Isole favolose delle spezie
Reportage dall’arcipelago delle Molucche
Conteso per secoli da portoghesi, spagnoli, inglesi e olandesi per
le sue spezie (una volta più preziose dell’oro), diventato suo malgrado parte dell’Indonesia, l’arcipelago delle Molucche ha visto la pacifica convivenza dei suoi abitanti turbata da scontri sanguinosi tra cristiani e musulmani. Toata la pace, sono tornati i turisti.
Ritoo alle origini
Il viaggio è molto lungo dall’Europa. L’ultimo dei 5 voli mi porta ad Ambon, dove sbarco insieme a un folto gruppo di famiglie miste di molucchesi che ritornano in patria con coniugi olandesi e figli. Wilma è una signora olandese che mi invita per Natale a casa sua, nell’isola di origine della famiglia del marito.
«Ritorniamo tutti gli anni a Saparua per le vacanze» mi spiega Theo, il marito dalla pelle scura, nato in Olanda in un ex campo di concentramento nazista, da genitori costretti a emigrare dall’arcipelago nel ‘51.
La testimonianza di Theo mi farà approfondire la storia recente delle Molucche, conosciute come isole delle spezie, da secoli percorse da commercianti e avventurieri cinesi, malesi, arabi ed europei.
Dopo la seconda guerra mondiale e dopo aver combattuto i giapponesi al fianco degli olandesi, migliaia di soldati di Ambon e delle Molucche del sud rimasero fedeli all’Olanda. Molti erano cristiani e, temendo di passare sotto il governo di Giava, proclamarono una repubblica indipendente, che ebbe vita breve.
Quando l’Olanda, su pressione americana, accettò l’indipendenza dell’Indonesia, si preoccupò di mettere in salvo coloro che erano stati fedeli all’esercito reale olandese e rischiavano di venire massacrati.
I genitori di Theo erano tra i 12.500 che furono trasportati in Olanda. Avevano già un bimbo, altri 12 nacquero nel campo di concentramento. Privati di documenti e di nazionalità, non potevano ritornare in patria, rischiavano di venire uccisi per la loro fedeltà all’Olanda.
Le famiglie condivisero per 12 anni gli spazi angusti e angosciosi del campo di concentramento. Il loro sonno era tormentato da incubi; alcuni, la notte, credevano di sentire ancora i gemiti degli ebrei.
I bambini, numerosi, frequentavano le scuole e col tempo anche i loro genitori riuscirono a inserirsi e abitare case decorose. Anche in Olanda il dopoguerra fu segnato dalla voglia di riprendere vita e speranza.
Wilma ha 7 tra fratelli e sorelle e ha trovato la felicità accanto a Theo. Piccolo di statura, occhiali e sorriso bonario. Negli anni la coppia ha dovuto superare prove difficili, come la morte del secondogenito in un incidente. «Era il più bello dei tre» si confida Theo, quando mi complimento per la prestanza dei due ragazzi.
Poi Wilma mi indica una cicatrice, lasciata da un’operazione a cuore aperto che ha dovuto subire. «La vita in Olanda è molto ben organizzata per chi ha famiglia» mi conferma la cognata, che è arrivata col marito olandese e il figlio. «Qui in Indonesia non vi è alcuna forma di sicurezza sociale, una malattia grave ti porta alla tomba, ma per le vacanze è un luogo meraviglioso».
Itawaka, 20 dicembre 2010
Raggiungo Saparua sul motoscafo carico di merci e persone. Salgo su un ojeck, il taxi-moto che mi conduce alla fermata del bemo, il pulmino che attraversa l’isola e mi porta a Itawaka, il villaggio dei Papilaja.
Striscioni e bandiere bordano la strada; la gente è intenta a dipingere le facciate delle case e le recinzioni: mancano solo quattro giorni a Natale. I chiodi di garofano sono stesi ad asciugare sulle stuoie lungo le strade e le donne raccolgono le noci moscate in grandi ceste.
In chiesa si celebrano matrimoni, due o tre al giorno, seguiti da pranzi dove è costume mangiare carne di cane.
Arrivo a casa di Theo quando la famiglia è riunita in veranda, accanto alla tomba del nonno, mancato tre anni fa. «I bambini gli fanno compagnia» mi spiega Wilma. In cucina si sta preparando la papeda, una polentina che pare colla, da servire con sughi speziati, fatta con la farina di sago, una palma che cresce su queste isole. Estrarre la polpa bianca dal tronco è un lavoro complesso e faticoso, che ho visto fare lungo i fiumi, perché occorre acqua per lavare e tritare la dura massa del sago, palma che ha consentito la sopravvivenza durante guerre e carestie.
