Dal passato al futuro
110 anni di cose che non si possono modificare… «Il mondo sta cambiando e ci dobbiamo adeguare». È questo, in sintesi, il ritornello che anima da tempo i nostri dibattiti sulla missione. Cambiare cosa? Cambiare faccia, pelle, anima? Spirito, strumenti?
Il viaggio intorno al nostro Istituto missionario inizia da un viale alberato alla periferia di Torino. Non è una proiezione sul futuro e neppure una finestra aperta sul mondo; è piuttosto un’immagine che rimanda alle radici, come quelle degli alberi che fanno ombra al passeggiare.
È il viale del tramonto? Per alcuni versi forse lo è,
ma non solo.
Due figure vi camminano lentamente, la prima, più bassa, quasi si appoggia all’altra, alta e slanciata, come a un lungo bastone. Quella piccola parla e l’altra ascolta: un borbottio che non si capisce bene da dove venga e cosa voglia dire, suoni confusi.
Il più piccolo vive ad Alpignano (nella casa dei missionari anziani) da alcuni anni, dopo una vita passata in Colombia e in Ecuador; soprattutto in Ecuador, sulla cordigliera. Il suo passo ha lasciato un’impronta grande, fatta di ricordi, affetti e un ospedale dedicato alla Consolata. Testa dura di sardo Doc, è vissuto e ha lavorato là, spesso da solo, alle prese con una salute sempre più precaria, in una valle all’ombra del Chimborazo, la grande montagna che cresce sulla linea dell’equatore, proprio dove la terra ha la pancia più grande, a contatto con la scontrosità naturale di indios che vivono a tremila metri di altezza, con la pelle rovinata dalla fuliggine di vulcani ancora attivi e da secoli di storia dura, passata a dir di sì a chi sempre trova il modo di essere più furbo.
Quello più alto cammina con lui e ascolta. Nato in Marocco da famiglia bergamasca (scherzi padani che non ti aspetti), quattro calci a un pallone con i giovani dell’Atalanta, missionario in Congo, Spagna e Venezuela, qualche anno di servizio nella Direzione Generale… oggi è superiore ed animatore di quella comunità missionaria “in pensione” (sempre che dalla missione ci si possa mai completamente ritirare), fatta di confratelli anziani, quasi sempre ammalati, che, come il piccolo missionario sardo, hanno bisogno di qualcuno cui appoggiarsi per camminare.
Il futuro di un Istituto missionario si costruisce su immagini come questa, storie di vita vissuta rilette alla luce del nostro presente. Le utopie di cui vogliamo alimentare la nostra missione devono fare i conti con un passato e con delle radici forti, se vogliono raggiungere il regno del reale e non perdersi nell’universo del possibile. L’istantanea dei due missionari è una delle tante che potrebbero descrivere cosa è stata ed è la missione per «quelli della Consolata» da 110 anni a questa parte, da quel 29 gennaio 1901 in cui il beato Giuseppe Allamano diede sfogo all’aspirazione missionaria della chiesa torinese con la fondazione dell’Istituto. Non l’esaurisce certamente, ma ne incastona, come gemme, alcune caratteristiche che da sempre fanno parte del nostro carisma: siamo missionari che hanno la consolazione nel cuore, la portiamo nel nome, ed è come se facesse parte del nostro Dna. Il nostro fondatore non ci volle «allamaniani», ma della Consolata, perché fossimo delle estensioni dell’amore silenzioso, umile ma efficace, di Maria. Ci volle presenti a «fare bene il bene», senza squilli di tromba, per essere Buona Notizia nella vita dei più poveri e sofferenti, di coloro che sono più soli e, soprattutto, di coloro che ancora non conoscono Cristo. «Noi siamo per gli infedeli» dice l’Allamano, con il vocabolario proprio del suo tempo. Siamo per i non cristiani, missionari di prima evangelizzazione.
Con coraggio
Da 110 anni, in quattro continenti diversi, proviamo a vivere così. Lo facciamo tra mille difficoltà e contraddizioni, avvertendo il peso di sentirci come vasi di creta sempre più fragili eppure ancora carichi della responsabilità del tesoro che custodiscono. Cerchiamo di vivere questi valori con spirito di famiglia, una famiglia estesa, culturalmente molto diversificata, ma unita da una parola magica a cui costantemente tentiamo di dare significati nuovi: «carisma». Oggi il nostro Istituto (come molte altre congregazioni religiose) vive una duplice sfida interculturale.
I missionari europei sono anziani e in diminuzione, mentre le forze giovani vengono da altri luoghi, soprattutto dall’Africa (e in modo numericamente più significativo dal Kenya, la nostra prima missione); ci troviamo di fronte a un doppio divario culturale: geografico e generazionale. Come trasformare le differenze in ricchezza? Come riscoprire in un presente così complesso, fluido e variabile le condizioni per continuare a vivere il nostro «carisma» di missionari della Consolata? È questa la sfida più grande e urgente che oggi ci attende.
Il lavoro è molto, sicuramente non facile, ma guai a guardare con rassegnazione e paura a ciò che abbiamo davanti. Siamo in tempi di crisi, ma la crisi è anche la condizione necessaria per nuovi cambiamenti: da sempre la storia dell’uomo è andata avanti così. «Avanti in Domino», verrebbe da dire, usando un’espressione cara al nostro Fondatore: «Avanti nel Signore», perché sua è la missione, suo lo Spirito che la anima.
Oggi le nostre diversità possono rivelare la loro ricchezza, dandoci una marcia in più nel fare quello che abbiamo sempre fatto: andare alle genti più diverse. Un tempo esse erano raggiungibili soltanto a prezzo di lunghi e faticosi viaggi, oggi, invece, sono vicinissime, perché mescolate nello spazio di un solo quartiere, sia esso in una delle nostre città che negli slum delle megalopoli del sud del mondo.
Cosa della storia di ieri dovremmo caricarci sulle spalle per poter essere padroni delle nostre storie di domani? La nostra è una storia segnata dal «carisma della missione». Qualcosa di esso è stato scritto sulla carta, ma molto di più è scolpito nelle esistenze di chi ci ha preceduto o vive al nostro fianco, nelle vite di tanti missionari che ancora credono alla vocazione ricevuta e, seppur nella contingenza dell’umana fragilità, ci provano e vanno avanti… in Domino.
I due missionari stanno finendo la loro passeggiata. Ad Alpignano si mangia presto e bisogna rientrare. Uno parla e l’altro ascolta. C’è missione vissuta anche solo in quel semplice stare insieme a testimoniare il senso profondo della comunione, della gratuità, della consolazione. Sullo sfondo appaiono come in dissolvenza altri paesaggi ed altri volti: storie di missione, anche queste, nascoste nel profondo di una foresta, ai margini di un deserto, nella maleodorante periferia di una metropoli o nel profumo di incenso del Santuario della Consolata da cui siamo partiti.
Storie ad gentes, di ieri, di oggi, di domani.
Ugo Pozzoli