Occhi di bimbi da sognare
Dakar: visita alla pouponniere
«Al servizio della vita in una delle sue forme più amabili, l’accoglienza e l’accompagnamento dei neonati, la Pouponnière delle Francescane Missionarie di Maria si presenta quale risposta a diversi appelli, giunti da famiglie o istituzioni civili del paese. Essa manifesta la stima rivolta all’essere umano sin dalle prime tappe della sua esistenza (Giovanni Paolo II, 22 febbraio 1992).
Arrivo alla Pouponnière dopo aver attraversato gran parte della Medina, il quartiere musulmano di Dakar. Il nostro taxi gira e rigira tra i vicoli stretti e saturi di gente. Sembra di essere in un labirinto, con strade e case tutte uguali, come le persone. Donne coperte fino ai piedi e uomini con il loro tipico babou. Nonostante siano passate le tre pomeridiane il caldo è ancora intenso; l’umidità non ha mai smesso di soffocare i miei polmoni, per non dire dell’effetto sui miei capelli, così increspati che mi sembra di avere un cespuglio in testa.
Il muezzin chiama alla preghiera. Il nostro tassista continua a sostenere di conoscere la strada, ma non facciamo altro che girare e rigirare, immergendoci sempre più nel cuore della Medina. Sono stanca. Stiamo viaggiando dalla mattina presto. Scopro tanti occhi che mi fissano. Sono convinta che non avranno mai visto una bianca con dei capelli così sconvolti in testa! O mi fissano perché le donne senegalesi amano le parrucche! Sembra che non abbiano folte criniere. I miei occhi fotografano ogni angolo, ogni sguardo e ogni attività di questo non troppo agitato quartiere.
C’è tanta gente, ma i movimenti sono lenti. Uomini seduti sotto ombrelloni giocano a dama. Un chiacchiericcio di sottofondo riempie l’aria. Ovunque gruppi che discutono e leggono il corano. Le donne vendono frutta, pesce e chincaglierie varie, sempre chiacchierando. Cerco di immergermi nei loro pensieri e discorsi, pur non capendone la lingua. Si racconteranno della preoccupazione per il futuro dei figli, dei mariti sempre più pesanti nel loro religioso maschilismo.
Inevitabilmente mi tornano alla mente le parole di amici che mi spiegavano come la religione stia diventando incompatibile con la società attuale. Propone e impone comportamenti retrò per un paese che cerca quotidianamente di metabolizzare la globalizzazione.
Dakar è la metafora della schizofrenia del Senegal. Una grande città dove confusione e modeità, povertà e ostentazione, integralismo religioso e comportamenti estrosi si fondono, cercando una dimensione di equilibrio. Ma ho imparato che il concetto di equilibrio ha un significato semantico diverso per gli africani rispetto al mio.
un nido tutto speciale
Finalmente arriviamo davanti al grande cancello della Pouponnière. Ci accoglie un uomo intento a dissetare i fiori e le piante di un giardino arso dal sole e da una temperatura proibitiva anche per una pianta. Operai al lavoro continuano nella costruzione di un’altra casa per gli ospiti. Il compound è grande, ma si nota come gli edifici siano stati aggiunti nel corso degli anni.
La Pouponnière è stata fondata il 5 agosto 1955 dalle suore Francescane Missionarie di Maria e tuttora gestita da loro, sebbene aiutate da una dozzina di mame africane e dipendenti vari. È una sorta di orfanotrofio perché accoglie bambini orfani, abbandonati e malati; vi si respira un clima di calore e affetto.
La Pouponnière è stata creata come struttura parallela agli ospedali per quei servizi che gli stessi ospedali, già sovraccarichi di lavoro, non riuscivano a svolgere. Tra le problematiche maggiori: bambini denutriti o malnutriti che devono seguire per mesi una determinata alimentazione, neonati le cui mamme sono morte di parto e neonati abbandonati perché figli illegittimi o nati fuori dal matrimonio, figli di genitori di etnie diverse e bambini abbandonati per le vie della città.
