110 anni di missione, fedeli cambiando / Africa
Africa
il nostro passato e il nostro futuro
L’ultima immagine del continente africano che ho davanti agli occhi prima di impaginare questo dossier è quella che fa capolino dalle poche righe che padre Willy ci ha inviato dalla Costa d’Avorio: l’immagine di un paese squassato dalla guerra civile, sull’orlo di un conflitto che potrebbe trascendere in una guerra fra etnie con lo spettro di una crisi umanitaria incontrollabile. Ancora una volta il lavoro del missionario è sostanzialmente quello di garantire una presenza di speranza e rifugio per chi scappa e ha dovuto abbandonare ogni cosa. La consolazione si tocca con mano quando ci si trova di fronte a situazioni come questa, in cui ci si chiede perché i padri, i fratelli, le suore scelgono di restare al proprio posto invece di andarsene da una guerra che in molti casi non appartiene loro per una mera ragione anagrafica. Willy è il superiore dei nostri missionari nel paese dell’Africa Occidentale, una delle ultime aperture (1996) dei missionari della Consolata; nato in Congo, guida un gruppo di confratelli provenienti da tre diversi continenti; sa cosa significa essere in guerra perché il suo stesso paese di origine che fa fatica a trovare la pace dai tempi dell’indipendenza.
Anche da quella nazione i nostri missionari hanno storie di sofferenza e di Vangelo da raccontare.
I conflitti in Africa sono all’ordine del giorno e le tensioni che li generano, siano esse di natura politica, economica, religiosa-culturale o tribale (nella maggior parte dei casi queste situazioni coincidono), richiedono un grande dispendio di energie da parte di chi opera come missionario sul territorio. Come dimenticare, del resto, i missionari e le missionarie della Consolata che proprio in Africa, in Kenya, Mozambico e Somalia, hanno dato la loro vita per le persone che il Signore aveva messo sul loro cammino?
Oggi, evangelizzare in Africa significa essere araldi di un messaggio di riconciliazione, che aiuti comunità intere a ritrovarsi, perdonarsi e ricostruire una convivenza distrutta per le ragioni più svariate e continuamente in pericolo.
L’Africa, in tutta la sua complessità, è però anche altro: è novità, innovazione, creatività, sorpresa, potenzialità; lo è per il mondo e, quindi, anche per il nostro Istituto. Analizzando le statistiche che descrivono la nostra geografia vocazionale, viene spontaneo notare come l’Africa rappresenti non soltanto la radice su cui poggia la storia centenaria del nostro Istituto, ma anche la linfa che sta consentendo ai missionari della Consolata di pensare il proprio futuro. Oggi, su poco più di mille missionari professi (contando quindi anche gli studenti in formazione che hanno già superato l’anno di noviziato), più di un terzo è composto da confratelli provenienti da paesi africani. Se si guarda alla carta
di identità, si nota come questa percentuale di
missionari africani abbassi drasticamente la
nostra età media.
Chiaramente questo fattore non riguarda soltanto la missione dell’Istituto in Africa, ma quella in tutti i continenti dove ci troviamo ad annunciare il Vangelo. Da padre Giacomino Camisassa [1892 – 1979], ex-schiavo liberato nel Golfo di Aden e affidato in Kenya ai nostri missionari e primo sacerdote della Consolata africano (ordinato nel 1927), ai giorni nostri la crescita vocazionale di paesi come Kenya, Tanzania e, in parte, Congo, Etiopia e Mozambico ha subito una brusca accelerazione e pone oggi una doppia sfida culturale alla pianificazione del nostro futuro: una sfida ad intra, che tocca l’interno della nostra vita comunitaria ed una ad extra, che si riguarda soprattutto il nostro stile di fare missione.
La «nostra» Africa
Oggi, i missionari della Consolata lavorano in nove paesi africani: Repubblica democratica del Congo, Costa d’Avorio, Etiopia, Gibuti, Kenya, Mozambico, Sud Africa, Tanzania e Uganda; all’interno di essi, operano in una quantità enorme di contesti culturali, linguistici e sociali differenti. Uno degli sforzi che le nostre riviste nel corso degli anni hanno cercato di fare è stato quello di sfatare il più classico dei luoghi comuni: quello di considerare l’Africa come un corpo unico caratterizzato dal fatto che ci vivono persone dalla pelle evidentemente più scura della nostra. Lungi dalle nostre intenzioni, quindi, il voler banalizzare le tante differenze che identificano i vari contesti e offrono un incredibile bacino di ricchezza esistenziale. Vi sono però alcuni fenomeni che interpellano tutta l’Africa e che richiedono a noi missionari soluzioni comuni.
