Commercio e industrie farmaceutiche
Si chiama biopirateria, è una nuova forma di colonialismo perpetrato ai danni del Sud del mondo. Colpisce prevalentemente i paesi più poveri del pianeta, dove preservare la biodiversità per molti governi è assai difficile. Il termine richiama una forma particolare di profitto che le multinazionali, con in testa i colossi farmaceutici, ottengono attraverso lo sfruttamento iniquo delle ricchezze naturali. Asia e Oceania, ma soprattutto Africa e America Latina, con i loro vastissimi ecosistemi, ospitano aree forestali di ricchissima biodiversità, con specie animali e vegetali uniche. È soprattutto là dove prospera questo fervido “saccheggio”.
La lotta alla biopirateria è una sfida globale a salvaguardia sia dell’ecosistema che del sapere ancestrale custodito dalle società tradizionali. C’è una ricchezza che rischia sempre più di scivolare nelle mani delle potenti élite locali, conniventi con le grandi industrie farmaceutiche per affari miliardari. Ma come è organizzata questa ignobile rapina?
Un meccanismo iniquo
Da almeno un ventennio, ricercatori e esploratori, ma anche mercenari e professionisti del profitto, sono impegnati nell’acquisizione di materiali e conoscenze appartenenti a culture indigene. Si tratta per lo più del cosiddetto oro verde, costituito da piante, semi, funghi, ma anche di animali e minerali. Ogni elemento setacciato in queste aree viene spedito nei laboratori di biotecnologia in Europa e America per essere analizzato, manipolato, brevettato e commercializzato, senza che i veri proprietari, le comunità etniche, possano opporvisi o partecipare all’utile derivante. Di fatto rimedi ed empirie tradizionali, testati in laboratorio, diventano fonti di guadagno esclusivo di chi non le possiede in natura. Mentre il 90% della diversità biologica si trova proprio nelle regioni del Sud, il 97% dei brevetti ad essa correlati sono in possesso esclusivo delle aziende del ricco Occidente. Un assurdo paradosso. E così accade che i paesi del Sud del mondo, da cui proviene la maggior parte delle specie vegetali brevettate, stanno perdendo il diritto di utilizzarle. Questo succede perché le normative di controllo a tutela del patrimonio locale sono ancora troppo limitate e demandate all’improbabile capacità coercitiva di molti governi locali.
Salvare le piante che salvano la vita
Troppo spesso, il confine che separa l’ispezione sperimentale degli ecosistemi a scopo scientifico dal puro saccheggio indebito è davvero labile. Purtroppo gli accordi inteazionali sui diritti di proprietà intellettuale (Dpi) siglati negli ultimi anni dai governi nazionali lasciano ancora spazi di ambiguità tali da permettere alle multinazionali dell’agroindustria e della farmaceutica di brevettare sementi e farmaci forzando i limiti normativi che tutelano blandamente le società tradizionali e gli ecosistemi. Eppure le grandi multinazionali farmaceutiche sono sempre più preoccupate di dimostrare che possono contribuire alla conservazione dell’ambiente oltre alla preservazione della biodiversità del pianeta. La chiamano responsabilità sociale dell’impresa, un’espressione di facciata dietro il quale si cela spesso una realtà ben diversa.
Negli ultimi anni la comunità scientifica internazionale sta cercando di proporre alcune linee guida su come intervenire in tema di lotta globale alle biopiraterie. Un impegno congiunto che pone l’attenzione sul legame fra conservazione delle piante medicinali e cura della salute. «Salvare le piante che salvano la vita!». E’ questo il monito e la consapevolezza di fronte al costante depauperamento di molte delle specie più richieste a scopo sanitario. Proprio a causa dell’utilizzo commerciale e della biopirateria, il problema si è aggravato. Anche i numeri parlano chiaro.