Dal 1955 a oggi la Pouponnière ha accolto 4.150 bambini, da zero a 12 mesi: 3.496 di essi erano orfani e/o casi sociali, 550 sono stati adottati o stanno seguendo le procedure di adozione e solo 104 non ce l’hanno fatta. Attualmente i bambini sono 87 da zero a 12 mesi. Al secondo piano ci sono i bambini più piccoli da zero a 4 mesi. Attraverso i corridoi ordinati, con lettini, culle, scaffali carichi di vestitini e peluches mandati da ogni parte del mondo.
Mi accolgono mame senegalesi intente nella pulizia degli spazi e dei bambini. Grandi occhi neri spuntano dalle culle. Mi sorridono e tutti vogliono saltarmi in braccio. Osservo le donne correre da una culla all’altra. Nelle stanze vicine c’è quella del bagnetto. Una decina di bambini vengono lavati, profumati e vestiti. Sembra una catena di montaggio! Mani che disinfettano, girano, toccano, premono quei corpicini per accertarsi che vada tutto bene.
Molti bimbi vengono da situazioni davvero estreme. Tanti sono visibilmente denutriti e hanno bisogno di cure continue, sono piccolissimi.
bisognosi di coccole
Nel giro di un quarto d’ora mi ritrovo a dondolare con il mio piede destro, un bimbo urlante in un ovetto, un altro in braccio che mi si aggrappa al collo e un altro che gattonando sta lottando per alzarsi in piedi avvinghiato a un ginocchio. Vedendomi in panne, mi viene incontro una donna; per lei è una situazione normale: le donne africane riescono ad allevare sei, sette bambini insieme. Le vedo gestire una stanza di bambini con movimenti continui ma rilassati. Uno viene dondolato mentre l’altro vuole venire in braccio; nel mentre c’è quello che morde il vicino, il quale inizia a piangere; allora bisogna spostarlo, quello che inizia a gattonare titubante sembra geloso e si aggrappa alle gambe. Se inizia a piangere uno, partono tutti come allarmi impazziti.
Dopo mezz’ora le ragazze se la ridono, guardandomi seduta su una sedia con l’aria sconfortata. Me ne fanno scivolare in braccio uno così piccolo che quasi ho paura a tenerlo. Sembra un bambolotto. Si vedono solo gli occhi grandi e nerissimi, che mi fissano terrorizzati. È indeciso se piangere davanti a questa bianca dai tanti capelli o rilassarsi perché comunque è in braccio. Forse avverte la paura delle mie braccia, allora da solo si posiziona come meglio crede e si rigira senza mai staccarmi gli occhi di dosso.
Verrò a sapere poi dalla suora che quel bimbo ha appena una settimana ed è stato abbandonato davanti al cancello della Pouponnière; la madre, secondo voci di quartiere, era una ragazzina molto giovane di Gorèe, l’isola di fronte a Dakar. È denutrito e spaventato. Marì mi dice che all’inizio non voleva nemmeno mangiare, piangeva tutto il giorno; poi, piano piano, sono riuscite a tranquillizzarlo. Nella sua tutina troppo lunga sembra ancora più piccolo. Si stende, sbadiglia, mantenendo sempre gli occhi incollati ai miei.
Altri bambini si avvicinano perché sono abituati a vedere volontari che vengono per brevi periodi e che li coccolano esageratamente. Ma non si può fare diversamente. Le stesse mame li sbaciucchiano, li accarezzano! E io giro per la stanza con questo fagottino, che mi si è così raggomitolato stringendosi al collo, che quasi trattengo il respiro per paura di svegliarlo. E quando meno me l’aspetto, si sveglia, si gira ancora traballante e mi fa un sorriso che mi scioglie. Inevitabilmente mi chiedo cosa debba aver provato la mamma ad abbandonarlo. Sarà stata una sua scelta oppure è stata obbligata! E la vita, il futuro di questo piccino come sarà?
