Consolate il mio popolo

Inacio Saure, missionario della Consolata, vescovo di Tete (Mozambico)

Consacrato vescovo di Tete in Mozambico il 22 maggio 2011, accolto calorosamente 15 giorni dopo da fedeli e autorità civili della diocesi,
mons. Inacio Saure, missionario dellaConsolata, mozambicano, ha dichiarato che la sua sarà una missione di consolazione, come è scritto nel suo stemma episcopale. La situazione che si trova ad affrontare presenta problemi vecchi e nuovi che richiedono una forte dose di
coraggio e di consolazione.

Consolamini populus meus: è il motto dello stemma episcopale di mons. Inacio Saure, preso da Isaia 40.1 per significare la caratteristica del suo ministero di vescovo. La consolazione, ha spiegato nel suo messaggio dopo l’ordinazione, è ciò di cui c’è maggiormente bisogno nella diocesi di Tete, oltre a far parte del suo carisma in quanto missionario della Consolata.
La Consolata non è nuova nella diocesi di Tete: vi arrivò nel lontano 1926, con la prima spedizione dei suoi missionari in Mozambico.
80 anni dopo…
A quei tempi il territorio dell’attuale diocesi di Tete si chiamava «Alta Zambesia»; sotto l’aspetto religioso faceva parte della Prelazia del Mozambico, che comprendeva l’intero territorio della colonia portoghese. La guidava mons. Rafael de Assunção.
Quando i missionari della Consolata chiesero di poter lavorare in Mozambico, il Prelato concesse l’autorizzazione affidando loro unicamente la circoscrizione di Zumbo, che aveva come centro la missione di S. Pietro Claver di Miruru, nella Zambesia superiore, ai confini con l’allora Rodesia, e permettendo di aprire una casa procura a Tete.
La regione era stata evangelizzata dai Gesuiti fin dal secolo XVI, ma quando i missionari della Consolata misero piede in Mozambico (1925) la maggior parte delle missioni erano in uno stato di semi-abbandono. La forza missionaria occupava una piccola parte del territorio: il clero secolare stava attorno a Lorenço Marques (oggi Maputo) e lungo il litorale; pochi religiosi, come francescani e monfortani, continuavano la cura di alcune missioni costruite nell’interno.
Alle tensioni tra secolari e religiosi si aggiungevano soprattutto gli umori politici del Portogallo. Così, quando il marchese di Pombal cacciò i gesuiti dal Portogallo (1759), questi furono espulsi anche dal Mozambico. Toarono nel 1881 e fondarono nell’Alta Zambesia due importanti centri di evangelizzazione a Boroma e Miruru; ma furono di nuovo espulsi nel 1910, in seguito alla rivoluzione che instaurò la Repubblica del Portogallo e scatenò un furioso anticlericalismo in tutti suoi territori.
Per alcuni anni le missioni di Miruru e Boroma furono affidate ai Verbiti tedeschi; ma con lo scoppio della prima guerra mondiale anche questi missionari furono allontanati, perché tedeschi e considerati nemici. Così Miruru rimase abbandonata fino al 1926, quando arrivarono i primi otto missionari della Consolata. L’anno seguente arrivarono sette suore della Consolata; a Tete rimase padre Peyrani che, oltre al compito di procuratore, svolse per due anni la funzione di parroco della chiesa di San Tiago.
Nel 1932 anche i missionari della Consolata lasciarono definitivamente l’Alta Zambesia, per concentrare la loro presenza nella regione del Nyassa.
Oggi, un altro figlio della Consolata, mons. Inacio Saure, è stato chiamato a guidare tutto il territorio dell’Alta Zambesia, diventato dal 1962 diocesi di Tete. Il nuovo vescovo incontra una situazione per molti aspetti simile a quella trovata dai missionari della Consolata 80 anni fa; anzi, le vicende storiche del passato e e i problemi del presente hanno moltiplicato le sfide alla missione di «consolazione» del nuovo vescovo.
La guerra e non solo…
«Metà della diocesi non ha assolutamente assistenza religiosa» spiega padre Tiago Palagi, comboniano italiano, dal 2009 amministratore apostolico della diocesi di Tete, dopo la rinuncia per limiti di età di mons. Paulo Mandlate, per 33 anni vescovo della diocesi. «Sei distretti su dodici, non hanno una missione, non hanno un padre, non hanno una suora – continua il missionario mostrando sulla mappa la regione nord-occidentale della provincia di Tete -. Su 27 parrocchie, 13 sono praticamente abbandonate da decenni».
Questa regione è stata zona di guerra ancora prima delle altre parti del Mozambico. A partire dal 1970, durante la guerra coloniale, i missionari furono imprigionati ed espulsi, perché diventati scomodi testimoni delle atrocità dell’esercito portoghese, come i massacri perpetrati nella regione di Mucumbura (1971) e a Wiriyamu.
Con la proclamazione dell’indipendenza del Mozambico, continua padre Tiago, «abbiamo queste due realtà: una parte della diocesi in cui c’è vita e vitalità perché c’è stata sempre una presenza missionaria di padri e suore, anche se c’è stata qualche difficoltà per riadattarsi alla nuova situazione creata dalla nazionalizzazione di scuole e altre opere; l’altra metà delle missioni, a nord del lago di Cabora Bassa, rimaste senza missionari e distrutte completamente dall’incuria e dalla successiva guerra civile».
