Fuori le mura

Cosa pensa chi tenta di entrare

Introduzione

«Fortezza Europa»

Esistono alcuni luoghi ai confini dell’Europa mediterranea diventati ormai un simbolo nell’immaginario delle persone. A Nord come a Sud. Nel bene e nel male. Sono «terra promessa» e «barriera all’invasione». Sono «speranza di vita» e «difesa dello status quo». Sono «porta d’ingresso» e «portone sbarrato».

Si tratta di Patrasso, Lampedusa, Calais e Melilla. Quattro luoghi di paesi mediterranei: Grecia, Italia, Francia e Spagna. Sono nomi che corrono di bocca in bocca da Kinshasa a Abidjan, da Khartoum a Asmara, da Baghdad a Kabul. Alimentando leggende e sogni. Nomi sui quali si investono denaro e, spesso, la stessa vita. Ma anche luoghi in cui i paesi europei tentano di mettere in atto le loro direttive in materia di «lotta all’immigrazione clandestina». Concentrano forze di polizia per bloccare l’ingresso alle popolazioni dal Sud del mondo. Sono luoghi diventati, loro malgrado, il simbolo dei gendarmi dell’Europa.

Si tratta di due immagini contrapposte di uno stesso luogo geografico. Una vista dal Sud e una dal Nord del mondo. Sono luoghi in cui vengono alla luce in maniera netta due letture del mondo. Località dove le differenze e le ingiustizie che, all’inizio del terzo millennio continuano ad aumentare, vengono esasperate. Da una parte un «Nord ricco» e dall’altra un «Sud povero» del pianeta.
Due punti di vista che vanno raccontati attraverso le testimonianze delle persone raccolte in questi luoghi simbolo. Migranti, forze di polizia, operatori sociali, medici, volontari delle Ong, residenti. Per capire davvero di cosa si parla quando si dice «Fortezza Europa».

Fuori le mura

Le rotte dei flussi migratori sono dinamiche, variano a seconda degli eventi e del clima. È come un fluido che tenta di entrare non appena si apre una falla. E i gendarmi europei corrono a chiudere il buco. Ma subito si forma un’altra breccia.

Melilla, spagna
«Fratello, questa è una guerra. Soltanto Dio sa come andrà a finire. Ho tentato di scavalcare la valla (rete posta a protezione della frontiera spagnola di Melilla) tre volte. Mi hanno sempre preso. Mi hanno picchiato e riportato alla frontiera con l’Algeria. Qui dal Marocco è sempre più difficile passare». Ibrahim, camerunese di 25 anni, ha lo sguardo basso sulla terra brulla della foresta di Oujda, città marocchina al confine con l’Algeria. È in Marocco ormai da 2 anni e mezzo, e la doppia recinzione di rete e filo spinato alta 6 metri che circonda i 12 chilometri quadrati della cittadina di Melilla, enclave spagnola in terra d’Africa, è diventata la sua ossessione. «Per passare la rete bisogna avere dei jeans, un giubbotto a maniche lunghe e dei guanti di cuoio – spiega Sibo Kamara, ivoriano trentenne seduto a fianco a Ibrahim – altrimenti il filo spinato in cima alla barriera ti strappa la pelle. Si scavalca la prima rete con una scala e se ne lancia un’altra per scavalcare la seconda. Ho provato già tante volte ma non sono mai riuscito. Quest’inverno un compagno avanti a me è riuscito a passare. Ma per me non c’è stato nulla da fare».
Mukete, altro ragazzo camerunese, alto e magro, è rimasto «prigioniero della foresta» con Ibrahim e decine di altri immigrati subsahariani clandestini: provengono dal Camerun, Costa d’Avorio, Liberia, Guinea-Bissau, Guinea Conakry, Sierra Leone, Ghana, Nigeria, Gabon e vivono alla giornata, braccati dai militari marocchini e costretti a dormire sotto gli alberi. «Il nostro mondo finisce sul limite della foresta – spiega – sono quasi due anni che vivo nascosto tra questi alberi. Se esco e mi prendono i militari mi portano a morire nel deserto dell’Algeria. Sto aspettando il momento migliore per mettermi in marcia per Melilla o Ceuta». Come i suoi compagni Mukete è convinto che si tratti solo di tempo, perché «non è possibile che ci fermino – continua – mi hanno detto che stanno costruendo una terza rete intorno a Melilla. Ma non riusciranno a fermarci. Ho lasciato il mio paese in cui non avevo nulla, sono entrato in Nigeria, ho attraversato il Niger, poi il Mali, l’Algeria e infine sono arrivato qui in Marocco. Ora non è giusto che ci impediscano di andare verso una vita migliore, non abbiamo fatto niente di male».

