visto che, normalmente, la fase di ricerca e di test farmacologico di ogni singolo preparato costa almeno 3milioni di dollari.

Il caso sudafricano
Il casus belli sul quale ci soffermiamo stavolta è legato alle denunce di appropriazione indebita di copyright inoltrate nei confronti del colosso farmaceutico tedesco Willmar Schwabe, reo di aver brevettato l’uso del Pelargonium sidoides, utilizzato da sempre dall’etnomedicina delle popolazioni aborigene del Lesotho e del Sudafrica. È stata proprio la comunità sudafricana della cittadina di Alice (non lontano da Port Elizabeth) che ha contestato all’industria farmaceutica di Karlsruhe (Germania) i brevetti relativi all’utilizzo di due specie indigene di gerani ascritti tra l’altro tra le specie protette e in via di estinzione. La controversia è stata presentata all’Ufficio europeo dei brevetti di Monaco di Baviera dalla comunità della città sudafricana e dal Centro africano per la sicurezza biologica (Acb), con la collaborazione di due associazioni non governative tedesche e una svizzera. I brevetti contestati riguardano il metodo d’estrazione del principio attivo dei fiori e il diritto esclusivo di utilizzare il medicamento per trattare l’Aids. Gli estratti delle radici di pelargonium sidoides e di pelargonium reniforme sono infatti usati da millenni nella medicina tradizionale, nonché scambiati liberamente tra le popolazioni Zulu, Basuto e Xhosa per curare le infezioni respiratorie e altre malattie, tra cui anche la tubercolosi. Le proprietà di questi gerani sono conosciute in Occidente da un centinaio di anni; ma dal 2007, la Schwabe ha brevettato e messo in commercio in Svizzera e in Germania uno sciroppo chiamato Umckaloabo (nome zulu del geranio) per il trattamento delle affezioni respiratorie, introitando circa 30 milioni di euro.
Mariam Mayat, direttrice dell’Acb, ha detto che l’utilizzo industriale di queste radici rappresenta una chiara violazione della Convenzione per la salvaguardia della biodiversità: «Non solo hanno usato la conoscenza tradizionale zulu senza aver chiesto il loro consenso – ha precisato Mayat – ma senza neanche farli partecipare ai profitti: è evidente biopirateria».

Una disputa infinita. Vent’anni di controversie Nord-Sud
Intanto, nel maggio 2008, superata l’indifferenza della comunità internazionale, il tema della biopirateria è stato ufficialmente affrontato a Bonn, proprio alla IX Conferenza della Convenzione sulla biodiversità dell’ONU, come una delle più pericolose dispute ambientali su cui fare chiarezza. E i casi da cui avviare una riflessione globale e responsabile di certo non mancavano.
Un precedente famoso è stato il caso dell’albero del neem (Azadirachta indica) le cui proprietà mediche (soprattutto antifungine) erano riconosciute da millenni in India. Una ditta farmaceutica agroalimentare statunitense, la W. R. Grace, insieme al governo americano ha ottenuto un brevetto sulla la tecnica di estrazione, limitando così gli usi futuri di questo albero sacro. Dopo dieci anni di battaglie legali il brevetto numero 436257e, in un primo tempo accettato, fu revocato. In risposta al rischio di biopirateria, l’India ha iniziato così a tradurre e pubblicare in forma elettronica gli antichi manoscritti che descrivono i rimedi tradizionali indiani. I testi, tradotti dal sanscrito, urdu, persiano ed arabo, saranno resi disponibili agli uffici brevetti in varie lingue. Lo scopo è proteggere, in corposi records bibliografici digitali, gran parte del patrimonio locale dalle rapaci compagnie occidentali. Il progetto è stato criticato aspramente da Mark Grayson, portavoce della Pharmaceutical Researchers and Manufacturers of America, che ha definito il progetto governativo di Nuova Delhi come “una soluzione forzata alla ricerca di un problema inesistente”. Ma a quindici anni di distanza, oggi come allora, l’esigenza è di non ignorare le diverse forme di neocolonialismo ambientale e di impedire che col pretesto della sperimentazione scientifica si realizzino appropriazioni indebite e monopoli a vantaggio di pochi.

Massimo Ruggero

Massimo Ruggero




Quando le donne bevono

Viaggio nel mondo dell’alcol (seconda puntata)

 In Italia, ci sono 13mila alcoliste e 24mila donne ricoverate ogni anno a causa dell’alcol.
Tra le consumatrici ci sono ragazze sempre più giovani (l’alcol contro l’inibizione), ma anche donne anziane (l’alcol contro la solitudine).  Occorrerebbe sapere che l’organismo femminile smaltisce l’alcol con maggiore difficoltà rispetto a quello maschile ed è quindi più soggetto a patologie o problematiche alcol-correlate.E per una donna in gravidanza i rischi sono ancora maggiori.

Tra i miei ricordi di bambina c’è quello di una donna del mio stesso quartiere, a Torino, che per la sua dedizione all’alcol veniva soprannominata, senza troppi giri di parole, la ciuca, termine che in dialetto piemontese significa «ubriaca». Si trattava peraltro di una povera donna, che cercava di dimenticare con l’alcol le proprie peripezie familiari. Tuttavia quell’immagine di ebbrezza, che spesso si portava addosso, era servita a stigmatizzarla impietosamente. A quei tempi, le donne che si ubriacavano erano messe all’indice dalla società. A dispetto di questo modo di pensare, nel giro di qualche decennio, l’immagine della donna che beve alcolici è stata non solo accettata dall’opinione pubblica, ma addirittura vista come uno dei segni dell’emancipazione femminile, insieme all’abitudine di fumare.