Entro nella stanza dei giochi: su un enorme materassino mi trovo davanti a una scena simile alle cartoline di Anne Geddes: una decina di bambini messi in cerchio dormono l’uno accanto all’altro.
impossibili istantanee
Al secondo piano della Pouponnière invece ci accolgono bambini dai sei ai dodici mesi che gattonano a più non posso. Stessa struttura: lungo i corridoi con culle a destra e a sinistra e i piccoli che si arrampicano e alzano le braccia cercando la mia attenzione.
Entro nella stanza dei giochi. C’è un enorme materassino come al primo piano; qui, però, i bambini non dormono, ma sfrecciano gattonando a una velocità pazzesca. Mi tolgo le scarpe e assisto a una maratona di quattro bimbi che mi corrono incontro quasi scavalcando gli altri pur di arrivare per primi ai miei piedi.
Sul materassino c’è chi dorme, chi infila le dita negli occhi dell’altro, chi si trascina per rubare il pupazzo al vicino: uno spettacolo! Sono tutti curiosi di toccare da vicino quello strano giocattolo che ho al collo: la macchina fotografica. In un baleno me ne trovo uno sulle ginocchia, un altro si aggrappa alle gambe; stendendo il braccio in altezza, cerco di allontanare la macchina fotografica dalle loro vivacissime mani, più veloci anche degli occhi. Sono letteralmente assaltata da questi bellissimi bambini che tra enormi sorrisi, baci e morsi cercano di convincermi a prenderli in braccio, per riuscire nell’intento di toccare il mio giocattolo.
Quando penso che si siano arresi, inizio a fare le foto, piegandomi per meglio sistemare l’inquadratura e subito me ne corrono incontro dieci come cagnolini che nel giro di dieci secondi, alitano, leccano, baciano, toccano me e l’obiettivo, ormai oscurato da così tanto «affetto».
Pur di fermarli per qualche minuto, faccio vedere loro dal monitor della macchina le foto già scattate, provocando un coro di grandi sorrisi, come se capissero le facce curiose delle foto. Hanno solo otto, nove, dieci mesi, ma sembrano bimbi di un paio di anni.
adozioni inteazionali
Qui alla Pouponnière permettono le adozioni inteazionali. Ma prima di affidare un bimbo ad altri, cercano parenti vicini o lontani che se ne possano occupare. Non tutti sono orfani o abbandonati; molti sono semplicemente nella struttura per ristabilirsi da casi di denutrizione o malnutrizione e dopo un anno, quando i bambini stanno bene, vengono reinseriti nelle proprie famiglie.
Mi spiega una suora che il loro fine principale, come quello degli assistenti sociali, è di aiutare i genitori e i bambini in difficoltà, cercando di non sradicarli dalla loro realtà familiare, neppure nei casi di crisi. Infatti i bambini mantengono i contatti con la famiglia che può visitarli di solito la domenica pomeriggio. Anche una volta reintrodotti in famiglia, la Pouponnière continua a sostenere i bambini fino ai due anni, attraverso razioni mensili di cibo e latte.
Nella Pouponnière c’è una casa riservata agli ospiti e ai numerosi volontari. Molte camere sono riservate alle coppie sposate che vengono a Dakar per adottare un bimbo.
Il Senegal non ha ancora ratificato la Convenzione dell’Aia (29-5-1993) sulla tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozioni inteazionali. Ma è dotato di una legge intea che disciplina la materia attraverso il Codice di famiglia e il Codice di nazionalità; le condizioni per concedere un bambino in adozione sono alquanto rigorose: una di esse richiede ai genitori adottivi la permanenza di almeno tre settimane in Senegal, non solo per conoscere il bimbo da adottivo, ma anche la cultura e tradizioni del paese.
sogno realizzato
Mentre mi preparo un caffè nella cucina in comune, entrano Pedro e Maria salutando gentilissimi; mi basta guardare i loro occhi raggianti per capire: Maria mi dice subito che hanno realizzato il loro sogno; dopo aver fatto tutta la trafila per l’adozione, sono stati finalmente chiamati e da una settimana sono in Senegal. C’è una bambina per loro! Si parlano amorevolmente e si abbracciano continuamente. Hanno 34 anni lui e 32 lei. Stanno insieme da sempre, da quando avevano dodici anni, praticamente sono cresciuti insieme. Sono di un paesino vicino Malaga, in Spagna.
