Guardando con occhi da indio

Amazzonia: una diversa prospettiva (2.da parte)

I popoli non indigeni dell’Amazzonia, gli invasori venuti da fuori, da sempre guardano a quell’immenso territorio, terra di inesauribili risorse, con gli occhi dell’avere.
Ma coloro che nella foresta nascono e vivono da millenni, guardano ad essa con occhi diversi, quelli dell’essere, perché la vita dell’uomo e della foresta sono inscindibilmente unite. Nell’Amazzonia le due culture si incontrano e scontrano. Qualcuno, come i missionari della Consolata, è presente perché prevalga
l’incontro vero sullo scontro.

Nell’articolo precedente (MC aprile 2011, pp. 53-57) abbiamo visto le conseguenze devastanti che l’approccio agro-industriale, basato sulla «cultura occidentale», ha sulla foresta amazzonica. In contrapposizione ad esso sta prendendo sempre più vigore un modo antico ed alternativo di relazionarsi con la foresta, quello basato sulla «cultura india», ben descritta da Daví Kopenawa, sciamano e capo politico degli Yanomami. «I nostri vecchi – ha detto Daví in un incontro internazionale di giovani -, i nostri avi hanno conservato la natura, la montagna, la foresta, l’acqua e non hanno mai pensato di distruggere questi elementi. Io sto lavorando e lottando perché non muoia, assieme alla foresta, la nostra cultura: i nostri canti cerimoniali, lo sciamanesimo e le altre attività tradizionali che continuiamo a praticare. Noi Yanomami siamo molto preoccupati; io sono molto preoccupato perché (nella nostra terra) stanno venendo molti non indios, molti bianchi, da altre parti del Brasile, e perché i governanti di qui incitano alla distruzione della natura per l’estrazione dei minerali e delle altre risorse. [Rivolgendosi a europei e nordamericani:] i vostri avi non hanno riflettuto, non hanno pensato prima di distruggere la terra. Adesso voglio parlare a voi; mandarvi un messaggio che vi chiedo di portare ai vostri popoli affinché comprendano almeno un po’ il nostro modo di pensare e le nostre esigenze. Il mio messaggio vorrei che fosse diretto in particolare ai giovani e alle giovani, adolescenti e anche a quelli un po’ più grandi, perché pensino e riflettano. I bianchi ora sono preoccupati per i cambiamenti climatici. Vorrei che questi giovani capissero che bisogna rispettare la terra, rispettare la foresta, rispettare i popoli indigeni. Io vorrei che si comprendesse l’anima della foresta, lo spirito della foresta; che i giovani capissero l’importanza di questo: noi siamo fratelli e la terra è la nostra madre». Gli Yanomami non nascondono l’ambizione – non priva di un filo di supponenza – di voler educare i bianchi per evitare l’autodistruzione dell’umanità verso la quale i bianchi stessi – se non cambiano modello di vita – sono destinati ad andare.
Ma noi bianchi perché dovremmo farci educare dagli indios? Perché gli indios hanno nella loro cultura lo «spirito della foresta», della foresta amazzonica in particolare, che insegna all’uomo che ogni essere vivente, anche se piccolo e ritenuto di poco valore, è utile e positivo in qualche campo specifico.

ECOSISTEMA IMMENSO
E parliamo di un ecosistema enorme (7 milioni di km2, che corrisponde al 5% dell’intera superficie terrestre e al 40% della superficie dell’America del Sud), con la diversità biologica più ricca della Terra: oltre 60.000 specie di piante, circa 100.000 specie di invertebrati, 3.000 specie di pesci, 400 specie di anfibi, quasi 400 specie di rettili, 1.300 specie di uccelli, più di 400 specie di mammiferi, fra cui oltre un centinaio di primati; cioè il 30% di tutte le specie di flora e fauna del mondo.
La nostra società ha da imparare molto dalla foresta amazzonica e dagli indios che la abitano. Innanzitutto la cultura della diversità. Gli indios hanno da insegnare agli europei – che dopo aver distrutto le proprie risorse naturali hanno esteso questa loro capacità all’intero mondo – a convivere con la foresta amazzonica, traendone risorse senza distruggerla; hanno da insegnarci valori che l’uomo moderno ha smarrito, a cominciare dal valore della vita, valori che sono passati in secondo piano per cedere il posto all’ansia del possesso individuale senza limiti, all’avidità, all’ingordigia. Quando questi prendono il dominio, si crea uno scompiglio esistenziale: è la crisi dell’uomo moderno, della nostra società.

