Cooperando
Arriva in questi giorni al giro di boa il 2011, che le Nazioni Unite hanno dichiarato anno
internazionale delle Foreste per «sensibilizzare l’opinione pubblica mondiale su temi come la conservazione, la gestione e lo sviluppo sostenibile di tutti i tipi di foreste».
I progetti di MCO nelle foreste
Missioni Consolata Onlus sostiene una pluralità di progetti che i missionari della Consolata portano avanti da anni nelle foreste d’Africa e America Latina. L’idea che anima questi progetti è basata sulla convinzione che la preservazione e l’uso sostenibile del patrimonio naturale non sono fini a se stessi, ma acquistano senso e si rafforzano se l’obiettivo ultimo è il benessere delle persone.
Il «Tuuru Water Scheme»
Era il benessere dei bambini poliomielitici del centro di Tuuru, in Kenya, che fratel Giuseppe Argese aveva in mente quando iniziò il lungo lavoro che lo condusse alla costruzione dell’acquedotto della foresta di Nyambene. Il centro, come tutta la zona dell’Igembe, aveva sempre sofferto della mancanza di acqua potabile mentre la foresta, a venticinque chilometri di distanza, ne aveva in abbondanza.
Il progetto nacque su scala ridotta e venne realizzato piano piano, goccia a goccia, nel corso di quarant’anni, impiegando migliaia di persone della zona che, grazie a questo coinvolgimento, lo hanno fin da subito fatto proprio e avvertito come qualcosa che apparteneva alla popolazione locale. Oggi sono previste ulteriori opere di ampliamento per garantire l’acqua anche durante prolungati periodi di siccità, pur continuando a non intaccare l’equilibrio dell’ecosistema forestale. Per questo la protezione della foresta e la sua demarcazione, la difesa contro insediamenti abusivi e il taglio illegale di legname, sono aspetti essenziali del progetto.
Maestra Foresta
A Catrimani, nell’Amazzonia brasiliana, i missionari della Consolata lavorano dagli anni Sessanta con gli indios Yanomami, per la difesa dei loro diritti – in primis il diritto alla terra – e per la salvaguardia della loro cultura. L’etno-educazione, come viene definita la forma di istruzione alla quale accedono le nuove generazioni indigene, è un tipo di formazione che valorizza le caratteristiche culturali del popolo Yanomami, a partire dalla lingua, dalla cosmogonia e dalla medicina tradizionale. P. Corrado Dalmonego sta portando avanti un progetto che si chiama Maestra Foresta proprio per sottolineare come dalla selva gli Yanomami traggano non solo il loro sostentamento ma anche le norme che regolano la loro vita, nel pieno rispetto dell’ecosistema circostante (vedi in questo stesso numero l’articolo di Daniele Ciravegna a pag. 51-57).
I pigmei di Bayenga
A stretto contatto con la foresta vivono anche i pigmei Bambuti, considerati fra i primi e più antichi abitanti della foresta dell’Uele e dell’Ituri, nella Repubblica Democratica del Congo. Nel territorio di Bayenga, Alto Uele, dove i missionari della Consolata sono presenti dagli anni Settanta, la popolazione pigmea conta circa duemila persone che vivono di caccia e raccolta, e scambiano i propri prodotti (carne affumicata, miele e frutti della foresta) con quelli agricoli della popolazione bantu della zona. Il rapporto con i Bantu non è mai stato semplice, poiché questa etnia discrimina i pigmei considerandoli esseri inferiori a metà fra uomo e scimmia.
Per questo p. Andres Garcia e i missionari della Consolata, in stretta collaborazione con la Diocesi di Wamba, hanno avviato progetti educativi, sanitari e agricoli con l’obiettivo di sostenere i pigmei Bambuti nel loro sforzo di essere riconosciuti come cittadini alla pari degli altri. I progetti educativi promuovono un diritto all’istruzione che tenga conto dei tempi della comunità pigmea, legati alla foresta: durante il periodo della caccia, infatti, le famiglie si trasferiscono nella foresta e di questo occorre tenere conto nel fissare il calendario scolastico. Lo stesso vale per l’agricoltura, che non vuole sostituirsi alla caccia stravolgendo così i fondamenti della cultura pigmea, bensì vuole solo fornire un’opportunità complementare alla caccia per l’approvvigionamento di cibo.
La selva colombiana
Intenso è il lavoro dei missionari anche in Colombia, nella zona amazzonica del Caquetá. Si tratta di una zona dove la fitta foresta fornisce un ideale nascondiglio ai gruppi armati in lotta per il controllo del mercato della coca. La popolazione civile, vittima del fuoco incrociato fra esercito, Farc e paramilitari, vive in un clima di costante tensione e timore a causa della presenza capillare, anche se spesso invisibile, dei tre gruppi in lotta, che minacciano i civili e puniscono duramente quelli sorpresi a collaborare con le forze avversarie.
In zone come queste, la cosiddetta bonanza della coca attrae colombiani provenienti da tutto il Paese, che si fermano solo il tempo necessario per trarre vantaggi economici dalla coltivazione delle foglie da cui si ricava la polvere bianca, per scappare in seguito verso zone più sicure. Le persone, dunque, cambiano di località troppo frequentemente e questo crea non pochi ostacoli a chi cerca di portare avanti insieme ai loro progetti duraturi e solidi.
Nonostante le difficoltà, tuttavia, i missionari della Consolata presenti fra Puerto Ospina, Puerto Leguizamo, La Tagua, Solano, Remolino e San Vicente del Caguán continuano a investire sui progetti di formazione per creare nelle popolazioni locali una mentalità diversa, non più rassegnata alla morte e succube della violenza legata al commercio della cocaina ma aperta a un futuro migliore dove un essere umano valga di più dei grammi di droga che trasporta.
Chiara Giovetti