Un altro martire cristiano in un paese senza pace
Shahbaz Bhatti, 42 anni, era il ministro per le minoranze religiose in Pakistan, cattolico e unico non musulmano nel governo. È stato assassinato dai talebani a Islamabad, il 2 marzo 2011, colpito da 25 proiettili.
Chi era
Shahbaz Bhatti, il ministro ucciso dai talebani pakistani, nacque il 9 settembre 1968, in una famiglia cristiana originaria del villaggio cattolico di Kushpur, un villaggio fondato dai frati Domenicani in cui «Bhatti ricevette una formazione spirituale molto solida». Nel villaggio la convivenza con i fedeli musulmani (che lì sono in minoranza) è ancora «in perfetta armonia, all’insegna del dialogo di vita, e quell’esempio Bhatti lo portò con sé come modello in tutta la sua esperienza di impegno sociale e politico» – come ricordò l’Arcivescovo di Islamabad, Mons. Anthony Rufin, durante il suo funerale.
Suo padre Jacob, servì a lungo nell’esercito, poi si impegnò nel campo dell’istruzione, insegnando per molti anni, e fu presidente del consiglio delle Chiese di Kushpur. Nell’autunno del 2010 fu ospitalizzato a Islamabad, dove peggiorò dopo la notizia dell’assassinio del governatore del Punjab, Salman Taseer, il 4 gennaio 2011; morì il 10 dello stesso mese. L’importanza di Jacob Bhatti nella vita del figlio è stata grande. Una testimonianza apparsa sui giornali pakistani al momento della morte lo descriveva così: «Era un uomo coraggioso ed era la principale fonte di forza per suo figlio. Lo incoraggiava e lo aiutava a affrontare le situazioni più rischiose e precarie».
Shahbaz Bhatti dopo aver completato i suoi studi intraprese la carriera politica nel Pakistan People’s Party, il partito più riformatore del Paese. Molto rapidamente si impose all’attenzione dei quadri dirigenti del partito, e in particolare di Benazir Bhutto, con cui lavorò a stretto contatto fino al momento dell’assassinio della leader carismatica pakistana. Shahbaz era sul convoglio insieme alla Bhutto al momento dell’attentato e riportò solo ferite leggere.
Bhatti ebbe sempre un’attenzione particolare per la situazione dei gruppi più discriminati del Paese. Era presidente dell’Apma (All Pakistan Minorities Alliance), un’organizzazione rappresentativa delle comunità emarginate e delle minoranze religiose (non musulmane) del Pakistan, che tuttora opera su vari fronti in sostegno dei bisognosi, dei poveri, dei perseguitati. Del motivo del suo impegno egli diceva semplicemente: «Voglio solo un posto ai piedi di Gesù. Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino per me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo».
Il suo «testamento»
«Il mio nome è Shahbaz Bhatti. Sono nato in una famiglia cattolica. Mio padre, insegnante in pensione, e mia madre, casalinga, mi hanno educato secondo i valori cristiani e gli insegnamenti della Bibbia, che hanno influenzato la mia infanzia. Fin da bambino ero solito andare in chiesa e trovare profonda ispirazione negli insegnamenti, nel sacrificio, e nella crocifissione di Gesù. Fu l’amore di Gesù che mi indusse ad offrire i miei servizi alla Chiesa. Le spaventose condizioni in cui versavano i cristiani del Pakistan mi sconvolsero. Ricordo un Venerdì Santo quando avevo solo tredici anni: ascoltai un sermone sul sacrificio di Gesù per la nostra redenzione e per la salvezza del mondo. E pensai di corrispondere a quel suo amore donando amore ai nostri fratelli e sorelle, ponendomi al servizio dei cristiani, specialmente dei poveri, dei bisognosi e dei perseguitati che vivono in questo paese islamico.
Mi è stato richiesto di porre fine alla mia battaglia, ma io ho sempre rifiutato, persino a rischio della mia stessa vita. La mia risposta è sempre stata la stessa. Non voglio popolarità, non voglio posizioni di potere. Voglio solo un posto ai piedi di Gesù. Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino per me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo. Tale desiderio è così forte in me che mi considererei privilegiato qualora — in questo mio battagliero sforzo di aiutare i bisognosi, i poveri, i cristiani perseguitati del Pakistan — Gesù volesse accettare il sacrificio della mia vita. Voglio vivere per Cristo e per Lui voglio morire. Non provo alcuna paura in questo Paese. Molte volte gli estremisti hanno desiderato uccidermi, imprigionarmi; mi hanno minacciato, perseguitato e hanno terrorizzato la mia famiglia. Io dico che, fino al mio ultimo respiro, continuerò a servire Gesù e questa povera, sofferente umanità, i cristiani, i bisognosi, i poveri. Credo che i cristiani del mondo, che hanno teso la mano ai musulmani colpiti dalla tragedia del terremoto del 2005, abbiano costruito dei ponti di solidarietà, d’amore, di comprensione, di cooperazione e di tolleranza tra le due religioni. Se tali sforzi continueranno sono convinto che riusciremo a vincere i cuori e le menti degli estremisti. Ciò produrrà un cambiamento in positivo: le genti non si odieranno, non uccideranno nel nome della religione, ma si ameranno le une le altre, porteranno armonia, coltiveranno la pace e la comprensione in questa regione. Credo che i bisognosi, i poveri, gli orfani, qualunque sia la loro religione, vadano considerati innanzitutto come esseri umani. Penso che quelle persone siano parte del mio corpo in Cristo, che siano la parte perseguitata e bisognosa del corpo di Cristo. Se noi portiamo a termine questa missione, allora ci saremo guadagnati un posto ai piedi di Gesù ed io potrò guardarlo senza provare vergogna».
Gigi Anataloni