Le rotte
Sono lontani i periodi in cui dalle frontiere europee di Ceuta e Melilla passavano centinaia di persone in fuga dai paesi africani. Oggi le «rotte» per l’Europa sono altre. Da qui non si passa più. Da Ceuta e Melilla i flussi si sono spostati verso le coste che si affacciano sulle Canarie: Marocco del Sud, poi territori Saharawi, Mauritania e fino in Senegal. Ma presto anche lì i «gendarmi europei» hanno cercato di bloccare la via. Allora i flussi si sono spostati dalle coste tunisine e libiche verso l’Italia. Poi dalla Turchia in Grecia. Ora, dopo gli ultimi accadimenti nei paesi maghrebini, nuovamente da Libia e Tunisia. Ma alcuni attendono ancora qui in Marocco, nella speranza che «cambi nuovamente il vento». E che la via spagnola all’Europa si riapra. Altri invece sono semplicemente «insabbiati». Dopo anni di tentativi non hanno più le forze per rimettersi in viaggio.
«Le spinte migratorie sono come l’acqua: seguono una legge fisica di alta e bassa pressione. Se creo una barriera per fermare il flusso, questo pian piano la aggirerà trovando sempre nuove strade». Padre Joseph Lepine è un attento osservatore dei processi migratori. È un prete cattolico settantenne, che da oltre 30 anni vive nella chiesa cattolica marocchina di Oujda, edificata proprio a fianco alla moschea cittadina, per accudire i numerosi giovani cattolici che vengono a studiare nell’università. «Sono oltre 10 anni che vediamo arrivare gente disperata dai paesi subsahariani diretta in Spagna – racconta -. Ma, da circa tre, la situazione è precipitata». Centinaia di persone giungono dall’Algeria e si installano nella foresta adiacente l’università: uomini, donne e bambini.
Il campus universitario, il secondo per importanza nel paese, è una sorta di rifugio per gli immigrati clandestini subsahariani. Verso le cinque di sera, quando gli studenti finiscono le lezioni e tornano ai loro alloggiamenti, gli immigrati entrano nel campus per attingere acqua potabile, lavarsi e rilassarsi qualche ora. All’interno della struttura universitaria infatti, secondo una storica usanza marocchina, la polizia non può entrare senza il permesso di studenti e rettore.
«La situazione in città è di assoluta emergenza – spiega il professor El Arbi Mrabet, preside della Facoltà di diritto dell’Università di Oujda – e in tutto il Marocco non esiste un solo centro di accoglienza per clandestini. Ed è solo per questo motivo che permettiamo agli immigrati di entrare nel campus la sera. Ma resta il fatto che la nostra struttura è finalizzata allo studio e non all’accoglienza».
I migranti clandestini per l’enclave spagnola di Melilla sono da sempre un fiorente business. «Il problema degli immigrati clandestini subsahariani – spiega José Palazon, presidente dell’Ong Prodein di Melilla – continua ad essere strumentalizzato per richiamare l’attenzione internazionale su Melilla e chiedere più risorse economiche». E ancora oggi, benché dalla valla non si passi quasi più, nel Ceti (Centro temporal de imigración) «lavorano tutta una serie di società private e Ong che percepiscono un mucchio di soldi – continua Palazon -. E solo la costruzione della terza valla a Melilla e Ceuta è costata quasi 40 milioni di euro». Si tratta di una ulteriore rete costruita qualche anno fa in mezzo alle due già esistenti: una barriera inviolabile, con tanto di labirinto di cavi d’acciaio e irroratori di liquido al peperoncino urticante.

