Sarà che sono invecchiato e che mi vergogno meno di quando ero giovane nel rivelare i miei sentimenti e che oltre venti anni all’estero hanno approfondito il modo con cui sento il mio paese. Sarà che quando a Nyeri, in Kenya, la seconda domenica di novembre di ogni anno, la comunità italiana cantava l’inno di Mameli prima di cominciare la messa nell’ossario dove riposano oltre 700 nostri soldati mi venivano i lucciconi, e che quando la BBC parlava male dell’Italia – più dei suoi politici, in verità – mi sentivo ferito dentro, mentre mi si riempiva il cuore di giornioso orgoglio al vedere l’ottantenne signor Cassini venire a messa guidando una splendida Alfa Romeo rossa degli anni Venti che lui aveva costruito pezzo per pezzo con le sue mani nella sua officina nella zona industriale di Nairobi. Sarà pure che percorrendo da Naivasha a Limuru la bella e duratura strada «degli italiani», che continua a sfidare la strapiombante scarpata della Rift Valley e i camion sovraccarichi che fanno spola con l’Uganda, mi fermavo a gustare quel grido di dignità, di genio e di fede che è la cappellina colà costruita e decorata dai «nostri» prigionieri di guerra; e che guardando al Monte Kenya mi emozionavo al ricordo dell’impresa di Felice Benuzzi e compagni (raccontata nel libro «Fuga sul Kenya»), i quali, scappando dal campo di prigionia, scalarono quel grandissimo monte per provare a se stessi e ai loro carcerieri che la vera libertà non può essere contenuta da nessun filo spinato; e che visitando, sempre a Nyeri, le tombe dove riposano decine di missionari e missionarie provenienti da ogni angolo d’Italia, non potevo non essere ammirato dal grande lavoro da essi fatto in terra d’Africa, essi che, disarmati, hanno conquistato molto di più di ogni impresa coloniale nazionale. Sarà che entrando nella mostra dedicata a san Giuseppe Cafasso a Castelnuovo Don Bosco, e vedendo la ricostruzione di una cella sotterranea con tre preti incatenati, non ho potuto fare a meno di pensare che la storia d’Italia l’hanno scritta anche i preti che, gettati nelle prigioni sabaude nella seconda metà del 19° secolo, hanno dato testimonianza di coerenza e fedeltà alla loro coscienza contro la ragion politica; e che nella nuova Italia unita, con una Chiesa «assediata», ci fu un’incredibile esplosione di energia missionaria con la nascita di ben quattro Istituti specificamente missionari e la partenza per i quattro angoli del mondo di migliaia di missionari e missionarie, volontari e volontarie che spesso hanno pagato con la vita la loro dedizione ai poveri e al Vangelo…
Sarà che …
Potrei andare avanti ancora, ma non serve. Il fatto è che sono felice di essere italiano, di far parte di un’Italia unita, pur con la sua storia non sempre gloriosa e le contraddizioni congenite. Questa nostra nazione non è certo perfetta, in più oggi è corrotta e resa egoista dal troppo benessere, oltre che essere governata da una classe dirigente a dir poco discutibile e azzoppata da una burocrazia che uccide la responsabilità; ma è la mia nazione, dove ho le mie radici e la famiglia e la mia storia. Occorre certo rimboccarsi le maniche affinché la logica del profitto non corrompa tutto, e farlo mentre siamo ancora in tempo, perché, grazie a Dio, l’Italia vera non è quella delle Tv di monopolio o della propaganda politica. Amo quest’Italia fatta di gente normale, né santa né diavola, generosa ed emotiva, fantasiosa e creativa, arroccata spesso nel suo «particolare» eppure così altruista, miscuglio stupendo di razze e popoli che nei millenni qui si sono amalgamati, trasformati e unificati. Amo il verde speranza della sua bandiera, e il bianco che ricorda fede e pura bellezza, e quel rosso che richiama i martiri, e non solo quelli politici, ma per me soprattutto quelli che han dato la loro vita per la Fede, dai tempi antichi ad oggi, visto che ogni anno missionari italiani pagano il prezzo del sangue.
Concludo con un «ciao» a tutti. Il bel «ciao» che, da veneto che era, è ormai è diventato internazionale. Ciao… sciao… schiavo (suo!), forse una volta un saluto servile, oggi invece un semplice, concreto atto di cortesia, affetto, disponibilità e accoglienza. Un saluto italiano e veramente cristiano: farsi servi gli uni degli altri! Ciao.
Gigi Anataloni