IN CONTINUO AUMENTO LE DONNE BEVITRICI
Del resto, a rafforzare quest’immagine hanno contribuito sia il cinema, che la televisione. Come non ricordare la fortunatissima serie televisiva Dallas degli anni ‘80, in cui i protagonisti, uomini e donne, non perdevano mai l’occasione di bere un drink? L’abitudine di bere alcolici, nel corso degli ultimi anni, si è talmente diffusa tra le donne, che, secondo l’Oms, l’Europa presenta il più alto numero di bevitrici al mondo. Come già visto nella precedente puntata (MC novembre 2011), il vecchio continente detiene il primato mondiale del consumo di bevande alcoliche. Per quanto riguarda l’Italia, secondo le indagini annuali  multiscopo dell’Istat relative a Stili di vita e condizioni di salute, attualmente il 67% delle donne consuma bevande alcoliche, contro il 43% degli anni ’80 (la percentuale maschile è dell’86,6%). Ovviamente l’incremento del numero di consumatrici di alcolici ha portato ad un aumento delle patologie e delle problematiche alcol-correlate tra le donne. Si stima, infatti, che il 9,4% degli uomini ed il 19,2% delle donne ecceda le quantità di alcol considerate a minore rischio, rappresentando quindi la porzione di individui potenzialmente a rischio. Nel conteggio sono peraltro considerati anche gli alcol-dipendenti, che comunque vi contribuiscono in maniera molto limitata, cioè 0,9% gli uomini e 0,4% le donne. La percentuale dei consumatori a rischio riceve un grosso contributo dal numero delle consumatrici, che presentano una probabilità  di ammalarsi doppia rispetto a quella dei soggetti di sesso maschile. Per quanto riguarda la distribuzione dei consumatori a maggiore rischio di patologie alcol-correlate, per i differenti target di popolazione, si è visto che l’incidenza del rischio aumenta con l’età in entrambi i sessi e presenta i valori più elevati nella fascia tra i 65-74 anni, a cui fanno seguito i valori registrati per l’intervallo tra i 45-64 anni. Per le donne, in Italia, il picco di consumo problematico di alcol si colloca attualmente tra i 35 ed i 44 anni. Del resto è questa la fascia d’età, che può presentarsi come la più critica per il sesso femminile poiché possono esserci timori per la perdita della giovinezza, oppure per la riduzione della fertilità e della capacità procreativa. Può essere presente un senso di frustrazione per la mancata realizzazione di progetti giovanili oppure la vita sentimentale può risultare insoddisfacente, o addirittura distrutta dalla rottura di un legame importante. In questi casi, il ricorso all’alcol rappresenta un modo per sfuggire, sia pure temporaneamente, alla propria realtà. Tutte queste sono forse le motivazioni più classiche, che spingono le donne a bere. Certamente non sono le sole. In particolare, per quanto riguarda le bevitrici adolescenti, che bevono prevalentemente birra e superalcolici fuori dal contesto domestico e che concentrano il consumo o l’abuso soprattutto  nei fine settimana, il ricorso all’alcol ha una funzione disinibente che permette una maggiore disinvoltura nelle relazioni. In questo caso l’alcol viene visto come mezzo per farsi accettare dal gruppo dei coetanei, anch’essi dediti all’alcol. Da qui il sempre più elevato numero di casi di binge drinking tra gli adolescenti. In particolare, per quanto riguarda le ragazze, si è rilevato che, in Italia, il 10% si ubriaca almeno una volta all’anno, consumando più di 5 bevande alcoliche in un’unica occasione (binge drinking), mentre per i ragazzi la percentuale sale al 22,1%.

PERCHé ALLA DONNA FA PIù MALE
La conseguenza dell’aumento del consumo di bevande alcoliche tra le donne è rappresentata dalla diffusione delle patologie alcol-correlate nel genere femminile. Attualmente sono circa 13.000 le alcoliste in trattamento, presso le strutture pubbliche del Servizio sanitario nazionale, mentre, secondo i dati più recenti, sono circa 24.000 all’anno i ricoveri di donne negli ospedali italiani, per cause attribuibili al consumo di alcolici.
Ma perché le donne sono più vulnerabili all’alcol rispetto agli uomini? Assumendo medesime quantità di alcol, a parità di condizioni, la concentrazione di alcol nel sangue (Bac, Blood alcohol concentration: il termine scientifico dell’alcolemia) è più elevata nelle donne che negli uomini. Il motivo è che l’organismo femminile ha in primo luogo una capacità dimezzata di smaltire l’alcol ingerito, perché la dotazione dell’ADH (alcoldeidrogenasi, un enzima epatico) è la metà di quello maschile ed in secondo luogo la donna ha una minore massa corporea e una quantità inferiore di liquidi totali con una conseguente minore capacità di diluizione dell’alcol. Questo vuole dire che le donne raggiungono l’intossicazione acuta da alcol, cioè lo stato di ebbrezza, assumendone quantità inferiori rispetto a quelle necessarie per raggiungere lo stesso stato nell’uomo.