MACUXI: IL RECUPERO
Quando parliamo di indios occorre però distinguere quelli, come gli Yanomami, entrati in contatto con i bianchi circa mezzo secolo fa, da quelli, come i Macuxì, in contatto con i bianchi da alcuni secoli; Yanomami e Macuxì che ho avuto modo di visitare di recente (nel dicembre 2010).
Ai secondi si può applicare in gran parte il quadro descritto sopra riguardo agli effetti provocati dalla colonizzazione più o meno recente dell’Amazzonia. Per essi l’urgenza è quella di arginare la perdita della loro identità culturale, prodotta dal prolungato contatto con i non indios, il recupero della stessa e il riconoscimento effettivo dei loro diritti politici, sanciti dalla Costituzione brasiliana del 1988, ma al momento ancora lontani dalla loro piena applicazione. La Costituzione riconosce come «terre indigene» quelle occupate tradizionalmente e in maniera continuativa dagli indios, utilizzate per le loro attività produttive, indispensabili per la preservazione delle risorse ambientali, e necessarie per la loro riproduzione fisica e culturale, secondo i loro usi, consumi e tradizioni. Queste terre non sono di proprietà degli indios, bensì dell’Unione Brasiliana, e vengono concesse in possesso ai gruppi indigeni che ci vivono; terre inalienabili e indisponibili. Gli indigeni mantengono – in modo imprescrittibile – il diritto esclusivo allo sfruttamento delle risorse, delle ricchezze presenti nei fiumi, nei laghi e nel sottosuolo, salvo autorizzazioni a favore di non indios, da parte del Congresso Nazionale Brasiliano, le quali comunque devono prevedere la consultazione previa degli indios residenti e una loro partecipazione ai profitti.
Questa è la legge, ma la sua applicazione è stata finora assai travagliata. Prova ne è la vicenda dell’area indigena di Raposa Serra do Sol, nello Stato di Roraima, della quale il Supremo Tribunale Federale solo nel 2009, dopo trent’anni di lotta, ha riconosciuto il possesso ai Macuxì che l’abitavano da millenni. Ma questo possesso non è ancora completo, poiché sussistono alcune condizioni limitative da rispettare.
Nel corso di questa lotta, assai rilevante è stato l’apporto dei missionari e delle missionarie della Consolata operanti a Bõa Vista e nell’Amazzonia in generale: colonne portanti della campagna intea e internazionale Nos Existimos, fondata sul movimento comune dei tre segmenti sociali deboli (indios, contadini senza terra e lavoratori delle periferie urbane) per il riscatto dei diritti di cittadinanza basati sulla giustizia e lo sviluppo sostenibile, e articolata sul riconoscimento legale delle terre indigene. Il che richiede l’allontanamento dalle medesime terre di ogni persona estranea, la concessione di titoli di proprietà o di possesso ai piccoli coloni delle terre da essi lavorate, e interventi economici e sociali a favore dei coloni stessi, il blocco dello sviluppo dei latifondi e delle industrie con impatto ambientale devastante, politiche dell’occupazione a favore degli emarginati urbani nonché la lotta contro la violenza, la corruzione e l’impunità a tutti i livelli.
La partecipazione alla lotta per creare una coscienza comune nelle fasce deboli ha avuto come risultato finora, in modo evidente, solo il predetto rispetto della Raposa Serra do Sol. Ciò è costato ai missionari della Consolata, oltre a numerose intimidazioni e minacce, il sequestro per alcuni giorni di tre missionari, nel 2004, e l’incendio doloso del Centro Indigeno di Formazione e della scuola di Surumú, nel 2005.
Come si vede, si tratta di una situazione in cui gli indios Macuxì, assai faticosamente, cercano di riacquistare una totale libertà e rispetto della loro esistenza e delle loro tradizioni. Per ottenere questo stanno mettendo al centro del loro progetto un’ambiziosa azione di formazione culturale e professionale, consci del fatto che non si può uscire da nessuna situazione di emarginazione economica e sociale senza un grande investimento in capitale educativo e umano, che per loro significa anche recupero della loro cultura ancestrale. Punto centrale della cultura Macuxì è l’approccio comunitario. Sono le singole comunità che inviano i giovani e le giovani più promettenti alla scuola di Surumú, ed essi – formati anche attraverso il contatto con comunità diverse dalle loro di origine – diventeranno capaci di lavorare per la comunità di appartenenza. Infatti è la comunità che investe mantenendo agli studi i giovani e che quindi avrà i primi benefici dell’investimento fatto.
Una chiara lezione che possiamo trarre noi europei: l’istruzione è un bene pubblico che dev’essere finalizzato al bene comune e non trattato come un affare privato. È un modello di economia comunitaria, non di comunismo, poiché ognuno può lavorare e godere i frutti oltre che per la comunità, anche per se stesso, lavorando nelle terre che gli sono assegnate.

