I «lunghi capelli» della democrazia
Reportage / Il «miracolo» di Hong Kong
I «megagrattacieli», la borsa valori, le luci perenni non debbono ingannare. La ex colonia inglese tornata alla Cina popolare sotto lo slogan «un Paese, due sistemi» non è quello che appare. Incontro con Leung Kwok-hung, detto «Lunghi Capelli», rappresentante politico della metropoli e colorito oppositore di Pechino.
Hong Kong. Mentre la Cina celebrava, con il consueto sfarzo e un sempre presente nazionalismo, la sua festa nazionale per i sessantuno anni della Repubblica Popolare, lo scorso ottobre a Hong Kong un manipolo di attivisti manifestava di fronte ad una stazione di polizia contro l’arresto di alcune persone che, nel giugno 2010, avevano celebrato i ventuno anni dal massacro di Tiananmen. A guidarli c’era Leung Kwok-hung, un personaggio celebre a Hong Kong, autoproclamatosi Lunghi Capelli («non me li taglierò finché da queste parti non ci sarà una vera democrazia»), da tempo impegnato in un continuo confronto con il gigante asiatico. Non c’era tanta gente al presidio, ma un discreto schieramento di forze dell’ordine, vagamente preoccupate dalla presenza di uno straniero, tanto più se armato di macchina fotografica. Leung si è avvicinato a loro e dopo un rapido conciliabolo, la normalità è stata ristabilita. Toando sui suoi passi, ha offerto sigarette ai manifestanti, con il sorriso tra le labbra e l’aria di chi sembra sempre avere tutto sotto controllo. Il suo lavoro di una vita, una tela di relazioni politiche costanti, ha fatto diventare Leung un personaggio noto. Pur rimanendo un ottimista, a Lunghi Capelli non manca il cinismo: «Hong Kong è un miraggio», mi ripeterà più volte durante la giornata trascorsa insieme.
La Cina lo deve sopportare perfino in visite ufficiali, perché Lunghi Capelli, anima della politica locale, è da tempo passato dal movimento alle tribune del Consiglio legislativo di Hong Kong, dopo un’elezione che ha fatto scuola: «A parte le occasioni date dalle visite ufficiali, io non posso mettere piede in Cina. Sono stato interdetto».
Eletto nel 2004 con circa 61 mila voti, è divenuto celebre tempo fa in Occidente per le sue numerose battaglie democratiche, sempre accompagnato dalla immancabile maglietta di Che Guevara («Ne ho più di quaranta», precisa). È lui una delle anime più importanti del movimento che a Hong Kong ricorda il giugno 1989, la rivolta di Piazza Tiananmen. Qualche tempo fa di Lunghi Capelli ha fatto un ritratto politico e umano struggente Yu Jie, scrittore cinese recentemente messo ai domiciliari – come il Premio Nobel Liu Xiaobo -, per avere pubblicato proprio a Hong Kong un libro molto critico verso il premier cinese Wen Jiabao.
LA «CASINO ECONOMY»
Incontro Lunghi Capelli in una calda mattinata di Hong Kong, dopo un numero esagerato di telefonate per trovarci nel posto giusto, come fosse impossibile riuscire a trovarlo in un luogo per più di cinque minuti. Lunghi Capelli è ipercinetico e presume che la conoscenza di uno straniero di Hong Kong sia la stessa che ha un locale. Finalmente concordiamo un punto comune, accanto a un Inteet Point (con bibita gratis, schermo gigante, pulitissimo a circa 10 centesimi di euro all’ora).
Arriva a bordo di un minivan con foto del Che e la scritta Power to People. Mi carica rapidamente, neanche avessimo gli scagnozzi di qualche Hong Kong movie alle spalle e ci dirigiamo all’università, dove Lunghi Capelli è invitato a tenere un seminario alla facoltà di giurisprudenza. Oggetto: l’economia cinese e quella di Hong Kong, un modello che Leung chiama la casino economy: «Si basa su speculazioni e scommesse finanziarie, ma la differenza tra chi possiede molto e chi niente, non farà che creare gravi conseguenze alla Cina».
Poi andiamo nel suo ufficio nei palazzi governativi di Hong Kong, dove entra tra i saluti e gli abbracci di ogni addetto all’interno del mega insediamento di Ice House Road, cuore della city di Hong Kong.
VERRÀ IL TEMPO (ANCHE IN CINA)
Leung si definisce socialista e costituisce una novità politica nella palude di Hong Kong, perché rappresenta una sorta di anti politica, concepita come movimento delle persone, contro il potere dei partiti (qualcosa di avvicinabile al grillismo italiano, benché con altro retroterra storico e culturale). Da quando è stato eletto versa 4mila euro circa del suo compenso nelle casse di diverse organizzazioni della società civile di Hong Kong, dopo essee stato per molto tempo un loro rappresentante, sempre presente e molto acclamato dai media: «La politica è fatta dalla gente e io sono ottimista circa il futuro. D’altronde anche prima del crollo dell’Unione Sovietica nessuno credeva a quella possibilità. La Cina in questo momento appare molto forte, ma le disuguaglianze e la mancanza dei diritti prima o poi creeranno dei problemi alle autorità. Non è questione di leader. Io sono semplicemente uno che aiuta la gente a dire “basta”, perché alla fine a muoversi sono le persone, quando capiscono che si è arrivati ad un livello limite di sopportazione. Per questo sono ottimista».
