2011: cosa si muove nei paesi africani
La Costa d’Avorio stenta a ritrovare la pace, dopo 10 anni di guerra civile, mentre in Nigeria le elezioni scatenano violenze e morti. Intanto nel tranquillo Burkina Faso arriva un po’ di vento del Nord Africa e il «regno» di Blaise scricchiola. E nel piccolo Benin le elezioni si svolgono con relativa calma.
L’Africa dell’Ovest è una regione geopolitica a Sud del Sahara, composta da 15 paesi di area francofona, anglofona e, in minor parte, lusofona (si veda cartina pag. 51). Stati con storie simili di colonizzazione e indipendenza, e una gran varietà di popoli che, come spesso accade in Africa, sono divisi da frontiere artificiali, dettate dal colonialismo.
Esistono due grosse organizzazioni regionali: l’Unione economica e monetaria dell’Africa dell’Ovest (Uemoa) e la Comunità economica degli stati dell’Africa dell’Ovest (Cedeao, Ecowas in inglese).
La prima, nata nel 1994 dalla Umoa (Unione monetaria) del 1963, ha come missione l’integrazione economica degli stati e dovrebbe favorire gli scambi commerciali e l’armonizzazione giuridica per arrivare a un mercato comune. Vi fanno parte solo paesi francofoni ad eccezione della Guinea-Bissau1, e hanno una moneta comune, il franco Cfa (nato ben prima dell’avvento dell’euro), che aveva un cambio fisso con il franco francese e ora con l’euro. Una regione di circa 80 milioni di abitanti, 3,5 milioni di km quadrati e un Pil (2009) di 67,9 miliardi di dollari (da confrontare con la prima economia mondiale, gli Usa, circa 15.000 miliardi o l’Italia, settima, ancora per poco perché superata dal Brasile, con 2.300 miliardi).
La Cedeao, nata nel 1975, è un organismo inter-governativo che ha come obiettivo quello di promuovere l’integrazione economica a livello di tutta l’Africa occidentale, ma anche mantenere la pace, sempre come presupposto al buon funzionamento dell’economia. Ne fanno parte 15 stati di varia area linguistica2: di fatto tutta la zona geopolitica nota come Africa dell’Ovest.
Negli ultimi mesi, in alcuni paesi ci sono stati movimenti e cambiamenti importanti. Ci siamo occupati del Niger nel numero di MC giugno-luglio: una storia positiva nel panorama del processo democratico in Africa. Esaminiamo ora alcuni altri accadimenti importanti che influenzano tutta l’area.
Nigeria
Le due «P»: potere e petrolio
Paese più popoloso dell’Africa, con i suoi 155 milioni di abitanti e una crescita demografica del 2,3%, la Nigeria è un vero gigante del continente.
A livello regionale, se il Pil di tutti i paesi Cedeao messi insieme nel 2008 era di 302 miliardi di dollari (il 38esimo posto nella classifica delle economie mondiali), due terzi era costituito dal Pil della Nigeria (207,1 miliardi). Questa si contende con l’Egitto il secondo posto come economia africana, mentre il primo, con grande distacco è occupato stabilmente dal Sudafrica.
Ma la Nigeria è soprattutto il primo produttore africano di petrolio (tallonato dall’Angola), con i suoi 2,5-2,6 milioni di barili al giorno. Il greggio, di ottima qualità, si estrae soprattutto nel delta del fiume Niger, quindi negli stati del Sud.
Il paese è una federazione di 36 stati più la capitale federale Abuja, che godono di larga autonomia. Nel Sud la popolazione è in prevalenza cristiana, mentre nel Nord sono maggioritari i musulmani.
Questi sono solo alcuni ingredienti che spiegano perché le molteplici tornate elettorali dello scorso aprile siano state precedute e seguite da violenti scontri.
Dal 2 al 26 aprile 73 milioni di nigeriani sono stati chiamati ad eleggere il senato, il presidente della federazione, i governatori degli stati e i parlamenti regionali.
Poco prima della consultazione più importante, quella presidenziale, si erano già verificati degli attentati. Il 9 aprile a Suleija, nel centro del paese, gli scontri avevano portato a 13 morti, mentre il giorno stesso dello scrutinio, a Maiduguri (Nord-Est) due bombe erano esplose senza causare vittime.
Il presidente uscente Goodluck Jonathan (53 anni) ha vinto le presidenziali con un bottino di 22 milioni di voti (57%), mentre il suo sfidante più pericoloso, l’ex dittatore Muhammadu Buhari, 69 anni, uomo del Nord, appoggiato dall’elettorato musulmano, ne ha ricevuti 12 milioni (31%).
