Cana (22) «Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli»

Il racconto delle Nozze di Cana (22)

Gv 2,2: «Fu chiamato/invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli»
(Eklêthē de kài ho Iēsoûs kài hoi mathētài autoû eis ton gàmon)»
Parte prima

Il versetto 2 del capitolo 2 di Gv è molto importante dal punto di vista narrativo perché si colloca sul primo livello del racconto e vuole darci una informazione decisiva, molto più importante di quella contenuta nel versetto precedente, che parla di un matrimonio dove «c’era là anche la madre»; capiremo il motivo più avanti. Il vangelo di Giovanni inizia con il grande prologo (Gv 1,1-18) in cui si descrive non la nascita carnale, come fanno i Sinottici (Mt 1-2 e Lc 1-2), ma la «preesistenza» del Lògos, considerato in se stesso, cioè nella sua eternità che però si relativizza nel mondo in cui «il Lògos carne fu fatto» (Gv 1,14). Poi prosegue con l’attività di Giovanni il battezzante che culmina nel battesimo nel Giordano (cf Gv 1,19-34) e prosegue con la presentazione dei discepoli di Giovanni, che sono curiosi di conoscere chi è Gesù fino al punto che alcuni lo frequentano e infine lo seguono (cf Gv 1,35-51).
Prepararsi a un ingresso
Per tutto il capitolo primo del quarto vangelo, Gesù appare nello sfondo, dapprima come invisibile nella condizione di «Lògos» e poi nella storia come figura incerta, non definita: è un assente presente. Tutto il capitolo primo, infatti, è solo una preparazione all’ingresso ufficiale di Gesù che viene a inaugurare la sua attività di rabbi itinerante, portatore di una novità e un senso nuovo. Gesù infatti entra in scena, anzi irrompe nel racconto evangelico in Gv 2,2: «Fu chiamato/invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli». Ecco il primo passo della rivelazione nuova della nuova alleanza che, a sua volta, è ancora preceduto da Gv 2,1, che ci offre due informazioni circostanziali, cioè secondarie, per predisporci più profondamente e intimamente al solenne ingresso di Gesù nella storia della salvezza.
L’autore indugia a lungo, parte da lontano, quasi avesse timore di precipitare gli eventi e rallenta la scena perché vuole mettere in contrasto due presenze e due funzioni: da una parte lo sposalizio e la madre, dall’altra il Figlio con i discepoli. Il greco usa il verbo aoristo indicativo passivo, che in italiano corrisponde al passato remoto passivo: «Fu chiamato/invitato anche Gesù». È la prima notizia importante che l’autore vuole comunicarci dall’inizio del vangelo. Qualcuno potrebbe obiettare che anche in Gv 2,1 c’è un aoristo indicativo medio che in italiano si rende sempre con il passato remoto. Anche qui il verbo dovrebbe indicare la linea principale della narrazione: «Nel terzo giorno uno sposalizio avvenne a Cana di Galilea» (Bibbia-Cei 2008: «vi fu»). L’obiettore avrebbe ragione se non fosse per il fatto che il passato remoto di Gv 2,1 non è a inizio di frase, ma in greco è collocato esattamente dopo «sei» parole e quindi perde il valore di narrativo verbo principale, cioè non si colloca nella linea primaria del racconto che avrebbe mantenuto, se fosse stato collocato all’inizio della frase. La notizia dello sposalizio pertanto è di natura secondaria e si pone sullo stesso piano di quella che descrive la presenza della madre per la quale si usa il verbo all’indicativo imperfetto: «C’era là la madre».  
L’importanza della lingua e delle parole
Dal punto di vista linguistico, il passato remoto «avvenne», posto dopo sei parole e l’imperfetto «c’era» hanno lo stesso valore temporale, perché le due notizie hanno lo scopo di preparare l’esplosione del primo verbo principale assoluto che fa entrare solennemente in scena Gesù come agente principale: «eklêthē de kài ho Iēsoûs – fu chiamato poi anche Gesù»: è questa l’affermazione solenne e principale a cui l’autore vuole arrivare. Tutto il capitolo primo è una preparazione per questo ingresso che è l’inizio formale del Nuovo Testamento. Sia l’informazione che a Cana si stava celebrando uno sposalizio sia quella che lì c’era anche la madre servono a circostanziare, a spiegare, a rendere più chiara e anche contrastante la presenza di Gesù: le due notizie sono cioè a servizio dell’irruzione di una presenza che nessuno poteva immaginare.
Poiché questo è un punto importante per capire il racconto di Cana, facciamo un esempio, forse più evidente, tratto dai primi tre versetti della Genesi con cui si apre la Bibbia. Se prendiamo le traduzioni in italiano noi leggiamo così:

«1In principio Dio creò il cielo e la terra. 2La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. 3Dio disse: “Sia la luce!”. E la luce fu» (Gen 1,1-3).
Da questo testo così tradotto, emerge che le informazioni principali sono tre: «Dio creò il cielo e la terra»,  «Dio disse» e «la luce fu»; invece Gen 1,1-2 è solo circostanziale per spiegare le condizioni dell’intervento di Dio perché la vera notizia è «disse Dio». La traduzione ordinaria, anzi banale e letterariamente anche piatta e senza sentimento, travisa il testo ebraico e snatura anche il senso del messaggio teologico, perché l’autore sacerdotale che ci informa sulla creazione, in verità vuole mettere in evidenza e in modo forte e solenne che la creazione avviene attraverso la «Parola» e non con azioni materiali per cui è molto importante che la prima parola narrativa del testo arrivi con Gen 1,3 con l’energico e dirompente: «Disse Dio». Solo in Dio la Parola diventa Fatto e per questo al «disse Dio» corrisponde una esecuzione immediata: «E fu luce». Non è un caso che in ebraico si usa il verbo «’amàr – dire» che nella forma sostantivata «dabàr» significa tanto «detto» quanto «fatto». Per esprimere questa impostazione che solo la linguistica può mettere in evidenza, è necessario, nel rispetto del testo ebraico, tradurre in questo modo:

«1Quando “nel principio del-Dio-creò-il cielo-e-la-terra” 2e la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque, 3disse Dio: “Sia la luce!”. E la luce fu».
Il punto di partenza del racconto è Gen 1,3 e deve essere messo in evidenza perché tutto il resto, cioè le quattro informazioni che formano il contesto dei vv. 1-2, potrebbero non esserci e il racconto filerebbe lo stesso dal punto di vista della narrazione principale.
L’autore del quarto vangelo usa lo stesso sistema: prepara il terreno, narra le circostanze, espone le condizioni, crea il contesto per portarci al momento iniziale che coincide emozionalmente con il primo incontro con la persona del Signore Gesù, sulla cui identità tutto il vangelo si interroga: «Chi è Gesù?». Anticipiamo la risposta: Gesù è lo Sposo dell’alleanza nuova, perché egli giunge a Cana, terra pagana (cf Mt 4,15), per annunciare la nuova alleanza, come Israele giunse nel deserto ai piedi del Sinai per ricevere l’alleanza nelle tavole di pietra. Un grande evento sta avvenendo davanti a noi e noi abbiamo il privilegio di essere protagonisti insieme ai discepoli che sono la sorgente dei nuovi credenti.
Uno schema di linguistica testuale
Se consideriamo il testo greco dal punto di vista della linguistica testuale, cioè della narrazione come l’ha concepita l’autore e delle informazioni che intende darci, ci accorgiamo subito che la presenza della madre è una notizia complementare, secondaria, che serve come informazione di supporto per mettere in evidenza la linea principale del racconto che è scandita dai verbi al passato remoto o dal presente indicativo (spesso usato nel racconto come «presente storico», cioè al posto del passato remoto, come vedremo). Usando però il presente, l’autore rende ciò che comunica immediatamente contemporaneo al lettore che così è più coinvolto anche emotivamente. Se proviamo a sistemare in forma grafica questa struttura teologica, mettendo a sinistra la linea narrativa principale e in rientro, più a destra, le frasi secondarie con un verbo finito, abbiamo il seguente schema:

