Un nonno vigile con i «baffi»
Dalla Valsugana all’Etiopia… con amore
«Da 21 anni sono nonno vigile delle scuole
elementari di Borgo Valsugana (TN), prestato ai miei nipotini “neri” dell’Africa: i loro sguardi e sorrisi sono gli stessi. Sognano di crescere, studiare, imparare a costruirsi un futuro…
a dispetto di tutto e di tutti. Nei miei viaggi ho visto l’altra faccia del mondo, mi si sono aperti altri orizzonti».
Così si presenta Giovanni De Marchi, cugino dell’omonimo missionario della Consolata, maresciallo dei CC in pensione con un sano «mal d’Africa».
Da oltre 20 anni Giovanni De Marchi ha smesso la divisa di maresciallo dei carabinieri e ha indossato quella di «nonno vigile»: cappellino con visiera, giacca bianca e paletta che portano la scritta ben visibile «vigilanza scolastica». Tutti i giorni, dalle 7.30 alle 8.00 del mattino, in Piazza De Gasperi di Borgo Valsugana (TN), si pianta davanti alle strisce pedonali, intima l’alt alle auto e ordina agli studenti con gentilezza e altrettanta fermezza di attraversare la strada che li porta al comprensorio delle scuole elementari e medie.
«Il contatto con la gente – confessa – è sempre stato un punto fondamentale della mia vita. Questo servizio mi dà la possibilità di conoscere e osservare i comportamenti della gente, soprattutto dei bambini, di cui apprezzo la spontaneità e semplicità».
Nonostante l’aspetto serio, accentuato dai suoi folti baffi da ordinanza, il nonno vigile si è acquistato fin da subito stima e simpatia di alunni e genitori. A Borgo Valsugana lo conoscono tutti, non solo per il suo impegno di volontariato, ma anche per il suo «mal d’Africa»: da alcuni anni raccoglie fondi per sostenere le attività di padre Paolo Angheben in Etiopia.
non per caso…
Giovanni De Marchi è nato nel 1937, lo stesso anno in cui un suo cugino, con lo stesso nome e cognome, veniva ordinato sacerdote tra i missionari della Consolata. Un segno del destino? Forse, anche se per tanti anni non si sentì particolarmente coinvolto nelle imprese del cugino missionario, almeno fino a quando questi restò in vita.
Ma dopo la morte di padre De Marchi, avvenuta a Fatima nel 2003, il nonno vigile cominciò a scoprie la figura eccezionale: ne restò affascinato e sentì subito l’urgenza d’impegnarsi anche a favore della gente per la quale suo cugino aveva speso la sua esistenza. Prima di tutto volle conoscere più a fondo la sua vita e la sua opera, interrogando soprattutto coloro che lo avevano conosciuto da vicino. «Mi raccontarono aneddoti inimmaginabili che dipingevano la sua figura di missionario straordinario, vero uomo di Dio, di una semplicità disarmante, amato da tutti. Decisi così di onorae la memoria alla sua maniera, cioè mettendomi a disposizione degli altri» spiega il signor De Marchi.
Si trattava di trovare il modo e il luogo. Lo scoprì subito, in un articolo che parlava di un collaboratore del cugino missionario in Etiopia fin dal 1974: padre Paolo Angheben, missionario della Consolata trentino, con il quale il nonno vigile si mise immediatamente in relazione epistolare, finché lo incontrò di persona nel 2005, quando padre Paolo toò in Italia per un breve periodo di vacanze.
«Fu un incontro che spiritualmente mi cambiò la vita – continua il signor De Marchi -. Nel 2006 iniziai a raccogliere fondi per la sua missione. Nel giro di due anni riuscii a fare 40 adozioni a distanza. Ma dentro di me cullavo un sogno ben più grande: sognavo l’Africa, l’Etiopia in particolare, incontrare la gente per la quale mio cugino aveva speso gli ultimi 32 anni della sua vita, dal 1970 al 1988 lavorando sul posto e, nel resto degli anni, a Fatima, chiedendo continuamente ai pellegrini preghiere e aiuti per i lebbrosi e i bambini handicappati della sua cara Etiopia». Il sogno divenne realtà nel gennaio 2006, quando padre Angheben lo invitò nella sua missione di Modjo. «All’improvviso mi trovai catapultato in un altro mondo – racconta il signor De Marchi -. Fu un’esperienza che mi permise di vivere a contatto con i locali, conoscendo la loro quotidianità fatta di sacrifici, sofferenze e privazioni».