Alcune missioni, diventate basi politiche e militari del Frelimo, furono bombardate dalla Renamo che, stabilitasi definitivamente nella zona, creò un cordone militare che per una dozzina d’anni rese impossibile qualsiasi comunicazione tra le comunità e i missionari e la diocesi in generale.
Finita la guerra civile e tornata la pace nel paese (1992), sono mancate le forze e la volontà «politica» per riprendere il lavoro in quelle missioni. Da una parte i missionari rimasti erano pochissimi, con le energie che venivano meno per l’età, e le congregazioni religiose non sono ritornate nelle loro antiche missioni, a causa della crisi di vocazioni. Dall’altra parte l’ordinario locale non ha cercato né favorito l’arrivo di nuovi istituti religiosi, a differenza di altri vescovi mozambicani, che hanno cercato nuove forze missionarie e hanno promosso la formazione del clero diocesano.
Attualmente, la diocesi di Tete, che si estende per oltre 100 mila kmq (pari al Nord-Italia), con una popolazione di oltre 2 milioni di abitanti, conta circa 270 mila cattolici, con una sessantina di suore e 31 preti; di questi solo 5 sono diocesani, impegnati nel lavoro pastorale, mentre altri 3 sono all’estero per specializzazioni. La scarsità di clero diocesano la dice lunga sulla situazione ecclesiale della diocesi, che il prossimo anno celebrerà le nozze d’oro della sua creazione.
Le speranze per il futuro sono per ora basate su tre studenti in teologia, una quindicina di seminaristi in filosofia e 25 nel seminario propedeutico a Beira.
«Entro quest’anno dovremmo avere una nuova ordinazione -spiega padre Tiago -. Se avessimo un prete all’anno sarebbe un successo. Tutti i nostri preti diocesani sono stati ordinati negli ultimi cinque anni; sono giovani e hanno bisogno di essere aiutati e guidati nel loro lavoro. Il vero problema per preti e seminaristi è formarli, sostenerli, accompagnarli; far loro sentire la gioia di essere preti… Sarà questa la prima delle raccomandazioni che farò al nuovo vescovo: dedicarsi il più possibile ai preti e ai seminaristi e non aver paura di perdere tempo con loro».
diocesi in stato di missione
Nonostante la distruzione di tutte le strutture delle missioni e l’assenza tanto prolungata dei missionari, le comunità di quelle regioni sono sopravvissute, sia religiosamente che economicamente recandosi nei paesi confinanti, soprattutto in Zambia e in Malawi; molte di esse si sono organizzate per recarsi nelle parrocchie di questi paesi per ricevere i sacramenti.
I contatti sono stati ripresi negli ultimi due anni. Padre Tiago ha cercato di visitare le missioni abbandonate per scoprire le comunità ancora vive e ha raccolto il loro lamento: «Ci avete abbandonati. La diocesi ci ha dimenticati». L’amministratore apostolico ha subito organizzato autentiche «spedizioni missionarie» con padri, suore e seminaristi maggiori, dando così un segnale concreto che la diocesi vuole riprendersi la cura pastorale di tutti i suoi figli, specialmente in quei luoghi di difficile accesso e dove da troppo tempo manca una presenza missionaria stabile.
«Abbiamo fatto un’assemblea con preti, religiosi e religiose e ho spiegato come la diocesi appartiene a tutti; quindi ho proposto loro di lasciare per una settimana o 10 giorni le loro parrocchie o loro attività, per spostarsi nelle zone più lontane e abbandonate, in modo da assicurare anche ad esse un’assistenza più capillare almeno due o tre volte l’anno. La risposta è stata unanime e generosa».
Non è un’impresa facile. Sono viaggi come ai vecchi tempi: bisogna portarsi dietro tutto, dal combustibile all’acqua da bere, al cibo, agli attrezzi per riparare l’auto in caso di avarie non troppo grosse; si convive con le comunità cristiane, adattandosi alle condizioni precarie che si incontrano; si approfitta della stagione secca, perché mancano le strade. Alcune sono state cancellate dalle acque del lago di Cabora Bassa; per raggiungere alcune località come la provincia di Zumbo, bisogna passare dallo Zimbabwe.
«Raggiunta una comunità, ce n’è stata indicata un’altra e poi altre ancora – racconta padre Tiago -. Siamo ritornati missionari del mato, della foresta. In questi due anni la gente ha respirato di nuovo aria di missione e sta aspettando, ha una grande voglia di riprendere l’evangelizzazione in tutta la diocesi. E questa è la sfida grande che attende il nuovo vescovo, mons. Inacio Saure: portare la presenza di chiesa in tutto il territorio diocesano; una vera missione di consolazione lo aspetta: visitare le comunità, soprattutto quelle più sperdute e abbandonate; non sarà un lavoro di ufficio; l’abbiamo avuto per 33 anni un vescovo di ufficio».
le mani sul… carbone
