Rientro dei pescatori e crisi del mercato ittico
In Senegal la pesca occupa più di 600 mila persone, di cui 400 mila impegnate nella pesca tradizionale; ma la quantità di pesce è diminuita dell’80% rispetto a dieci anni fa. La crisi è iniziata quando pescherecci europei e asiatici hanno avuto licenza di depredare le acque africane, con sistemi che mettono a rischio la riproduzione ittica.
Il giorno prima di lasciare il Senegal, la mattina, Rosalie mi guida in un giro nel porto di Dakar, il più importante dell’Africa dell’Ovest. Accanto a enormi navi cariche di container in attesa di essere sdoganati, tante piroghe di legno e relitti che ancora escono in mare per la pesca. Coloratissime, slanciate nella loro lunghezza, le piroghe sono in grado di stare in mare per settimane di pesca. Sembrano esili e quasi traballanti, eppure con quelle barchette, mi assicura Rosalie, i pescatori senegalesi si spingono fino nelle acque della Guinea Bissau. Ne vedo arrivare una che sembra scivoli sulle onde e sia sempre in procinto di ribaltarsi: un movimento precario che per i pescatori è normale, ma non per me.
Più tardi, spinta dalla curiosità, chiederò a un pescatore di fare un giro nella sua piroga; ma non usciamo nemmeno dal porto che il mio stomaco in ebollizione e il mio colorito verde costringe il gentile pescatore a fare subito marcia indietro.
I pescherecci, anche quelli più grandi, non hanno sistemi di conservazione del pesce. Caricano le stive di ghiaccio riuscendo a conservare il pesce anche per una settimana. Non cerco nemmeno di spiegarmi come facciano; ormai ho la consapevolezza che quello che per noi sembra impossibile per loro è la normalità.
Incontro il signor Antonio, un armatore italiano in Senegal da quasi 20 anni, pur non parlando una parola di wolof né di francese. È Rosalie che si occupa di tutto per lui. Egli mi racconta come il mercato ittico in Senegal fosse diverso fino a qualche anno fa: «Qui si pescano tonnellate di pesce perché l’oceano è ricco di plancton. Una volta bastava calare le reti e in poco tempo si riempivano. Riempivamo container di pesce e li spedivamo in Italia. Da quando l’Unione europea ha fatto certi accordi bilaterali con il Senegal, la pesca non è più un settore redditizio, poiché barche da tutta l’Europa possono pescare liberamente al largo delle coste senegalesi».
«In cambio del permesso di pesca in acque africane, l’Unione europea offre cifre irrisorie, almeno a parer mio – continua il signor Antonio -. Due anni fa, il Marocco è stato il primo a contestare questa politica europea. Ora anche il Senegal chiede che i negoziati con Bruxelles tengano conto dell’impatto che la pesca tradizionale ha sulla gente, dato che coinvolge direttamente almeno 80 mila senegalesi e indirettamente altri 500 mila. Troppa gente rischia la rovina a causa delle modee pratiche industriali di pesca, ma l’Unione europea sembra preoccuparsi solo di riconfermare la possibilità di pescare in acque senegalesi. Inoltre, la sospensione dell’accordo tra Ue e Marocco non ha fatto altro che aumentare la pressione sulle risorse ittiche senegalesi. L’economia legata alla pesca tradizionale è in forte crisi. Cresce la disoccupazione tra i giovani e i meno giovani che erano già impegnati in questo settore. L’Ue insiste su pratiche di pesca dannose per i fondali: la “pesca pelagica”, cioè quella effettuata con reti lunghe anche un paio di chilometri, che raschiano i fondali e aggrediscono tanti tipi di pesci, impedendone la riproduzione, la pesca “da traino” e la pesca del tonno, tutte tecniche notevolmente invasive per i pesci».
Osservo i pescatori che passano da una barca all’altra parlando e interrogando. Rosalie mi dice che cercano lavoro, per una settimana piuttosto che per un giorno. L’immagine del rientro di centinaia di piroghe dall’oceano, con le donne ansiose sulla riva che aspettano i mariti e i figli, sarà la foto del Senegal che mi porterò dietro.
Arriviamo quando il sole non è più così alto. Iniziamo lo zig zag tra decine e decine di piroghe. Bambini le svuotano dall’acqua accumulata, come pescatori esperti. A destra e a sinistra sedute sulla sabbia, le donne chiacchierano mentre puliscono il pesce e lo preparano per i vari mercati. Una moltitudine di colori impressiona l’esposimetro della mia macchina fotografica che non sa più cosa mettere a fuoco. Bimbetti seguono le mamme intente nella trattativa. Schiere di donne ordinate come in una perfetta fila militare, aspettano i mariti a riva, pronte per scappare a vendere il pesce.
Rosalie mi spiega che la vendita del pesce spetta alle donne. Gli uomini si «limitano» a pescarlo. Saranno le mani esperte e veloci delle donne a sistemarlo esteticamente e a venderlo, seguendo le logiche di un marketing senegalese.
Nelle reti tantissimi piccoli squali sono rimasti impigliati; i pescatori ne tirano fuori a decine e decine dalle reti e li buttano sulla sabbia. Osservandoli per bene, si nota che moltissimi non hanno più le pinne. Sono stati i pescatori cinesi a catturarli, mutilarli, per le loro famose zuppe di «pinne di squalo», e a ributtarli in mare, condannandoli a una morte certa.
Io sembro una bambina all’acquario. Non ho mai visto così tante specie di pesci. Enormi, colorati e dalle espressioni più strane. Anche i cetacei sono tanti, così pure i molluschi racchiusi in bellissime conchiglie.
Per salutarci, Paco decide di mostrarci come anche gli uomini senegalesi sappiano cucinare. Sarà che l’ho talmente punzecchiato con la storia del turismo sessuale, delle donne che a parer mio, non suo, sono ancora troppo sottomesse, che vuole lasciarmi un ricordo indimenticabile del Senegal e della sua gente. E da che mondo è mondo, come si può sfuggire al piacere della gola? Prenderà del pesce al mercato e ci preparerà dei piatti tipici senegalesi. Dopo un paio di ore di lavoro, è fatta. E il risultato sono piatti squisiti che ci lasceranno la voglia di tornare in Senegal.
Romina Remigio