Lampedusa, italia
Sono passate da poco le nove di sera quando il Guardacoste G 107 «Carreca» della guardia di finanza e una motovedetta della capitaneria fanno ingresso nel porto di Lampedusa. A bordo, rispettivamente, 76 e 87 migranti: 163 persone salpate dalle coste libiche e soccorse dopo oltre dodici ore di navigazione su un barcone lungo 17 metri, a circa 24 miglia marine dall’isola siciliana. Sono maghrebini e subsahariani in fuga dai paesi nordafricani in rivolta. Tra loro anche 13 donne e 2 bambini, di sei e dieci anni. Un fenomeno che si ripete tristemente uguale tutti i giorni. L’ennesimo sbarco di clandestini sull’isola.
Sulla banchina attendono tutte le divise possibili e immaginabili: poliziotti, carabinieri, finanzieri, marinai. Poi il personale delle Ong pronto a prestare i primi soccorsi. Infine gli operatori dei media in cerca di notizie.
La piccola isola siciliana da mesi è chiamata ad affrontare l’accoglienza di migliaia di immigrati provenienti da Sud. Una vera e propria «pressione umana» che, solo recentemente, le altre regioni italiane stanno cercando di alleviare, accettando di accogliere alcuni migranti in fuga. È il caso di Kochri, giovane tunisino non ancora venticinquenne scappato dal suo paese in rivolta, sbarcato a Lampedusa e trasferito in Calabria.