Tete è naturalmente inserita in un contesto socio-economico locale e nazionale, le cui pressioni si fanno sentire anche a livello ecclesiale. Tale situazione è caratterizzata dalla «corsa all’oro» da parte delle multinazionali; oro reale in varie parti, ma soprattutto «oro nero», cioè il carbone. I paesi emergenti, con enorme fame di energia (Brasile, India, Cina, Australia…), stanno investendo miliardi di dollari in «mega progetti» in varie parti del Mozambico per sfruttae le risorse naturali: carbone, petrolio, gas naturale, diamanti, sabbia pesante…
Per quanto riguarda la provincia di Tete, il governo mozambicano ha firmato contratti con la compagnia brasiliana Vale do Rio Doce e con l’australiana Riversdale per l’estrazione del carbone su grande scala nelle zone di Moatize e Benga. Sono state già avviate miniere di carbone a cielo aperto, con conseguenze non indifferenti per l’ambiente e per la salute degli abitanti.
Ancora più gravi sono i risvolti sociali. La gente non riesce a capire cosa stia succedendo: vede enormi quantità di auto di lusso, macchinari e automezzi che intasano le strade, ma non ne ricava alcun beneficio; anzi, vede crescere la sua povertà. La disponibilità di denaro di manager e tecnici stranieri fa lievitare i prezzi delle materie essenziali per la sopravvivenza, tanto che Tete è diventata la città più cara del Mozambico. Anche il capretto, cibo base della popolazione di questa regione, ha ormai prezzi proibitivi.
Le nuove industrie minerarie non producono lavoro per i locali: il lavoro è per gente che viene da fuori, magari anche mozambicani di altre parti del paese, gente con una minima specializzazione che può trovare o si illude di trovare lavoro in queste imprese. Gli operai locali senza alcuna qualifica possono essere utilizzati inizialmente per i lavori pesanti e dismessi quando non servono più, come è capitato a 6.500 manovali impiegati da una delle ditte subappaltatrici della Vale, per chiudere i pozzi di epoca coloniale, e poi licenziati a lavoro ultimato, provocando proteste e scioperi tra i minatori.
Un’altra conseguenza sul piano sociale è lo spostamento di popolazioni intere; migliaia di contadini sono stati costretti ad abbandonare le loro terre, per essere trasferiti a 30 o più chilometri di distanza, in villaggi detti di «reinsediamento», con abitazioni malfatte e precarie, anguste e invivibili per gente abituata a spazi ben diversi. Questa popolazione ha perso le proprie radici e ha trovato ben poco di ciò che poteva essere un beneficio.
I mega progetti non producono ricchezza neppure per il paese. Si dice che fanno alzare il Pil (prodotto interno lordo), ma è una illusione e una falsità assoluta, perché la ricchezza prodotta non appartiene al Mozambico. La Vale è padrone assoluto delle concessioni ottenute dal governo: tutto ciò che c’è nel sottosuolo, che viene estratto ed esportato appartiene alla compagnia. Lo stesso vale per le concessioni alla Riversdale: il governo non sa neppure cosa c’è nel sottosuolo, se vi è solo carbone o anche altri minerali; ma lo sanno bene le multinazionali.
I contratti stipulati tra governo e multinazionali mancano di assoluta trasparenza, per cui allo stato vengono solo le briciole. Le compagnie si fanno belle, magari, costruendo qualche scuoletta, ripitturando l’ospedale o con altri lavoretti del genere, ma al tempo stesso portano via a piene mani la ricchezza del paese, senza che la gente del luogo ne benefici minimamente.
Del problema si è interessata anche l’ultima assemblea generale della Conferenza episcopale del Mozambico nel maggio scorso: il prof. Tomás Selemane ha spiegato ai vescovi l’impatto dei mega progetti sulla popolazione mozambicana, i conflitti sociali che ne derivano, le strategie delle multinazionali e gli interessi occulti di governanti e leader politici; l’esperto ha proposto anche azioni concrete per affrontare la situazione e far sì che lo sfruttamento delle risorse del paese produca qualche benessere anche per la gente comune.
«Abbiamo posto la domanda e continueremo il discorso, nella prossima assemblea della Conferenza episcopale» spiega padre Tiago. Di fatto, è stato avviato uno studio per avere cifre e dati concreti, elementi dettagliati e inconfutabili prima di parlare e prendere una posizione chiara e coraggiosa. Non basta denunciare le compagnie per la corsa all’accaparramento delle materie prime, ma anche chi favorisce tale fenomeno, i contratti occulti di persone di partito o di governo o di gruppi limitati.
«È evidente che come chiesa – continua padre Tiago – sarà necessario non solo denunciare ciò che sta capitando, ma mettersi dalla parte di chi sta soffrendo di tali conseguenze. Questo è quello che abbiamo davanti agli occhi. Per ora, dal punto di vista di chiesa, è ancora un discorso marginale, ma il problema si farà sentire sempre più: anche questa è una sfida che il nuovo vescovo dovrà affrontare, insieme a tutti i vescovi del Mozambico».

