Una vita da profugo
Libano-Palestina / Viaggio nell’inferno dei campi profughi palestinesi
In Libano, vivono circa 400mila rifugiati palestinesi. Alcuni dal 1948. I campi sono privi di tutto e i rifugiati non godono gli stessi diritti dei libanesi. Ma il mondo, sembra, essersi dimenticato di loro. Reportage.
Dicembre 2010, Beirut. Nella hall dell’hotel ci danno il benvenuto un enorme abete e altri addobbi natalizi. La struttura, tuttavia, non appartiene a proprietari cristiani, bensì a sciiti. Questo è il Libano, multireligioso e multietnico. E pieno di conflitti interni e indotti dall’esterno. La città, molto vasta, è un susseguirsi di quartieri appartenenti a «comunità» etnico-religiose e politiche diverse: sciiti di Amal, sciiti di Hezbollah; sunniti (anch’essi divisi in varie appartenenze politiche), cristiani di diverse confessioni.
Zone visibilmente ricche, con edifici modei ed eleganti, hotel lussuosi e magazzini ricolmi di merci, si alternano ad altre povere e a vere e proprie baraccopoli. Dovunque sono riconoscibili i segni dei bombardamenti israeliani e dei passati e recenti conflitti interlibanesi.
Il nostro viaggio in Libano ha come obiettivo la visita ai campi profughi dove vivono circa 400 mila rifugiati palestinesi, generazione dopo generazione, da sessant’anni.
Sono sparsi in 12 campi ufficiali e 25 clandestini. Non hanno diritti, né cittadinanza, non possono esercitare una lunga lista di professioni, hanno scarsi mezzi per curarsi e per studiare, sono spesso il capro espiatorio delle tensioni e dei conflitti interni libanesi, ma anche uno degli obiettivi privilegiati dei piani di destabilizzazione dei governi israeliani e statunitensi.
Un recente studio congiunto tra l’Unrwa (United Nations Relief and Works Agency, agenzia delle Nazioni Unite specifica per questi campi) e l’Università americana di Beirut ha rivelato che il 67% dei profughi vive al di sotto della soglia di povertà.
Tutte le persone che abbiamo incontrato – gente comune e dirigenti politici – hanno affermato che l’Anp (Autorità nazionale palestinese guidata dal presidente Mahmud Abbas) – ha cessato completamente di interessarsi alla loro situazione.
Essi, tra l’altro, sono avversati da tutte le componenti politiche libanesi, che gestiscono il potere in base a fattori etnico-religiosi, mantenendo un difficile e spesso instabile equilibrio.
Per evitare di ritrovarsi nuovamente coinvolti in conflitti inter-palestinesi e in guerre civili, come è successo fino a un passato piuttosto recente, le varie fazioni palestinesi si sono impegnate a mantenere una totale neutralità nei confronti delle lotte intee libanesi.
Campo di Mar Elyas, Beirut
È il «centro» della vita politica palestinese in Libano, in quanto è sede delle rappresentanze di tutti i partiti.
Veniamo ricevuti dal leader locale del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp), Marwan Abdel ‘Aal, che ci parla della difficile condizione di vita dei suoi connazionali in Libano: «La situazione sta peggiorando, sia socialmente, sia a livello lavorativo e scolastico. Il rispetto dei nostri diritti, qui, è molto scarso. Siamo il punto più debole delle leggi libanesi, che ci escludono da tutto, anche dalla possibilità di ottenere la cittadinanza».
Usciamo dall’ufficio del Fplp e giriamo per i vicoli del campo: un labirinto di case, cortili, magazzini, uno addossato sull’altro, e sviluppato in verticale, a causa del divieto di edificare nuove abitazioni. La mancanza delle più basilari condizioni di igiene e sicurezza sono evidenti.
Ci dirigiamo verso la casa di Mohammad, uno dei 5.000 palestinesi senza documenti, cioè, persone che per il governo libanese «non esistono». Si tratta di una sorta di «clandestini», anche se risiedono nel paese da decenni. Non hanno carta d’identità e quindi appena lasciano il campo sono arrestati. Sono la categoria più bassa della già tragica scala umana del profugo.
«Io sono di Yafa (la Giaffa dell’occupazione israeliana, ndr) – ci racconta Mohammad – e, dopo la Nakba1, con la famiglia mi sono rifugiato in Giordania, dove sono stato registrato come profugo. Sono andato in Libano, a studiare, a metà degli anni ’70. Nel 1982, durante l’invasione sionista, ho abbracciato la resistenza. È questa la mia colpa, che pago con la mancanza di un qualsiasi documento che attesti la mia residenza e identità. Avevo un passaporto giordano, che non mi è stato più rinnovato.