Baciato dalla fortuna
Jonathan, già vicepresidente, divenne presidente alla morte di Oumarou Yar’Adua, nel maggio 2010. Il suo partito, il PdP (Partito democratico del popolo) ha sempre vinto le elezioni, dal 1999, con la fine della dittatura. Ma è regola non scritta, che i presidenti della Nigeria, pur dello stesso partito, si alteino tra cristiani e musulmani. La conferma di Jonathan va contro questa consuetudine esacerbando gli attriti tra i due gruppi. Sebbene poi gli osservatori dichiarino che le elezioni si sono svolte in modo globalmente corretto, i risultati in alcuni stati del Sud (95% o 99% per Goodluck) hanno fatto sospettare frodi denunciate dal partito di Buhari.
Così il Nord musulmano è «scoppiato» e la Croce Rossa ha parlato di 400 feriti, 70.000 sfollati e circa 500 morti nelle città di Kano, Kaduna, Zaria, Sokoto e altre. Gli scontri sono giunti fino a Jos, nel centro, città «confine» tra le maggioranze delle due religioni. Nonostante gli appelli alla calma di Buhari, che ha presentato un ricorso ufficiale, la folla inferocita ha attaccato e bruciato case, chiese e negozi. E spunta il nome di Boko Haram – una setta che si batte per la creazione di uno stato islamico nel Nord del paese – come possibile responsabile di alcuni attentati con uso di bombe.
Occorre ricordare che il Nord è più povero del Sud e, soprattutto, si calcola che il 70% della popolazione nigeriana non beneficia delle rimesse dovute al petrolio.
Burkina Faso
«Roi» Blaise barcolla
Paese saheliano tra i più poveri del mondo (sempre tra gli ultimi nella classifica dell’indice di sviluppo umano del Pnud), il Burkina Faso si è costruito la fama di «paradiso delle Ong». Questo anche grazie a una «stabilità politico-sociale» che lo contraddistingue dal 1987, quando il 15 ottobre fu assassinato il presidente Thomas Sankara, e Blaise Compaoré prese il potere con la forza.
Ma Blaise – come viene comunemente chiamato dalla popolazione – non aveva mai visto vacillare così la sua poltrona in quasi cinque lustri come nei primi mesi di quest’anno. Fa eccezione il 1999, quando dopo l’assassinio del popolare giornalista investigativo Norbert Zongo, si creò un grosso movimento popolare di protesta.
Il vento del Nord
Forse per l’influsso del «vento del Nord Africa», o forse per l’aumento spropositato del prezzo dei beni di prima necessità, anche gli animi dei tranquilli e operosi burkinabè si stanno scaldando.
Ma vediamo i fatti. Il 20 febbraio muore in circostanze misteriose lo studente Justin Zongo. Era agli arresti a Koudougou. Gli studenti delle scuole superiori della città manifestano contro il governo. La protesta si estende alle università e a diversi centri del paese. Assume anche risvolti violenti con incendi di macchine e uffici.
Tra il 22 e fine marzo sono i militari a protestare. Da Ouagadougou (capitale) a Fada N’Gourma, da Komboissin a Pô (confine con il Ghana). Chiedono la liberazione di alcuni loro commilitoni, arrestati per soprusi contro i civili (tra cui anche stupri). Spari e saccheggi si susseguono. I militari devastano le abitazioni di alcuni alti ufficiali, compreso il generale Dominique Djindjéré, capo di stato maggiore. Il governo minimizza parlando di «giovani soldati». Ma i militari arrestati vengono liberati e la magistratura a sua volta protesta. Per la prima volta in 24 anni viene istituito il coprifuoco notturno. Il presidente fa un discorso alla nazione per calmare gli animi. E organizza diversi incontri con i vertici militari.
A Ouagadougou si dice che siano soldati che hanno appoggiato l’avanzata delle truppe di Ouattara in Costa d’Avorio (non ufficialmente, vedi oltre), che una volta ritirate, prima della battaglia di Abidjan per non essere visibili, non hanno poi ricevuto il premio promesso.
La gente non ci sta
Ma un movimento più ampio della società civile sta prendendo piede. Protesta contro l’aumento del costo della vita e le disuguaglianze sociali. In Burkina, di 16 milioni di abitanti, circa la metà sopravvive con un euro e mezzo al giorno. L’aumento dei prezzi del carburante e il conseguente aumento di tutti i prodotti più importanti (riso, olio, zucchero, ecc.) accende il malessere della popolazione. L’8 aprile una grande manifestazione – si parla di alcune decine di migliaia di persone, tante per il paese – attraversa le vie della capitale per chiedere misure concrete contro il carovita, ma anche contro corruzione, impunità e mal governo. È organizzata dal Comitato di lotta contro il caro vita (Ccvc), associazioni di consumatori e sindacati.
