Cana (24) «Vino non hanno»
Il racconto delle nozze di cana (24)
«La nuova alleanza nel mio snague, che è versato per voi»
Gv 2,3: «Venuto a mancare il vino, dice la madre di Gesù a lui: “Vino non hanno”».
(kài hysterêsantos òinou lèghei hē mêtēr toû Iēsoû pros autòn: Ôinon oùk èchousin)
Fatti i preparativi per lo sposalizio, preso atto che le nozze di Cana sono le sole in tutta la storia dell’umanità che si celebrano senza sposa, del tutto assente; conosciuti gli invitati importanti ai fini del IV vangelo, con il v. 3 entra in scena uno dei protagonisti eccellenti: «il vino», in greco «òinos». Nel racconto ricorre ben 5 volte: al v. 3 (2x), al v. 9 (1x) e al v. 10 (2x). Questa «abbondanza» di vino non solo materiale (sei giare per una capienza totale da un minimo di 240 a un massimo di 480 litri), ma anche letteraria (5 occorrenze) è indice di importanza e ci invita a prestare attenzione se vogliamo cogliere il significato inteso dall’autore.
Al «protagonista vino» abbiamo dedicato ben due puntate da due angolature diverse:
– Il vino dalla prospettiva del Messia nel suo simbolismo cristologico (cf MC 10 [2010] 24-26).
– Il vino dalla prospettiva di abbondanza nel suo simbolismo escatologico (cf MC 11 [2010] 21-24).
Rimandiamo a queste due puntate per non ripeterci. Sarebbe bene che i lettori interessati ad un approfondimento rileggessero i due testi perché sono utili per capire quanto diremo ancora. Chi avesse smarrito i nn. 10 e 11 del 2010 sopra citati, può consultare il sito della rivista MC on line sempre disponibile: https://www.rivistamissioniconsolata.it/cerca.php?cat=25 (consigliamo anche per chi ne avesse la possibilità di aggiungere l’exursus «Il vino nell’Antico Testamento e nella tradizione giudaica» in Aristide Serra, Le nozze di Cana, 249-273.
Un significato universale
Il testo del vangelo annota semplicemente che a un certo punto è «venuto a mancare il vino» (v. 3a). Qualcuno ha fatto male i conti o gli invitati ne hanno approfittato e quindi, nel pieno della festa, sorge un problema. Fermarsi a questa lettura però sarebbe molto banale. Il testo così come lo abbiamo è testimoniato dalla maggior parte dei codici e in particolare dai papiri Bodmer P66 (tra i sec. II e III) e P75 (tra i sec. VI e VII). Vi sono però alcune varianti che fanno capire l’importanza del tema. Il codice «Alpha*», risalente al sec. IV, legge: «E vino non avevano perché il vino delle nozze era stato terminato», che è una forma più estesa, esplicativa: vuole cioè chiarire il pensiero e spiegando allunga. Una regola della critica testuale è che tra due testi, in genere, è da scegliere quello più breve e più difficile, perché brevità e difficoltà sono segnali di maggiore antichità. Chi vuole spiegare le cose per chiarirle, certamente è successivo al testo.
Di fronte a questo fatto, la madre di Gesù che avevamo incontrato al versetto precedente per la prima volta prende la parola e fa notare la situazione: «Vino non hanno». Anche qui lo stesso codice «Alpha*» riporta un’altra variante che dice: «Vino non c’è». Apparentemente non c’è differenza tra i due testi, ma solo apparentemente, perché la variante semplifica molto e dal punto di vista teologico pone l’accento solo sul vino che è il soggetto della frase, mentre il testo accettato pone l’accento sulle persone, in questo caso, gli sposi in quanto sono essi che «non hanno vino», anche se la sposa è assente e lo sposo è figura secondaria che compare solo per essere rimproverato dal maestro del cerimoniale (architriclino). Proprio la particolarità di uno sposalizio senza sposa e con lo sposo che c’è e non c’è, ci apre a prospettive nuove e ci fa dire che essi sono espedienti per andare oltre le apparenze come molto spesso Giovanni ci costringe a fare. L’espressione «venuto a mancare il vino» in greco è un genitivo assoluto (funziona esattamente come l’ablativo assoluto in latino) che assume un valore generale, fuori dal contesto stesso in cui si trova. Il verbo «ysteré» in greco se riferito al tempo indica «essere ultimo/venire per ultimo»; se riferito allo spazio significa «venire dopo»; se riferito a persone o cose indica mancanza e privazione e quindi «manco/ho bisogno/sono escluso». L’uso di questo verbo in Gv è un «hàpax» cioè un termine usato una sola volta in tutto il vangelo per cui non si possono fare confronti, ma dobbiamo cogliee il senso solo in questo contesto.
Il genitivo assoluto, «venuto a mancare il vino», che in se stesso esula dal testo perché se ne potrebbe anche fare a meno senza modificare la struttura sintattica della frase, ha invece un valore importante perché l’autore lo usa fuori contesto e quindi con un senso universale, così universale che si può applicare a tutta l’umanità: non solo gli sposi, che hanno fatto male i calcoli, ma è l’umanità intera che è carente, manca, ha bisogno del vino nuziale.
Per questo motivo rifiutiamo le varianti testuali; «vino non c’è» è solo una costatazione povera del fatto che non si può continuare a fare baldoria perché manca il vino e non ha quindi la stessa forza del testo che sottolinea la tragedia della situazione: nessuno ha più vino, come a dire «non c’è il Messia» tanto atteso.
