Resistere per esistere

Dalle lettere di padre Beppe Svanera da Marialabaja

Padre Beppe continua a scrivere agli amici della vita forse un po’ «patealista» ma vera della missione di Marialabaja, tradizionale terra di rifugio di schiavi fuggitivi, ora minacciata dall’invasione delle monoculture per produrre bioenergia.

VIVERE COI MORTI
(2 Novembre 2008)
Non mi era mai successo di scrivere agli amici nelle giornate dedicate ai defunti, ma francamente mi sembra bello perché a queste altezze della vita sono molti di più gli amici morti che quelli vivi! Qui siamo ancora vivi e contenti e felici di camminare con il nostro popolo afro-contadino che vive con intensità queste giornate. Noicorriamo da un cimitero all’altro per celebrare la messa, ricordare i defunti e offrire una catechesi di vita e risurrezione. Qui la morte è ancora centrale e marca profondamente la famiglia e la società. Un anziano in punto di morte è accompagnato costantemente da famigliari e amici che aspettano con rassegnazione la morte che arriverà quando «Dio si ricorda di lui», mentre il malato spesso ripete che ormai «vuole riposare». Questo non succede con persone giovani perché, cito un antropologo che ha vissuto qui per anni, «la morte di un giovane in piena vitalità, che non ha potuto compiere la sua finalità generativa, è assurda, non può venire da Dio» e, quindi, deve essere stata causata da qualche malefizio.
Sono molte le manifestazioni legate al culto dei morti, non sempre comprensibili per noi perché sono il risultato della tradizione africana profondamente influenzata e modificata dal cattolicesimo. Nelle nostre comunità il primo famigliare che si rende conto della morte di un congiunto lancia un grido e la notizia si sparge di strada in strada attraverso il pianto caratteristico delle donne. Mentre in casa, presso la parete di fronte alla porta principale le donne preparano l’altare che servirà da sfondo per le celebrazioni religiose, gli uomini sbrigano le pratiche burocratiche e portano la cassa dove è sistemata la salma lavata, ordinata e vestita accuratamente. Quando poi il defunto viene portato in chiesa, fa una certa impressione la preoccupazione quasi ossessiva affinché i piedi siano sempre rivolti in avanti, in chiesa verso l’altare e, uscendo, verso il cimitero, per paura che lo spirito del morto, ritualmente maltrattato, si vendichi poi sui presenti.
Il rituale più caratteristico è il velorio: nove notti di veglia per il commiato definitivo del defunto. Due ne sono i centri rituali: l’altare per la preghiera e il cortile per i giochi. I riti dell’altare, guidati dal rezandero, sono rivolti direttamente allo spirito del morto considerato immortale, ma anche potenzialmente pericoloso, e culminano con la partenza definitiva dello spirito all’aurora dell’ultima notte dopo una celebrazione carica di paure ancestrali. I giochi nel cortile della casa durante la novena servono per intrattenere i famigliari e amici che si ritrovano magari dopo molto tempo e hanno tanto da raccontare. Lì fanno esperienza di «famiglia» e ritrovano la forza per continuare superando le difficoltà e la stessa morte. Un miscuglio di tradizione, solidarietà e fede che assicura la continuità della vita. Lo spirito del defunto si allontana dopo il velorio ma il suo ricordo rimane e si rinnova soprattutto con la celebrazione della messa del mese, dei sei mesi e dell’anno.

Ci sarà un futuro?
(Natale 2008)
Abbiamo terminato anche quest’anno l’anno scolastico degli asili, iniziativa nata otto anni fa con il P. Salvatore Mura che dal 2006 è di nuovo con noi. Abbiamo avuto la soddisfazione di chiudere l’anno con più di trecento bambini dai due anni e mezzo ai sei, con una novità molto importante e significativa: la gestione 2008 è stata totalmente a carico della Fondazione A partir de los niños (a partire dai bambini) aiutata da alcune persone del paese che hanno dimostrato grande interesse e capacità. Naturalmente noi siamo stati al loro fianco con il consiglio, l’animazione e l’appoggio economico assicurato da tanti amici italiani. Una bella iniziativa da continuare e sviluppare sempre più.
Ci preoccupa comunque il futuro. Ci sarà un futuro qui per i nostri bimbi? La nostra è una terra meravigliosa dove la gente vive di agricoltura, ma la proprietà della terra è sempre stata un problema, come nel resto della Colombia. Alcuni grandi proprietari si sono accaparrati le terre migliori, mentre contadini dispongono solo di piccoli appezzamenti su cui vivere in povertà dignitosa. Anche i braccianti a giornata hanno potuto sopravvivere con il misero salario e l’aiuto di familiari o amici che prestavano o affittavano a basso prezzo un pezzo di terra dove seminare. Molte persone, soprattutto donne sole con figli a carico, sono riuscite a difendersi con il tongueo o la «spigolatura» seguendo pazientemente i raccoglitori di riso. In questa terra c’è sempre stata povertà, mai la fame. Adesso per molti è fame!
Il sistema tradizionale solidale e autosufficiente è saltato a causa delle nuove politiche del governo che favoriscono solamente l’agroindustria che qui da noi si concentra sulla coltivazione della palma da olio africana per produrre biocombustibili. Abbiamo realizzato due «forum» per studiare il problema e creare coscienza, ma la politica agraria del governo non cambia e diventa sempre più aggressiva. Nel nostro comune si parlava inizialmente di cinquemila ettari, adesso si prospettano diecimila e addirittura diciassettemila destinati a questa coltivazione, che favorisce certamente alcune persone, ma obbliga moltissime famiglie ad emigrare. Di fatto la coltivazione della palma ha una serie di conseguenze nefaste. La monocoltura è sempre disastrosa per l’ecosistema. Le aree destinate a palma non permettono nessun’altra coltivazione. Zero cibo! La palma produce per circa venticinque anni e il terreno rimane poi infecondo per diversi anni. La manodopera viene drasticamente ridotta e il contadino perde la sua identità e i mezzi di sussistenza.
Noi missionari viviamo ormai con angustia questo problema anche se la maggioranza della gente sembra non accorgersi della gravità della situazione. D’altra parte non si vedono soluzioni. La politica del governo è questa e nuotare controcorrente non è facile. La nostra gente è pacifica e si dimostra addirittura indifferente e passiva di fronte a qualsiasi situazione. Cultura africana? Conseguenza della schiavitù? Rifiuto al cambiamento? Paura dopo gli ultimi dieci anni di violenza che hanno segnato la vita della nostra gente con tanti morti e migliaia di sfollati? O un forse grande amore per la vita che ha comunque sviluppato mille forme di resistenza per poter sopravvivere nonostante tutto? C’è «qualcosa» di incomprensibile per noi e sempre da rispettare, studiare e approfondire… Quello che appare e preoccupa è comunque il disinteresse di fronte al problema, la mancanza di organizzazione e solidarietà per affrontarlo, la passività cronica di fronte a mille ingiustizie.
Forse la nostra gente ha scelto di continuare ad amare la vita e di resistere con la musica e la danza e per questo continua a ballare nonostante tutto. In questi giorni si è svolto ancora una volta il Festival nazionale del Bullerengue, il giornioso ballo tipico della nostra regione. Ci salveremo anche questa volta? Speriamo! Intanto tentiamo di accompagnare con alcune piccole iniziative il nostro popolo annunciando il Signore Gesù che nasce nuovamente per noi e nasce in ogni bimbo per assicurarci che «Dio non si è ancora stancato degli uomini».

Dopo la schiavitù…
(Pasqua 2009)
Anche il nostro popolo afrocolombiano aspetta la sua Pasqua dopo lunga e penosa schiavitù, iniziata tanti anni fa quando cristiani senza scrupoli hanno deciso di utilizzare milioni di africani per i loro sporchi interessi economici e li hanno violentemente strappati dalla loro terra. Milioni di persone sono state stipate, peggio delle bestie, nelle navi europee e hanno solcato l’Oceano Atlantico nella più completa disperazione. Tanti, troppi sono morti durante il lungo viaggio, i più fortunati sono giunti a destinazione per essere venduti come schiavi per i lavori più duri e umilianti. Mescolati tra loro per cancellare ogni contatto con i familiari e il gruppo di provenienza, hanno perso lingua, cultura, identità e sono diventati macchine anonime per il profitto dei dominatori. Gli schiavizzatori non hanno potuto comunque distruggere la vitalità di queto nuovo popolo che ha trovato la forza di ribellarsi e continuare a credere nella vita e nella possibilità di un futuro per i suoi figli in questa nuova terra.
Il fenomeno dei «Palenques», i tipici villaggi fortificati costruiti da schiavi fuggiti dalle grandi fazendas e dalle miniere, è stato la risposta a questa domanda di libertà che può essere garantita solamente da una terra propria da coltivare per sopravvivere e sviluppare nuove relazioni e una nuova cultura. Ma anche quelliche non ha potuto fuggire dalla schiavitù hanno escogitato mille forme di resistenza con il canto, la danza, i racconti e le tradizioni trasmesse, e soprattutto con le donne che hanno continuato a mettere al mondo figli e ancora figli. C’é chi afferma che il futuro non è di chi attacca ma di chi resiste, e gli afro, la nostra gente, continua a resistere e a mettere al mondo figli, grave minaccia per i faraoni di tuo.
La storia afro in Colombia e in America è un’epopea di resistenza: prima agli spagnoli e poi ai loro discendenti. Nonostante abbiano costruito, con il lavoro nelle grandi fattorie e nelle miniere, la ricchezza di questo paese e siano stati protagonisti nella lotta per l’indipendenza, gli afro non hanno mai partecipato alla divisione delle terre con i generali della repubblica, dovendosi così accontentare di dissodare terre incolte e malsane. Nel 1821 hanno avuto un minimo riconoscimento con la «libertad de vientre» che dava la possibilità ai nuovi nati di non essere considerati schiavi. Il decreto di abolizione della schiavitù, firmato il 21 maggio 1851 ed entrato in vigore il 2 gennaio dell’anno seguente, non ha modificato comunque la situazione in modo sostanziale, perché sono poi nate inedite forme di schiavitù e di emarginazione.
Tra il 1960 e 1970 nuovi venti sono soffiati a livello internazionale e anche nel popolo afrocolombiano sono sorti movimenti culturali che lo hanno aiutato a prendere coscienza della propria storia e identità da assumere con umiltà, ma anche con orgoglio. Sono sorte quindi organizzazioni popolari, soprattutto sulla costa pacifica, che hanno lottato per il riconoscimento degli afro come gruppo etnico e della proprietà collettiva della terra. Solo la nuova Costituzione del 1991 ha offerto i primi veri strumenti giuridici per applicare i diritti politici del popolo negro, come la possibilità di avere autorità proprie attraverso i «Consigli comunitari», di ottenere il titolo di proprietà collettiva della terra e di partecipare alla vita pubblica con «rappresentanti propri». Resta da vedere fino a che punto questa legge si stia realizzando nella pratica, ma non c’è dubbio che per il popolo afrocolombiano la nuova Costituzione ha aperto nuovi orizzonti in questo grande paese «multietnico e multiculturale».
Come missionari ci sentiamo identificati con il nostro popolo in questo lungo e faticoso esodo dalla schiavitù alla libertà nel nome del Signore Gesù morto e risorto perché tutti, anche gli afrocolombiani, abbiano vita e vita in abbondanza. È un cammino entusiasmante, lungo e faticoso, senza pretese di grandi risultati. Come affermava una suora austriaca che ha lavorato da queste parti per tanti anni: «Seminare, seminare, seminare e… seminarsi». Ricordando il Maestro: «Se il chicco di frumento non muore…».

Speranze e progetti
(NATALE 2009)
Come discepoli e missionari proponiamo Gesù di Nazareth, nel rispetto della religiosità del nostro popolo, tentando insieme alcune risposte concrete ai bisogni spesso elementari del territorio senza la pretesa di risolvere problemi che esigerebbero prima di tutto un cambiamento di mentalità, mentre invece si continua a sopportare pazientemente i governanti di tuo che fanno solo i propri interessi.
Questa situazione ha portato la missione a proporre e realizzare alcune iniziative di tipo sociale che voglio ricordare perché sono diventate una realtà solamente grazie a tanti amici che ci hanno sostenuto.
1. La prima iniziativa è stata quella degli asili di cui ho già ampiamente scritto.
2. Con i giovani, dopo aver ristrutturato alcuni saloni vicino alla chiesa parrocchiale, stiamo adeguando due aree urbane (Alto Prado e Montecarlo) per la formazione, lo sport e la ricreazione.
3. Con i contadini, gli sfollati e la popolazione in generale abbiamo dato vita, fuori paese, al «Centro di formazione la Consolata» dove realizziamo continui incontri di formazione sui più diversi temi per creare coscienza, partecipazione, organizzazione e sviluppo.
4. Attenzione particolare è stata data al fenomeno degli sfollati (desplazados) a causa della violenza della guerriglia. Li abbiamo seguiti in tutta la trafila burocratica per ottenere dei terreni su cui ricostruire le loro case e li abbiamo aiutati nell’autocostruzione di ottantadue mini case in muratura.
5. Nella Comunità di Nueva Esperanza è nato il «Centro Afro-Allamano» per favorire maggiore aggregazione delle comunità contadine. In questo spazio realizziamo attività ricreative e formative con bambini, giovani, adulti e donne in particolare, approfittando di ampi spazi ben distribuiti con la possibilità di coltivazioni di ogni tipo e allevamento di animali da cortile, pesci, maiali…
6. Ultima nata, a cinquecento metri dal Centro Afro-Allamano, è la fattoria «Gente del Campo»: sette ettari che vogliono essere modello di agricoltura e allevamento soprattutto per i giovani e risorsa per finanziare le diverse iniziative della parrocchia in vista di una progressiva e completa autonomia dei progetti.
Rispetto dell’ambiente, sicurezza e sovranità alimentare sono per noi valori inalienabili anche se purtroppo è sempre più difficile resistere all’aggressione delle coltivazioni estensive di palma africana per produrre biodiesel. Con piccole iniziative da qualche tempo vogliamo inoltre non solamente «educare» ma anche «appoggiare» concretamente i nostri contadini che ancora producono cibo.
Sogniamo adesso di acquistare uno o più trattori per sostenere i contadini che ancora producono cibo e non possono permettersi di far arare i loro campi perché i costi sono impossibili, e trasportare poi i loro prodotti fino ai mercati più vicini. Con i trattori potremo anche trasportare gruppi di bambini e giovani ai nostri centri per le attività ricreative e formative nei fine settimana.
Per alcuni è molto quello che tentiamo di fare, per altri è troppo poco; altri invece non sono per niente d’accordo e parlano di «missione superata», «colonialismo», «eurocentrismo» e prospettano «missione nuova», «nuovi aeropaghi», «missione virtuale»…
La verità è che noi ci sentiamo bene, contenti e felici con la nostra gente condividendo timori e speranze, facendo quel poco che si può e senza rumore, aspettando con estrema serenità, come un dono, il Regno di Dio che il Bimbo di Betlemme ha inaugurato e assicurato.

BIODIESEL PIGLIATUTTO
(Natale 2010)
Mi faccio vivo dopo tanto tempo al termine di un lungo e interminabile periodo di piogge. Da queste parti nessuno ricorda un «inverno» così lungo e intenso, anche se la temperatura si è sempre mantenuta attorno ai trenta gradi e non sono mancate mezze giornate splendide per mantenere la speranza di un tempo migliore. Dovremmo comunque essere usciti dal tunnel invernale e tra un po’ ci lamenteremo del caldo e della troppa polvere lungo le nostre strade sterrate, adesso quasi impraticabili.
C’è un altro tunnel comunque che si allunga sempre di più e di cui non vediamo per ora nessuna fine e che, anzi, sta diventando una vera ossessione: l’invasione della palma Visitando le comunità ogni giorno vedo crescere le coltivazioni della palma africana mentre diminuisce inesorabilmente il terreno destinato a produrre alimenti. Fino a quando? Difficile dirlo, perché il governo appoggia solo ed esclusivamente chi semina palma e i contadini che resistono sono emarginati ed abbandonati a se stessi. È una scelta «politica» con criteri esclusivamente capitalisti che sta portando a un autentico disastro ecologico e sociale. Tutto è iniziato circa trent’anni fa quando alcune persone hanno messo gli occhi su queste terre dove si stava tentando una timida riforma agraria da parte dello stato che aveva legalizzato l’occupazione da parte di senzaterra di alcuni latifondi del territorio e che aveva costruito delle dighe e una serie di canali per l’irrigazione. Ci voleva poco per capire che questo dava dei vantaggi straordinari: terra fertilissima con acqua e sole a volontà a due passi dal mare per esportare qualsiasi prodotto senza costi aggiuntivi.
L’unica difficoltà allo sfruttamento di queste terre era la presenza delle comunità afro discendenti dagli antichi schiavi che qui avevano organizzato dei centri di libertà e resistenza agli spagnoli (palenques) o che vivevano nei grandi latifondi di proprietà dei soliti signori locali. La riforma agraria diede la possibilità ai contadini di diventare proprietari, ma la grande maggioranza non era preparata e così molti hanno svenduto la terra o hanno accumulato debiti tali con le banche da essere stati obbligati a vendere.
A completare il quadro è scoppiata la violenza. Gruppi armati sono apparsi un po’ dovunque. Sulle montagne hanno preso forza i guerriglieri di sinistra. Nelle piane si sono organizzati i gruppi paramilitari di destra (finanziati dai grossi possidenti) che hanno compiuto stragi incredibili di civili per «togliere l’acqua al pesce» e isolare la guerriglia. E l’esercito… stava a guardare la gente che abbandonava la sua terra mentre cominciavano le prime coltivazioni di palma, considerata unica e magica «soluzione» di tutti i problemi. Il progetto continua ad espandersi e oggi puntano decisamente ai ventimila ettari, compromettendo seriamente la sicurezza alimentare degli abitanti del territorio che ancora una volta sembrano passivi.
Eppure qualcosa si è mosso. Due Forum organizzati dalla parrocchia, tre centri modello di coltivazioni e allevamenti e, soprattutto, un costante accompagnamento delle diverse organizzazioni popolari sembra stiano stimolando a far nascere qualcosa di diverso dopo trecento anni di schiavitù e duecento di indipendenza.
Noi missionari continuiamo a crederci, confortati da una minoranza sempre più numerosa di persone sfollate, povere in canna, emarginate da sempre, ma che sognano e lottano contro corrente di fronte a politiche sfrontate e a una mentalità generale cronicamente passiva e rassegnata.
In tutta la Colombia continua a piovere: centinaia di morti, frane e smottamenti dovunque, strade interrotte, inondazioni senza limiti, paesi interi portati via dalle acque torrenziali. Una vera calamità nazionale, riconosciuta anche dal governo centrale che si dichiara impotente di fronte alla tragedia. Noi ci consideriamo fortunati: solo due paesini della missione sono sott’acqua. La gente ha perso tutto, ma ha salvato la vita che in fin dei conti è l’unica cosa veramente importante. Come dice il salmo: «Il vivente, il vivente ti loda Signore». La nostra gente lo ripete sempre, come un ritornello, con la sicurezza assoluta che il Dio della vita non abbandona i suoi figli. E allora noi continuiamo a credere con loro che il tunnel della palma come quello dell’inverno avrà pur sempre uno sbocco finale radiante di luce.
(2a puntata – continua; la prima parte è apparsa su MC 2011/04 pp. 22-29)

Gigi Anataloni

Gigi Anataloni

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