Ma il momento più critico per il potere arriva la sera del 14 aprile: ammutinamento in seno alla guardia presidenziale, corpo scelto che deve proteggere il presidente, e il cui quartier generale è proprio dietro il palazzo presidenziale. Blaise fugge e si rifugia nella sua città di origine Ziniaré, a una trentina di chilometri dalla capitale. Altre caserme si ribellano. I militari escono nelle strade sparando, saccheggiano negozi, rubano macchine. Commettono violenze. I commercianti in collera per questi soprusi manifestano a loro volta. Scene mai viste in Burkina Faso.
Misure «paliative»
Blaise scioglie immediatamente il governo (15 aprile) e nomina il tecnico moderato Luc-Adolphe Tiao primo ministro. Tiene però il portafoglio della Difesa per sé. Ancora coprifuoco. Il presidente cambia diversi vertici militari.
Poi il colpo ad effetto: decide di sovvenzionare tre prodotti alimentari di largo consumo: riso, zucchero e olio, abbassandone il prezzo «per tre mesi». Concede premi extra ai militari, indennizza alcuni commercianti e cerca di imbonirsi la classe dei funzionari migliorando le condizioni salariali. Per fare questo «sbilancia» ulteriormente il budget dello stato, che funziona per oltre la metà grazie ad aiuti estei.
Ma i militari creano ancora disordini a Bobo-Dioulasso, seconda città del paese, a inizio giugno. E i commercianti, per rappresaglia, danno fuoco al municipio. Questa volta il governo cambia strategia e decide per la repressione inviando alcuni reparti scelti. Sette sono i morti, sei militari e una ragazza e decine i feriti.
Gli analisti si interrogano su quanto il potere Compaoré potrà ancora tenere, mentre da mesi ormai, si parla di una modifica costituzionale che permetterebbe al presidente di candidarsi per più di due mandati. Blaise si potrebbe ripresentare nel 2015.
Costa d’Avorio
La «locomotiva»
riuscirà a ripartire?
La Costa d’Avorio ha finalmente un nuovo presidente: Alessane Dramane Ouattara – Ado per i suoi sostenitori – vincitore delle elezioni di fine novembre scorso, ha potuto insediarsi il 21 maggio. Una delle due «locomotive» economiche dell’Africa dell’Ovest (insieme alla Nigeria) può forse pensare a ripartire. Locomotive perché le loro economie «trainano» tutte quelle deboli dei paesi della regione. La Costa d’Avorio, nonostante viva da dieci anni una stagione di grande instabilità politica e sociale, ha infatti un Pil pari a un terzo di tutta l’Uemoa (vedi tabella pag. 51). Il paese ha diverse industrie, ed è produttore di petrolio, ma soprattutto è il primo esportatore mondiale di cacao.
Dopo il ballottaggio delle elezioni presidenziali il 28 novembre, perse da Laurent Gbagbo, questi non ha voluto sapee di separarsi dal potere e si è auto proclamato vincitore (vedi MC febbraio 2011).
Nonostante gli appelli della comunità internazionale, Gbagbo ha fatto precipitare, ancora una volta, il paese nella violenza, acuendo la divisione tra Nord e Sud, tra gruppi etnici distinti, e scatenando i soprusi dei gruppi armati sulla popolazione civile. Nei due campi contrapposti. Gbagbo si è avvalso dei suoi miliziani fedeli, i Jeunes patriotes, giovani esaltati al soldo del presidente e al comando dell’oscuro personaggio Charles Blé Goudé, affiancati da mercenari liberiani. Ouattara, e il suo esercito delle ex Forze nuove (oggi Forze repubblicane della Costa d’Avorio), si è fatto aiutare dal Burkina Faso. Ad appoggiarlo politicamente nella regione, anche Senegal e Nigeria. Ma è stato grazie all’aiuto militare della Francia, ex potenza coloniale, alla quale Gbagbo aveva girato le spalle, per avvicinarsi a Usa e Israele, e alle Nazioni Unite3, che Ouattara è uscito vincitore dalla «battaglia di Abidjan», durata dieci giorni dal primo all’11 aprile. Gbagbo, asserragliato nel suo quartier generale, aveva resistito con ogni mezzo, respinto ogni negoziato. Così in poco meno di sei mesi sono stati oltre 3.000 i morti a causa degli scontri e delle persecuzioni che si sono innescate nei due campi4. Una crisi umanitaria con centinaia di migliaia di sfollati interni o sconfinati in Liberia. Una città, Abidjan, di oltre 6 milioni di abitanti (la seconda in Africa dell’Ovest dopo Lagos, Nigeria), messa sotto sopra, saccheggiata e devastata. Vittime che si sarebbero evitate, come le ulteriori ferite all’unità del paese, se Laurent Gbagbo avesse accettato il risultato delle ue e l’alternanza dopo dieci anni di presidenza (di cui gli ultimi cinque, protratti artificialmente a causa del conflitto).