Nel 1983 mi sono sposato e ho avuto cinque figli che avevano bisogno di certificati anagrafici per poter frequentare le scuole, viaggiare, lavorare.
Nel 2008 mi era stato detto che c’era la possibilità di regolarizzare me e tutti i miei familiari, così mi sono presentato per richiedere finalmente i documenti, ma mi hanno arrestato in quanto “clandestino”.
Ai miei figli hanno dato permessi provvisori, di un anno, con cui non possono fare nulla. Uno di loro, che si trovava negli Emirati Arabi con visto scaduto, è stato fermato in aeroporto prima di partire per il Libano, e trattenuto lì dentro per otto mesi. È stato rilasciato a seguito di pressioni inteazionali, e poi, appena ha potuto, se n’è andato in Norvegia, dove ha chiesto asilo politico».
Le autorità libanesi rifiutano intenzionalmente di trovare soluzioni al caso dei 5.000 palestinesi senza documenti. Sanno bene che se vengono respinti alla frontiera, nessuno stato arabo li accoglierà, e che non possono tornare in patria, in Palestina.
Mohammad ci spiega che esistono tre categorie di profughi: quelli registrati dall’Onu, nel ’49, quelli non registrati e i senza documenti. I primi sono in possesso di documenti libanesi che hanno validità di tre o cinque anni; i secondi hanno documenti (con scadenza annuale), ma non risultano nell’elenco dei profughi, mentre gli ultimi sono persone inesistenti per il governo del Libano.
Un km quadrato per 25mila
Proseguiamo il nostro viaggio tra i campi. Burj el-Barajneh è un luogo inquietante: una gabbia di un km quadrato per 25mila esseri umani che vivono sotto un vasto reticolato di fili elettrici e tubi per l’acqua pericolosamente intrecciati sopra le loro teste. Visitiamo la Al Ghawth, Humanitarian Relief for development society, un’associazione caritatevole – una delle tante, dentro e fuori dai campi – che si occupa del sostegno agli orfani, di adozioni a distanza, assistenza medico-sanitaria attraverso diversi ambulatori e centri per disabili, e di formazione professionale.
Parallelamente all’erogazione dei molti, troppi, servizi che il governo libanese non garantisce, il centro ha promosso un progetto di microcredito per sviluppare piccole attività commerciali, in modo da rendere la gente più autonoma e meno dipendente dall’assistenza.
I nostri ospiti ci portano nell’asilo da loro gestito: sono diverse classi di bambini in età tra i tre e i cinque anni. I piccoli ci accolgono sorridenti, intonando teneri cori di benvenuto.
Continuiamo il giro per i vicoli del campo, attraversando vere e proprie foreste di cavi e tubi, che ogni mese, spiegano gli abitanti, provocano la morte per folgorazione di ragazzini e adulti.
Fango, immondizia e assenza di una qualsiasi forma di raccolta dei rifiuti contribuiscono a creare un clima insalubre in tutta l’area.
Entriamo nella sede del Comitato popolare: è un’istituzione attiva in tutti i campi profughi e rappresenta tutte le forze politiche palestinesi. Essa ha lo scopo di tutelare la sicurezza, arrestando i criminali e consegnandoli alla polizia libanese, e di mediare i conflitti interni.
«I nostri diritti civili e di proprietà non esistono – ci spiega uno dei responsabili -. Non possiamo comprare immobili e la costruzione delle abitazioni si sviluppa in verticale, con finestre che si specchiano in altre, negando ogni privacy e creando tensioni tra vicini di casa. Non abbiamo il permesso neanche di allacciare la corrente e l’acqua, ed è per questo che ci sono ragnatele di fili dovunque. La quantità di energia elettrica concessa dal governo libanese è rimasta invariata rispetto a decenni fa, quando l’area era meno popolata. Ogni 48 ore le famiglie hanno diritto a mezz’ora per riempire serbatorni da 200 litri. Questo avviene in condizioni normali, ma quando manca la corrente per le pompe, si rimane a secco. Inoltre, l’acqua contiene il 60% di sale e per essere bevuta necessita di filtri, che non sono foiti dalle autorità libanesi, ma devono essere comprati da privati. Pochi, dunque, possono permetterseli».
Discriminazione professionale: «Noi palestinesi siamo autorizzati dallo stato libanese a svolgere soltanto alcune professioni, prevalentemente umili. Ben 72 ci sono proibite – tra cui quelle del medico, ingegnere, architetto… La maggior parte di noi lavora nei campi, occupandosi di piccole attività di commercio, o come manovale, in nero e mal pagato. Non ci sono contributi previdenziali e assicurativi.
Per ciò che riguarda l’educazione scolastica, l’Unrwa garantisce la primaria, le medie e le superiori. Le aule sono poche e sovraffollate, e spesso il livello di preparazione non è adeguato. Qui a Beirut ci sono 65mila studenti e una sola scuola superiore.
