Un’attività di rapina
Amazzonia: una diversa prospettiva (1a parte)
È comune pensare all’Amazzonia a partire da due immagini:
• la prima è quella di una natura esuberante, fatta di foreste, alberi giganteschi, animali selvaggi, grandi ricchezze minerarie, fiumi immensi, grande riserva d’acqua dolce, polmone verde della Terra;
• la seconda immagine è quella di una terra abitata da popolazioni primitive incapaci di profittare delle ricchezze che la natura offre loro e insediate in aree immense ampiamente sottoutilizzate.
Questo per noi occidentali; per gli indigeni dell’Amazzonia, Yanomami, Macuxí, Ingarikó, Patamona, Taurepang, Wapixana, Waimirí-Atroarí, Wai-Wai e altri, la foresta è il loro mondo, la loro casa, la loro terra ancestrale, la terra dei loro avi. La terra è la vita, la madre che da sempre fornisce loro tutto il necessario per vivere. è il luogo dove c’è tutto: la cacciagione, le piante, i fiumi e l’acqua, le montagne e loro stessi.
Sorvolando l’Europa si vede chiaramente come gli occidentali, cioè gli europei, hanno risolto la dicotomia predetta: praticamente non c’è più foresta; solo qua e là si possono vedere macchie di alberi spontanei che ancora resistono, ma sono sempre meno e sempre meno estese. È la soluzione che ha permesso agli europei di alimentare e di fornire di una massa enorme di beni le popolazioni locali che, nei secoli, sono cresciute talmente da doversi poi spostare in altri continenti, ove hanno esportato la loro cultura di sfruttamento delle risorse naturali fino ad annullare, in certe zone, la possibilità di sopravvivenza delle stesse.
Il nuovo eldorado
Questa cultura sta aggredendo ora anche la foresta Amazzonica; da quando essa è diventata il «Nuovo Eldorado» che richiama avidi latifondisti locali o stranieri o grandi multinazionali – che vedono la foresta amazzonica come un posto di frontiera da sfruttare sul piano economico e politico –, così come povera gente che arriva dal sertão semidesertico del Nordeste (Maranhão, Piauí, Ceará, Rio Grande do Norte, Paraíba, Peambuco, Alagoas, Sergipe, Bahia) per cercare un’alternativa alla loro miseria, per trovare oro o comunque uno spazio vergine da occupare e colonizzare per dare sostentamento a sé e alla propria famiglia.
È l’eterna situazione che si crea quando si ha un’enorme discrepanza fra le risorse naturali presenti in un territorio e la popolazione che ci vive. Così è stato dopo la scoperta dell’America e poi dell’Australia, continenti che presentavano un rapporto fra popolazione indigena e risorse naturali infimo rispetto allo stesso rapporto presente in Europa, ma così era stato anche al tempo delle migrazioni delle popolazioni indoeuropee dall’Asia verso l’Europa. Quando gli squilibri nei valori di questo rapporto sono rilevanti e del segno predetto, si crea un movimento di popolazione da dove essa è sovrabbondante verso dove è scarsa. La differenza è che oggi c’è anche la possibilità di mobilitare e trasferire ingenti capitali artificiali che permettono una rapida utilizzazione delle risorse naturali fisse.
strade e Immigrazione
La forte immigrazione dei nordestini (ma anche dei cariocas, paulistas e gauchos del Sud) nella zona amazzonica è recente e si può dire che sia stata favorita dalla costruzione, negli Anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, di strade quali la rete transamazzonica, comprendente la Belem-Brasilia, la Cuiabá-Porto Velho-Perù, la Porto Velho-Manaus-Bõa Vista-Venezuela/Guyana, la Porto Velho-Imperatriz, la Cuiabá-Santarem, la Macapá-Bõa Vista-Colombia. Lo scopo della costruzione di tali strade era d’integrare il territorio amazzonico al resto del paese, permettendo lo sfruttamento delle ingenti risorse minerarie e vegetali in esso presenti nonché, assorbendo la popolazione eccedente del Nordeste, di alleggerire le tensioni economiche e sociali presenti in quest’ultima regione.