    1° livello    2° livello    3° livello     
linea principale    linea secondaria    discorso diretto (imperativo)
        «1E nel terzo giorno, quando uno sposalizio             avvenne in Cana della Galilea ed era
        la madre di Gesù là,    
2allora fu chiamato/invitato anche Gesù e i suoi discepoli allo sposalizio.    
Allo stesso modo se usiamo lo schema per l’esempio che abbiamo preso dalla Genesi, vediamo il seguente schema, che è copia perfetta di quella del vangelo:

    1° livello    2° livello    3° livello     
linea principale    linea secondaria    discorso diretto (imperativo)
        «Quando “nel principio del-Dio-creò-il     
        cielo-e-la-terra”, e la terra era informe
        e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso
        e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque,
3disse Dio:         “Sia la luce!”. E fu luce ».    

Se dallo schema di Gv 2,1-2 che abbiamo presentato, togliamo il versetto 1, il senso del racconto scorre pieno perché la notizia che interessa è che Gesù fu invitato. Per capire la portata di questo invito, al lettore si foiscono alcune notizie di corredo che servono ad ambientare l’azione e a metterla in contrasto con le altre due notizie: l’occasione di un matrimonio e la madre di Gesù che era già presente «prima» dell’arrivo di Gesù. Traduciamo il testo come abbiamo fatto per l’esempio della Genesi, al fine di fae capire i problemi di linguistica che ci permettono di cogliee il senso profondo:

«Nel terzo giorno, mentre a Cana di Galilea si celebrava uno sposalizio e c’era la madre sua, fu invitato alle nozze anche Gesù insieme ai suoi discepoli».
Discepoli, non apostoli
Tutti comprendono subito che l’intento dell’autore è mettere in contrasto e stridore le nozze già in corso e la presenza della madre da una parte con l’arrivo e la presenza di Gesù con i suoi discepoli dall’altra. Per la prima volta infatti, dal vangelo di Giovanni, veniamo a sapere che Gesù ha alcuni discepoli perché nel capitolo precedente non è detto da nessuna parte, mentre sappiamo che alcuni discepoli di Giovanni il battezzante vanno da Gesù e s’interessano alla sua vita (cf Gv 1,35-51). È interessante questa osservazione perché l’autore parla di «discepoli – mathētài» e non di «apostoli – apòstoloi», termine che per altro Gv nel vangelo non usa mai tranne una volta (cf Gv 13,16), a differenza degli altri Sinottici, specialmente Luca per il quale invece è un termine abituale (cf Lc 6,13; 9,10; 11,49; 17,5; 22,14; 24,10).
Il vocabolo «discepolo» in tutto il NT ricorre almeno 266 volte di cui 77 volte solo nel vangelo di Giovanni, cioè quasi un terzo. L’uso di questo termine è una spia che l’evangelista si colloca sul versante della storia, perché intende raccontarci non una riflessione, ma un «fatto», perché il termine «apostolo» è di uso postpasquale, mentre il discepolo è una realtà storica molto diffusa al tempo di Gesù, che pullulava di rabbi seguiti da discepoli: il termine «apostolo» pertanto appartiene alla funzione del dopo pasqua che i discepoli riceveranno dal Cristo risorto (cf Brown, Giovanni, 127).
In questo modo è evidente che il personaggio principale è Gesù e che entra per la prima volta in scena con la solennità quasi di un ingresso trionfale. La frase infatti mette bene in evidenza che sposalizio e madre sono momenti di contorno alla figura centrale di Gesù e, come vedremo fra poco, diventa il peo attorno a cui tutto ruota. È questo il punto centrale del racconto: come il Lògos ha fatto irruzione nella Storia, diventando «carne» cioè fragilità e debolezza, così ora Gesù di Nàzaret entra nella storia di Israele alla guida di un popolo rinnovato, simboleggiato dai «discepoli». In questo modo l’autore mette in evidenza per contrasto un altro fatto: la madre era già «nello» sposalizio che appartiene al tempo dell’AT.
L’arrivo di Gesù è uno spartiacque tra un «prima» e un «dopo». Ciò che è «prima» era una preparazione, perché quello che accade «dopo», cioè adesso, è una novità che dà inizio a una svolta irreversibile. La madre vive e agisce «dentro» le antiche nozze perché appartiene all’alleanza sinaitica, simbolo ed emblema di Gerusalemme, «vedova» dello sposo. Nel racconto non si fa alcun accenno a Giuseppe che probabilmente era già morto, per cui la madre è «veramente vedova», senza sposo, in attesa della redenzione del suo popolo.
Gesù è il Messia che entra nelle nozze del popolo d’Israele, le nozze dell’alleanza del Sinai che sono state tradite innumerevoli volte. Egli non appartiene a queste nozze perché «è chiamato/invitato», è solo un ospite che non viene dal passato, ma giunge dal futuro, insieme ai suoi discepoli che assumono la simbologia del nuovo popolo nuziale che si prefigura nei Gentili che lo accoglieranno, a differenza dei «suoi» che lo rifiuteranno (cf Gv 1,11), mentre Gesù viene a portare «una nuova ed eterna alleanza» (Ger 31,31) che non avrà mai fine. La madre rappresenta la sposa/popolo che ha finito il vino del patto e della speranza, vedova e con i figli lontani dal cuore della Toràh, anche se pieni di precetti e di osservanze e rituali. Gesù invece viene da un «altro mondo», il mondo del Padre che lo ha «mandato alle pecore perdute della casa di Israele» (Mt 15,24).
Bisogna stare attenti quando leggiamo la Scrittura perché in essa anche «uno iota» ha 70 significati che non devono essere lasciati cadere nella banalità o peggio nel vuoto (cf Mt 5,18). Per questo è necessario prestare attenzione anche alla collocazione delle singole parole del testo se vogliamo cogliere l’intenzione dell’autore. Quanto abbiamo espresso nello schema non è un capriccio, ma è provato da altri elementi che lo stesso autore ci suggerisce, perché per introdurre Gesù nella scena della storia della nuova alleanza non usa un verbo qualsiasi, ma lo prende in prestito dalla Bibbia greca della LXX, quando presenta Mosè che «il Signore chiamò/convocò» sul monte Sinai e che abbiamo già illustrato nella 7a puntata (MC 9/2009, p. 21) e che riprenderemo in parte per comodità.

Paolo Farinella
 (22 – continua)

Paolo Farinella




Verso la nuova revolución

Reportage dall’isola che sta cambiando

Per salvare il socialismo cubano occorre un cambiamento. Aperture verso libertà imprenditoriale e agricoltura famigliare saranno elementi importanti. Intanto 500mila impiegati pubblici saranno in eccesso. E dovranno riconvertirsi nei «nuovi» lavori.