I PERICOLI  DURANTE LA GRAVIDANZA
In Italia, le linee guida nutrizionali raccomandano che una donna adulta ed in buona salute non superi mai la quantità giornaliera di 1 o al massimo 2 bicchieri di una qualsiasi bevanda alcolica. Nel caso che il rischio possa estendersi a terzi, come durante la gravidanza, è da evitare anche il consumo moderato di alcol. Non dimentichiamo che un bicchiere contiene circa 12 g di alcol e che richiede, più o meno, un paio d’ore per essere completamente smaltito.
Qual è il motivo, per cui le linee guida nutrizionali vietano di assumere bevande alcoliche in gravidanza? Il motivo risiede nel potere teratogeno dell’alcol, cioè nella sua capacità di causare malformazioni fetali. Organi vitali come il cuore, il cervello, lo scheletro, per citae alcuni, si formano molto precocemente durante la gestazione, cioè tra i 10-15 giorni dopo il concepimento, quindi è fondamentale smettere di bere già quando si sta programmando la gravidanza, senza attendere che sia iniziata. Le donne che bevono abitualmente (mediamente 3 o più bicchieri al giorno) presentano un’aumentata frequenza di aborti, soprattutto nel terzo trimestre di gravidanza. Questo fatto probabilmente è dovuto all’azione tossica esercitata dall’alcol sul feto, anche nel caso dell’assunzione di dosi modeste (come 2 bicchieri nella gravidanza avanzata). L’alcol è in grado di attraversare la placenta e di raggiungere il feto, che non possiede enzimi capaci di metabolizzarlo, per cui ne subisce gli effetti dannosi a livello cerebrale e dei tessuti in formazione. Dato il suo potere teratogeno, l’alcol interferisce sui normali processi di sviluppo fisico, provocando malformazioni, e sullo sviluppo intellettivo, causando ritardo mentale, in maniera più o meno grave, a seconda delle quantità assunte dalla gestante. Inoltre elevate quantità di alcol assunte durante la gravidanza determinano carenze vitaminiche, con gravi ripercussioni sullo sviluppo del nascituro. Il primo ed il terzo trimestre di gravidanza sono i periodi più rischiosi, per quanto riguarda i danni provocati dall’alcol sul feto. Il bambino, nato spesso prematuro, può presentare condizioni generali variabili: dalla presenza di sintomi o disturbi definiti alcolici, fino ad una conclamata «sindrome feto-alcolica» (Fas) irreversibile e progressiva. Quest’ultima è caratterizzata dalla presenza nel bambino sia di sintomi fisici, che di disturbi neurologici e neuropsicologici. I sintomi fisici si manifestano soprattutto a carico della testa, del volto, dello scheletro e del cuore. La testa può presentare microcefalia; nel volto possono essere presenti pieghe agli angoli degli occhi, fessure oculari strette, strabismo, naso corto e piatto, labbro superiore assottigliato e vermiglio, solco naso-labiale allungato ed appiattito, fronte stretta ed allungata. Può essere presente ipoplasia del nervo ottico. Per quanto riguarda lo scheletro, si manifesta un ritardo marcato nell’età ossea media, che si traduce in una statura inferiore alla media, in un ridotto peso corporeo ed in una ridotta circonferenza cranica. Spesso sono presenti malformazioni cardiache, soprattutto a carico del setto ventricolare. Le disfunzioni neurologiche e neuropsicologiche presenti nella «sindrome feto-alcolica» sono rappresentate da disturbi del sonno, riflesso della suzione ridotto, ritardo dello sviluppo mentale, deficit intellettivo, disturbi dell’attenzione e della memoria, disturbi della motricità fine, iperattività ed impulsività, disturbi dell’eloquio e dell’udito. Non tutte le gestanti con un forte consumo di alcol sono destinate a partorire un neonato affetto da Fas. La percentuale di neonati con Fas varia tra il 30-40% delle gestanti forti bevitrici. I fattori di rischio, che possono influenzare la comparsa o meno della Fas, sono molteplici: la quantità di alcol consumato durante la gravidanza, la tipologia del consumo di alcol (cronico od occasionale), l’intensità dell’esposizione, il periodo dell’esposizione, l’interazione con altre sostanze (tabacco, droghe, medicinali), fattori alimentari, predisposizione genetica, condizioni di vita, ceto sociale, livello d’istruzione e stato civile della madre. Le donne fertili e sessualmente attive, che consumano più di 7 bevande alcoliche alla settimana, in caso di gravidanza rischiano di avere un figlio con deficit cognitivi, intellettivi e psicosociali. E la probabilità di danneggiare il feto aumenta all’aumentare dell’alcol assunto. I bambini, la cui madre ha consumato almeno 80 g di alcol puro al giorno, sono ad alto rischio. Tuttavia, anche il consumo di alcolici abbondante, ma sporadico può rappresentare un serio pericolo per il feto, dato che l’alcol può essere dannoso in ogni momento della gravidanza. Certamente i difetti congeniti più gravi si manifestano a seguito dell’esposizione all’alcol durante il primo trimestre di gravidanza, cioè nel periodo della formazione degli organi vitali. È stato rilevato che più di 12 drinks alla settimana aumentano il rischio di una nascita prematura e sottopeso. I fenomeni appena descritti possono riguardare tanto i figli di donne bevitrici in gravidanza, quanto quelli di donne, che si sono astenute dal bere durante la gestazione, ma che prima bevevano. Inoltre è stato dimostrato che i figli di donne, che hanno continuato a bere alcolici in gravidanza presentano una maggiore frequenza, in età adulta, di problematiche alcol-correlate ed una più frequente predisposizione al deficit cognitivo consistente in una memoria ridotta. Recentemente è stato condotto uno studio, da parte dell’Istituto superiore di sanità, per rilevare la percentuale dei neonati esposti all’azione dell’alcol, durante la gestazione. Per ottenere questo dato, è stata valutata la presenza nel meconio, cioè nelle feci delle prime 48 ore di vita del neonato, di etilglucuronide, un marcatore dell’esposizione all’alcol durante la vita fetale. Lo studio è stato effettuato su 607 neonati ed è emerso che il 7,6% di loro presentava un’esposizione all’alcol. Attualmente sono pochissimi gli studi di questo tipo. Uno di essi, condotto a Barcellona, ha rivelato un’esposizione all’alcol nel 45% dei neonati. È evidente che questo problema è stato finora molto sottovalutato.
Per quanto riguarda la sfera riproduttiva femminile, l’alcol può essere responsabile della minore produzione di ormoni femminili e di insufficienza ovarica, che si manifesta con irregolarità mestruali (fino alla scomparsa del ciclo), presenza di cicli anovulatori ed infertilità.
L’abuso di alcolici tra le donne le rende, tra l’altro, maggiormente a rischio di subire violenze sessuali, poiché in stato di ebbrezza risultano più indifese.