Nati come missionari in contesto prevalentemente rurale (questa era la realtà prevalente nell’Italia in cui siamo nati e nell’Africa a cui siamo stati mandati nel secolo scorso) oggi constatiamo che la missione deve invece spostarsi verso le grandi città, per accompagnare le migrazioni che lì si dirigono. Il fenomeno della desertificazione, l’incremento demografico e la mancanza di sicurezza a causa dei molti micro e macro conflitti che tormentano il continente, rappresentano tre dei motivi principali che spingono masse di persone a rifugiarsi nelle varie periferie metropolitane. Nairobi, Johannesburg, Kinshasa sono tre dei più grandi centri urbani che vedono tentativi di nuove presenze missionarie all’interno delle aree più disagiate. Chiaramente la missione in città richiede un cambiamento di metodo e mentalità; occorrono missionari con preparazione specifica, capaci di fare scelte pastorali adeguate per comunità che normalmente non hanno più nell’identità familiare, culturale e religiosa il loro punto di coesione.
Ma c’è un altro mondo che richiede rinnovamento e impegno nuovo ai missionari. Un tempo l’azione missionaria si identificava soprattutto con la pastorale parrocchiale classica, con il suo immancabile corollario di attività nel campo educativo e sanitario. Oggi questo tipo di impegno non viene sicuramente meno, ma non basta. Emergono nuovi ambiti missionari, come l’animazione missionaria e vocazionale delle giovani chiese locali, l’impegno per la «giustizia, pace ed integrità del creato» (con speciale attenzione alla formazione dei leader comunitari), e l’evangelizzazione attraverso i mezzi di comunicazione sociale (siano essi i classici libri, riviste e radio, che i nuovi media come internet e social networks).
Queste nuove realtà esigono anche un ripensamento della collaborazione con le forze missionarie dei nostri paesi chiamate non solo ad appoggiare finanziariamente, ma anche ad agire con azioni di sensibilizzazione e denuncia di situazioni di grave ingiustizia che non hanno cause e soluzioni solo locali.
Un esempio significativo al riguardo è sicuramente quello inerente al dramma dell’HIV-Aids. Tanti sono gli sforzi per accompagnare le comunità devastate dal virus a livello locale, con programmi di pastorale e di assistenza sociale e medico sanitaria. Ma grande è anche lo sforzo di dare al problema maggior copertura mediatica, di formazione ed informazione per incidere sulla mentalità e la coscienza della gente e stimolare così una buona prevenzione.
Per andare dove?
Infine, un ultimo contesto da tenere in considerazione e su cui molto si giocherà in ambito missionario nel continente africano è quello del dialogo inter-religioso. L’infiltrazione musulmana (in alcune zone paragonabile a un vero e proprio assalto sistematico), la presenza di innumerevoli sette evangeliche, l’arrivo massiccio di comunità asiatiche (come i cinesi) con il loro millenario bagaglio di cultura religiosa… tutto interpella i missionari ad esporsi a questa sfida che presuppone non solo una solida base spirituale ma anche un’apertura nuova all’altro e una conoscenza profonda delle sue tradizioni religiose.
La missione nel continente sta ripensando se stessa e i nostri missionari stanno, tra mille fatiche, cercando di renderla sempre più viva e attualizzata alle nuove situazioni di cambiamento. Sicuramente il Capitolo generale sarà chiamato a confrontarsi con le attuali presenze, a valutae la rilevanza e lo stile, per verificare se ancora rispondono al nostro carisma ad gentes specifico o se piuttosto potrebbero essere lentamente affidate al clero diocesano o ad altri operatori pastorali. Sono valutazioni difficili, che toccano la vita di persone e comunità e che non possono essere fatte a cuor leggero, senza ben calcolare strategicamente i vantaggi o le complicazioni che ogni scelta comporta. La fattibilità e la sostenibilità dei nuovi progetti sono criteri che vanno tenuti in considerazione se si vuole garantie anche la continuità sul territorio.
è una valutazione che però va fatta, perché un impegno missionario fedele alla sua ragion d’essere deve ribadire, anche nei luoghi dove siamo presenti da più di cent’anni, che alla radice della nostra scelta missionaria c’è la vocazione di dedicarsi soprattutto alla prima evangelizzazione.
Ugo Pozzoli