Autonomia o dominio cinese?
Difficile governare 7 milioni di abitanti barcamenandosi tra la «Basic Law», la minicostituzione di Hong Kong, e i voleri di Pechino. Per ora diritti e libertà sembrano secondari rispetto agli aspetti economici. Ma in futuro le cose potrebbero cambiare.
Hong Kong attende centomila nuovi residenti che andranno ad aggiungersi ai 7 milioni di abitanti dell’ex colonia britannica, tornata alla Cina nel 1997 e il cui definitivo passaggio a Pechino è previsto per il 2046. Il primo aprile si è concluso un calvario lungo 12 anni ed è arrivata al termine la controversa vicenda dei figli di cittadini di Hong Kong, nati in Cina. I ragazzi potranno adesso riunirsi alle proprie famiglie da cui erano stati separati per anni.
Per la maggior parte sono figli di matrimoni misti celebrati tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, quando molti anziani cittadini di Hong Kong, ancora non tornata sotto il controllo di Pechino, cercavano moglie nel sud della Cina. Nel 1999, la Corte di appello finale dell’ex colonia decise che i figli dei residenti nel Territorio avevano lo stesso diritto di residenza di cui godevano i genitori. Un diritto esteso anche a quanti erano nati quando i genitori non avevano ancora ottenuto la residenza permanente. Si permetteva così il ricongiungimento familiare, cui il governo di Hong Kong, guidato dal filo-pechinese Tung Chee-hwa, si oppose, paventando un’invasione di oltre 2 milioni di nuovi cittadini. L’amministrazione della regione autonoma si affidò all’Assemblea nazionale del popolo, il parlamento cinese, per reinterpretare la legge sull’immigrazione – rendendo di fatto illegale il ricongiungimento – e la «Basic Law», la mini-Costituzione di Hong Kong ratificata nel 1990, sei anni dopo la Dichiarazione sino-britannica con cui Margaret Thatcher riconsegnava a Pechino la sovranità su Hong Kong.
La nuova legge presentata dal Segretario alla sicurezza, Ambrose Lee Siu-kwong, prevede che possa chiedere la cittadinanza chi aveva meno di 14 anni al momento della concessione della residenza ai genitori. Il passo in avanti, come è stato definito dagli attivisti che da anni si battevano perché fosse riconosciuto questo diritto, è una conseguenza del cambiamento demografico nell’ex colonia. Nel 2009 il tasso di incremento delle nascite è stato uno dei più bassi al mondo: 11,7 per mille. La società della colonia è sempre più vecchia e manca una forza lavoro giovane, che cinicamente il governo vorrebbe impiegare come mano d’opera. Una strategia che, ha scritto Asia Sentinel, dimostra come il governo tenga in scarsa considerazione «il grande vantaggio che Hong Kong ha su Shanghai o su altre città cinesi: lo stato di diritto e la sacralità dei contratti».
AUTONOMIA ED INTERFERENZE
Un caso analogo di interferenza nell’autonomia della magistratura e più in generale nella definizione circa la sovranità o meno di Hong Kong, si è ripetuto nel processo che oppone il fondo statunitense Fg Hemisphere Associates alla Repubblica Democratica del Congo (RdC) e al colosso dei trasporti China Railway Group. L’Fg Hemisphere è uno dei cosiddetti fondi avvoltornio, ossia un fondo speculativo di investimento privato che compra a basso prezzo i debiti di imprese in difficoltà o di Paesi in via di sviluppo che hanno accumulato un certo ritardo nel pagamento. La società aveva comprato un debito della Snel, la società elettrica congolese, contratto negli anni Ottanta del secolo scorso con la ditta yugoslava Energoinvest, quando ancora la RdC si chiamava Zaire. Nel 1991 lo Stato africano non aveva ancora cancellato il debito e ammise il default. Sei anni fa, avendo ormai perso la speranza di farsi rimborsare, Energoinvest vendette il debito al fondo d’investimento che cercò di farsi valere su Kinshasa in diversi tribunali nel mondo. Lo scorso febbraio la Corte d’appello di Hong Kong ha concesso alla Fg Hemisphere di prelevare l’ammontare del debito, 100 milioni di dollari, dal fondo di 350 milioni di dollari stanziati dall’impresa statale China Railway in favore della Gécamines, una società mineraria congolese.