Lo aveva detto Fidel Castro oltre dieci anni fa: rivoluzione è capire il momento storico, è cambiare tutto quello che deve essere cambiato. E oggi a Cuba siamo in piena rivoluzione. Si sta delineando un sistema misto, dove il ruolo dello stato andrà riducendosi e l’iniziativa privata acquisirà maggiore spazio, ma garantendo la supremazia della pianificazione rispetto al mercato.  Per quanto si vogliano addolcire le definizioni, il processo prevede,  tra l’altro, l’incorporamento al settore privato nei prossimi cinque anni di 1,8 milioni di lavoratori. Il governo di Cuba, lo scorso gennaio, ha già avviato una revisione dell’organico del personale pubblico in cinque ministeri e le previsioni sono di un taglio di 500.000 impiegati statali entro la fine dell’anno. Mentre in altri paesi si parlerebbe di 500.000 disoccupati, a Cuba si preferisce chiamarli «lavoratori disponibili».
Raul Castro in un discorso al parlamento Cubano (Anpp, Assemblea Nacional por el Poder Popular) il primo agosto 2010 aveva annunciato l’espansione dell’esercizio del lavoro in proprio e la sua utilizzazione come un’ulteriore alternativa occupazionale per i lavoratori in esubero, eliminando una serie di divieti vigenti per la concessione di nuove licenze e per la commercializzazione di determinate produzioni, rendendo più flessibile la contrattazione di forza lavoro. Il 18 dicembre era tornato sul tema ribadendo che il 2011 sarebbe stato segnato dall’introduzione graduale e progressiva di cambiamenti strutturali e di concetto nel modello economico cubano. Tali cambiamenti serviranno per preservare il socialismo e rinforzarlo, aveva detto il leader.

Tempo di riforme
Quello a cui Raul si riferisce non è una riforma del sistema socialista – e ci tiene a fare il pignolo sull’uso dei termini – ma la sua attualizzazione.
Nella seconda metà di aprile si è riunito all’Avana il sesto Congresso del Partito comunista cubano (Pcc) a distanza di «soli» tredici anni dal precedente del 1997. La frequenza media è di un Congresso ogni sette anni (il primo si era svolto nel 1975). Il Congresso, organismo supremo del partito, del quale determina gli orientamenti politici e le linee guida, è basato sull’approvazione dei «Lineamenti»1 della politica economica e sociale del partito e della rivoluzione, ovvero un nuovo volto per l’isola. Il 6° Congresso è stato composto da mille membri, eletti a livello di comitati municipali e distretti.
Incontriamo uno storico funzionario pubblico cubano – che preferisce rimanere anonimo – nonché membro del partito comunista dalla sua fondazione: «I cambiamenti saranno faticosi per il mio paese, ma sono indispensabili. Forse si è aspettato troppo, avremmo dovuto capire prima che stavamo commettendo alcuni errori. Per esempio, non è giusto che ci sia così tanto lavoro in nero, e che la gente onesta, laureati e devoti compagni, guadagnino molto meno che un tassista o di chi ruba parte della produzione per rivenderla sottobanco. Anche a livello di quadri dirigenti, alcuni hanno sempre operato per il bene, ma altri non hanno saputo gestire le risorse. Penso sia corretto che adesso, chi non è efficiente o chi non dimostra impegno, possa essere licenziato». Gli chiediamo quale sarà la difficoltà maggiore nell’affrontare i tanti cambiamenti previsti dai Lineamenti e con sicurezza risponde: «La parte più difficile sarà convincere il popolo della necessità di prendere certi provvedimenti, perché se capiranno che il socialismo deve cambiare per il bene di tutti, allora appoggeranno il piano di riforma. Il regime non abbandonerà mai a se stessi i bisognosi, chi è solo e non può lavorare avrà sempre la tessera di razionamento e un sussidio. Però bisogna avvalorare meglio le necessità e le possibilità reali dello stato, e occorre rimboccarsi le maniche».

Economia cercasi
Nel documento all’esame del Congresso si ripete con costanza quasi ossessiva la parola «spreco» e si insiste sulla diffusione di nuovi meccanismi di razionalizzazione delle risorse. Raul Castro coglie con lucidità il punto e spiega come «una delle barriere più difficili da superare nell’obbiettivo di formare una visione diversa – e  lo riconosce pubblicamente nel discorso del 18 dicembre scorso – è l’assenza di una cultura economica tra la popolazione, inclusi non pochi quadri dirigenti, i quali, dimostrando un’ignoranza supina nella materia, nell’affrontare problemi quotidiani adottano o propongono decisioni senza valutare un istante quali costi e quali effetti si producono, e senza sapere se esistono fondi allocati nel bilancio dello stato».
Il messaggio è chiaro: in tutti gli ambiti, dalla salute alla cultura, dall’impiego pubblico alle imprese statali, bisogna tagliare gli esuberi, migliorare l’efficienza e spendere meno.
Anche agli occhi di un semplice viaggiatore straniero sbarcato sull’isola, appare evidente che la maggior parte della gente negli ultimi cinquanta anni non ha saputo – o potuto – sviluppare alcuna forma di imprenditorialità.
I cubani vedono nei turisti la loro principale fonte di guadagno, ma non conoscono alcuna logica relativa alla qualità del servizio, all’ampliare l’offerta o a migliorare la prestazione, né comprendono il rapporto qualità-prezzo per gli standard della regione, così che Cuba risulta molto più cara rispetto a paesi quali Messico, Nicaragua, Repubblica Dominicana, che offrono servizi di qualità superiore. A ciò si aggiunge una marcata passività, un’attitudine all’aspettare che il cambiamento sia portato da altri e che risolvere i problemi più gravi, come l’impatto della recente crisi economica, ci pensi il regime.
Vicente, ha una storia tipicamente cubana: negli anni Ottanta venne mandato in Russia a studiare «tecniche di comunicazione dei sistemi satellitari militari» all’Università di Leningrado (l’attuale San Pietroburgo).  Quando gli mancava un solo anno per raggiungere la laurea, venne rispedito a Cuba: non ci sarà più bisogno di sistemi satellitari militari gli hanno detto, la guerra fredda sta per finire. Rientrato nel suo paese ha fatto di tutto, dal cameriere al manovale, e adesso da qualche mese ha aperto una piccola cabaña (pensione) sulla costa di Remedios, dove offre servizi basici per turisti nazionali. «La mia sensazione è che lo stato voglia imporre sempre maggiori tasse a chi vuole avviare attività economiche in proprio, per prendersi la sua fetta di guadagno e fronteggiare la crisi. Ufficialmente hanno detto che amplieranno le possibilità di lavoro privato ma in pratica, per quanto mi riguarda, hanno già aumentato le tariffe per la concessione delle licenze e le imposte sul reddito. Però, per chi ha iniziativa, questo è il momento in cui provarci, a fare qualcosa di diverso, che non sia emigrare o aspettare le rimesse dei familiari all’estero. Almeno ora se vogliamo metterci in proprio possiamo farlo sotto il buon auspicio del partito e in totale legalità».
Martino Vinci, esperto di sviluppo rurale per il Pnud (Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo), lavora all’Avana da diversi anni, e conferma le grandi aspettative di novità: «Cuba potrebbe non essere più la stessa dopo questo anno, stiamo vivendo un nuovo salto storico ma bisognerà vedere se i cambiamenti previsti saranno di sostanza e non solo di forma. L’autonomia non si ottiene con un decreto ma si costruisce con la partecipazione di tutti.
I principali limiti del sistema agricolo cubano, e ricordiamoci che Cuba è un importatore netto di alimenti, risiedono nella contraddizione esistente tra un modello produttivo reale che è sempre più decentrato e non statale (le cornoperative) ed un altro ancora centralizzato, di pianificazione, commercializzazione dei prodotti e assegnazione dei mezzi di produzione. È un sistema che non premia chi è più efficiente, non distribuisce in base ai livelli di produttività, ma introduce molti livelli di intermediazione e quindi non può essere sostenibile. I Lienamienti vanno esattamente verso una direzione opposta all’attuale, concedono maggiore spazio alla piccola produzione non statale, riducono il peso dello stato sia nella gestione sia nella produzione e danno maggiori responsabilità ai governi locali nella pianificazione del settore. La diversificazione produttiva è una scelta ormai senza ritorno, così come la rinuncia alla monocultura della canna da zucchero».