Chiacchierare con Leung – completamente ispirato dal Novecento – è un continuo rimando al passato, anche europeo, con un occhio di riguardo alla storia cinese. «Mao era uno che quando aveva freddo si metteva il cappotto del comunismo, ma in realtà il suo modello restava quello confuciano», precisa. Spiegando poi il suo personale approccio alla politica cinese: «Ci sono stati i recenti scioperi in Cina che mostrano una situazione che potrebbe diventare più calda, nonostante la potenza esibita da Pechino. Io credo che la gente, quando il regime autoritario non sarà in grado di farla mangiare quotidianamente, si ribellerà».
Saliamo ancora sul minibus, di fretta, verso la stazione di polizia di Quarry Bay, dove finiscono tutti gli attivisti che hanno problemi con la giustizia della città: «In teoria la polizia di Hong Kong non ha grossi problemi con noi, ma le pressioni cinesi ormai si fanno sentire».
Dopo la dimostrazione finiamo in un piccolo ristorante di quella zona, prima popolare e abitata da operai, ora finita nel progetto di costruzione di una nuova sfavillante parte della città finanziaria. Mentre mangiamo noodles e tofu, gli chiedo come ci si senta a combattere un governo, nominalmente socialista, con la maglia di Che Guevara: «È molto semplice in realtà, specie se ritieni che la Cina non sia comunista. Il Che non sarebbe sopravvissuto in Cina». Hong Kong e Cina: impossibile uscire dal dualismo, come se per spiegare uno dei due fattori, fosse obbligatorio parlare dell’altro.
Che sentimento, che aria si respira ad Hong Kong rispetto alla Cina? «Frustrazione, in primo luogo. Combattiamo contro un gigante, con ben poche possibilità di vincere, ma almeno noi dobbiamo resistere. È difficile. La forza economica della Cina ha scelto Hong Kong come centro finanziario. Quindi tutte le persone che hanno legami con il Partito a Hong Kong ormai fanno valanghe di soldi. Questo crea molta confusione, perché la gente vede questi fenomeni e pensa che la Cina gioverà a Hong Kong. È pur vero che noi, per molto tempo, non abbiamo avuto uno straccio di società civile, ma piano piano qualcosa sta nascendo. In Europa c’è voluto molto tempo prima di affermare alcuni diritti, anche in Cina, più conservatrice e tradizionalista, saranno necessari molti anni. Ma i cambiamenti arriveranno, ne sono certo».
E Hong Kong in tutto questo? «Qui dopo il passaggio cinese al capitalismo ormai la gente non ha più un senso politico. Il socialismo viene visto come il demonio, c’è una grande confusione. Il problema vero è che sono trent’anni che manca completamente una discussione critica e politica».
HONG KONG NON ESISTE
Mentre usciamo dal ristorante, di fronte ai megagrattacieli di questa ex area operaia, Leung mi indica con il dito il centro di Hong Kong, da cui siamo partiti in mattinata: «Hong Kong non esiste – spiega -, è un miraggio: la maggioranza delle persone può solo guardare le vetrine splendenti, senza comprare nulla. Per questo prima o poi le cose cambieranno».
1842 Hong Kong viene ceduta dalla Cina alla Gran Bretagna, dopo la prima guerra dell’oppio.
1941 – Viene occupata dai giapponesi fino al 1946, quando viene liberata dalle truppe inglesi.
Anni ’70 Dopo la seconda guerra mondiale comincia una crescita economica che porterà Hong Kong ad essere considerata la prima tra le «tigri asiatiche».
1997-2046 Nel 1984 viene deciso il passaggio alla Cina, attraverso un accordo tra quest’ultima e la Gran Bretagna, formalizzato ufficialmente nel 1997. Nasce la politica di «un paese due sistemi» come cardine politico della Regione amministrativa speciale di Hong Kong, in attesa del passaggio totale alla Cina, che avverrà solo nel 2046.
LA PRESENZA RELIGIOSA
La libertà religiosa è uno dei diritti fondamentali garantiti dalla Basic Law di Hong Kong. Nella regione amministrativa autonoma sono presenti credenti di molte correnti religiose, orientali e occidentali, tra buddisti, induisti, confuciani, taoisti, cristiani e musulmani. I cattolici sono circa 350 mila, con 291 sacerdoti, 41 chiese e 30 cappelle che permettono di celebrare messe sia in lingua cantonese, sia in inglese. Ci sono anche 283 scuole e asili cattolici, con circa 220 mila studenti. Non mancano i servizi sanitari: 12 ospedali, 39 centri per famiglie, 18 ostelli, 13 case per anziani, 20 centri di riabilitazione. La Caritas è una delle principali associazioni di aiuto della Chiesa di Hong Kong, strettamente in contatto con Roma e gli altri centri religiosi asiatici.
UN PARADISO… FISCALE
Con circa 7 milioni di abitanti, Hong Kong da un’economia basata sulle esportazioni di beni legati all’elettronica e all’industria dell’abbigliamento, è diventata ormai un centro finanziario, sede di attività di multinazionali e banche. È considerato un paradiso fiscale. Hong Kong politicamente è governata dalla «Basic Law», la costituzione locale. Il potere esecutivo è nelle mani del primo ministro e il Consiglio Esecutivo, mentre le leggi sono approvate dal Consiglio Legislativo, metà del quale è eletto a suffragio universale, mentre l’altra metà è nominato dalle «functional costituencies», le corporazioni professionali che il governo cinese ha deciso di non abolire perché favorevoli alla sua politica.
Simone Pieranni