YANOMAMI: LA DIFESA
L’approccio comunitario è assai diffuso anche nella cultura degli Yanomami, che si trovano in una situazione differente rispetto ai Macuxì. Entrati in contatto da poco con i non indios, il loro problema contingente è la difesa della loro cultura dalle influenze inevitabili che il contatto con altre culture comporta. Così, mentre le donne tutte, di qualsiasi età, rigorosamente indossano solo il pessimaki – una frangetta di cotone rosso vivo che copre la vulva e avvolge i fianchi al di sopra delle natiche –, solo gli uomini di una certa età vanno in giro nudi con il pene legato da una cordicella di cotone (xenarú-ukú) che, cingendo i fianchi, glielo tiene alto e appoggiato al ventre; i giovani e molti bambini indossano invece variopinti e stinti calzoncini bermuda. Gli sciamani continuano ad applicare i riti volti a guarire uomini, donne e bambini, ma gli abitanti delle yano o xabono (nomi yanomami che corrispondono al guaraní maloca) ricorrono anche alle cure dei centri di assistenza medica della Funasa (Fundação Nacional de Saúde), specie per la cura delle malattie che essi ritengono acquisite dai non indios (malaria, tubercolosi, influenza, morbillo, sifilide e altre). Gli Yanomami sono disponibili a iniziare nuovi percorsi di inculturazione loro proposti dai non indios, a condizione che l’azione culturale sia circoscritta e includa anche l’insegnamento dello scrivere la loro lingua. Questa è sempre stata trasmessa esclusivamente in forma orale e la riduzione alla forma scritta è stata fatta solo di recente ad opera di missionari e missionarie ed è considerata dagli Yanomami come utile strumento per comunicare con l’esterno in posizione di eguaglianza e reciprocità.
Il grande problema oggi è in effetti la difesa della loro identità culturale, impeiata sulla credenza che esiste uno stretto parallelismo fra comunità degli uomini e comunità degli spiriti buoni (xapuri). Punto nodale è lo sciamano (pajé o xapuri lui stesso), che tiene i contatti con il mondo degli xapuri ed è la chiave per mantenere l’armonia dell’Universo. Gli xapuri sostengono il cielo e la morte dell’ultimo di essi significherebbe la fine del mondo. Essi si occupano della trasmissione dei miti e delle conoscenze e sono in grado di guarire le persone: non sono le medicine che guariscono, ma lo sciamano che fa in modo che lo xapuri (spirito buono) scacci quello cattivo. Tutte le disgrazie sono provocate da gesti che rompono l’armonia; è quindi fondamentale mantenere l’armonia per impedire che il mondo parallelo degli xapuri, che sta sopra, crolli.