L’accordo tra la società cinese e il Congo è tipico della strategia di Pechino in Africa, fatta di accesso alle risorse naturali del continente – in questo caso cobalto e rame – in cambio di grandi progetti infrastrutturali. La China Railway è quotata nella Borsa dell’ex colonia sotto la cui giurisdizione, pertanto, ricade la causa contro l’azienda. E qui nasce quella che per molti critici è una minaccia all’autonomia della magistratura. Il governo locale sostiene la tesi difensiva di Kinshasa e dalla China Railway, secondo cui il tribunale di Hong Kong non ha giurisdizione sulla causa perché la Repubblica democratica del Congo è uno Stato sovrano. In questo caso a occuparsene dovrebbe essere un altro Stato sovrano, la Cina appunto. Secondo la Basic Law infatti la politica estera è competenza di Pechino e ogni decisione è rimessa nelle mani del comitato permanente dell’Anp. La Repubblica democratica del Congo si appella all’immunità totale per le imprese a partecipazione statale, prevista nell’ordinamento cinese. Meno chiaro è quanto preveda invece la legge nell’ex colonia. In teoria la Basic Law si ispira ai principi stabiliti dai britannici che governavano il «Porto profumato» dal 1860. Negli anni Ottanta del secolo scorso stabilirono che l’immunità non doveva essere applicata agli accordi commerciali. Il dibattito ruota attorno a un’unica questione, ossia capire se si tratti di affari o di un rapporto tra Paesi sovrani.
IL PREMIER DONALD TSANG
La Corte d’appello si trova davanti a tre possibili scelte: confermare la sentenza di febbraio e irritare Pechino; rigettarla; rimettere la decisione nelle mani dell’Assemblea nazionale del popolo e lasciare ai delegati cinesi il compito di interpretare la legislazione di Hong Kong. Per i critici si tratterebbe dell’ennesima spallata alla politica di «un Paese, due sistemi», che doveva garantire alla Regione amministrativa speciale una forte autonomia e un’indipendenza legislativa per almeno 50 anni dal ritorno alla Cina. Hong Kong gode di libertà di stampa, giudici indipendenti (un lascito della Gran Bretagna) ed elezioni regolari, sebbene il governatore non sia eletto direttamente dai cittadini e metà del Consiglio legislativo sia nominato dalle «functional costituencies», le corporazioni professionali che il governo cinese ha deciso di non abolire perché favorevoli alla sua politica. Già in passato l’amministrazione britannica cercò di cornoptare o marginalizzare le opposizioni, ma questo non impedì di svolgere le prime elezioni all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso.
Dopo il 1997 tuttavia Pechino decretò che il suffragio universale non sarebbe stato possibile prima del 2012, per poi spostare l’asticella ancora più in là di altri cinque anni. Come scrive per l’Hong Kong Joual l’analista Frank Ching: «Trascorsi 13 anni l’autonomia promessa da Pechino si sta restringendo. Allo stesso tempo si sta assistendo a un cambiamento nell’atteggiamento dei cittadini. Nel 1997 in molti volevano tenere le distanze dal Continente, ma oggi che la Cina è diventata la seconda economia al mondo, sanno che devono attaccarsi al vagone della locomotiva rossa». Lo dimostrano le scelte dell’attuale capo dell’esecutivo, Donald Tsang, che ha nominato in posti chiave figure gradite a Pechino, in alcuni casi deputati all’Anp o alla Conferenza politico consultiva del popolo cinese, e lui stesso considerato filocinese.
LA MORTE DI SZETO WAH
Un cambio di direzione che risale al 2003, quando oltre mezzo milione di manifestanti scesero in piazza per protestare contro la difficile situazione economica e contro un nuovo pacchetto di leggi che limitava i diritti di base e la libertà. Il tutto mentre nell’ultimo anno si è assistito a una scissione nel movimento democratico tra un’ala disposta al compromesso e un’altra più radicale. E che a gennaio ha dovuto affrontare la morte di Szeto Wah, settantanovenne veterano e icona dei democratici. Fondatore dell’Alleanza per il sostegno del movimento democratico in Cina e organizzatore per anni della veglia di preghiera per le vittime del massacro di Tiananmen nel 1989 è stato definito una spina nel fianco per la Cina. Ai funerali avrebbero dovuto partecipare anche gli ex leader del movimento studentesco di Tiananmen, Wang Dan e Wuer Kaixi, ora in esilio a Taiwan, cui però è stato negato il visto per entrare nell’ex colonia. Un’occasione persa di dimostrare autonomia, ha scritto Fank Ching, sia per Pechino sia per Hong Kong.
Andrea Pira