Globalmente, il valore corrente del mercato mondiale delle piante medicinali utilizzate secondo le indicazioni delle comunità locali e indigene, viene stimato in circa 43 miliardi di dollari. Di questi solo una piccolissima parte – in alcuni casi – è pagata come tassa di prospezione (cf. Vandana Shiva, Il mondo sotto brevetto, Ed.Feltrinelli). Un contributo ridicolo che rende davvero reale la dimensione smisurata della truffa perpetrata ai danni del Sud. Secondo alcune recenti ricerche elaborate dal WWF, OMS e IUCN (l’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura) il valore commerciale dei prodotti farmaceutici elaborati a partire dalle piante tropicali si aggira intorno ai 147 milioni di dollari. Una cifra enorme di cui, solo lo 0,001% delle cosiddette royalties, arriva alle comunità locali (cf. Davide Ranzini, in http://www.peacelink.it/ecologia/a/9978.html). Ma il rafforzamento della proprietà intellettuale inizia a colpire anche i cittadini del Nord: basti pensare ormai a quanto incide il costo dei farmaci brevettati sulla sanità pubblica occidentale. Inoltre, secondo quanto reso noto dall’organizzazione internazionale No Patents on seeds, l’Ufficio europeo dei brevetti (Ueb) ha brevettato ben 200 specie vegetali nel solo 2010! Mentre dal ’99 ad oggi sono state appena 1500 le specie registrate. L’organizzazione sottolinea come l’Ueb stia pericolosamente concedendo brevetti non solo sulle colture Ogm, ma anche su quelle convenzionali, il che non è contemplato né ammesso dalla normativa comunitaria.
Il brevetto: il vero pericolo della biopirateria
È ormai noto che le industrie farmaceutiche fanno abitualmente tesoro delle informazioni che i guaritori locali si tramandano da millenni, guadagnando così un accesso diretto ad un bagaglio smisurato di informazioni e pratiche che generalmente non sono né regolamentate né ordinate da un corpo di fonti scritte. Questa prassi orienta ogni nuova ricerca scientifica e commerciale con grande risparmio di tempo e di denaro. Con i progressi delle tecnologie modee, infatti, è assai più facile partire da un estratto naturale, isolae i principi attivi, per poi produrre il composto farmaceutico che creare un medicinale partendo da zero.
Il processo potrebbe essere di beneficio a tutti se non ci fossero due fattori molto negativi: la poca o nessuna ricaduta economica sui popoli indigeni e appropriazione indebita ed esclusiva del prodotto grazie al sistema dei brevetti. In pratica le popolazioni indigene ricevono compensi ridicoli e si ritrovano nella condizione di essere espropriati della loro stessa conoscenza: per usare quello che è loro devono pagare altri, gli stessi che li hanno derubati. Il tutto in nome del copyright intellettuale (garantito da agenzie ad hoc, create e finanziate dai grandi lobby industriali) che permette di reclamare un diritto esclusivo anche su una risorsa che di fatto esiste già in natura!
I protagonisti del business e della ricerca
Eludere le normative che impediscono questo meccanismo fraudolento non è impresa difficile per i professionisti del profitto: nella maggior parte dei casi, non sono le grandi case farmaceutiche a lavorare direttamente con i villaggi e i guaritori locali, quanto piuttosto enti e soggetti intermediari, soprattutto istituti di ricerca locali e università, ai quali conferiscono l’incarico di trattare e gestire il business miliardario. Numerose multinazionali, tra cui la Merck & Co., hanno affidato negli ultimi anni la sperimentazione di ben 10mila campioni vegetali in Costarica, all’Istituto Nacional de la Biodiversidad di San José. Per il colosso del New Jersey si tratta di un contratto da oltre un milione di dollari, ma nelle complesse dinamiche che disciplinano la produzione e il lancio di ogni nuovo medicinale sul mercato, l’intermediazione consentirà alla company statunitense un risparmio davvero ragguardevole, visto che, normalmente, la fase di ricerca e di test farmacologico di ogni singolo preparato costa almeno 3milioni di dollari.