NUOVI PERICOLI
Quest’identità culturale è in pericolo per la presenza dei garimpeiros e dei militari che uccidono gli animali, devastano la terra, abusano delle donne, portano malattie (che sono segno lampante, per gli Yanomami, del disturbo arrecato dai garimpeiros e dai militari alla comunità degli spiriti). Le singole comunità (le singole yano) non sono in grado di fronteggiare gli intrusi operando ognuna per sè; per questo occorre un’unione delle diverse comunità.
Assai apprezzata è quindi l’opera dei missionari e missionarie della Consolata che, negli ultimi anni, hanno concorso a organizzare incontri ripetuti degli sciamani di un’ampia zona con popolazione yanomami, sostenendo gli ingenti costi per il trasporto aereo degli sciamani delle diverse yano. Sono assai apprezzati perché permettono l’operare comune degli sciamani – e, quando gli sciamani operano insieme, le malattie se ne vanno – e la formazione di nuovi sciamani.
Ad essi, e ai loro amici e sostenitori, è stato anche richiesto di sostenere e finanziare pure le riunioni zonali dei taxaua (capi politici) delle diverse yano al fine di dar luogo ad un’assemblea dei capi politici che faccia massa critica per l’impostazione e la realizzazione di un’efficace azione politica a livello locale, statale e federale che respinga la presenza dei garimpeiros, limiti l’azione dei militari e contrasti l’avanzata dei fazendeiros nelle terre yanomami. Come si vede, esigenze e richieste molto precise e concrete!

LA MONETA
Un altro problema delicato è il contatto con la moneta. Alcuni Yanomami ricevono un salario dalla Funasa poiché lavorano presso un centro medico allestito presso una yano all’interno della Missione Catrimani; ma mancano di un’adeguata preparazione sull’impiego del denaro ricevuto. Che cosa significano i soldi in una cultura che non ha soldi? Per molti indios le conseguenze sono state disastrose: la loro identità culturale s’è disgregata e hanno presto imparato a mendicare per acquistare alcolici.
Questo è ciò che gli xapuri e i taxaua degli Yanomami che vivono nelle zone più intee della foresta vogliono fermamente evitare e per questo sentono la necessità di operare congiuntamente e intravedono l’azione positiva che può essere svolta da coloro che avvertono come amici, come i missionari e le missionarie della Consolata, i figli e le figlie del beato Giuseppe Allamano.

METODO ALLAMANIANO
Sarei quasi per dire, parafrasando l’esclamazione sopra riferita agli indios: «Lasciamoci educare dai missionari e dalle missionarie della Consolata!». Educare dal metodo allamaniano (come ebbe a dire Papa San Pio X) di evangelizzazione, che non procede abbattendo una parte della foresta, costruendo una chiesa e cominciando poi a contare i battezzati, più o meno spontanei, nella fede cattolica; che non procede accelerando l’assimilazione degli indios nella società brasiliana e la loro evangelizzazione, bensì ponendo al centro della propria azione l’attenzione alla persona. Era convinzione del beato Allamano che per avviare alla religione cristiana fosse opportuno passare attraverso «l’elevazione dell’ambiente» perché la promozione umana è parte integrante dell’evangelizzazione.
Nel caso particolare dell’opera missionaria nei confronti degli indios della selva amazzonica, essa si articola sui seguenti punti:
1. tutelare la loro salute fisica;
2. rispettare e fortificare la cultura, i valori, le tradizioni, la lingua e il modo di vivere delle comunità indigene;
3. promuovere l’alfabetizzazione nella loro lingua, oltre che nella lingua veicolare portoghese;
4. aiutarli ad adattarsi ai cambiamenti sociali ed economici che inevitabilmente deriveranno dai contatti con gli estranei.