Centri di «accoglienza»
Seduto di fronte ai container del centro d’accoglienza Sant’Anna di Isola di Capo Rizzuto, nel Crotonese, la struttura d’accoglienza per richiedenti asilo più grande d’Europa, il giovane non crede ai suoi occhi. «Sono arrivato una settimana fa a Lampedusa – racconta il migrante tunisino – e ora sono stato trasferito in questo centro su un aereo della guardia di finanza, insieme ad altri 100 compagni».
È aprile di quest’anno. L’isola siciliana, avamposto europeo in mare africano, è al collasso. Con migranti lasciati per le strade e strutture di accoglienza stipate. «Quando mi hanno detto che ci trasferivano ero felice – continua -, credevo fosse la seconda tappa verso una nuova vita nel vostro paese. Poi la sistemazione in brandine a terra, senza coperte. La delusione. Questa è una prigione fatta di gabbie per animali, senza rispetto né dignità. Perché? Non siamo ancora in Europa qui?».
La struttura calabrese di Isola di Capo Rizzuto è formata da una tendopoli più un campo di 162 container, di pochi metri di ampiezza ciascuno, in cui vengono stipati 12 – 15 e forse più migranti. E la capacità ricettiva complessiva non ha eguali in Europa: 1.300 posti. Si tratta di una delle numerose strutture allestite in fretta e furia dal governo italiano all’indomani della crisi dei paesi del Nord Africa. Quando gli sbarchi sull’isola di Lampedusa sono aumentati in maniera esponenziale.
Ma la situazione di emergenza nella piccola isola siciliana è endemica. Non è mai cessata. A partire dall’inizio degli anni 2000, quando il vecchio Cpa (Centro di prima accoglienza) di Lampedusa ricordava le carceri militari afghane o irachene: una cinta di rete sormontata da rotoli di filo spinato, cancelli con inferriate e abbondanti fari di illuminazione. Situato proprio a ridosso dell’aeroporto, con mezzi militari e uomini armati all’esterno che pattugliavano il perimetro 24 ore su 24. All’interno una serie di container metallici ospitavano i dormitori e i servizi. «Il centro ha una capienza di 190 persone – spiegava nel 2004 Claudio Scalia, della Misericordia di Palermo, allora responsabile del Cpa -. Ma a causa dei ripetuti sbarchi ci siamo già trovati a ospitare anche 1.100 persone, tutte insieme». In seguito, nel 2007, il Centro di prima accoglienza è stato trasformato in Centro di soccorso e prima accoglienza e trasferito in una ex caserma dell’esercito sull’isola, che nell’ottobre del 2009 è stato chiuso, in quanto, dichiarava una nota del ministero: «Non ci sono più immigrati da ospitare per effetto della politica dei respingimenti adottata dal governo».
Il ministro Roberto Maroni infatti, pochi mesi prima aveva dichiarato: «Il 2009 sarà l’anno della fine dell’emergenza, così come il 2008 è stato un anno record sul fronte sbarchi. Due giorni fa – spiegava il titolare del Viminale – ho incontrato l’ambasciatore libico ed entro gennaio spero che i pattugliamenti possano partire. Ciò ci consentirà di chiudere con il fenomeno degli sbarchi prima della stagione turistica».
Poi la situazione dei paesi Nord africani è precipitata. E 10 anni di impegni in patti bilaterali della politica italiana in materia di immigrazione sono andati in fumo. «Lampedusa continua ad essere una realtà offshore – spiega Fulvio Vassallo Paleologo, avvocato dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), membro della Rete antirazzista siciliana e docente di Diritto privato all’Università di Palermo – un’isola de-territorializzata, dove non funzionano le normali regole di un paese democratico. Per legge, gli immigrati che arrivano sul nostro territorio dovrebbero avere una procedura davanti al magistrato entro 48 ore. Ma non succede, perché da Agrigento i giudici si recano sull’isola, se va bene, una volta a settimana. Evidentemente l’articolo 13 della Costituzione qui non esiste».
Patrasso, Grecia
Afghani, sudanesi, somali, eritrei, kurdi, iracheni e palestinesi, in tutto un migliaio di persone, vivono accampati nei pressi del porto d’imbarco per l’Italia. Sono organizzati in campi abusivi, chi all’aperto, chi sotto i vagoni dei treni, chi in case abbandonate, divisi per area di provenienza. Senza assistenza, né acqua né luce, con servizi igienici di fortuna.
In città solo l’associazione umanitaria Kinisi si prende cura di loro, ma la situazione è totalmente fuori controllo. E Patrasso è solo la punta dell’iceberg di un sistema d’immigrazione clandestina che parte da Kabul come da Karthoum o dalla Cisgiordania, per entrare in Europa attraverso il confine tra Turchia e Grecia. Storie di fatiche, ingiustizie, soprusi, violazioni, a volte morte. Tutto per arrivare nell’avamposto europeo del mar Egeo, nell’enclave ellenica, da dove i migranti clandestini, in attesa di permesso di soggiorno o richiedenti asilo, tentano di entrare in Italia, nascosti nei container o attaccati sotto i rimorchi dei tir in attesa di imbarcarsi sui traghetti per Bari, Ancona o Venezia. Per rimanerci o per potersi spostare «liberamente» in altri paesi europei confinanti.