ANZIANI: ALCOL, MEDICINE  E SOLITUDINE
Un altro tipo di consumo problematico dell’alcol è quello riguardante le persone anziane e in particolare le donne anziane che in gioventù non hanno ricevuto alcuna educazione al consumo di alcolici. Queste persone spesso bevono in un contesto domestico, mantenendo nascosta l’abitudine per timore di riprovazione da parte dei familiari, per cui le problematiche alcol-correlate sono riscontrate tardivamente. Nelle bevitrici anziane sono spesso frequenti episodi di compromissione della sfera neurologica e psichica, come difficoltà motorie, disturbi della memoria e comportamenti insoliti. Spesso gli anziani assumono farmaci di vario tipo e le donne, mediamente, consumano quantità di farmaci maggiori degli uomini tra prodotti ormonali, antidolorifici, prodotti per ridurre i grassi nel sangue, sedativi, prodotti contro l’insonnia e la depressione. L’associazione tra farmaci ed alcolici dovrebbe essere assolutamente bandita, ma spesso le persone anziane, specialmente se sole, non ne tengono conto o probabilmente non lo sanno, rischiando così l’effetto di pericolose interazioni.
Da quanto appena descritto, appare evidente la necessità di affrontare al più presto a livello educativo il problema dell’alcolismo femminile (e dell’alcolismo in generale, data la sua sempre maggiore diffusione tra i giovani), viste le gravi implicazioni a livello sociale (aumento dei costi sanitari, cause legali, assenze dal lavoro per malattia) e considerato il ruolo occupato dalla donna sia nell’ambito familiare, che sociale.
Si dovrebbe pensare a lezioni mirate sia in ambito scolastico che in ambito sanitario (ad esempio, con pubblicazioni prodotte dal ministero della Salute e rese facilmente reperibili presso il proprio medico curante o presso le farmacie).
Oltretutto non dobbiamo dimenticare che gli effetti dell’alcol, a differenza di quelli del fumo, si manifestano subito, non dopo anni. Quindi, questa estensione dell’abitudine di consumare alcolici rappresenta un serio pericolo sociale, purtroppo già attuale. Una donna bevitrice può generare figli malati, ma quand’anche i figli nascessero sani, che esempio potrebbero ricevere da genitori alcolisti?

Rosanna Novara Topino


Rosanna Novara Topino




Resistere per esistere

Dalle lettere di padre Beppe Svanera da Marialabaja

Padre Beppe continua a scrivere agli amici della vita forse un po’ «patealista» ma vera della missione di Marialabaja, tradizionale terra di rifugio di schiavi fuggitivi, ora minacciata dall’invasione delle monoculture per produrre bioenergia.

VIVERE COI MORTI
(2 Novembre 2008)
Non mi era mai successo di scrivere agli amici nelle giornate dedicate ai defunti, ma francamente mi sembra bello perché a queste altezze della vita sono molti di più gli amici morti che quelli vivi! Qui siamo ancora vivi e contenti e felici di camminare con il nostro popolo afro-contadino che vive con intensità queste giornate. Noicorriamo da un cimitero all’altro per celebrare la messa, ricordare i defunti e offrire una catechesi di vita e risurrezione. Qui la morte è ancora centrale e marca profondamente la famiglia e la società. Un anziano in punto di morte è accompagnato costantemente da famigliari e amici che aspettano con rassegnazione la morte che arriverà quando «Dio si ricorda di lui», mentre il malato spesso ripete che ormai «vuole riposare». Questo non succede con persone giovani perché, cito un antropologo che ha vissuto qui per anni, «la morte di un giovane in piena vitalità, che non ha potuto compiere la sua finalità generativa, è assurda, non può venire da Dio» e, quindi, deve essere stata causata da qualche malefizio.
Sono molte le manifestazioni legate al culto dei morti, non sempre comprensibili per noi perché sono il risultato della tradizione africana profondamente influenzata e modificata dal cattolicesimo. Nelle nostre comunità il primo famigliare che si rende conto della morte di un congiunto lancia un grido e la notizia si sparge di strada in strada attraverso il pianto caratteristico delle donne. Mentre in casa, presso la parete di fronte alla porta principale le donne preparano l’altare che servirà da sfondo per le celebrazioni religiose, gli uomini sbrigano le pratiche burocratiche e portano la cassa dove è sistemata la salma lavata, ordinata e vestita accuratamente. Quando poi il defunto viene portato in chiesa, fa una certa impressione la preoccupazione quasi ossessiva affinché i piedi siano sempre rivolti in avanti, in chiesa verso l’altare e, uscendo, verso il cimitero, per paura che lo spirito del morto, ritualmente maltrattato, si vendichi poi sui presenti.
Il rituale più caratteristico è il velorio: nove notti di veglia per il commiato definitivo del defunto. Due ne sono i centri rituali: l’altare per la preghiera e il cortile per i giochi. I riti dell’altare, guidati dal rezandero, sono rivolti direttamente allo spirito del morto considerato immortale, ma anche potenzialmente pericoloso, e culminano con la partenza definitiva dello spirito all’aurora dell’ultima notte dopo una celebrazione carica di paure ancestrali. I giochi nel cortile della casa durante la novena servono per intrattenere i famigliari e amici che si ritrovano magari dopo molto tempo e hanno tanto da raccontare. Lì fanno esperienza di «famiglia» e ritrovano la forza per continuare superando le difficoltà e la stessa morte. Un miscuglio di tradizione, solidarietà e fede che assicura la continuità della vita. Lo spirito del defunto si allontana dopo il velorio ma il suo ricordo rimane e si rinnova soprattutto con la celebrazione della messa del mese, dei sei mesi e dell’anno.