FORMAZIONE DI LEADER
Un esempio illuminante di azione di evangelizzazione in atto presso le comunità yanomami dell’interno è il progetto di formazione di professori e leader di comunità, in grado di svolgere attività d’insegnamento nei confronti dei membri delle comunità, ma anche attività di organizzazione e di animazione, di traduzione portoghese-yanomans (o altro idioma yanomami), di mediazione con le autorità pubbliche brasiliane, e di interazione con le associazioni che appoggiano la causa indigena. Queste sono attività che portano sia al rafforzamento interno dell’identità della comunità sia al miglioramento della capacità politica della stessa per essere messa in condizione di affrontare le inevitabili sfide con la società circostante in modo autonomo e consapevole, potendo contare su strumenti di comunicazione basati su adeguate conoscenze del proprio mondo e di quello esterno.
Salvare innanzitutto la loro vita personale e comunitaria; se poi i buoni risultati ottenuti nello sviluppo delle attività predette porteranno al sorgere di un’atmosfera di comprensione reciproca, sarà possibile, all’interno di essa e su richiesta dello sciamano o del singolo indio, aprire un colloquio riguardante anche gli aspetti spirituali e religiosi, preludio all’evangelizzazione. Percorso che non sarà sicuramente facile.

UN CASO DIFFICILE
Un caso emblematico: l’infanticidio, che è pratica diffusa presso gli Yanomami e che è la diretta conseguenza della loro concezione della nascita di una nuova vita. Per gli Yanomami la vita non inizia con il concepimento né con il distacco della nuova creatura dalla madre, ma con l’accoglimento da parte della comunità (che, accettandola, se ne fa carico); il che è espressamente indicato con l’inizio dell’allattamento del neonato; questo diventa una persona solo se è accettato dal gruppo, dalla comunità. La mancata accettazione può essere dovuta a difetti fisici (ma, a volte, bambini con gravi difetti fisici sono ugualmente accettati e vivono) o a un parto gemellare (è ritenuto impossibile, per mancanza di risorse, allevare contemporaneamente due nuove creature: il maschio viene tenuto e la femmina soppressa). Altre ragioni sono l’eccessiva vicinanza del neonato a un fratello ancora poppante (e lo svezzamento inizia, al più presto, a due anni dalla nascita) o l’abbandono della donna gravida da parte del padre del bambino o comunque in assenza del padre (senza un uomo che sappia cacciare, la donna non potrà allevare il figlio, che viene quindi soppresso) o il fatto che il neonato sia di genere femminile, quando invece la famiglia desiderava avere un maschio.
L’eliminazione della nuova creatura può avvenire o per aborto procurato con erbe o con pugni e calci sul ventre della puerpera o, più di frequente, con la frattura del collo e l’abbandono del corpicino nella foresta. Si può stimare che il tasso d’infanticidio oscilli fra il 15 e il 30 per cento.
Si tratta di una questione assai problematica per un cristiano, e i missionari e le missionarie della Consolata cercano di intervenire spiegando che con l’infanticidio si sopprime una vita o cercando di promuovere atti di adozione da parte della comunità, con l’intervento di donne diverse dalla madre naturale (eventualmente foendo il latte in polvere necessario per l’allattamento), ma in definitiva la decisione spetta soltanto alla comunità indigena e i missionari e missionarie non possono che prendee atto.
È questo il punto sicuramente più arduo, su cui i missionari e le missionarie lavorano con grande attenzione e cautela, come d’altra parte richiede ogni azione di evangelizzazione secondo l’approccio allamaniano. Con la pratica dei principi cristiani quali la carità paziente, il perdono che pone fine a odî antichi, il superamento delle barriere di parentela e lignaggio, il servizio a tutti per il benessere di tutti, la valorizzazione di tutte le forme di vita, l’istruzione che apre la mente e stimola la volontà, i missionari e le missionarie della Consolata suggeriscono agli Yanomami cambiamenti comportamentali e indicano nuovi orizzonti culturali e morali.

Daniele Ciravegna
Docente di Economia politica e ricercatore universitario dell’Università degli Studi di Torino e dell’Universitad Nacional de Córdoba; presidente della Fondazione Don Mario Operti di Torino.

Daniele Ciravegna

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