Benedetto Bellesi

Inacio Saure: la sua storia

Padre Inácio Saure è nato il 2 marzo 1960, a Balama, diocesi di Pemba, in Mozambico, dove ha frequentato le scuole elementari e medie.
Dopo lo scoppio della guerra civile entrò nel seminario della Consolata a Maputo; frequentati i corsi di filosofia e il 1° anno di teologia nel seminario S. Agostino di Matola (1990-1992), proseguì gli studi teologici presso l’Istituto superiore di Teologia S. Eugenio di Mazenod a Kinshasa (R.D. del Congo), dove conseguì nel 1998 il baccellierato in teologia.
Emessa la prima professione religiosa nell’Istituto Missioni Consolata il 7 gennaio 1995 e quella perpetua il 15 maggio 1998, fu ordinato presbitero l’8 dicembre dello stesso anno.
Dopo l’ordinazione ha ricoperto i seguenti incarichi:
– 1999-2001 vicario curato della parrocchia S. Mukasa Lukunga, a Kinshasa;
– 2002-2005 parroco della chiesa Mater Dei e superiore della comunità a Mont-Ngafula (diocesi di Kisantu); direttore della scuola d’informatica e vice superiore regionale;
– 2006 fu destinato in Mozambico per lavorare nell’ambito della formazione;
– 2006-2007, dopo aver studiato la lingua italiana a Roma, ha frequentato un corso per maestri dei novizi presso l’istituto Mater Christi a Bobo-Dioulasso nel Burkina Faso;
– 2008 rettore del seminario medio e filosofico dei missionari della Consolata a Matola e, da dicembre dello stesso anno, è stato maestro dei novizi presso il Noviziato Internazionale della Consolata a Maputo.

Benedetto Bellesi