Ci sarà un futuro?
(Natale 2008)
Abbiamo terminato anche quest’anno l’anno scolastico degli asili, iniziativa nata otto anni fa con il P. Salvatore Mura che dal 2006 è di nuovo con noi. Abbiamo avuto la soddisfazione di chiudere l’anno con più di trecento bambini dai due anni e mezzo ai sei, con una novità molto importante e significativa: la gestione 2008 è stata totalmente a carico della Fondazione A partir de los niños (a partire dai bambini) aiutata da alcune persone del paese che hanno dimostrato grande interesse e capacità. Naturalmente noi siamo stati al loro fianco con il consiglio, l’animazione e l’appoggio economico assicurato da tanti amici italiani. Una bella iniziativa da continuare e sviluppare sempre più.
Ci preoccupa comunque il futuro. Ci sarà un futuro qui per i nostri bimbi? La nostra è una terra meravigliosa dove la gente vive di agricoltura, ma la proprietà della terra è sempre stata un problema, come nel resto della Colombia. Alcuni grandi proprietari si sono accaparrati le terre migliori, mentre contadini dispongono solo di piccoli appezzamenti su cui vivere in povertà dignitosa. Anche i braccianti a giornata hanno potuto sopravvivere con il misero salario e l’aiuto di familiari o amici che prestavano o affittavano a basso prezzo un pezzo di terra dove seminare. Molte persone, soprattutto donne sole con figli a carico, sono riuscite a difendersi con il tongueo o la «spigolatura» seguendo pazientemente i raccoglitori di riso. In questa terra c’è sempre stata povertà, mai la fame. Adesso per molti è fame!
Il sistema tradizionale solidale e autosufficiente è saltato a causa delle nuove politiche del governo che favoriscono solamente l’agroindustria che qui da noi si concentra sulla coltivazione della palma da olio africana per produrre biocombustibili. Abbiamo realizzato due «forum» per studiare il problema e creare coscienza, ma la politica agraria del governo non cambia e diventa sempre più aggressiva. Nel nostro comune si parlava inizialmente di cinquemila ettari, adesso si prospettano diecimila e addirittura diciassettemila destinati a questa coltivazione, che favorisce certamente alcune persone, ma obbliga moltissime famiglie ad emigrare. Di fatto la coltivazione della palma ha una serie di conseguenze nefaste. La monocoltura è sempre disastrosa per l’ecosistema. Le aree destinate a palma non permettono nessun’altra coltivazione. Zero cibo! La palma produce per circa venticinque anni e il terreno rimane poi infecondo per diversi anni. La manodopera viene drasticamente ridotta e il contadino perde la sua identità e i mezzi di sussistenza.
Noi missionari viviamo ormai con angustia questo problema anche se la maggioranza della gente sembra non accorgersi della gravità della situazione. D’altra parte non si vedono soluzioni. La politica del governo è questa e nuotare controcorrente non è facile. La nostra gente è pacifica e si dimostra addirittura indifferente e passiva di fronte a qualsiasi situazione. Cultura africana? Conseguenza della schiavitù? Rifiuto al cambiamento? Paura dopo gli ultimi dieci anni di violenza che hanno segnato la vita della nostra gente con tanti morti e migliaia di sfollati? O un forse grande amore per la vita che ha comunque sviluppato mille forme di resistenza per poter sopravvivere nonostante tutto? C’è «qualcosa» di incomprensibile per noi e sempre da rispettare, studiare e approfondire… Quello che appare e preoccupa è comunque il disinteresse di fronte al problema, la mancanza di organizzazione e solidarietà per affrontarlo, la passività cronica di fronte a mille ingiustizie.
Forse la nostra gente ha scelto di continuare ad amare la vita e di resistere con la musica e la danza e per questo continua a ballare nonostante tutto. In questi giorni si è svolto ancora una volta il Festival nazionale del Bullerengue, il giornioso ballo tipico della nostra regione. Ci salveremo anche questa volta? Speriamo! Intanto tentiamo di accompagnare con alcune piccole iniziative il nostro popolo annunciando il Signore Gesù che nasce nuovamente per noi e nasce in ogni bimbo per assicurarci che «Dio non si è ancora stancato degli uomini».

Dopo la schiavitù…
(Pasqua 2009)
Anche il nostro popolo afrocolombiano aspetta la sua Pasqua dopo lunga e penosa schiavitù, iniziata tanti anni fa quando cristiani senza scrupoli hanno deciso di utilizzare milioni di africani per i loro sporchi interessi economici e li hanno violentemente strappati dalla loro terra. Milioni di persone sono state stipate, peggio delle bestie, nelle navi europee e hanno solcato l’Oceano Atlantico nella più completa disperazione. Tanti, troppi sono morti durante il lungo viaggio, i più fortunati sono giunti a destinazione per essere venduti come schiavi per i lavori più duri e umilianti. Mescolati tra loro per cancellare ogni contatto con i familiari e il gruppo di provenienza, hanno perso lingua, cultura, identità e sono diventati macchine anonime per il profitto dei dominatori. Gli schiavizzatori non hanno potuto comunque distruggere la vitalità di queto nuovo popolo che ha trovato la forza di ribellarsi e continuare a credere nella vita e nella possibilità di un futuro per i suoi figli in questa nuova terra.
Il fenomeno dei «Palenques», i tipici villaggi fortificati costruiti da schiavi fuggiti dalle grandi fazendas e dalle miniere, è stato la risposta a questa domanda di libertà che può essere garantita solamente da una terra propria da coltivare per sopravvivere e sviluppare nuove relazioni e una nuova cultura. Ma anche quelliche non ha potuto fuggire dalla schiavitù hanno escogitato mille forme di resistenza con il canto, la danza, i racconti e le tradizioni trasmesse, e soprattutto con le donne che hanno continuato a mettere al mondo figli e ancora figli. C’é chi afferma che il futuro non è di chi attacca ma di chi resiste, e gli afro, la nostra gente, continua a resistere e a mettere al mondo figli, grave minaccia per i faraoni di tuo.
La storia afro in Colombia e in America è un’epopea di resistenza: prima agli spagnoli e poi ai loro discendenti. Nonostante abbiano costruito, con il lavoro nelle grandi fattorie e nelle miniere, la ricchezza di questo paese e siano stati protagonisti nella lotta per l’indipendenza, gli afro non hanno mai partecipato alla divisione delle terre con i generali della repubblica, dovendosi così accontentare di dissodare terre incolte e malsane. Nel 1821 hanno avuto un minimo riconoscimento con la «libertad de vientre» che dava la possibilità ai nuovi nati di non essere considerati schiavi. Il decreto di abolizione della schiavitù, firmato il 21 maggio 1851 ed entrato in vigore il 2 gennaio dell’anno seguente, non ha modificato comunque la situazione in modo sostanziale, perché sono poi nate inedite forme di schiavitù e di emarginazione.
Tra il 1960 e 1970 nuovi venti sono soffiati a livello internazionale e anche nel popolo afrocolombiano sono sorti movimenti culturali che lo hanno aiutato a prendere coscienza della propria storia e identità da assumere con umiltà, ma anche con orgoglio. Sono sorte quindi organizzazioni popolari, soprattutto sulla costa pacifica, che hanno lottato per il riconoscimento degli afro come gruppo etnico e della proprietà collettiva della terra. Solo la nuova Costituzione del 1991 ha offerto i primi veri strumenti giuridici per applicare i diritti politici del popolo negro, come la possibilità di avere autorità proprie attraverso i «Consigli comunitari», di ottenere il titolo di proprietà collettiva della terra e di partecipare alla vita pubblica con «rappresentanti propri». Resta da vedere fino a che punto questa legge si stia realizzando nella pratica, ma non c’è dubbio che per il popolo afrocolombiano la nuova Costituzione ha aperto nuovi orizzonti in questo grande paese «multietnico e multiculturale».
Come missionari ci sentiamo identificati con il nostro popolo in questo lungo e faticoso esodo dalla schiavitù alla libertà nel nome del Signore Gesù morto e risorto perché tutti, anche gli afrocolombiani, abbiano vita e vita in abbondanza. È un cammino entusiasmante, lungo e faticoso, senza pretese di grandi risultati. Come affermava una suora austriaca che ha lavorato da queste parti per tanti anni: «Seminare, seminare, seminare e… seminarsi». Ricordando il Maestro: «Se il chicco di frumento non muore…».