«una scuola anche per loro»
Crocevia tra nord, sud ed est del paese, a 80 km da Addis Abeba, Modjo si presentava come un luogo strategico delle attività dei missionari della Consolata, con scuola matea per 250 bambini, dispensario e altre opere sociali, seminario minore con una ventina di aspiranti missionari, centro di animazione missionaria vocazionale, punto di riferimento per la formazione giovanile e centro di spiritualità per preti e religiosi, sotto la guida di padre Paolo.
Nei 24 giorni di permanenza in Etiopia, Giovanni visitò altre missioni in cui era presente la memoria del cugino missionario: Gambo con l’ospedale e il villaggio dei lebbrosi, Meki con le sue scuole superiori e professionali, Shashemane con la scuola per ciechi, Gighessa con l’istituto per handicappati… Per l’ex maresciallo fu un crescendo di emozioni, come egli stesso racconta, percorrere «quelle terre intrise di sangue, lacrime, sudore e immensi sacrifici di tanti missionari e suore, promotori di fede e civiltà. Veri eroi silenziosi di grande umanità, umiltà e serenità interiore, che non chiedono nulla per sé ma per gli altri».
Lo stupore per le meraviglie compiute dai missionari e missionarie veniva contrastato dall’impressione suscitata dalle opere ancora da fare. L’esperienza più scioccante l’ebbe a Daka Bora, una comunità in aperta campagna nella missione di Modjo, come lui stesso racconta: «Entrai in una baracca dove erano assiepati una cinquantina di bambini, seduti sul pavimento di terra, che scrivevano sopra dei sassi. Mi dissero che quella era una scuola e che serviva per 300 alunni. Non potevo credere ai miei occhi. Promisi subito che, tornato in Italia, mi sarei dato da fare per procurare loro banchi un po’ più comodi».
E così avvenne. Il nonno vigile lanciò il progetto «Una scuola anche per loro» per raccogliere fondi, iniziando nelle 18 classi scolastiche di Borgo Valsugana, da quei 340 alunni dei quali da tanti anni era l’angelo custode sugli attraversamenti pedonali. Per meglio rendere l’idea, portò in aula un bel sasso e diede una dimostrazione pratica di come i loro compagni africani trasformano una pietra in banco di scuola. «Pensate voi bambini – disse in quell’occasione – quante cose si sprecano nelle nostre case. Perché non facciamo qualche fioretto e mettiamo da parte qualche soldino per aiutare questi fanciulli nell’acquisto di una cinquantina di banchi il cui costo si aggira sui 30 euro cadauno?».
E fu un successo. All’iniziativa aderirono anche vari enti e associazioni locali e il nonno vigile racimolò circa 12 mila euro: nel 2007 la scuola di Daka Bora era bella e finita, ingrandita e arredata a dovere, come poté constatare nel 2008, quando il signor De Marchi toò a Modjo per la seconda volta.
«Fu un’emozione indescrivibile, una gioia immensa – racconta -, velata però dalla visione di altri problemi urgenti, primo tra tutti la mancanza di acqua. Gli abitanti del paese erano costretti a percorrere fino a 12 chilometri a piedi per procurarsela. Qualche volta condivisi con loro questa fatica, suscitando non poco stupore, dato che questo compito è affidato ai ragazzini e non agli anziani».
L’anno seguente il villaggio era collegato all’acquedotto comunale, grazie ai fondi raccolti e inviati dal nonno vigile per pagare le condutture necessarie.
«il ponte della stella»
Nel frattempo padre Angheben era stato trasferito a Weragu, una zona poverissima e isolata, senza acqua né luce né mezzi di trasporto, dove gli unici edifici in muratura sono le strutture della missione, tra cui una scuola con 1.200 alunni e una piccola clinica gestita da due suore polacche, che visitano e curano donne e anziani e somministrano i vaccini ai piccoli.
Anche a Weragu, a contatto con la gente, Giovanni De Marchi non finisce di stupirsi, e racconta: «Queste persone, nonostante la povertà, hanno una grande dignità e non si lamentano mai. Salutavo ed ero sempre ricambiato. Sono stato accolto nelle loro capanne e mi hanno offerto il pane e un bicchiere d’acqua in segno di amicizia: cose talmente semplici a cui noi occidentali non siamo ormai più abituati». Anche qui il nonno vigile ha lasciato la sua impronta, promuovendo la costruzione del ponte sul fiume Minne.