L’università è a pagamento e chi non ottiene le borse di studio, non può accedervi: su 500 che passano l’esame di maturità, soltanto 100 trovano posto. La maggioranza è costretta ad abbandonare gli studi.
Prima del 1982 (l’invasione israeliana del Libano), il 90% dei palestinesi si iscriveva all’università. Dall’83 in poi, a causa delle continue e prolungate chiusure delle scuole, sono iniziati i problemi, e la mancanza delle rimesse dall’estero, soprattutto dai paesi del Golfo, dopo il 1990 (prima guerra del Golfo), ha notevolmente impoverito i profughi. Per tutti noi questa è una vita piena di rinunce».
Mala-sanità?
Entriamo nell’ospedale Haifa, uno dei cinque istituiti nei campi profughi in Libano. È una struttura della Mezzaluna Rossa palestinese, appartenente all’Olp (l’Organizzazione per la liberazione della Palestina) e finanziata dall’Unione Europea, con 42 posti letto destinati a circa 50mila palestinesi.
Il direttore dell’ospedale ci spiega che i bambini soffrono di problemi gastro-intestinali causati dall’alta concentrazione di sale nell’acqua, di allergie e malattie polmonari provocate dall’umidità e dall’aria malsana. Molto alta è la percentuale di persone affette da diabete da eccesso di zuccheri.
Molto diffusi sono anche lo stress e problemi psicologici dovuti alla drammatica condizione in cui le persone del campo sono costrette a vivere.
Per gravi malattie tipo il cancro, l’ospedale Haifa garantisce solo la diagnostica e non le cure, e ai pazienti che non possono permettersi di andare in un ospedale libanese, a pagamento, non restano molte possibilità di sopravvivenza.
Ricordo dei martiri
Il cimitero dei martiri di Sabra e Shatila è un giardino desolato, con una grande tomba, dentro alla quale sono state sepolte, in una enorme fossa comune, circa 1.000 persone, vittime dell’eccidio che si consumò nel 1982, ad opera delle falangi libanesi, aiutate dall’esercito israeliano.
Il campo di Shatila è a un chilometro dal cimitero. Per raggiungerlo bisogna percorrere una strada affollata che passa dentro un mercato frequentatissimo, sporco e pieno di mercanzie.
Ci lasciamo Beirut alle spalle e costeggiamo per qualche chilometro una distesa di slum: edifici fatiscenti, con persone poverissime che lavorano davanti a negozi sporchi e ad officine altrettanto malsane.
Qualche chilometro più in là, iniziano le cittadine con case e villette e campi coltivati. Sembra di essere passati da un mondo all’altro, in poco tempo. Tutto il Libano è così.
Oltrepassiamo Sidone attraverso un check-point militare.
Lungo il percorso, sfilano ai due lati della strada chiese e moschee, istituti islamici e cristiani, uno a fianco all’altro.
Arriviamo a Tiro, dove ci aspetta il direttore locale dell’Unrwa, dalla quale dipendono per la sopravvivenza tre campi profughi e 12 raggruppamenti illegali, per un totale di 95 mila profughi.
«I perimetri dei campi sono rimasti quelli degli anni ’50 – ci spiega il dirigente -. All’epoca ospitavano 7.000 rifugiati, ora invece ne hanno 29mila ciascuno. Ecco perché hanno dovuto svilupparsi verticalmente e in aree illegali, non riconosciute, dove vivono 73 famiglie (circa 300 persone).
La restrizione nell’entrata di materiali edili, mobili e del transito stesso dentro e fuori dal campo, crea gravi difficoltà per i palestinesi. Una recente ricerca svolta dall’Unrwa in collaborazione con l’università americana di Beirut, evidenzia un aumento esponenziale della povertà tra i profughi, in particolare a Tiro».
Lasciamo l’ufficio dell’Unrwa e ci rechiamo a visitare il campo di Burj el-Shamaliy.
All’ingresso troviamo un check-point di forze libanesi. Durante l’occupazione israeliana la postazione era un avamposto militare, ma ora è utilizzato dall’esercito libanese per monitorare i residenti palestinesi.
Ci fermano mezz’ora, per controllare i nostri passaporti.
Finalmente, dopo un’ispezione accurata delle pagine e dei nostri nomi, ci lasciano andare.
Entriamo in un asilo costruito nel 1967 dall’associazione Assumud, finanziata dall’Olp. Tre classi accolgono circa 80 bambini e 4 insegnanti.
La giovane direttrice, Hiba, ci conduce in giro per la struttura e ci presenta i piccoli, tutti vestiti di azzurro, lindi e ordinati, e molto educati.