Largo all’agricoltura familiare
A livello di politiche agrarie, si erano visti segni importanti di cambiamento già con un decreto del luglio 2008, che prevedeva la concessione dei terreni incolti ai contadini che avessero dimostrato volontà di produrre e la disponibilità dei mezzi minimi per intraprendere l’iniziativa. Vinci spiega: «La distribuzione delle terre è in corso, ha raccolto grande consenso, ma non soddisfa ancora la grande domanda generata tra la popolazione. Del milione di ettari previsti, ne sono stati distribuiti circa 700mila e i risultati sono visibili ad occhio nudo. Tuttavia i problemi sono ancora molti. I nuovi produttori spesso non hanno adeguato accesso ad assistenza tecnica, finanziamento e mezzi di produzione, con forti rischi di abbandonare il loro progetto prematuramente. La terra è concessa in usufrutto gratuito per dieci anni alla sola condizione di mantenerla in produzione».
Gli chiediamo se non ci saranno rischi nell’introdurre meccanismi vicini all’economia di  mercato: «Non si va verso l’eliminazione dei prezzi sussidiati né verso un mercato dominato solo dall’offerta e dalla domanda. Si aspira a introdurre un sistema più equo di distribuzione dei sussidi, non più generalizzati, e a una coesistenza più armonica tra prezzi determinati dal mercato e prezzi regolati dallo stato. Il problema principale risiede nella necessità che i prezzi si adeguino maggiormente ai costi reali, soprattutto se verranno eliminati i sussidi per l’accesso ai mezzi di produzione. Allo stesso tempo occorrerà garantire l’accesso agli alimenti fondamentali adeguando i prezzi alla capacità di acquisto della maggior parte della popolazione. Se si riesce a stimolare davvero l’offerta, attraverso un incremento sostanziale della produzione, i rischi saranno ridotti. Attualmente la maggiore pressione sui prezzi dipende dal fatto che sul mercato non esiste sufficiente offerta di determinati prodotti alimentari e questo crea speculazioni e distorsioni».
Tra i cambiamenti presentati nel piano di riforma ve ne sono alcuni che più di altri rompono con il passato: per esempio, la legalizzazione della compra vendita immobiliare, da sempre severamente vietata a Cuba. Il funzionario intervistato ci spiega che di fatto, non si fa altro che legalizzare pratiche che erano già ampiamente diffuse: «I cubani hanno sempre trovato il modo per comprare e vendere case o auto, ma lo facevano di nascosto e con sotterfugi; è un bene che oggi accettiamo la realtà e andiamo avanti».  
Altro punto critico previsto è la soppressione graduale della tessera di approvvigionamento. Non è più sostenibile fornire servizi e assistenza a tutti, senza distinguere chi ne ha realmente bisogno. Come viene spiegato nel documento esaminato dal Congresso, il socialismo è parità di diritti e di opportunità, ma non è uguaglianza. Gli atteggiamenti patealisti dello stato vanno evitati e si deve riscattare il valore del lavoro come mezzo indispensabile per rispondere alle necessità quotidiane.
«Bisogna cancellare per sempre la nozione che Cuba sia l’unico paese al mondo dove si può vivere senza lavorare» aveva gridato Raul Castro, introducendo il vento di cambiamento che anticipava il documento di riforma. «Il lavoro è un diritto e un dovere e dovrà essere remunerato in modo conforme alla quantità e qualità. Il salario diventerà uno stimolo per incrementare la produttività, la disciplina e la motivazione». Si punta su un sistema meritocratico, piuttosto che di favoritismi.
Non c’è alcun dubbio che la posta in gioco per Cuba sia molto elevata: la battaglia economica costituisce oggi, più che mai, il dovere principale e il centro del pensiero ideologico dei dirigenti, perché da essa dipende la sostenibilità del sistema socialista.

Ermina Martini

1- Il documento «Lineamentos» della politica economica e sociale del Partito e della Rivoluzione è reperibile in www.pcc.cu

Ermina Martini




Ombre sulla pace

Burundi: dopo 15 anni di guerra, una pace instabile

I massacri della guerra civile burundese restano impuniti. E gli
abitanti di uno dei più piccoli paesi d’Africa continuano a vivere
nell’incertezza per il futuro. La terra, unica risorsa del paese, inizia
a scarseggiare. Le elezioni del 2010 sono boicottate dall’opposizione. E
ritorna il fantasma dei «ribelli» sulle mille colline.


Il piccolo paese centro africano, sta tentando, con difficoltà, di
camminare sulla via della riconciliazione. Dalla sua indipendenza (1962)
dal protettorato belga, il Burundi era stato dominato da un gruppo di
tutsi, minoranza etnica (14% rispetto all’85% di hutu) e aveva già visto
la sua storia segnata da ricorrenti massacri (1964, 1972, 1988).
Nel giugno 1993 si tengono le prime elezioni libere, che sono vinte a
grande maggioranza dagli hutu. Melchior Ndadaye è il primo presidente
hutu del paese. Ma la transizione si rivela difficile, i tutsi sono in
tutti i posti chiave dell’amministrazione del paese e hanno in mano
l’esercito. Tre mesi dopo il neo presidente è assassinato e iniziano i
massacri che porteranno a 300.000 morti, un milione di sfollati e
rifugiati nei paesi confinanti (sui 6,8 milioni di abitanti di allora) e
a tre lustri di guerra civile. Storia meno nota del genocidio rwandese,
ma altrettanto terribile. Le uccisioni di massa nel vicino Rwanda si
innescano nell’aprile del ‘94, quando l’aereo su cui viaggiano i
presidenti di Rwanda e Burundi viene, misteriosamente, abbattuto. Oggi,
sei alti funzionari rwandesi, vicini al presidente Paul Kagame
(all’epoca ufficiali del suo esercito) sono sotto inchiesta per il
fatto.
La comunità internazionale si impegna nella difficile mediazione
burundese. Anche Julius Nyerere prima e (soprattutto) Nelson Mandela poi
sono coinvolti in prima persona. Nell’agosto 2000 sono firmati gli
accordi di Arusha (Tanzania), che prevedono una divisione in base alla
percentuale etnica nelle istituzioni dello stato, compreso l’esercito,
da sempre in mano ai tutsi. Ma la guerra continua.

Solo a fine 2003, con gli accordi di Pretoria (Sudafrica), si arriva a
un cessate il fuoco “quasi” generale. Sul terreno restano i ribelli del
Fronte nazionale di liberazione (Fnl), che scenderanno a patti nel 2008,
diventando partito politico l’anno successivo. Nel 2005 le elezioni
generali (presidenza, parlamento, amministrative) vedono la vittoria del
partito di ex ribelli Cndd-Fdd (Consiglio nazionale per la difesa della
democrazia – Forze per la difesa della democrazia). Pierre Nkurunziza,
uno dei leader, diventa presidente. Il primo vice presidente è invece un
tutsi. Vengono rispettate le quote etniche e tutti i partiti si
attrezzano per avere nei propri ranghi hutu e tutsi e cancellare i nomi a
sfondo etnico. Viene promulgata la nuova Costituzione.
«Ormai la connotazione non è più etnica – raccontava una giornalista
burundese prima delle ultime elezioni – si parla più in termini di
partiti politici, al potere e all’opposizione».

