Non c’è solo il Pil
Il Pil è un indice inadeguato del benessere di un paese. Per questo altri
misuratori (spesso proposti dalla società civile) si fanno strada.
Non se ne parla molto, ma autorevoli istituzioni come la Commissione europea, l’Ocse, l’Istat e altrettanto autorevoli economisti, capeggiati da tre Premi Nobel (Amartya Sen, Jean Paul Fitoussi e Joseph Stiglitz) riconoscono che il Pil (Prodotto interno lordo) è un indice insufficiente per rendere conto dello stato economico e sociale di un paese.
La semplice misura della produzione di beni e servizi non considera, infatti, fattori che sono cruciali per il progresso di una nazione: il livello di istruzione, lo stato di salute, l’accesso alle conoscenze informatiche, l’apporto delle donne, la valorizzazione del patrimonio ambientale, la distribuzione della ricchezza.
Non che il tema sia recente, basti ricordare che già nel 1968 Robert Kennedy pronunciava un memorabile discorso in cui affermava che «Il Pil misura tutto eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta». Negli anni Novanta, ad andare oltre il Pil, ci ha provato l’Undp, il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo, con il suo Indice di Sviluppo Umano (Hdi): non solo reddito pro capite, ma aspettativa di vita e indice di istruzione. I Rapporti annuali dell’Undp hanno finalmente chiarito che lo sviluppo non coincide con la crescita economica, ma riguarda altri aspetti della vita umana: la convivenza pacifica, l’accesso ai beni e ai servizi, la partecipazione democratica, l’equità nelle opportunità.
L’Undp per primo ha lanciato l’allarme sull’aumento della disuguaglianza che accompagna la crescita economica senza regole e la globalizzazione senza diritti, chiedendo agli stati di non preoccuparsi solo dell’incremento della ricchezza ma anche della sua distribuzione; e ancora, grazie all’Undp è, per così dire, tornato di moda l’indice Gini che misura la concentrazione della ricchezza e che ha preso il nome del suo ideatore Corrado Gini, un giurista con il pallino della statistica che 1927 fondò in Italia l’Istat.
Anche la comunità non governativa ha detto la sua sull’argomento, il Social Watch, una rete di oltre 200 Ong di 50 nazioni dal 1996 pubblica un Rapporto annuale in cui classifica i paesi in base a due indici: il Gei e il Bci. Il Gei, (Gender Equity Index), misura quanto le donne vengono istruite, quando sono rappresentate nelle istituzioni pubbliche e quanto partecipano alle attività economiche; il Bci (Basic Capability Index), indice di capacità di base definisce la povertà non solo in termini di reddito, ma considera altri fattori come la percentuale di bambini che riceve un’istruzione elementare, la sopravvivenza fino a 5 anni di età, il numero di nascite assistite da personale qualificato.
Sempre la società civile ha messo a punto gli indici ambientali: come l’impronta ecologica o l’Esi (Enviromental Sustainability Index) che misura la sostenibilità di un’economia in base alla sua capacità di risparmiare risorse energetiche e idriche, riciclare i rifiuti e salvaguardare la biodiversità.
In Italia, un gruppo di ricercatori legati alla campagna Sbilanciamoci da una decina d’anni utilizza il Quars, l’indicatore sintetico della qualità regionale dello sviluppo che mostra come le regioni più sviluppate non sono necessariamente le più ricche se – per contro – hanno un tasso di inquinamento elevato e i loro cittadini si ammalano più degli altri.
Nell’agosto del 2009, la Commissione europea ha diramato una Comunicazione intitolata «Non solo Pil, misurare il progresso in un mondo in cambiamento» con la quale ha messo in guardia i paesi membri dall’utilizzo del Pil come unico indicatore: «Esistono validi motivi, dice la comunicazione, per completare il Pil con statistiche che riprendano gli altri aspetti economici, sociali e ambientali dai quali dipende fortemente il benessere dei cittadini», per questo entro il 2013 i paesi membri dell’Unione dovranno presentare una contabilità economico-ambientale.
Il clima di ripensamento del modello economico, seguito alla crisi del settembre 2008, ha favorito il dibattito e l’attenzione del mondo politico ed economico su questo tema, basti pensare che all’impegno profuso dal presidente francese Sarkozy che ha promosso e finanziato il gruppo degli economisti guidato da Stiglitz.
Oggi siamo in una fase di normalizzazione: i governi pensano alle elezioni e gli economisti abbandonano il terreno faticoso dell’innovazione. Il processo per andare oltre il Pil rischia di interrompersi. Per fortuna, c’è chi non si da per vinto e continua a ricercare, esplorare, proporre.
Come il presidente dell’Istat Enrico Giovannini che ha il pallino dei nuovi indicatori e ne sfoa in continuazione, aiutandoci a capire cosa succede davvero nel nostro paese sotto il profilo del benessere reale, delle opportunità, della condizione
giovanile.
Sabina Siniscalchi