Speranze e progetti
(NATALE 2009)
Come discepoli e missionari proponiamo Gesù di Nazareth, nel rispetto della religiosità del nostro popolo, tentando insieme alcune risposte concrete ai bisogni spesso elementari del territorio senza la pretesa di risolvere problemi che esigerebbero prima di tutto un cambiamento di mentalità, mentre invece si continua a sopportare pazientemente i governanti di tuo che fanno solo i propri interessi.
Questa situazione ha portato la missione a proporre e realizzare alcune iniziative di tipo sociale che voglio ricordare perché sono diventate una realtà solamente grazie a tanti amici che ci hanno sostenuto.
1. La prima iniziativa è stata quella degli asili di cui ho già ampiamente scritto.
2. Con i giovani, dopo aver ristrutturato alcuni saloni vicino alla chiesa parrocchiale, stiamo adeguando due aree urbane (Alto Prado e Montecarlo) per la formazione, lo sport e la ricreazione.
3. Con i contadini, gli sfollati e la popolazione in generale abbiamo dato vita, fuori paese, al «Centro di formazione la Consolata» dove realizziamo continui incontri di formazione sui più diversi temi per creare coscienza, partecipazione, organizzazione e sviluppo.
4. Attenzione particolare è stata data al fenomeno degli sfollati (desplazados) a causa della violenza della guerriglia. Li abbiamo seguiti in tutta la trafila burocratica per ottenere dei terreni su cui ricostruire le loro case e li abbiamo aiutati nell’autocostruzione di ottantadue mini case in muratura.
5. Nella Comunità di Nueva Esperanza è nato il «Centro Afro-Allamano» per favorire maggiore aggregazione delle comunità contadine. In questo spazio realizziamo attività ricreative e formative con bambini, giovani, adulti e donne in particolare, approfittando di ampi spazi ben distribuiti con la possibilità di coltivazioni di ogni tipo e allevamento di animali da cortile, pesci, maiali…
6. Ultima nata, a cinquecento metri dal Centro Afro-Allamano, è la fattoria «Gente del Campo»: sette ettari che vogliono essere modello di agricoltura e allevamento soprattutto per i giovani e risorsa per finanziare le diverse iniziative della parrocchia in vista di una progressiva e completa autonomia dei progetti.
Rispetto dell’ambiente, sicurezza e sovranità alimentare sono per noi valori inalienabili anche se purtroppo è sempre più difficile resistere all’aggressione delle coltivazioni estensive di palma africana per produrre biodiesel. Con piccole iniziative da qualche tempo vogliamo inoltre non solamente «educare» ma anche «appoggiare» concretamente i nostri contadini che ancora producono cibo.
Sogniamo adesso di acquistare uno o più trattori per sostenere i contadini che ancora producono cibo e non possono permettersi di far arare i loro campi perché i costi sono impossibili, e trasportare poi i loro prodotti fino ai mercati più vicini. Con i trattori potremo anche trasportare gruppi di bambini e giovani ai nostri centri per le attività ricreative e formative nei fine settimana.
Per alcuni è molto quello che tentiamo di fare, per altri è troppo poco; altri invece non sono per niente d’accordo e parlano di «missione superata», «colonialismo», «eurocentrismo» e prospettano «missione nuova», «nuovi aeropaghi», «missione virtuale»…
La verità è che noi ci sentiamo bene, contenti e felici con la nostra gente condividendo timori e speranze, facendo quel poco che si può e senza rumore, aspettando con estrema serenità, come un dono, il Regno di Dio che il Bimbo di Betlemme ha inaugurato e assicurato.