Alla firma di Pretoria gli sfollati sono ancora 100.000, mentre dal 2002
ad oggi sono 360.000 i rifugiati in Tanzania che rientrano nel paese,
secondo l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr). Oggi sarebbero
ancora 100.000 a dover rientrare.
In un paese di 27.000 km quadrati, con una popolazione di 8 milioni di
abitanti, questo enorme afflusso ha ulteriormente aggravato il problema
principale: la terra. La densità di popolazione, oltre 290 abitanti a
km2, è una delle più alte del continente.
«La terra è la questione fondamentale di questo paese. Con due stagioni
delle piogge, un suolo fertile e bagnato da diversi fiumi, il Burundi è
sempre verdeggiante. Ma la produzione alimentare non arriva a soddisfare
tutte le bocche da sfamare. Il padre di famiglia divide il suo
appezzamento tra i figli maschi e questa divisione sta provocando una
“polverizzazione” delle parcelle. Senza contare che i rifugiati
rientrati hanno bisogno di terra per coltivare». Spiega un analista
esperto del paese.

Elezioni «imbrogliate». Il 24 maggio 2010 le elezioni amministrative
vedono vincere il partito al potere con il 64% dei voti. Gli osservatori
nazionali e inteazionali rivelano «irregolarità», ma giudicano la
consultazione valida nel suo insieme. I brogli non avrebbero influenzato
il risultato finale.
Ma i partiti di opposizione non ci stanno, denunciano «frodi massicce» e
decidono di boicottare le successive legislative di giugno e
presidenziali di luglio. Pierre Nkurunziza resta l’unico candidato alla
presidenza. Oltre ad essere riconfermato presidente, il suo partito si
assicura una maggioranza schiacciante in parlamento.
Intanto la situazione della sicurezza peggiora drasticamente: «Durante
il periodo pre-elettorale, persone legate al Cndd-Fdd e al Fnl,
avrebbero aggredito e ucciso, oppositori politici, così come militanti
dei loro partiti diventati critici» denuncia Amnesty Inteational. Il
Cndd-Fdd mobilita i suoi giovani membri, nel movimento Imbonerakure
questi, spesso armati di bastoni e manganelli, scortano rappresentanti
del potere pubblico che arrestano o pattugliano i quartieri. I partiti
di opposizione, si vedono impedire le riunioni.
Così la campagna presidenziale è segnata da violenze politiche: almeno
116 sono gli attacchi alla granata e oltre 30 locali di partiti sono
dati alle fiamme (essenzialmente del Cndd-Fdd). Allo stesso tempo molti
sono gli esponenti dei partiti di opposizione arrestati e detenuti
arbitrariamente. Ricompare la pratica della tortura, molto usata dai
temuti Service national de renseignement, i servizi segreti burundesi,
fino a pochi anni fa, ma che era in diminuzione e nel nuovo codice
penale (2009) è definita fuori legge. I servizi dipendono direttamente
dal presidente della Repubblica.
Alcuni leader importanti di partiti politici fuggono all’estero. È il
caso di Agathon Rwasa, capo del Fnl e di Alexis Sinduhije, che è anche
direttore della Radio pubblica africana (Rpa), i cui giornalisti sono
continuamente perseguitati (vedi articolo).

Gli accordi di Arusha prevedevano la realizzazione di una Commissione
nazionale verità e giustizia (Cnvg) e la creazione di una commissione
giudiziaria internazionale per realizzare un’inchiesta sui colpevoli
delle tante violazioni dei diritti umani e assassinii politici della
guerra. La Cnvg, che dovrebbe essere affiancata da un tribunale speciale
e dovrebbe inserirsi nel sistema giudiziario burundese, non ha però
ancora visto la luce. Così gli autori dei massacri di centinaia di
migliaia di persone restano totalmente impuniti.
Intanto voci di una nuova ribellione armata nel paese scuotono i
burundesi. Da settembre 2010 si verificano attacchi sporadici a
postazioni militari e civili da parte di gruppi armati. Il governo li
chiama «banditi», alcuni commentatori parlano di «ribelli». Riaffiora
troppo presto il vocabolario degli anni della guerra civile, che si era,
da poco, messo nel cassetto.

Marco Bello

Marco Bello




Radio Incontro

Storia di una radio per la riconciliazione

Nata come radio per la riconciliazione, ha oggi obiettivi precisi: sorvegliare l’azione di governo; lottare contro la povertà e aprirsi verso la regione. Ma anche cercare di dare alla popolazione gli strumenti per sapersi autogestire.

Radio Isanganiro è una radio associativa burundese. Ascoltata in tutto il paese e in parte nei vicini Congo (Rdc) e Rwanda, è stata creata nel 2002 da un gruppo di giornalisti formati da una Ong statunitense, Serach for common ground, attiva nell’ambito della risoluzione dei conflitti attraverso i media. «Eravamo in un contesto di guerra civile aperta, c’erano movimenti ribelli che combattevano il governo, ma anche sfollati interni e molti rifugiati fuori dal paese, soprattutto in Tanzania». Chi parla è Vincent Nkeshimana, giovane e dinamico direttore della radio. I giornalisti per riflesso, pensarono di poter essere più efficaci creando una radio per il dialogo. «Isanganiro, vuol dire incrocio in kirundi, la lingua di tutti i burundesi, punto d’incontro. Tutti i programmi erano orientati verso la creazione di spazi di scambio tra la diaspora e coloro che erano nel paese, tra i rifugiati e quelli che stavano all’interno. E c’erano anche degli scambi di produzioni con la Radio Kwizera in Tanzania, allo scopo di veicolare l’immagine di ricostruzione della nazione, ma anche di permettere alla gente di esprimersi sulla loro situazione» ricorda Vincent.
«Siamo andati oltre e abbiamo teso il microfono ai ribelli, cosa che era proibita. Ma questo ha causato minacce, chiusura della radio e l’arresto di alcuni giornalisti. Poi, il governo si rese conto che quello che era stato detto alla radio non era così negativo come pensava e avrebbe potuto aiutare ad avvicinare le posizioni dei belligeranti».

Media per la pace
Una radio per far incontrare la gente, per riconciliare e chiudere le ferite aperte dai massacri. Al contrario di quello che era stata Radio mille colline in Rwanda nel 1994 e altri media in Costa d’Avorio dopo l’inizio della crisi del 2002, che lavorarono per dividere la nazione.
Radio Isanganiro ha iniziato a trasmettere durante la guerra, una situazione in cui l’informazione è particolarmente sotto controllo. «Ora si può dire che siamo in un sistema democratico, i diritti umani sono relativamente rispettati, ma le sfide restano intere. A parte il fatto che non c’è guerra aperta, non ci sono grandi differenze con i primi anni: il problema della fame è sempre presente, il deficit di educazione e di accesso alla salute sono sempre attuali. Anche la libertà di espressione non è totalmente garantita. Tutti questi sono cantieri sui quali la radio deve continuare a lavorare e facciamo tutto per accompagnare l’azione di sviluppo del nostro paese».
Il Burundi sta affrontando un cammino difficile, dove l’incontro deve passare anche attraverso percorsi di giustizia. Radio Isanganiro vuole risvegliare la coscienza del cittadino e mettere chi gestisce davanti alle sue responsabilità, sorvegliare l’azione di governo e denunciando i malfunzionamenti: «Vogliamo appoggiare l’attuazione della giustizia, perché il Burundi ha conosciuto un passato drammatico, e forse la comunicazione su queste piaghe può fare emergere ancora violenza. Siamo per la Commissione verità e riconciliazione, ma occorre che i burundesi siano pronti a “consumare” queste verità».