Questo fiume divide la vallata in due; durante la stagione delle piogge è spesso in piena, travolgendo gente e animali che si azzardano ad attraversarlo, rendendo così impossibile l’accesso all’omonimo villaggio per vari giorni, isolando la popolazione dal resto del mondo e impedendo ogni attività della vita sociale: mercato, assistenza medica, accesso alla scuola e alla vita religiosa delle varie comunità. Un guaio soprattutto per moltissimi studenti, costretti a interrompere la frequenza scolastica.
La gente del posto ha cercato di superare l’ostacolo con grossi tronchi di albero gettati sopra le sponde del fiume; una soluzione sempre provvisoria, dato che un ponte del genere veniva spesso spazzato via dalla prima piena del fiume.
Per molti anni la popolazione di Minne fece appello al governo perché costruisse un ponte solido. Ci furono commissioni di studio e di esperti che studiarono la fattibilità del progetto, ma senza mai tradurlo nel concreto. Finché la missione decise di risolvere l’annoso problema con la costruzione di un ponte di grossi tronchi di legno montati su due spallette in cemento armato, ancorate alle rive del fiume, in modo da garantire il passaggio alla popolazione della zona, a macchine e camioncini di portata non superiore ai 35 quintali.
Ma un’altra campagna del signor De Marchi ha permesso la costruzione di un ponte tutto in cemento; lo ha chiamato: «Ponte della stella, della speranza e della solidarietà». «È stato inaugurato nel 2009 – continua il nonno vigile -; è lungo dieci metri e largo quattro; è stato progettato da Antonio Canevaro un geometra italo-etiopico; è costato 16 mila euro, di cui 14 mila donati dai borghesani».
«Rifugio di pace»
Nel mese di marzo del 2010, Giovanni De Marchi è tornato per la terza volta in Etiopia, consegnando a padre Angheben altri 9.600 euro, raccolti come al solito tra la gente e le associazioni di Borgo e della Valsugana, per contribuire alla costruzione della biblioteca del centro giovanile a Debre Selam, nel territorio della missione di Weragu.
Debre Selam (rifugio di pace, in amarico) è una cittadina nel cuore della regione dell’Oromia, centro amministrativo della provincia di Gololcha. Anche qui mancano elettricità, telefono e servizio postale.
La presenza della chiesa cattolica nella provincia del Gololcha risale al lontano 1896, con la fondazione della missione di Minne, da parte dei Cappuccini francesi, i quali anche a Debre Selam aprirono una scuola, che dopo altalenanti vicende fu consegnata all’amministrazione cittadina (vedi riquadro). Padre Angheben è riuscito a ottenere la restituzione del terreno e ad allargarlo, per costruirvi il centro giovanile.
Tra elementari, medie e superiori a Debre Selam fanno capo quasi 5 mila studenti, che frequantano le scuole in città e nelle succursali delle campagne circostanti: una marea di giovani bisognosi di aiuto e accompagnamento nel loro cammino di formazione intellettuale e professionale. Il centro giovanile ideato da padre Paolo Angheben è composto da una biblioteca che offre possibilità di studio e consultazione agli studenti delle scuole superiori in modo particolare; una sala avrà due-tre computer per insegnare le basi dell’informatica e per la ricerca via internet.
Accanto alla biblioteca sarà costruito un centro sportivo con un campo da calcio (60X90 m.), due di pallavolo e uno di pallacanestro, dato che lo sport è un’attività sempre più importante nel cammino di formazione umana e sociale dei giovani e per essi in città non c’è alcuna struttura sportiva. Ci sarà, naturalmente anche una piccola chiesa per offrire loro un cammino di formazione spirituale.
«Il costo del progetto – spiega il signor De Marchi – si aggira attorno a 85 mila euro. A beneficiae non saranno solo i 5 mila studenti, ma anche maestri e impiegati governativi, come la popolazione tutta, che potrà accedere agli impianti sportivi. Ma l’obiettivo principale resta quello di aiutare i giovani di Debre Selam a costruire il loro futuro e rimanere nella loro terra, di dare alla gente etiope, donne, uomini e bambini, le possibilità di vivere con dignità e in pace».
(Rielaborazione di un’intervista pubblicata su La Finestra n. 6 – 2010)
Benedetto Bellesi