Dico loro che sono una fotogiornalista, interessata alla loro storia e che vorrei raccontarla. Loro sono così felici che non hanno remore a rispondere alle mie domande.
Preparo tre tazzine di caffè e inizio delicatamente ad affrontare l’argomento. Dall’inizio alla fine della nostra chiacchierata essi si terranno per mano, sorridendosi e sostenendosi continuamente anche nei momenti più delicati. Maria ha avuto da giovanissima un tumore da cui è uscita bene, nonostante mesi e mesi di chemioterapia. Ma la conseguenza finale è stata il non poter avere figli. Pedro mi racconta che hanno girato tutta la Spagna, provato vari interventi e anche l’inseminazione artificiale, ma sembra che l’utero di Maria non riesca ad accogliere un bambino.
«Sono stati mesi e anni duri. Tristi! Tutti i nostri amici si facevano una famiglia – racconta Pedro -. Nella nostra cittadina un matrimonio senza bambini non è un matrimonio. Non è vita. Gli anni passavano e la depressione aumentava. Abbiamo scoperto che Maria non riusciva a concepire perché aveva un problema alle ovaie, sembrava una ciste, invece era un tumore. Subito la paura di non poter avere bambini. Eravamo troppo giovani. Ci siamo sposati a vent’anni, perché ci sembrava di perdere tempo. Io volevo diventare padre. Insegnare a mio figlio a pescare, a giocare a calcio o se fosse stata una bimba, farla diventare la principessa di casa. Maria aveva ventidue anni quando l’abbiamo scoperto. Una volta operata ci avevano detto che non era stato toccato l’utero e che, seppure con difficoltà, sarebbe stato possibile avere un bambino. Invece non è stato così. Quanti medici, visite, ospedali, tentativi e, soprattutto, preghiere, ma nostro figlio non è arrivato. Siamo una famiglia di tradizione molto credente e devo assolutamente dire che l’unica cosa che ci ha tenuti insieme e che non ci ha mai fatto perdere la speranza è stata la fede. Sono momenti così difficili che non fai altro che domandarti perché! Perché a me? Perché a noi? Ci siamo fatti seguire dal nostro parroco, un carissimo amico, ma abbiamo seguito anche sedute di psicologi. Alla fine dopo un viaggio in Africa, in una missione, ci siamo detti: perché non aiutare uno di questi straordinari bimbi che potrebbe darci la serenità e la felicità che sogniamo? Una missionaria ci aveva parlato del Senegal e della Pouponnière e, poiché non siamo poi tanto lontani, siamo venuti a informarci».
«Quando siamo entrati in quella stanza – continua Maria – e abbiamo visto così tanti angioletti che ci chiedevano solo di essere felici, è bastato guardarci per convincerci che nostro figlio era lì. Sarebbe stato uno di loro. E così abbiamo iniziato subito tutte le pratiche di adozione e finalmente dopo un anno e mezzo ci hanno chiamato dicendoci di venire per conoscere la nostra bambina. Ha quattro mesi. È stata portata qui dalla polizia, dicendo di averla trovata dietro un albergo. Forse è figlia di qualche ragazza che lavora lì. Quello che ci importa è che sta bene ed è serena. Poi è bellissima!».
Maria interrompe il racconto perché è l’ora in cui possono andare a prendere la bambina. La chiameranno Angela. Quando rientrerò dal mio giro per Dakar, li troverò fuori in terrazzo assorti nell’osservare Angela che si gode tutto il loro affetto. Mi basta guardarli per capire davvero cosa sia la felicità.
Romina Remigio