Elezioni «difficili»
Ma se parliamo di politica, in particolare di elezioni (vedi box), il direttore si rivela molto diplomatico.
«Il processo elettorale è stato influenzato da una escalation verbale violenta e a volte da violenze vere, ma globalmente le elezioni si sono svolte bene. Il problema è che un gruppo di partiti politici si è ritirato, e oggi non riusciamo a valutare tutti gli aspetti negativi di questo fatto. Ci sono rischi di un “ritorno indietro”. Lo dico basandomi sui casi di assassinii che sono ormai regolari. Non c’è un giorno in cui non si parla di furti, uccisioni o attacchi da parte di gente che si dice affiliata ai movimenti che hanno disertato le elezioni. Dall’altra parte c’è un potere che ha vinto tutto con le elezioni e non vuole cedere di nulla, è legittimamente installato al potere per cinque anni. È una situazione di non dialogo, nella quale l’avvenire non è senza preoccupazioni».
Nel momento in cui scriviamo non ci sono  rivendicazioni chiare del movimento violento che si è creato e non si conoscono i legami di questo con i partiti politici che hanno boicottato le elezioni.
«Se ci deve essere dialogo, occorre ancora capire su cosa negoziare e perché».

Una lingua, più lingue
In Burundi la lingua kirundi è parlata da tutti e unisce tutti. Viene parlato anche il kiswahili, come lingua commerciale, ma non è originaria della zona.
La radio trasmette il 70% dei programmi in kirundi e altri in francese e in kiswahili. Ora si sta attrezzando anche per emissioni in inglese, in quanto il paese fa parte della Comunità degli stati dell’Africa dell’Est (East African Community, Eac), paesi anglofoni. Isanganiro trasmette anche in diretta sul web (www.isanganiro.org) e quindi può essere ascoltata dai numerosi burundesi della diaspora.

Libertà di stampa
Il direttore è positivo sulla libertà di espressione e di stampa nel suo paese. Lo dice in un momento in cui Jean-Claude Kavumbagu, direttore dell’agenzia NetPress, è in carcere da metà luglio per aver messo in dubbio le capacità delle forze di sicurezza del paese di difendere i cittadini da attacchi terroristi. Accusato di «tradimento», capo di accusa applicabile, secondo diritto burundese, solo durante lo stato di guerra, è considerato da Amnesty Inteational un detenuto d’opinione. Allo stesso tempo anche un giornalista della Radio pubblica africana è dietro le sbarre. «Ora abbiamo una relativa libertà di espressione, ma questo ci mette in difficoltà rispetto a certi agenti del potere. Loro, penso, hanno un’interpretazione diversa di quello che deve essere l’obiettivo del giornalismo». E fa un confronto con i paesi limitrofi: «Rispetto al Rwanda e alla Repubblica democratica del Congo, il Burundi è un paradiso in termini di libertà di espressione. Ma il problema è l’influenza che i nostri dirigenti subiscono: credono che i metodi dei vicini siano i migliori e quindi sono tentati di fare come loro».
La Radio Isanganiro collabora con le tre radio comunitarie presenti nel paese. Queste sono molto radicate con il loro territorio (sono una a Ngozi, Nord, una a Gitega, centro e la terza a Makamba, nel Sud). Sviluppano programmi comuni nei quali Isanganiro beneficia del giornalismo di prossimità, mentre le radio comunitarie ricevono formazione e competenze per la produzione e gestione dell’informazione.
Oggi le maggiori difficoltà sono economiche. «È dura mantenersi finanziariamente, perché i costi in Burundi sono elevati, e se non ci fossero stati aiuti estei di finanziatori, le radio private qui non sarebbero mai nate. Il mercato della pubblicità è molto ridotto: nel migliore dei casi, non copre il 20-25% del budget. Se non ci sono aiuti estei diventa impossibile mandare in giro le équipe».
Uno studio dell’istituto Panos di Parigi del 2008, confermato nel 2010, riporta la Radio Isanganiro come la seconda più ascoltata in Burundi, subito dopo la radio pubblica nazionale, che ha dalla sua tutte le infrastrutture nel paese.
«Noi ci siamo lanciati in una riflessione per un piano manageriale che ci permetta, progressivamente  una raccolta di fondi che possa coprire il funzionamento. Abbiamo un piano strategico e uno operativo».

Marco Bello

Per approfondimenti su Radio associative e comunitarie nel mondo si veda dossier MC settembre 2009.

Marco Bello




Attese e dubbi nel «paese del sorriso»

Maggio 2010-Maggio 2011: ad un anno dalla rivolta

Nel paese asiatico, la situazione è di grande confusione e di calma apparente. Da una parte, c’è il movimento delle «Camicie rosse» («Fronte unito per la democrazia contro la dittatura», Udd); dall’altra, i «poteri» che, da sempre, hanno in mano il paese: l’esercito, i monarchici, le élites. Ma l’equilibrio può rompersi da un momento all’altro, perché, se si guarda dietro il sorriso da dépliant turistico, si scopre un paese caratterizzato da miseria e ingiustizie secolari. Nel frattempo, anche l’economia langue, a parte quella legata al mercato del sesso – con due milioni di thailandesi coinvolti – che non conosce recessione.

Bangkok. Il 19 maggio cade l’anniversario della fine della protesta che per due mesi nel 2010 portò nelle piazze della capitale thailandese molte migliaia di manifestanti, ma costò al paese anche le peggiori violenze dell’ultimo ventennio.
Con un bilancio di 90 morti e oltre 1.800 feriti, decine, forse centinaia di desaparecidos e data la reazione delle autorità e dell’esercito (chiamato a sostituire una polizia inaffidabile), la «rivoluzione mancata» è sembrata virare verso la guerra civile. A complicare la situazione tra i due contendenti, le «Camicie rosse» e le «istituzioni» (che al loro interno sono tutt’altro che univoche), un numero imprecisato di «uomini in nero»,  visti in diverse occasioni all’interno della protesta impegnare militarmente l’esercito facendo uso di armi automatiche e di rudimentali lanciarazzi, divenendo così ragione e pretesto per azioni militari contro manifestanti in maggioranza pacifici.
Come andarono veramente le cose, in termini di rispetto dei diritti civili e umani, ma anche delle convenzioni inteazionali, come pure sulle ragioni dei contendenti  e, ancora, a chi sono da attribuire le responsabilità per la morte dei due fotoreporter durante gli scontri (il giapponese Hiro Muramoto e l’italiano Fabio Polenghi), resta ancora in buona parte da chiarire.
Nell’ultimo anno, il paese, vasto una volta e mezza l’Italia e con 65 milioni di abitanti, ha mantenuto le sue divisioni e se possibile le ha approfondite. Pochi sono stati i cambiamenti, se non in termini repressivi, che potrebbero impedire una sollevazione e un bagno di sangue di dimensioni ancora maggiori.
A dimostrarlo la campagna dinamitarda che colpì Bangkok e le regioni nordorientali del paese dopo la repressione e fino ad autunno inoltrato. Un susseguirsi di azioni che potrebbero indicare o una strategia della tensione rientrata quando la situazione è apparsa maggiormente sotto il controllo delle autorità, oppure che la protesta ha una struttura in grado di pianificare e mettere in pratica anche atti violenti. In quest’ultimo caso, suggerito da una serie di altri elementi, azioni di tipo terroristico potrebbero riaffacciarsi in qualunque momento.
Negli ultimi mesi sono andate crescendo di entità e frequenza le proteste organizzate dal «Fronte unito per la democrazia contro la dittatura» (il nome formale del movimento delle Camicie rosse) mirate insieme a chiedere le dimissioni del governo guidato da Abhisit Vejjajiva, nuove elezioni e la liberazione dei leaders in carcere (senza processo) dal maggio 2010.
Iniziative pacifiche e colorite, con una crescente carica politica in vista del voto che dovrebbe situarsi tra giugno e luglio 2011, di fatto a soli tre-quattro mesi dalla scadenza naturale della legislatura.
Le recenti manifestazioni, rese possibili dalla fine della legge marziale (inizialmente imposta a buona parte del paese e poi rimasta in vigore a Bangkok e nelle province limitrofe sino a fine anno), hanno portato in piazza decine di migliaia di manifestanti e hanno incentivato la liberazione dei sette maggiori leaders della protesta, accusati di terrorismo. L’obiettivo più importante a breve termine è stato dunque raggiunto ma, mentre un buon numero di capi del movimento e della rivolta restano alla macchia in Thailandia e in Cambogia, esso cerca nuove strade e si dà nuovi obiettivi sul medio termine, con quello finale dichiarato di un cambiamento radicale della società thailandese ovvero la fine del dominio dei gruppi elitari e la presa del potere da parte delle classi meno privilegiate.
Debolezza principale delle Camicie rosse è la loro mancanza di coesione. Se i principali obiettivi sono simili per tutte le sue componenti, strategie e interessi immediati possono anche essere diversi. Per non parlare dei particolarismi locali e di leadership. Inoltre, se la maggioranza del movimento ha metodi e scopi pacifici, non manca al suo interno chi è convinto che un vero cambiamento non potrà esserci se non attraverso una lotta violenta. La repressione governativa ha accentuato questa convinzione.
La sensazione è che il peggio potrebbe ancora venire proprio in occasione di una campagna elettorale che il governo espresso dal Partito democratico (a sua volta sostenuto dalle «Camicie gialle», movimento nazionalista e filo-monarchico), hanno cercato di blindare a loro favore. Questo partito, il più antico del paese, fondato negli anni Trenta, è oggi guidato da Abhisit Vejjajiva, nemmeno cinquantenne. Nato in Gran Bretagna ed educato a Oxford, per uno strano avvitamento della storia, è toccata a lui la responsabilità di decidere una repressione sanguinosa senza avee pagato almeno finora lo scotto con le dimissioni o l’esilio, altra prassi nella tormentata storia del paese.