Il caso sudafricano
Il casus belli sul quale ci soffermiamo stavolta è legato alle denunce di appropriazione indebita di copyright inoltrate nei confronti del colosso farmaceutico tedesco Willmar Schwabe, reo di aver brevettato l’uso del Pelargonium sidoides, utilizzato da sempre dall’etnomedicina delle popolazioni aborigene del Lesotho e del Sudafrica. È stata proprio la comunità sudafricana della cittadina di Alice (non lontano da Port Elizabeth) che ha contestato all’industria farmaceutica di Karlsruhe (Germania) i brevetti relativi all’utilizzo di due specie indigene di gerani ascritti tra l’altro tra le specie protette e in via di estinzione. La controversia è stata presentata all’Ufficio europeo dei brevetti di Monaco di Baviera dalla comunità della città sudafricana e dal Centro africano per la sicurezza biologica (Acb), con la collaborazione di due associazioni non governative tedesche e una svizzera. I brevetti contestati riguardano il metodo d’estrazione del principio attivo dei fiori e il diritto esclusivo di utilizzare il medicamento per trattare l’Aids. Gli estratti delle radici di pelargonium sidoides e di pelargonium reniforme sono infatti usati da millenni nella medicina tradizionale, nonché scambiati liberamente tra le popolazioni Zulu, Basuto e Xhosa per curare le infezioni respiratorie e altre malattie, tra cui anche la tubercolosi. Le proprietà di questi gerani sono conosciute in Occidente da un centinaio di anni; ma dal 2007, la Schwabe ha brevettato e messo in commercio in Svizzera e in Germania uno sciroppo chiamato Umckaloabo (nome zulu del geranio) per il trattamento delle affezioni respiratorie, introitando circa 30 milioni di euro.
Mariam Mayat, direttrice dell’Acb, ha detto che l’utilizzo industriale di queste radici rappresenta una chiara violazione della Convenzione per la salvaguardia della biodiversità: «Non solo hanno usato la conoscenza tradizionale zulu senza aver chiesto il loro consenso – ha precisato Mayat – ma senza neanche farli partecipare ai profitti: è evidente biopirateria».
Una disputa infinita. Vent’anni di controversie Nord-Sud
Intanto, nel maggio 2008, superata l’indifferenza della comunità internazionale, il tema della biopirateria è stato ufficialmente affrontato a Bonn, proprio alla IX Conferenza della Convenzione sulla biodiversità dell’ONU, come una delle più pericolose dispute ambientali su cui fare chiarezza. E i casi da cui avviare una riflessione globale e responsabile di certo non mancavano.
Un precedente famoso è stato il caso dell’albero del neem (Azadirachta indica) le cui proprietà mediche (soprattutto antifungine) erano riconosciute da millenni in India. Una ditta farmaceutica agroalimentare statunitense, la W. R. Grace, insieme al governo americano ha ottenuto un brevetto sulla la tecnica di estrazione, limitando così gli usi futuri di questo albero sacro. Dopo dieci anni di battaglie legali il brevetto numero 436257e, in un primo tempo accettato, fu revocato. In risposta al rischio di biopirateria, l’India ha iniziato così a tradurre e pubblicare in forma elettronica gli antichi manoscritti che descrivono i rimedi tradizionali indiani. I testi, tradotti dal sanscrito, urdu, persiano ed arabo, saranno resi disponibili agli uffici brevetti in varie lingue. Lo scopo è proteggere, in corposi records bibliografici digitali, gran parte del patrimonio locale dalle rapaci compagnie occidentali. Il progetto è stato criticato aspramente da Mark Grayson, portavoce della Pharmaceutical Researchers and Manufacturers of America, che ha definito il progetto governativo di Nuova Delhi come “una soluzione forzata alla ricerca di un problema inesistente”. Ma a quindici anni di distanza, oggi come allora, l’esigenza è di non ignorare le diverse forme di neocolonialismo ambientale e di impedire che col pretesto della sperimentazione scientifica si realizzino appropriazioni indebite e monopoli a vantaggio di pochi.
Massimo Ruggero