Il giovane Abdullah, 18enne leader di un gruppetto di otto ragazzi giunti dallo stesso villaggio, racconta la sua epopea: «Ho impiegato più di due mesi ad arrivare qui. Sono partito dal mio villaggio, a Nord di Kabul, per Kandahar. Da lì sono passato in Pakistan, per proseguire verso l’Iran. Sono arrivato al confine tra Iran e Turchia con passaggi in auto, e accompagnato da guide locali lungo le montagne sono entrato in Turchia. Van, Ankara, poi Istanbul, Smie e infine il centro di Paganì, sull’isola di Lesbo. Ora sono a Patrasso da 6 mesi in attesa di andare in Italia, perché voglio entrare davvero in Europa…».
Mohammud invece, 50enne ingegnere minerario del Sudan, racconta: «Sono arrivato ad Ankara in aereo dal Cairo. Sono scappato da Karthoum lasciando moglie e quattro figli perché ero sulla lista nera del governo». Una volta ad Ankara, Mohammud ha contattato un «passeur», un trafficante di uomini, per entrare in Europa. Come? «Con il cellulare naturalmente, chiamando un numero avuto da un connazionale incontrato al Cairo». Detto fatto, per la modica cifra di 600 dollari Usa, molto meno del passaggio dalla Libia all’Italia, o dal Marocco alla Spagna, Mohammud è stato imbarcato su un gommone che dal porto di Smie, sulla costa turca, lo ha portato nell’isola greca di Samos.
Dopo due mesi di fermo è stato rilasciato con un permesso bimestrale in attesa di risposta per la domanda di asilo. «È da sei mesi che sono in Grecia e ancora non mi hanno comunicato niente», dice l’ingegnere. Che è costretto a dormire da clandestino insieme a 200 tra connazionali, somali, eritrei, sotto alcuni vagoni dismessi presso la stazione a Ovest di Patrasso.
«Ormai l’unica strada per entrare in Europa è la Turchia», sosteneva Bawa Hissen Folase, giovane sudanese, nella primavera del 2010. «Dal Marocco non si passa più perché i militari sparano. E le Canarie, Ceuta e Melilla sono completamente bloccate dalla polizia spagnola. Dalla Libia verso l’Italia nemmeno, respingono le barche». «Io ci sono stato: ho lavorato tre anni a Tripoli per pagarmi il passaggio verso Lampedusa. Poi la polizia italiana ci ha fatto tornare indietro. Eravamo 18, nella traversata i più deboli sono morti».
Amir, iracheno sulla ventina, è arrivato a Patrasso con un colpo di arma da fuoco in corpo. Cosa che, conferma Johannis Lamprous dell’associazione Kinisi, accade spesso. Ora è guarito e, con una decina di ragazzi afghani, attende che un tir si fermi al semaforo per balzare sotto il rimorchio. Con il rischio di essere arrestato dalla polizia.
«Il modo per andare in Italia ci sarebbe» dice Magal, giovane afghano. «Basta avere i soldi e un passaggio si trova». Lo prova il recente ritrovamento da parte della polizia portuale di Patrasso di un camion con 25 immigrati nascosti in un doppiofondo. «Questi traffici sono organizzati direttamente da Atene, da lì arrivano i camion carichi di clandestini diretti nei porti di Venezia, Ancona o Bari» spiega Mihalis Sidiropoulos, studente di legge attivista di Kinisi. Il costo del «passaggio» è variabile, può arrivare a 2.000 euro.
Nel frattempo, per i clandestini senza soldi, anche la strada dell’imbarco dal porto di Patrasso si sta chiudendo. Negli ultimi mesi solo poche decine di ragazzi sono riusciti a partire. E ancora meno a superare i controlli italiani nel porto di destinazione. Una nuova via sembrava essersi definita attraverso la Turchia, verso le frontiere con la Repubblica di Macedonia. Poi Serbia, Ungheria e Austria. Ma con l’esplosione delle rivolte in Tunisia, Algeria e con l’intervento Nato in Libia, tutto è nuovamente cambiato. E si è riaperta d’improvviso la via di Lampedusa.
«Ieri mi ha chiamato un amico che dormiva con noi, qui nella “forest” – racconta Hassan, giovane afghano -. Lui ce l’ha fatta. Era appena arrivato a Calais, in Francia. E tra pochi giorni finalmente arriverà in Inghilterra». Meta di molti migranti provenienti da paesi anglofoni.
Calais, Francia
Scende la notte sul porto di Calais, affacciato sullo stretto della Manica, nel Nord della Francia. Le luci a giorno rischiarano il piazzale asfaltato, cinto da una rete alta tre metri, dove stazionano i camion in attesa dell’imbarco per l’Inghilterra. È praticamente territorio inglese, nel senso che uomini e merci arrivano dopo aver passato la dogana. Fatta di controlli rigorosi: controllo delle bolle di carico, apertura dei container, inserimento di pertiche di ferro nei passa ruota e sotto la scocca dei camion, rilevazione attraverso apparecchi elettronici di eventuale anidride carbonica emessa da «clandestini» nascosti nel carico.
Yasir, l’amico di Hassan di Patrasso, percorre rue de Moscov, passa il ponte Ventillard che divide la città vecchia dal porto, cammina lungo il perimetro della rete e all’improvviso, con agile mossa, entra. Immediatamente scatta un allarme e arriva un’auto della polizia inglese. Yasir viene bloccato, si siede sul bordo del marciapiede insieme a due poliziotti e si fa offrire una sigaretta. Questa sera è la terza volta che tenta di scavalcare la rete. La polizia ormai lo conosce, ma non sa cosa fare per fermarlo. Gli inglesi attendono i colleghi francesi, che arrivano, caricano Yasir in auto e lo portano fuori dal porto, verso il centro di Calais. Pont Ventillard, rue de Moscov, e il ragazzo afghano viene rilasciato per strada.