BIODIESEL PIGLIATUTTO
(Natale 2010)
Mi faccio vivo dopo tanto tempo al termine di un lungo e interminabile periodo di piogge. Da queste parti nessuno ricorda un «inverno» così lungo e intenso, anche se la temperatura si è sempre mantenuta attorno ai trenta gradi e non sono mancate mezze giornate splendide per mantenere la speranza di un tempo migliore. Dovremmo comunque essere usciti dal tunnel invernale e tra un po’ ci lamenteremo del caldo e della troppa polvere lungo le nostre strade sterrate, adesso quasi impraticabili.
C’è un altro tunnel comunque che si allunga sempre di più e di cui non vediamo per ora nessuna fine e che, anzi, sta diventando una vera ossessione: l’invasione della palma Visitando le comunità ogni giorno vedo crescere le coltivazioni della palma africana mentre diminuisce inesorabilmente il terreno destinato a produrre alimenti. Fino a quando? Difficile dirlo, perché il governo appoggia solo ed esclusivamente chi semina palma e i contadini che resistono sono emarginati ed abbandonati a se stessi. È una scelta «politica» con criteri esclusivamente capitalisti che sta portando a un autentico disastro ecologico e sociale. Tutto è iniziato circa trent’anni fa quando alcune persone hanno messo gli occhi su queste terre dove si stava tentando una timida riforma agraria da parte dello stato che aveva legalizzato l’occupazione da parte di senzaterra di alcuni latifondi del territorio e che aveva costruito delle dighe e una serie di canali per l’irrigazione. Ci voleva poco per capire che questo dava dei vantaggi straordinari: terra fertilissima con acqua e sole a volontà a due passi dal mare per esportare qualsiasi prodotto senza costi aggiuntivi.
L’unica difficoltà allo sfruttamento di queste terre era la presenza delle comunità afro discendenti dagli antichi schiavi che qui avevano organizzato dei centri di libertà e resistenza agli spagnoli (palenques) o che vivevano nei grandi latifondi di proprietà dei soliti signori locali. La riforma agraria diede la possibilità ai contadini di diventare proprietari, ma la grande maggioranza non era preparata e così molti hanno svenduto la terra o hanno accumulato debiti tali con le banche da essere stati obbligati a vendere.
A completare il quadro è scoppiata la violenza. Gruppi armati sono apparsi un po’ dovunque. Sulle montagne hanno preso forza i guerriglieri di sinistra. Nelle piane si sono organizzati i gruppi paramilitari di destra (finanziati dai grossi possidenti) che hanno compiuto stragi incredibili di civili per «togliere l’acqua al pesce» e isolare la guerriglia. E l’esercito… stava a guardare la gente che abbandonava la sua terra mentre cominciavano le prime coltivazioni di palma, considerata unica e magica «soluzione» di tutti i problemi. Il progetto continua ad espandersi e oggi puntano decisamente ai ventimila ettari, compromettendo seriamente la sicurezza alimentare degli abitanti del territorio che ancora una volta sembrano passivi.
Eppure qualcosa si è mosso. Due Forum organizzati dalla parrocchia, tre centri modello di coltivazioni e allevamenti e, soprattutto, un costante accompagnamento delle diverse organizzazioni popolari sembra stiano stimolando a far nascere qualcosa di diverso dopo trecento anni di schiavitù e duecento di indipendenza.
Noi missionari continuiamo a crederci, confortati da una minoranza sempre più numerosa di persone sfollate, povere in canna, emarginate da sempre, ma che sognano e lottano contro corrente di fronte a politiche sfrontate e a una mentalità generale cronicamente passiva e rassegnata.
In tutta la Colombia continua a piovere: centinaia di morti, frane e smottamenti dovunque, strade interrotte, inondazioni senza limiti, paesi interi portati via dalle acque torrenziali. Una vera calamità nazionale, riconosciuta anche dal governo centrale che si dichiara impotente di fronte alla tragedia. Noi ci consideriamo fortunati: solo due paesini della missione sono sott’acqua. La gente ha perso tutto, ma ha salvato la vita che in fin dei conti è l’unica cosa veramente importante. Come dice il salmo: «Il vivente, il vivente ti loda Signore». La nostra gente lo ripete sempre, come un ritornello, con la sicurezza assoluta che il Dio della vita non abbandona i suoi figli. E allora noi continuiamo a credere con loro che il tunnel della palma come quello dell’inverno avrà pur sempre uno sbocco finale radiante di luce.
(2a puntata – continua; la prima parte è apparsa su MC 2011/04 pp. 22-29)

Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Liberi sì, convertiti no

A colloquio con monsignor Henri Teissier

Nell’Algeria di oggi la libertà religiosa è una realtà. Ma non si può mostrare la propria fede troppo apertamente. La situazione di chi si è convertito al cristianesimo resta delicata. Alcune riflessioni dell’arcivescovo emerito di Algeri.

Monsignor Henri Teissier è arcivescovo emerito di Algeri. Nato a Lione (Francia) nel 1929 e ordinato prete nel 1955, il papa Paolo VI lo nomina vescovo di Oran nel 1972. Dal 1980 è arcivescovo coadiutore del Cardinal Duval ad Algeri e otto anni più tardi lo sostituisce. Monsignor Teissier vive gli anni duri del terrorismo islamico integralista in Algeria: 19 religiosi sono assassinati tra il ’94 e il ’96, tra cui il vescovo di Oran e i monaci di Tibhirine. Lui resta al suo posto, nonostante le minacce e le difficoltà. Si ritira per raggiunti limiti di età nel maggio del 2008, continuando a servire il suo popolo nella città di Tlemcen.
Lo abbiamo incontrato durante una sua breve visita in Italia.