Nei piani superiori ci sono locali per la formazione professionale dei giovani, con laboratori di informatica e di altre discipline.
Burj el-Shamaliy è stato soprannominato «Campo dei Martiri», per l’alto numero di vittime durante il massacro del 1982: 96 morti.
Qui ci sono 20mila abitanti e un solo ambulatorio con due medici che lavorano quattro ore. Ricevono 400 pazienti al giorno. Danno solo calmanti, per qualsiasi patologia. Il 95% delle medicine è a pagamento. Per le malattie croniche è concessa solo una dose al mese, le altre devono comprarsele.
Le convenzioni con gli ospedali prevedono solo alcuni interventi chirurgici, ma le strutture meno care hanno posti limitati. Per gli interventi cardiaci, l’Unrwa passa 3.000 dollari, ma il costo è di 6.000. Paradossalmente, dopo i 60 anni, la cifra si abbassa a 2.000.
Il 66,4% dei poveri del campo viene sfamato da associazioni caritatevoli e dall’Unrwa. Questa dà 110 dollari all’anno al 12% di loro. Quindi, poco o nulla.
Al «bambino felice»
Ci rechiamo alla scuola matea «Bambino felice». È una struttura costruita nel 1992, che ospita 200 bimbi tra i 3 e i 6 anni, divisi in 8 classi.
Il nome dell’asilo non deve trarre in inganno: qui manca tutto. Non ci sono giochi, non c’è nulla. Le famiglie devono portare frutta e verdura per la mensa. La retta è di 75 dollari all’anno, ma il 30% dei bambini è esente, perché troppo povero.
Un piano della struttura è senza finestre, e d’inverno fa freddo.
Entriamo nelle aule, semispoglie, con bimbi seduti intorno a un tavolo, con un pezzetto di pongo ciascuno che girano e rigirano tra le dita, mentre ci osservano con occhioni sgranati, cantando canzoncine di benvenuto. Non hanno nulla, nemmeno l’essenziale, e ripetono a memoria storie e canti per passare il tempo.
Quando, un’ora dopo, usciamo per strada, abbiamo ancora impressa negli occhi l’immagine delle loro manine che impastano un pezzo quasi invisibile di pongo, e non riusciamo a non pensare che generazioni e generazioni di bambini sono accomunati dalla stessa miseria e ingiustizia, che li vede prigionieri in campi profughi dove non c’è neanche l’indispensabile.
A Sidone i rifugiati sono 120mila: 5.000 vivono a Mi’eh w Mi’eh; 40 mila sono suddivisi tra un quartiere della città e raggruppamenti illegali; 75mila, nel campo di Ein el-Helweh. La maggior parte di loro viene dall’Alta Galilea ed è qui dal 1948.
Il campo di Ein el-Helweh ci colpisce per il «clima», caratterizzato dalla mancanza di luce naturale, da molta sporcizia e caos, e da tanta gente, per lo più miliziani, che se ne va in giro armata.
L’area destinata ai campi è la stessa di 60 anni fa, anche se la popolazione è triplicata. Le case sono una addossata all’altra, il sole non riesce neanche a entrare. Ci sono vicoli completamente bui. Tutto ciò provoca gravi problemi psico-fisici. Appena possono, i ragazzi scappano da qui.
Ein el-Helweh ha poco del nome che si porta appresso, «L’occhio (o la fonte) della bella». Come tutti i campi, è un posto di grande sofferenza, di prova concreta, visibile, dell’ingiustizia subita dai palestinesi 63 anni fa, quando a centinaia di migliaia vennero espulsi dalla Palestina attraverso massacri e pulizia etnica, e si rifugiarono in campi profughi allestiti qua e là nel mondo arabo. Libano compreso.
Questo luogo, tuttavia, ha una tristezza e una cupezza maggiori: le persone ci guardano con diffidenza, ci salutano in inglese e non in arabo, come fossimo degli intrusi, e non degli ospiti.
In questo campo ci sono stati molti conflitti interni tra le varie fazioni palestinesi, e la presenza di paramilitari palestinesi armati di tutto punto ne è un effetto, e forse pure una causa.
Anche qui, come negli altri campi, visitiamo ospedali dove manca quasi tutto, centri assistenziali, e incontriamo esponenti di Fatah e di Hamas, i due principali movimenti politici palestinesi.
I campi profughi sono un esempio di come si possa tenere una popolazione in uno stato di miseria calcolata, voluta, per indurla ad andarsene quanto prima, ed indubbiamente è stata una strategia vincente, poiché da 400mila il numero di rifugiati è sceso a 250mila. Gli altri sono fuggiti da questo inferno, per cercare accoglienza in Occidente e in altri paesi arabi e islamici.
1- La catastrofe che portò alla cacciata dei palestinesi dalla loro terra nel 1948.
Angela Lano