Gran parte di esse, per mancanza di manutenzione, ora non sono più utilizzate, se non per tratti limitati, ma la loro costruzione e quella di altre strade ha aperto delle brecce nella foresta che hanno creato le premesse per l’accelerazione dello sfruttamento delle risorse naturali e dell’introduzione di coltivazioni intensive (acacia mangium, riso e soia soprattutto) e dell’allevamento del bestiame.
fazendeiros
L’occupazione delle terre amazzoniche da parte dei bianchi iniziò nella seconda metà dell’Ottocento, con l’introduzione di attività agropastorali, come strategia per garantire la sicurezza militare della regione assicurando in essa la presenza di brasiliani (contro possibili invasori da fuori). I coloni immigrati (fazendeiros) ottennero via via dai governatori dello Stato dell’Amazzonia diritti di proprietà su terre di incontestabile occupazione indigena. Le leggi statali ampliarono l’estensione del territorio destinato all’occupazione privata, riducendo a esigue fasce di terra la parte riconosciuta agli indios.
Questo avvenne in uno stato di «convivenza pacifica» tra bianchi e indios, ma costituì un’effettiva espropriazione delle terre indigene da parte dei fazendeiros. Attraverso un sistema di relazioni di dipendenza, che andavano dal rapporto padrino-compare alla cessione di donne indigene ai padroni come domestiche e di bambini per farli educare nella fazenda alla cultura e ai modi dei bianchi, i fazendeiros stabilirono un meccanismo efficace di dominio e occupazione delle terre. Con questa strategia, gli indios si ritrovarono ben presto senza terre, con le loro case comunitarie (maloca, per usare un termine di origine guaraní alquanto diffuso) e i loro campi circondati dal bestiame dei padroni.
A partire dagli anni Settanta del secolo scorso, gli agricoltori bianchi cominciarono a recintare le aree che dichiararono di loro proprietà e a registrarle nell’attesa di una regolamentazione, impedendo così agli indios anche l’accesso ai fiumi, ai laghi e alle riserve di selvaggina, e accusandoli di invadere le loro proprietà.
garimpeiros
Parallelamente si ebbe un’intensificazione delle immigrazioni di cercatori di oro e diamanti (garimpeiros). Le prime immigrazioni di garimpeiros risalgono agli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso, ma la scoperta di importanti giacimenti minerari (oro, diamanti, cassiterite, bauxite, uranio ecc.) avvenne negli anni Ottanta: la «corsa all’oro» in Amazzonia esplose alla fine di quel decennio, quando migliaia di brasiliani di altre regioni ingrossarono le fila dei garimpeiros, che arrivarono in cerca di rapidi guadagni con la complicità delle forze politiche locali e federali. Gli invasori erano in gran parte senza alternative, cosicché il processo divenne irreversibile.
attività di rapina
L’estrazione di minerali è per sua natura un’attività di rapina nei confronti dell’ambiente (prende senza dar niente in cambio se non danni) e degli indios e della loro cultura, perché rapina è anche l’appropriazione delle terre a uso privato e l’attività di supposta acculturazione (forzata) degli indigeni. Allontanati dalla loro maloca e dalla loro cultura per essere inseriti in scuole e inteati, e acquisite le regole sociali di tipo occidentale, pochi ritornano nuovamente alle maloca stesse. La maggior parte resta nelle città, lavorando per i bianchi; anzi, coloro che tornano ai villaggi indigeni lo fanno per convincere i parenti a lasciare il luogo natale per trasferirsi in città, agendo negativamente nei confronti della cultura indigena.
Indigeni espulsi dalle loro terre o richiamati dalla città con il miraggio di nuovi modelli di vita, garimpeiros che non hanno fatto fortuna e disperati dell’assetato Nordeste, attirati dalla prospettiva di trovare fecondi raccolti nell’umido clima amazzonico o dalla propaganda politica (in periodo elettorale promette lotti di terra a chi decida di stabilirsi nella regione e assicuri un voto, per poi abbandonare gli immigrati al loro destino), si riversano in città, ove non trovano né accoglienza né appoggi e spesso alla fine sono costretti a vivere sotto teloni di plastica in uno dei diversi quartieri periferici delle poche città presenti.
città, tomba delle illusioni
Gli abitanti delle città sono quadruplicati nel corso degli anni Novanta, ma le possibilità di lavoro stabile sono rimaste contenute. A parte il miraggio del «funzionariato pubblico» presso le strutture del Goveo o della Prefettura, ciò che è accessibile è una varietà di lavori temporanei, soprattutto informali, che permettono la sopravvivenza, ma non offrono garanzie di sicurezza e stabilità economica.
La situazione di precarietà può trovare una spiegazione nel difficile adattamento degli indios che arrivano in città. Essi non conoscono i meccanismi del mercato del lavoro e generalmente non si relazionano con i bianchi – se non nella forma di rapporti di sudditanza – ma solamente con altri indios, parenti o amici. Questa situazione non caratterizza solamente chi è arrivato da poco in città, ma anche chi pur con molti anni di permanenza non riesce comunque a trovare le condizioni per lavori migliori e più stabili.