«Vengo da un paese a nord di Kabul – spiega Yasir in un inglese stentato – e sono partito da casa ormai da tre anni». Aveva 12 anni, primo di quattro fratelli e una sorella, quando perse il padre ucciso in una sparatoria. Decise di partire per raggiungere l’Inghilterra, dove alcuni amici dei suoi parenti erano riusciti a costruirsi una nuova vita. Come i suoi conterranei ancora bloccati a Patrasso è entrato in Iran attraverso le montagne per poi andare in Turchia. Da lì si è introdotto illegalmente in Europa attraverso la Grecia. «Sono stato bloccato per due anni a Patrasso – racconta sorridendo -. Poi dopo tantissimi tentativi, finalmente sono riuscito a passare nascosto in un camion che è sbarcato a Venezia». In treno, attraverso il Col di Tenda, è arrivato a Parigi. E via fino a Calais, dove lo aspetta l’ultimo sforzo che lo divide dalla sua meta.
Simone, il fotografo che mi accompagna in questo viaggio, mostra le foto fatte a Patrasso, nel campo degli afghani. Yasir riconosce immediatamente Hassan e gli altri suoi amici.
«Tra tre o quattro giorni avrà fatto il salto dall’altra parte, in Inghilterra. Come tutti». Spiega Sylvie Copyans. Cinquantadue anni, ex impiegata di banca, Sylvie è uno dei soci fondatori di Salam, associazione di Calais che fornisce aiuto umanitario a migranti clandestini. Seduta ad un tavolino del café brasserie «La Tour» della centrale Place d’Arme offre una Coca Cola al giovane afghano. «Qui in Francia non possono fermarlo – continua la donna -. Ha 15 anni, è minorenne, e dovrebbe essere a scuola». Invece vive accampato come tanti altri suoi connazionali tra quello che resta della «Forest», un bosco ai margini della zona industriale di Calais, e i bungalow occupati abusivamente sulla spiaggia. Spiaggia dalla quale, ironia della sorte, si vedono le bianche scogliere di Dover dall’altra parte dello stretto della Manica.
Casa Africa
«Pochi mesi fa Casa Africa era un’altra cosa – racconta Adam, sudanese del Darfur che vive nello squat Casa Africa di Calais da quattro mesi -. Poi la polizia un giorno è arrivata con le ruspe e ha spianato tutto quello che c’era all’interno dei capannoni». Compresi gli effetti personali di chi vi abitava. E i cumuli di macerie agli angoli degli stanzoni vuoti, con materassi a terra e fuochi accesi per scaldarsi e cucinare, testimoniano ancora l’operazione. Unica oasi ordinata: un’area di tappeti di una decina di metri quadrati, circondata da un bordo di legno, nella quale pregano a tuo i musulmani. «Sono scappato dal mio villaggio nel Sud Ovest del Sudan – racconta Adam uscendo dalla zona di preghiera – inseguito dall’esercito che voleva arruolarmi». I militari sono arrivati a cavallo nella notte, hanno portato tutti fuori dalle case e le hanno incendiate.
«Mi ricordo le frustate che schioccavano nell’aria – continua Adam -. Sono subito scappato il più lontano possibile». Adam è stato successivamente inteato in un campo profughi. E non ha mai più saputo nulla dei suoi fratelli e dei suoi genitori. «Sono arrivato a Lampedusa nel 2009 – racconta il sudanese – ed ho chiesto asilo a Roma. Ho anche chiesto che mi aiutassero a rintracciare la mia famiglia, ma nessuno è riuscito a saper nulla. Ora aspetto il momento giusto per passare in Inghilterra. Nella speranza che non mi scoprano, altrimenti mi rispediscono a Roma. Dove hanno le mie impronte digitali».
Poco distante da Casa Africa, in rue de Moscov, nel centro storico di Calais, c’è un grande piazzale asfaltato dove all’ora dei pasti si accalcano centinaia di persone in attesa. È il centro di distribuzione del cibo messo a disposizione dal Comune alle associazioni che si occupano dei migranti. Si danno il tuo tra associazione Salam, La Belle Etornile, Secours Catholique e l’Auberge des Migrantes. Garantendo la distribuzione di colazione alle 10, pranzo alle 12 e cena alle 18.
«Sono arrivato da due settimane a Calais» racconta Hassan con la faccia sconvolta, in un italiano fluente. Dormiva nello squat chiamato «Casa Palestina» quando sono arrivati i poliziotti. L’hanno arrestato e tenuto tutta la notte in centrale con le manette. È stato appena rilasciato e mostra i segni rossi ai polsi. «Sono arrivato a Lampedusa dalla Libia e ho vissuto sette anni in Italia, a Vigevano. Facevo l’idraulico e stavo bene. Avevo la casa, l’automobile, andavo in discoteca con gli amici. Ma ora in Italia c’è la crisi, la mia ditta ha chiuso ed io ho perso il permesso di soggiorno, come tanti miei amici stranieri. Ma qui in Francia è terribile. Non si può vivere così. Provo ancora una settimana a passare in Inghilterra. Se non ci riesco too in Italia. Se solo avessi i soldi per passare…».
E sì, perché anche qui chi ha tra i 500 e i 1.000 euro a disposizione per pagare il passeur, arriva in Inghilterra senza problemi. Attende direttamente a Parigi, per essere poi nascosto in un camion che attraversa la Manica nell’Eurotunnel o su un traghetto del porto di Calais. Ma chi non ha soldi può solo tentare la fortuna. Sperando di passare indenne i controlli. Magari con un sacchetto di plastica in testa per non rilasciare anidride carbonica che potrebbe essere rilevata dagli apparecchi della polizia.

Di Maurizio Dematteis

Maurizio Dematteis

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