La madre/Israele non è in grado di dare la gioia della vita (il vino) ai suoi figli. Anche in un’altra circostanza e contesto il popolo sperimenta la mancanza di pane, quando di fronte alle folle che lo seguono, Gesù prende atto che «non hanno di che mangiare» (Mc 8,2) e più avanti i discepoli discutono che «pani non hanno» (Mc 8,16). Pane e vino sono gli alimenti esclusivi del banchetto messianico, secondo la regola della comunità di Qumran: «E quando (preparano la mensa per mangiare, o il) mosto (per bere, il sacer)dote sten(derà per primo la mano per benedire le primizie del pane) e del mosto (…)» (4Q258[4QSd], fr. I col. II [=1QS, V,21-VI,7]).
Il vino della Sapienza eucaristica
Sia la tradizione biblica che quella giudaica avevano identificato il vino con la Parola di Dio; Donna Sapienza, infatti, «ha preparato il suo vino e ha imbandito la sua tavola» alla quale invita «chi è privo di senno: “Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato (per voi”» aggiunge la LXX) (Pr 9,2.5). Il Sapiente è colui che si nutre della Parola del Signore perché «nella Toràh del Signore trova la sua gioia, la sua Toràh medita giorno e notte» (Sal 1,2; cf Dt 4,5-6; Sal 107,43; 119/118,99…; Gdt 8,26-27.29, ecc.).
Il pane e il vino della Sapienza sono quindi la Parola del Signore. Anche nell’Eucaristia, la Chiesa prepara la duplice mensa del Lògos che carne diventa (cf Gv 1,14) e del vino, alimenti che significano la Shekinàh/Dimora/Presenza della santa Trinità. Il vino preparato dalla Sapienza è quindi il vino della Toràh, cioè la natura stessa di Dio.
Nel libro del Siracide la Sapienza che parla in prima persona s’identifica con la vite: «Io come vite ho prodotto splendidi germogli» (Sir 24,17) per concludere che «tutto questo è il libro dell’alleanza del Dio altissimo, la Toràh che Mosè ci ha prescritto, eredità per le assemblee di Giacobbe» (Sir 24,23).
Anche Gesù si identifica con la vite: «Io-Sono la vite vera» (Gv 15,1) e il frutto che egli porta è «l’eucaristia della nuova alleanza (Mt 26,29 e parr.)» (Bibbia-Cei 2008, nota a Gv 15,1) dove si manifesta la volontà del Padre, cioè la sua Parola, cioè ancora il Figlio come progetto per l’umanità attraverso Israele e la Chiesa: «In principio era il Lògos e il Lògos carne fu fatto» (Gv 1,14). L’immagine della vite e della vigna è classica nella Bibbia e si riferisce abitualmente a Israele (cf Is 5,1; Ger 2,21; Ez 15,2-6; Ez 19,10-14; Sal 80,9-16).
I rabbini amano raccontare che quando il sacerdote Melchisedek, uomo senza origini e senza ascendenti, accolse Abramo con i doni del pane e del vino (cf Gen 14,18), lo istruì anche nella Toràh del Signore Dio (cf Gen R 43,6 a 14,18). In questa ampia gamma di simbologia, è logico condividere la conclusione della tradizione giudaica che vede nel monte Sinai la cantina dove Dio ha conservato il vino della Toràh in vista dell’alleanza con Israele quando uscì dall’Egitto. L’espressione della donna del Cantico dei Cantici: «Egli mi ha introdotto nella cella del vino» (Ct 2,4) è interpretata dal Targum (cf Tg Ct 2,4) e dal Midrash (Ct R 1,2.5; 2,4.1; 6,10.1) come il monte Sinai che Yhwh ha adibito a cantina del vino della Toràh. A riguardo abbiamo già scritto nella settima rubrica dedicata alle nozze di Cana:
«Il quinto personaggio è il “vino” che è il segno messianico per eccellenza. Il midràsh ebraico (Cantico Rabbà 2,4) equipara la Toràh, cioè la Parola di Dio al vino e il monte Sinai è descritto come la cantina dove Dio, prima ancora della creazione del mondo, ha conservato il vino-Toràh per la festa delle nozze messianiche: “Il Sinai è la cantina dove fin dalla creazione del mondo è stato tenuto in serbo per Israele il vino delizioso della Toràh. Disse l’Assemblea d’Israele: Il Santo – benedetto egli sia – mi ha condotto alla grande cantina del vino, cioè al Sinai” (Ct R 2,12; cf Nm R 2,3; Pr 9,5). In Gv 2,10 vi è un accenno a questa cantina, quando il maestro di tavola rimprovera lo sposo di avere conservato il vino eccellente fino ad ora (“tu hai conservato il vino buono [= bello] fino ad ora – sý tetêrekas tòn kalòn òinon éôs àrti”)» (MC 9 (2009), 22).
A questo punto, prima di andare avanti, non è inutile una riflessione attualizzante sullo stato della Chiesa di oggi in rapporto a quanto detto sopra. Dal testo del vangelo apprendiamo che l’espressione assoluta «venuto a mancare il vino» ha un valore universale e quindi può e deve essere applicato anche a noi e al nostro tempo. L’AT aveva il Sinai come «cantina del vino della Parola», preparato prima ancora che Israele uscisse dall’Egitto; secondo altri testi che abbiamo esaminato nelle puntate precedenti, il vino delle nozze di Cana richiama il «vino del Messia», perché i suoi tempi saranno segnati da una abbondanza senza misura. Tutte queste tipologie di vino sono proiettate nel futuro, cioè aprono una dimensione non solo di speranza, ma spingono a procedere con lena e passione verso i tempi di domani, perché ci avvicinano sempre di più all’incontro con «Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo» (Eb 1,1-2).
(24 – continua)
Paolo Farinella