Così la maggioranza degli indios cittadini difficilmente ha un luogo di lavoro fisso o un contratto; essi prestano servizi temporanei, con un salario giornaliero o settimanale; sono i primi a essere licenziati in caso di difficoltà economica dell’impresa per cui lavorano e non sono per nulla tutelati dalla legge sul lavoro; fanno lavori quali il becchino, lo scaricatore di camion, il muratore e l’aiutante muratore, il guardiano notturno, il manovale. Le donne sono le più sfruttate, per lo più occupate quali domestiche e lavandaie.
non solo indios
Questa situazione vale per gli indios che hanno lasciato la foresta, ma anche per i contadini – quasi mai di professione, spesso privi di esperienza o attitudine al lavoro agricolo e abbandonati al loro destino in insediamenti improvvisati in mezzo alla foresta – i quali non hanno retto alla vita dura nella foresta e si sono riversati verso la città, e anche per i garimpeiros che non hanno fatto fortuna. Contadini e garimpeiros che devono vivere in situazioni di vita del tutto sconosciute: la foresta, il clima, le distanze enormi, l’isolamento, l’estrema difficoltà di qualsiasi contatto con il resto del Paese.
Sono tutti vittime dell’esclusione sociale, della mancanza dei servizi che dovrebbero essere foiti dalle amministrazioni pubbliche o dalla società civile come scuole e servizi sociali e sanitari. Invece le strutture sanitarie sono scarse e inadeguate, l’offerta educativa è insufficiente e non esistono servizi di orientamento e inserimento nel lavoro.
boom della coca
Per questi (contadini e garimpeiros, in special modo) si è aperta, in diverse zone della foresta amazzonica, una nuova via, quella della coltura della pianta della coca per ottenee la pasta. Il boom della coca è la conseguenza evidente del crollo delle illusioni dei coloni: non si fa nessuna fatica a convincerli che, con poco sforzo, in poco tempo e con grande abbondanza, si può accumulare denaro coltivando la coca. In effetti la coltivazione della coca è quella che si presenta, nella foresta amazzonica, come la più redditizia: secondo le diverse fonti, la rendita della coca risulta da cinque a dieci volte superiore a quella del caucciù; da dieci a venti volte superiore a quella del cacao. Più redditizia è ovviamente l’attività di chi dispone di piccoli laboratori per produrre la pasta di coca partendo dalle foglie della pianta. Ugualmente ben pagata, rispetto ai salari correnti, è l’attività dei raspachines, manodopera errante che passa di finca (campo – piantagione) in finca per la raccolta delle foglie di coca.
In realtà si tratta di stime di redditività comparata che si fermano al solo calcolo economico, al calcolo della redditività lorda, che non tiene conto delle forti diseconomie (costi economici e metaeconomici individuali, oltre che sociali) derivanti dall’illegalità, dallo stato di violenza e disordine sociale e famigliare che la narcoproduzione e il narcotraffico comportano.
Che poi – come si sente dire, con evidente confusione sul concetto di «bene» – la produzione della coca possa essere valutata, a livello macro-economico, come fatto positivo, poiché attiva reddito e occupazione, è fatto assai criticabile, in quanto confonde la promessa di benessere – reddito e occupazione – con la realtà del benessere – disponibilità di beni atti a migliorare la qualità della vita della popolazione (… e naturalmente questo non vale solo per la coca e la cocaina, ma anche per molti altri prodotti, che gonfiano i valori del PIL, ma non quelli del benessere anche solo materiale).
boom boomerang
Il boom della coca richiama alla mente precedenti bonanza (imprese altamente redditizie e relativamente facili, ma di breve durata, ndr.), quali quelle del caucciù, della china, delle pelli degli animali, del legno pregiato ricavato dalla deforestazione, del riso, del granoturco, della soia. Tutte hanno il comune denominatore dello sfruttamento irrazionale della foresta e delle terre in generale, a causa dell’ignoranza dei contadini in merito alle tecniche agricole e zootecniche appropriate al contesto locale. Molti contadini continuano a praticare la tecnica del «taglia e brucia», che danneggia gravemente l’ambiente locale, distruggendo le risorse forestali e favorendo l’erosione dei suoli fino a provocare veri e propri fenomeni di desertificazione. I terreni sono coltivati fino a esaurimento – senza conoscere tecniche appropriate e andando anche incontro a perdite economiche – e successivamente rivenduti ai latifondisti come pascolo, e i piccoli coloni sono sempre alla ricerca di nuove terre nella foresta.
(1 – continua)
Daniele Ciravegna