Monsignor Teissier, ha conosciuto dei problemi di libertà religiosa in Algeria e come questo ha influenzato il suo essere pastore e vescovo?
«In Algeria c’è libertà religiosa per i cristiani che sono cristiani “di origine”. Per esempio adesso sono nella città di Tlemcen, nell’Ovest dell’Algeria. La comunità cristiana è composta quasi interamente da studenti africani venuti da 40 paesi diversi. All’università tutti i loro compagni sono musulmani. Quando arrivano gli stranieri i ragazzi algerini chiedono loro se sono musulmani e si stupiscono della risposta, ma poi la cosa diventa normale. Noi facciamo le celebrazioni, loro possono venire senza problemi. La libertà religiosa esiste ma ci sono difficoltà per i cristiani convertiti dall’Islam. Questo non è accettato nella società algerina dopo l’indipendenza, perché c’è l’idea che chi lascia l’Islam lascia la nazione, entrando in quella dei cristiani che hanno fatto la colonizzazione.
È successo che negli ultimi 15 anni si siano costituiti gruppi di evangelici. A differenza dei cattolici, per gli evangelici, fa parte della fedeltà a Cristo proclamare. Anche noi abbiamo dei convertiti, ma domandiamo loro di essere prudenti, di non avere problemi con la società. Gli evangelici sono algerini convertiti attraverso corsi di bibbia per corrispondenza, o trasmissioni radio e televisive da Cipro, Monte Carlo, Malaga. Poco per volta si è costituita una comunità cristiana algerina, con origini musulmane. Questo ha acceso un dibattito sulla stampa con posizioni diverse. La stampa di lingua francese, ricordava che la Costituzione algerina riconosce la libertà di coscienza. I giornali in lingua araba scrivevano: «L’Islam è la religione dello stato, questo ha la responsabilità di difendere l’Islam, non può lasciare la possibilità a questi gruppi di creare comunità …».
Pur non interpellati, noi abbiamo detto che una scelta religiosa viene dalla coscienza umana e che bisogna rispettarla, ma che si fa tenendo in conto la società in cui si vive, la famiglia.
Nel 1986 è stata fatta una legge contro il proselitismo con pena di reclusione in prigione. Ma di fatto non è mai stata applicata.
L’anno scorso, a febbraio 2010, il ministero degli Affari religiosi ha organizzato un incontro di due giorni sul tema del proselitismo. Penso fosse la prima volta, che in un paese arabo musulmano, si facesse una riflessione su questo.
In genere si dice che un musulmano non ha diritto di lasciare la sua religione, anzi, il diritto musulmano dice che chi lascia l’Islam deve essere ucciso.
Ma con le conversioni degli evangelici i dibattiti che si sono moltiplicati sulla stampa, la questione ha avuto uno spazio pubblico. Le conclusioni sono state: l’Islam è la religione dello stato e  non viene accettato il proselitismo organizzato, però la Costituzione riconosce la libertà di coscienza, se una persona fa una scelta, questa è personale, però l’importante che non si faccia propaganda.
Questa è la posizione dello stato, ma non è la posizione della società. Nelle famiglie è inconcepibile che un membro nato musulmano diventi cristiano. La conversione è più accettata dalle famiglie berbere, piuttosto che da quelle arabe, specialmente della Kabilia (Nord-Est) dove la popolazione non ha cultura araba. I kabili cercano le origini della nazione prima dell’Islam, sostengono: “Noi prima dell’Islam eravamo cristiani, eravamo ebrei, di religioni diverse, allora anche l’Isalm è venuto da noi in una forma di conquista”. In Kabilia si può trovare una famiglia che accetti la conversione di uno dei suoi membri. I Kabili sono il 10% della popolazione, poi c’è una altro 10% berberi, ma meno aperti dei primi. L’80% sono arabi musulmani e tra loro è più difficile la conversione. Gli ebrei sono andati via tutti: erano in Algeria prima dell’Islam, da venti secoli.

Oggi sarebbe possibile come missionari, andare in Algeria?
«Questo è il problema nato dopo lo sviluppo delle comunità di evangelici. Lo stato ha capito che c’era il rischio di aumento delle conversioni, allora ha chiuso l’ingresso ai missionari. E questo non solo per gli evangelici, che sarebbero venuti a incontrare i convertiti, ma anche per la chiesa cattolica e le altre chiese protestanti. Così oggi abbiamo molte difficoltà per ottenere i visti. Se non riusciamo a rinnovare in modo regolare la presenza, poco a poco, ci si estingue. Per noi è un grande problema. È difficile soprattutto il primo ingresso per un missionario anche per congregazioni già presenti, poi il rinnovo si fa normalmente. È una situazione nuova da 4-5 anni».

La cosiddetta primavera araba, questa rivoluzione anche culturale che ha toccato il Nord Africa, con i giovani che fanno sentire di più la loro voce, dal punto di vista religioso può portare un rinnovamento o è solo una questione politica?
«In Algeria abbiamo lo stesso partito politico, il Fronte di liberazione nazionale (Fnl), al potere da 50 anni. I giovani vogliono cambiare il sistema e chiedono libertà, responsabilità, possibilità di associarsi, ecc. Ma fino ad adesso non hanno parlato di libertà religiosa. Non in questo contesto».

Oggi c’è fondamentalismo come ai tempi del massacro di Tibherine, c’è pericolo che possa rinascere la violenza in Algeria?
«Grazie a Dio no. La gente ha sofferto molto, si parla di 150.000 morti tra il 1992 e il 2000. Oggi quelli che vogliono utilizzare la violenza sono piccoli gruppi sparsi, che fanno degli attacchi contro l’esercito. Ma ciò che chiedevano i gruppi armati da oltre 20 anni, di fare una società più musulmana, è avvenuto. Questo sia sul piano del velo per le donne, che sul ritorno alla conoscenza dell’Islam, alla preghiera, ad un’attenzione alla formazione musulmana dei bambini. Possiamo dire che adesso la società algerina è più legata all’Islam che prima della crisi. Gli algerini non hanno accettato l’Islam della violenza, ma il ritorno a una vita sociale più musulmana. Attraverso questo sviluppo si può segnalare una corrente dei sufisti, più attaccati alla esperienza personale religiosa e spirituale e per questo si sono interessati al cristianesimo come esperienza spirituale dell’incontro con Dio. Sono più aperti a rispettare lo sviluppo spirituale delle persone. Non accettano le conversioni, però si interessano a sapere chi sono i cristiani, qual è il cammino per la preghiera, la bibbia e ci invitano a incontri».

Come movimenti dal basso, è possibile creare iniziative comuni su alcuni principi ci sia un inizio di dialogo che possa portare a una maggiore condivisone anche dei valori religiosi?
«Questo è il nostro scopo. Se noi siamo in Algeria è per cercare quelli che vogliono essere nostri amici e condividere con loro tutto quello che si può, sia il lavoro sociale, sia una ricerca culturale sul futuro della nazione, sia un’interazione sui temi della globalizzazione. Abbiamo amici e con questi facciamo tante cose. Attraverso l’amicizia c’è un rispetto che esiste per quelli che sono cristiani da sempre, anche se per i convertiti è diverso. Bisogna che lo sviluppo porti verso un cambio totale, verso l’accettazione della conversione. Se uno di origine musulmana è cristiano perché i suoi genitori erano cristiani, è più facile per lui avere un posto nella società. Il parroco nel duomo di Algeri è algerino e suoi nonni furono cristiani. La gente è orgogliosa di dire che la responsabilità della cattedrale è data a un algerino. C’è questa contraddizione.
Io ho avuto due vicari generali di origine algerina, totalmente accettati. Nei ministeri sono sempre andato con loro senza problema, ma non sarei mai andato in un inconntro ufficiale con un musulmano convertito. Sarebbe una mancanza di rispetto.

a cura di Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli