Il racconto delle nozze di Cana (27)
Gv 2,5: [e] dice sua madre ai diaconi/servitori: «Quello che vi dirà, fate[lo]»
Riprendiamo il versetto cinque che abbiamo iniziato ad analizzare nella puntata precedente, dove abbiamo visto che il rapporto tra Sinai e Cana è intenso e profondo, ma non si esaurisce, perché l’autore del vangelo vuole portarci a spaziare anche nella storia prima dell’esodo: la storia dei patriarchi, che è come il preambolo all’epopea dell’Esodo e quindi anche premessa della rivelazione di Gesù Cristo «figlio di Davide, figlio di Abramo» (Mt 1,1).
«Vergine madre, figlia del tuo Figlio»
Dopo la risposta di Gesù («Donna, che c’è tra te e me», Gv 2,4) che abbiamo spiegato a lungo, la madre non si rivolge a Gesù per supplicarlo di intervenire, ma ai «diaconi». Ella sa di non avere alcun potere sul figlio, perché da questo momento mutano i rapporti precedenti e la relazione di sangue lascia il passo a quella della fede: «Che c’è tra me e te?». O meglio, il rapporto naturale madre-figlio si trasforma, arricchendosi, nel rapporto tra Figlio e madre/figlia, tra il Signore e la Chiesa. La fede, infatti, non elimina la natura, ma, inglobandola, la trasforma: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli? … chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre» (Mc 3,33-35). Solo Dante Alighieri, ispirato dallo Spirito Santo, ha colto la profondità di questa relazione unica: «Vergine madre, figlia del tuo Figlio» (Par. XXXIII,1).
Le parole che la madre rivolge ai diaconi/servi sono prese alla lettera dalle parole che il faraone di Egitto rivolge al suo popolo all’inizio della siccità che durerà sette anni. Al popolo che ha fame e chiede da mangiare, il faraone non dà pane, ma un invito ad andare oltre di lui. L’onnipotente faraone si mette in seconda fila e lascia il posto a Giuseppe, l’ebreo schiavo divenuto governatore, che aveva previsto la carestia e aveva indicato la soluzione per superarla (Gen 41,53-57).
La madre conosce la Scrittura e, forse, è a Giuseppe che volge lo sguardo del cuore quando garantisce alla parente Elisabetta che il Signore «ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili» (Lc 1,52). La madre non è il faraone, ma la voce di un popolo affamato del Messia e della sua liberazione, è la figlia di Israele che geme nella morsa della fame, dell’emarginazione e dell’impurità cultuale; la madre è il simbolo dell’abbandono desolato in cui versa il suo popolo:
«6Dalla figlia di Sion è scomparso ogni splendore…7Gerusalemme ricorda i giorni della sua miseria e del suo vagare… 9 e nessuno la consola… 11Tutto il suo popolo sospira in cerca di pane; danno gli oggetti più preziosi in cambio di cibo, per sostenersi in vita… 17Gerusalemme è divenuta per loro un abominio… 19cercavano cibo per sostenersi in vita. 20Guarda, Signore, quanto sono in angoscia; le mie viscere si agitano, dentro di me è sconvolto il mio cuore» (Lam 1,6.7.9.11.17.19.20).
La figura di Giuseppe è l’àncora di salvezza che viene in soccorso dal passato e indica la prospettiva futura. Davanti alla madre che invoca i giorni della salvezza per il suo popolo, ora c’è il nuovo patriarca Giuseppe, «colui che aggiunge/aumenta» e che inaugura il nuovo tempo, il «kairòs» dell’abbondanza senza fine, come il patriarca antico salvò Israele dalla carestia, salvando l’Egitto dalla fame: «Tutta la terra d’Egitto cominciò a sentire la fame e il popolo gridò al faraone per avere il pane. Il faraone disse a tutti gli egiziani: “Andate da Giuseppe; fate quello che vi dirà”» (Gen 41,55). L’autore di Genesi ci tiene a sottolineare che «Giuseppe aveva trent’anni quando entrò al servizio del faraone, re d’Egitto» (Gen 41,46). Anche Gesù ha circa la stessa età quando la madre invita i servitori a ubbidirgli.
Purtroppo nella lingua italiana non si coglie il nesso stretto tra le parole, che invece per l’autore ha un’importanza capitale, perché fa vedere e sentire il rapporto stretto tra le parole dette e le idee e i personaggi che stanno dietro.
A questo scopo, per rendere più comprensibile il testo e per farlo gustare in tutta la sua profondità, riportiamo lo schema in greco della LXX, traslitterato, con relativa traduzione (il testo ebraico della Genesi dice esattamente il contenuto letterale del testo greco):
Come può vedere anche chi non conosce il greco, dalla trascrizione emerge che la corrispondenza tra i due testi è totale: siamo certi che l’autore metta «apposta» le parole del faraone in bocca a Maria.
Nella colonna 2a la particella dell’eventualità (an/ean) esprime indeterminatezza e quindi apertura a ogni evenienza (le due forme an o ean sono equivalenti): «Qualunque cosa vorrà dirvi, fatelo».
Nella colonna 3a si ha lo stesso verbo (lègō – dire) con due radici diverse perché le due forme sono di tempi differenti: in Gv si ha il presente congiuntivo attivo (lèghēi – nell’eventualità che dica), mentre in Genesi si ha l’aoristo (un tempo proprio del greco) congiuntivo dello stesso verbo.
Il bacio dell’ubbidienza
Le somiglianze tra i due testi, oltre a quelle letterali, sono di contenuto: a Cana manca il vino, in Egitto manca il pane; in Egitto è il faraone, cioè il capo assoluto che indica Giuseppe come la soluzione del problema; a Cana è la madre, in rappresentanza di Israele, che indica Gesù come la soluzione per risolvere la mancanza del vino messianico e dare corpo all’alleanza.
Da una parte il faraone, come abbiamo già accennato, pur essendo il capo assoluto dell’Egitto, dichiara la sua impotenza di fronte alla fame di pane e invia il suo popolo da Giuseppe, riconoscendone così l’autorità indiscussa; dall’altra parte la madre, rinviando i servi/diaconi da Gesù, preparandoli ad ogni evenienza, in quanto rappresentante del popolo d’Israele fedele all’alleanza sinaitica, invita tutti a riconoscere l’autorità indiscussa di Gesù, il solo che possa aprire la nuova alleanza e sfamare e dissetare il nuovo popolo, la Chiesa, che è la casa di tutti i popoli.
Lo studioso Frédéric Manns (L’Évangile, 102) sostiene che nel testo di Genesi, manca il tema dell’«obbedienza» e quello della «rivelazione», espliciti invece nel testo di Esodo: «Quanto il Signore ha detto, noi [lo] faremo!», che in Es 24 si trasforma in «noi faremo e ubbidiremo» (Es19,8; 24,3). Giovanni mette in evidenza – continua Manns – che l’alleanza nuova è basata sull’obbedienza alla Parola di rivelazione portata da Gesù.
La corrispondenza, quando si applica la tecnica del midràsh, non deve necessariamente essere espressa al millesimo, ma può anche essere allusiva, anche se riteniamo che nel testo di Gen 41,55 il tema dell’obbedienza non è solo implicito, ma abbastanza evidente. Inviando il popolo da Giuseppe, con l’invito esplicito «fate quello che vi dirà», è evidente che il faraone sottende il tema di «ubbidire» all’uomo che dovrà cornordinare i sette anni di siccità, specialmente se si tiene conto delle parole che egli pronuncia davanti alla sua corte, appena Giuseppe finisce di spiegare i sogni: «38Il faraone disse ai ministri: Potremo trovare un uomo come questo, in cui sia lo spirito di Dio?… 40Tu stesso sarai il mio governatore e ai tuoi ordini si schiererà tutto il mio popolo» (Gen 41,38.40).
La traduzione di questo versetto non esprime l’intensità dell’ebraico; il confronto con la versione greca della LXX serve a dare al lettore anche il senso armonico dell’immaginazione linguistica: il testo ebraico di Gen 41,40 dice letteralmente: «Tu stesso sarai il governatore della mia casa e sulla tua bocca ti bacerà tutto il mio popolo»; la versione greca della LXX invece traduce, interpretando (come fa il midràsh): «Tu sarai [governatore] sulla mia casa e alla tua bocca obbedirà tutto quanto il mio popolo» (anche la Vulgata traduce dalla LXX).
Il IV vangelo, come tutto il NT, dipende dalla Bibbia greca della LXX, per cui il tema dell’obbedienza è evidente. Baciare sulla bocca qualcuno in occidente significa avere intimità e quindi reciprocità di dipendenza. L’espressione biblica invece è propria della cultura egiziana faraonica ed esprime l’idea di una dipendenza totale e significa «al tuo comando»: al comando di Giuseppe tutto il popolo egiziano deve prostrarsi, bocconi a terra, pronto a obbedire senza alcuna remora.
Quanto al secondo tema, quello della rivelazione, riteniamo che sia il faraone con tutta la sua autorità solenne a «manifestare» Giuseppe come «il salvatore» dell’Egitto, colui che impedirà al popolo di morire di fame e di sete; e lo stesso Giuseppe si manifesta: «Giuseppe partì per visitare l’Egitto» (Gen 41,46) per mostrarsi a tutto il paese e dare ordini e prepararsi in vista della carestia. Attraverso Giuseppe l’Egitto e lo stesso faraone sanno che non è Giuseppe «il salvatore», ma il Dio di Israele perché «non io, ma Dio darà la risposta» (Gen 41,16).
Giuseppe e Gesù sono «pieni dello spirito di Dio»: come il faraone vide lo spirito di Dio su Giuseppe (cf Gen 41,38), anche Giovanni Battista vede scendere lo Spirito di Dio su Gesù (cf Gv 1,32).