CAMICE ROSSE E CAMICIE GIALLE
Quanto all’opposizione, il referente politico delle Camicie rosse, il Puea Thai (erede del Thai rak thai, fondato dal magnate delle telecomunicazioni ed ex primo ministro Thaksin Shinawatra e sciolto dopo il golpe), è un partito di scarsa credibilità democratica. Come il suo ispiratore, alla fine.
Thaksin, esiliato dal colpo di stato militare del 2006, già condannato a due anni di carcere per abuso di potere, sarebbe un personaggio come tanti, nella politica del continente asiatico, se non fosse per un elemento fondamentale: è stato l’unico a dare a molti milioni di thailandesi l’illusione di potere uscire dalla loro situazione, che non è solo di povertà, ma anche e soprattutto di mancanza di prospettive e opportunità. I thailandesi che lo avevano mandato al potere una prima volta nel 2001 e lo hanno votato nuovamente (con una maggioranza schiacciante) a fine 2005, hanno voluto credere nella sua  propaganda e negli ideali espressi dalla sua politica, perché di quegli ideali nessuno aveva mai parlato come lui. Con una vasta semina di opportunismo e populismo, ma sostenuto anche da azioni concrete, seppure pagate con il denaro pubblico.
Come il ticket per accedere agli ospedali: poco più di mezzo euro per disporre di visite mediche e medicinali essenziali, prima irraggiungibili. Non sufficienti per cure concrete, ma almeno per sapere contro quale male combattere. Oppure il milione di baht (circa 23mila euro al cambio attuale) donato a ciascun villaggio – almeno nelle aree che lo hanno votato – per opere pubbliche. Concessioni che poco hanno influito sulle drammatiche disparità di questo paese. Tuttavia, il suo potere è cresciuto fino al punto da sfiorare le massime istituzioni del Regno. La reazione dei vecchi centri di potere non si è fatta attendere, propiziata anche dalla discesa in piazza delle Camicie gialle, che due anni dopo sarebbero state responsabili della clamorosa occupazione degli aeroporti di Bangkok per far cadere il governo filo-Thaksin (intanto finito esule all’estero) eletto liberamente pur sotto un  nuova costituzione dettata dai militari golpisti.

IL MIGLIORE DEI MONDI? CORRUZIONE, MISERIA, INGIUSTIZIA
Dietro il sorriso da dépliant turistico, la Thailandia nasconde un’ampia realtà di miseria e ingiustizia.
Il sistema elitario e patealistico che lo governa ha cercato per decenni di convincere i thailandesi che vivono nel migliore dei mondi possibili e insieme ha negato alla maggioranza una prospettiva di miglioramento dalla propria condizione originaria. Disinteresse e tolleranza hanno convinto molti  che l’unico mezzo per uscire dallo stato di arretratezza e sottomissione fosse un arricchimento rapido: con quali mezzi, lo testimoniano insieme la realtà dei quartieri dedicati allo svago a Bangkok, Pattaya, sulle isole di Phuket e Koh Samui. Con quali risultati è evidente nella quantità di beni di consumo, motociclette, auto e alcornol che affluiscono verso le campagne senza un significativo aumento della scolarizzazione, del risparmio, della coscienza politica. La crisi del paese non è conseguenza della protesta, ma ne è ragione e sfondo. Purtroppo in questi ultimi anni, dal colpo di stato militare (sostenuto in primo luogo da aristocrazia, settori della monarchia, élite urbane di Bangkok), che ha costretto Thaksin a lasciare il potere, la situazione è se possibile peggiorata. La corruzione colpisce a tutti i livelli della società e coinvolge profondamente le istituzioni.
Quella coinvolta in questa situazione è una Thailandia unita all’orgoglio nazionalista e dalla monarchia, ma nettamente divisa in due da necessità e possibilità con un divario crescente fra benessere e miseria.
A questo punto il paese si trova a un bivio e a fare da spartiacque non sarà più il tradizionale «mediatore» militare. Nessuno crede più che gli uomini in divisa, gestori di vasti interessi economici di fatto senza controllo da parte dell’autorità civile, che al governo impongono congrui versamenti di bilancio in cambio di protezione dagli oppositori, che non controllano una limitata insurrezione islamista nel Sud, possano essere credibili gestori del paese. Un ulteriore golpe, il 21° in 90 anni, non sarebbe accettato dalla popolazione, ma anche dalla classe politica e imprenditoriale che già lotta con crisi globale e incongruenze locali. Certamente non dalla diplomazia internazionale, i cui rapporti con Bangkok hanno visto nell’ultimo anno momenti tesi. Una diplomazia che  osserva con attenzione le mosse di chi gestisce questo paese secondo logiche abituali all’interno, ma impresentabili al di fuori. La pretesa è che il mondo non veda e non giudichi, in cambio di possibilità d’investimento e l’apertura a un turismo sovente equivoco e diseducato, negativo per l’immagine del paese almeno quanto la rapacità degli imprenditori locali e dei palazzinari che vanno devastando, con convinta gradualità, le coste un tempo splendide della terraferma e delle isole.
Bangkok resta un cantiere perenne e a stupire per primi gli operatori turistici locali e stranieri è lo spuntare continuo di alberghi e centri commerciali, veloci nella edificazione quanto anarchici nell’inserimento urbanistico.