Dividendi francesi
Molti vedono dietro la vittoria militare di Ouattara un ritorno della Francia come potenza ex coloniale. È chiaro che Nicolas Sarkozy, presidente francese, dalla Libia alla Costa d’Avorio sta cercando di riprendere posizioni sul continente africano.
Nel primo discorso il nuovo presidente ha parlato delle grandi sfide che lo aspettano, prima fra tutte «Riconciliare e riunire la Costa d’Avorio». Tra le sue priorità c’è quella di riportare la sicurezza, perché il paese è diventato invivibile, a causa delle armi in circolazione e delle milizie. Occorre riunificare l’esercito, mettendo insieme i nemici di ieri: le Forze repubblicane (di Ouattara) e quelle filo Gbagbo. Ma anche rilanciare l’economia: questo darebbe impulso a tutta l’area Uemoa. I primi carichi di cacao sono iniziati a ripartire all’indomani dell’arresto di Gbagbo. La crisi ha anche bloccato il passaggio delle merci verso i paesi dell’interno: Mali, Burkina Faso e Niger.
Alassane Ouattara ha annunciato un «governo di unità nazionale» dicendo che «membri moderati dell’Fpi (Fronte patriottico ivoriano, partito di Gbagbo, ndr.) potranno fae parte». Come primo ministro, a sorpresa, è riconfermato Guillaume Soro, già capo dell’esercito ribelle (Forze Nuove) e poi primo ministro di Gbagbo sulla base degli accordi di pace. Si pensava a un uomo del Pdci (Partito democratico della Costa d’Avorio), il partito dell’ex presidente Henri Konan Bedié, arrivato terzo e che ha appoggiato Ouattara al ballottaggio. Invece Soro, «in accordo con Bedié», sarà primo ministro almeno fino alle legislative, che il presidente promette entro fine anno. L’ex ribelle mantiene anche il portafoglio della difesa.
La coppia della discordia
E Laurent Gbagbo? Arrestato con sua moglie Simone (personaggio ritenuto da molti estremista) è in una località del Nord. Ouattara assicura che sarà giudicato dalla giustizia ivoriana, ma anche dalla Corte penale internazionale, per quanto riguarda i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità. Il presidente ha anche creato la «Commissione per il dialogo, la verità e la riconciliazione», con il delicato compito di aiutare la pacificazione. Il paese più importante dell’Africa dell’Ovest francofona, che dopo una lunga transizione stava ritrovando l’unità, è stato nuovamente scioccato e diviso, a causa di politici senza scrupoli. Le sfide dell’attuale dirigenza restano enormi: prima fra tutte curare le ferite generate dalla guerra civile e riconciliare la popolazione.
NOTE
1 – Fanno parte dell’Uemoa: Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Guinea Bissau, Mali, Niger, Senegal e Togo.
2 – Oltre agli stati dell’Uemoa, fanno parte della Cedeao: Capo Verde, Gambia, Ghana, Guinea, Liberia, Nigeria e Sierra Leone. La Mauritania è uscita nel 2000. www.ecowas.int.
3 – L’Onuci, missione dei caschi blu in Costa d’Avorio, è presente nel paese con 10.000 militari dall’aprile 2004. I francesi hanno 1.400 uomini della Forza Licoe (rinforzata per l’occasione) nella base di Port Bouët vicino Abidjan. La Licoe ha come missione il sostegno delle forze dell’Onu e la protezione dei francesi, molto numerosi in Costa d’Avorio.
4 – Il rapporto di Human Rights Watch pubblicato il 2 giugno, ha raccolto testimonianze di 149 morti del campo pro Gbagbo, nei giorni successivi all’arresto dell’ex presidente e di 220 morti ad opera degli uomini di Gbagbo nei giorni subito precedenti.
Marco Bello