Citando le parole del faraone, la madre di Gesù, o meglio l’Israele fedele all’alleanza, vuole mettere espressamente in rapporto Giuseppe e Gesù, presentando quest’ultimo come il nuovo patriarca che si prende cura della fame e della sete, cioè della vita del popolo. In ebraico Giuseppe si dice «yasàph» e vuol dire «Dio aggiunge/aumenta» e in questa circostanza Giuseppe, il patriarca, aumenta il pane e fa arretrare la carestia. Gesù in ebraico si dice «Joshuà» e significa «Dio è salvezza». Nel loro risultato finale i due nomi s’incontrano, perché ambedue sono la salvezza dei rispettivi popoli: danno la vita.
Come tutto il popolo di Egitto deve schierarsi agli ordini di Giuseppe, ora a Cana i servi/diaconi devono eseguire tutto quello che Gesù dirà loro di fare.
Ubbidire è imitare nella testimonianza
Non solo i servi/diaconi, ma anche la madre di Gesù non sa quello che egli farà; infatti l’invito ai diaconi è fatto nella forma dell’eventualità («qualunque cosa vorrà dirvi»). I servi somigliano ai discepoli che partecipano alla lavanda dei piedi, ma non sanno quello che egli fa, fino al punto che Gesù stesso deve chiarirlo per due volte:
«7Rispose Gesù [a Simon Pietro]: “Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo”… 12Quando ebbe lavato loro i piedi, riprese le sue vesti, sedette di nuovo e disse loro: “Capite quello che ho fatto per voi? 13Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. 14Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. 15Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv 13,7-15).
L’episodio citato si trova all’inizio della seconda parte del vangelo di Gv, esattamente nel «libro dell’ora», quello della rivelazione definitiva sulla croce, che è il trono della gloria del Messia. Si usa sempre lo stesso verbo di Cana «poièō – io faccio/opero/creo». Se consideriamo l’insieme del vangelo, possiamo concludere che l’invito della madre non è solo quello di ubbidire senza condizione, «fate quello che vi dirà», ma anche di «fare quello che lui stesso fa», cioè di imitarlo come Gesù medesimo richiede: «Vi ho dato l’esempio perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv 13,15).
Non basta ubbidire, bisogna imitare. Senza imitazione l’obbedienza può essere alienazione, deresponsabilità. Nessuno può abdicare da se stesso, creato «a immagine e somiglianza di Dio» (Gen 1,27). Ubbidire imitando è il modo per mettere sempre più a fuoco l’immagine divina che c’è in ciascuno di noi e mantenerla sempre nitida e trasparente.
A questo punto si può aprire un capitolo sull’obbedienza religiosa vincolata anche con un voto: il monaco, la suora, il religioso sono chiamati non a rinunciare alla loro volontà, ma a conformarla a quella del Signore, imitandolo nelle scelte e nell’impegno della vita: cosa farebbe Gesù se fosse adesso, qui e ora presente e al mio posto? Qui sta il cuore dell’alleanza sia del Sinai che di Cana: è la rivelazione e la manifestazione dell’esempio che si fa profezia di evangelizzazione.
Oggi nella Chiesa abbondano le parole, le esortazioni, le prediche, estrapolate dalla vita e per questo sono parole deboli, fragili e di conseguenza vuote. Domina il principio di autorità che si basa sull’obbedienza passiva e senza intelligenza: bisogna obbedire perché lo dice chi comanda. Il fondamento della fede in questo contesto non è la persona di Dio o la sua Parola rivelata, ma il culto della personalità, che in termini biblici è idolatria peccaminosa.
La vera profezia del Regno, il vero «vangelo dell’alleanza» si esprime nella testimonianza della vita, nella profezia dell’esempio, che s’impone da se stesso prima ancora di esigere una spiegazione. L’esempio/testimonianza prima della parola è l’esatta incarnazione del principio dell’alleanza dell’Esodo: «Faremo prima e obbediremo dopo».
Fare quello che egli dice e compiere quello che egli fa è la sintesi perfetta della fede adulta e libera, perché ciascuno dei credenti diventi a sua volta «Dabàr», una parola ebraica molto importante nella logica biblica. Essa ha due significati, apparentemente contrapposti, ma intimamente connessi e identici. Significa «parola/detto», ma ha anche il senso di «fatto/evento». È ciò che avviene nella creazione: «Dio disse… E così avvenne» (Gen 1, passim). In Dio mai la Parola è separata dall’evento, perché Dio parla agendo e agisce parlando. In lui parola e azione s’identificano.
A Cana obbedienza, rivelazione e testimonianza sono sinonimi, perché sono l’anticipo e la premessa dell’evento degli eventi: «Il Lògos carne fu fatto» (Gv 1,14), la Parola diventa Pane, il Pane rivela la fragilità di Dio che è il «luogo» privilegiato, l’arca dell’alleanza dell’incontro con gli uomini e le donne, i fragili dell’umanità.
(27- continua)
Paolo Farinella