SESSO A PAGAMENTO, UN MERCATO SEMPRE FIORENTE

In un momento di evidente difficoltà economica, con un turismo che tiene (per l’ascesa degli arrivi di indiani, cinesi, coreani e russi a scapito dei tradizionali clienti europei e giapponesi), le statistiche ufficiali e gli imprenditori fingono che tutto vada a gonfie vele. La tenuta riguarda soprattutto la marea di turisti indirizzati verso il «Paese del sorriso» dalla disponibilità di servizi sessuali sotto varie forme ma tutti, ugualmente, all’insegna dello sfruttamento della persona e della disattenzione (interessata) delle autorità.
Tra parentesi, la maggior parte della «materia prima» di cui si nutre questo mercato (che coinvolge fino a due milioni di thailandesi) proviene, non a caso, dalle regioni dove più alta è la densità di Camicie rosse e di seguaci di Thaksin Shinawatra. Sono le regioni orientali, quelle che ospitano una vasta popolazione impoverita e senza prospettive che foiscono a Bangkok e ai centri più o meno decaduti del turismo internazionale non soltanto le risorse alimentari necessarie, ma anche le persone-oggetto, la cui età media tende ad abbassarsi in misura inversamente proporzionale allo spessore della crisi.
Non c’è stata una sola volta, nei cinque anni in cui chi scrive ha posto la sua base lavorativa in Thailandia, che sui giornali si sia dibattuto del fenomeno e della sua entità, sulle sue ragioni e sulle possibilità di intervenire per limitarlo, almeno. Il sesso è una merce, disponibile ovunque, come il riso sulle tavole dei thailandesi e come esso sottoposto solo alle regole del mercato, ma mai messo in discussione o subordinato alla ricerca di alternative, in questo caso di istruzione e di un lavoro dignitoso, sufficientemente retribuito.
Davanti a  questo che, per un paese «normale», sarebbe causa almeno di imbarazzo e sottoposto a tentativi di soluzione, sia in termini di opportunità, sia di persecuzione di chi sfrutta questa situazione, stranieri e tutori dell’ordine inclusi, le sue élites mostrano un disinteresse a cui si oppongono con poche risorse Ong locali e inteazionali. Su uno stesso livello si può porre l’uso di alcornolici, che fanno della Thailandia il paese meno astemio dell’Asia e insieme quello con il più alto numero di decessi correlati all’alcornol nel continente.
Il senso di questi due esempi è che mentre il sistema educativo prepara buoni cittadini, passivi davanti al cambiamento e alle loro stesse difficoltà, problemi enormi vengono se non incentivati almeno tollerati come valvola di sfogo di disoccupazione, frustrazione e povertà.

LE STAMPELLE DELLE FORZE ARMATE E DELLA MONARCHIA
Per un paese che si vorrebbe dare una veste di modeità, il fardello è pesante, ma esso sembra non riguardare un sistema di potere che non è solo benestante, ma autoreferenziale e che si appoggia, per la sua sopravvivenza e giustificazione, sulle forze armate o sulla monarchia a seconda del momento e della convenienza. Un uso crescente della «lesa maestà» contro dissidenti ed oppositori stanno in questi ultimi tempi sollevando un dibattito anche sui media locali, abitualmente distratti e, ancor più, sottoposti a autolimitazioni  o alla censura connessa alle varie forme di legislazione d’emergenza. La Thailandia, paese che nell’immaginario collettivo è un avamposto della democrazia in Asia e tra i più certi alleati degli Stati Uniti (due questioni connesse, originatesi ai tempi del conflitto vietnamita), oggi è in realtà sottoposto a un regime che continuamente elude le regole e di fatto vive sulla criminalizzazione dell’avversario.
Le opposizioni non sono meno criticabili, ma dalla loro parte hanno la scusante di essere oggi – nel bene e nel male – espressione di un disagio concreto e senza risposte di un paese profondo che nei numeri è maggioritario, come anche di una Thailandia rurale che ha nell’élite urbana di Bangkok non un riferimento riformista e cosmopolita, ma l’espressione degli interessi tradizionali e di un idealismo accademico che – come la politica – si perde tra le pieghe di repressione, corruzione, interessi molteplici e spesso contrapposti. Insomma, un sistema che si bilancia con regole intee a scapito di una società che non ha la possibilità di esprimere il proprio disagio e le proprie necessità, sapendo che comunque le sue richieste saranno eluse.
La povertà e l’ignoranza, oltre che pressioni di ogni genere, contribuiscono alla vendita dei voti. Una consuetudine che tutti i gruppi politici dicono di volere cambiare, ma alla fine favoriscono. Si è finora votato e probabilmente si voterà presto, non per partiti e programmi, ma per il candidato che potrebbe essere più utile in prospettiva e che al momento opportuno paga meglio.

Stefano Vecchia

BOX / La cronistoria: alcune date significative

2005, fine – Le elezioni danno il secondo mandato consecutivo a Thaksin Shinawatra, magnate delle comunicazioni. Il risultato non viene accettato dagli oppositori e a Bangkok si mobilitano le Camicie gialle, movimento nazionalista e filomonarchico, che sostiene il Partito democratico, sconfitto alle elezioni.

2006, 19 settembre – Mentre Thaksin si trova a New York per partecipare alla riunione dell’Assemblea Onu, i militari effettuano un colpo di stato incruento che suscita la simpatia della popolazione della capitale.

2007- Dopo un referendum, viene promulgata la nuova Costituzione.

2007, dicembre – Le elezioni vedono la vittoria del «Partito del potere popolare» che si rifà all’esperienza del disciolto Thai Rak Thai («Thai che amano i thai») di Thaksin.

2008, settembre – Le Camicie gialle occupano gli aeroporti della capitale.

2008, dicembre – Una sentenza della Corte Suprema condanna per brogli elettorali decine di esponenti del «Partito del potere popolare», tra cui quasi tutti i membri del governo.

2008, dicembre – Il Partito democratico prende il potere senza una chiamata alle ue e il suo presidente, Abhisit Vejjajiva diventa primo ministro. I superstiti parlamentari legati a Thaksin danno vita al Puea Thai, oggi maggiore partito di opposizione. Con ruoli invertiti, si sviluppa ora la protesta delle Camicie rosse.

2010, marzo/maggio – A decine di migliaia scendono su Bangkok, inizia un braccio di ferro drammatico con le autorità che finirà con la repressione dei manifestanti il 19 maggio 2010.

BOX / I protagonisti: i colori delle «camice» thialandesi

L’ascesa al potere del governo di coalizione guidato dal Partito democratico è stata propiziata dalle
Camicie gialle, movimento con più «anime» (monarchici, aristocratici, burocrazia, nazionalisti, parte del clero buddhista…), tuttavia il rapporto di simpatia si è da tempo interrotto. La disputa territoriale su alcune aree contese del confine Thai-cambogiano, ha portato il movimento ad accusare il governo di avere svenduto gli interessi del paese e ne ha chiesto le dimissioni.
Le Camicie blu, organizzazione fiancheggiatrice di uno dei partiti della coalizione, il Bhum Jai Thai, e quelle «bianche» o «multicolore» (ali meno estremiste delle Gialle a cui si associa parte del pubblico impiego) hanno fatto la loro comparsa in diverse manifestazioni di piazza.
Le Camicie rosse, nate come reazione al colpo di stato militare contro Thaksin Shinawatra, sono la sponda di piazza del Puea Thai e degli altri gruppi d’opposizione. Al loro interno hanno diverse tendenze ideologiche – dalla sinistra radicale agli ecologisti alla social-democrazia -, ma soprattutto provenienze e leadership differenti. Questo ha impedito che diventasse un vero e proprio movimento rivoluzionario.
Le Camicie nere, sono il servizio d’ordine del movimento, organizzate in stile paramilitare e con un ruolo ancora da chiarire nelle vicende della protesta e della repressione.
Ste.V.

Stefano Vecchia