AMBON
La strada che collega l’aeroporto ad Ambon si snoda lungo la baia, bordata da piante esotiche, giardini e casette curate, un vero paradiso tropicale. Fino a un anno fa erano ancora molti i segni lasciati dal conflitto che insanguinò queste isole tra il 1998 e il 2002. Chiedo ai miei nuovi amici il perché di quella strage e tutti sono concordi nel ritenere responsabile il governo di Jakarta, che, cogliendo l’occasione di un incidente tra le due comunità, inviò l’esercito a maggioranza islamica. Cristiani e musulmani avevano convissuto pacificamente per secoli nelle isole. Ma le aspirazioni all’indipendenza delle Molucche dovevano essere represse, fomentando divisioni, rancori e vendette, terribili nella tradizione delle isole. L’intervento portò distruzione e morte, gli incendi bruciarono case e chiese ad Ambon e rasero al suolo interi villaggi sulle isole.
L’Indonesia è sovente percorsa da moti di ribellione, isole come Sumatra, Papua e Sulawesi, ricchissime di minerali, petrolio, gas, oro, uranio, vedono dirottare i proventi verso la capitale, mentre la popolazione soffre. Le ribellioni vengono sedate dall’esercito, che riceve lauti compensi direttamente dalle multinazionali e compagnie petrolifere (Exxon).
Oggi sento che si vuole dimenticare e si aspira a una vita migliore. Sono stati costruiti alberghi per ospitare i partecipanti alle manifestazioni inteazionali di vela, che coinvolgono anche la vicina Australia. Il mare e le barriere coralline delle isole sono splendidi, ma difficilmente raggiungibili. Il traffico è in aumento, con auto nuove. Molte le moto e i bejack, carretti spinti sulle biciclette, da uomini che si rompono le reni, come a Calcutta e in Bangladesh.
Cattedrale
Credo di capire il perché di tante chiese. Tutti hanno un figlio, un nipote, qualcuno che sta male. L’ospedale è nuovo, ma le cure sono da pagare; a chi non ha denaro non resta che pregare.
Ambon è punteggiata dai campanili delle chiese protestanti, numerose come le diverse denominazioni. Le belle chiese cattoliche costruite dai portoghesi nel 1500 furono rase al suolo dai calvinisti olandesi, quando presero possesso dell’arcipelago. Gli altri eleganti edifici coloniali furono bombardati dagli alleati, quando Ambon divenne il quartier generale giapponese dal 1942 al 1944.
Accanto alla cattedrale la biblioteca è curata dall’anziano vescovo olandese, che mi riceve tra gli scaffali colmi di libri, pubblicazioni e sculture in pietra e legno, provenienti da Papua e Tanimbar. «Mi chiamo Andre Sol e ho 95 anni» mi dice orgoglioso e sorridente il vescovo, oramai in pensione. Giunto nel 1946 nelle Molucche, conserva vivacità e spirito critico. «La comunità cinese di Ambon, molto abbiente, ha voluto finanziare la nostra nuova, splendida cattedrale. Troppo ricca. Gesù era povero; bastava fare una semplice tettornia con il clima caldo che abbiamo».
Andre mi consiglia di visitare le isole Kei, avamposto dei cattolici in un paese segnato dalla forte presenza di protestanti e islamici. Poi mi consegna un libro che mi aiuterà a capire meglio la gente di Molucca, scritto una trentina di anni fa da un’insegnante di inglese australiana: nei due anni vissuti lavorando presso l’università di Ambon, accumulò esperienze forti e profonde e seppe descrivere con arguzia e affetto gli aspetti più significativi della cultura nelle isole.
CERAM
Quello che ho visto durante le immersioni nel mare delle Molucche è meraviglioso. Ceram è l’isola madre, l’isola misteriosa, dove la resistenza al regime di Jakarta si è prolungata fino a metà degli anni ‘70. Foreste impenetrabili la proteggono; i fiumi che scendono dai monti si possono risalire, portandosi appresso le seghe per liberare il passaggio della barca dai rami. Il petrolio viene estratto anche qui, ma in luoghi remoti, che non vedremo, perché l’isola è grande, lunga più di 300 km e le strade sono poche e impervie.
La giungla è abitata da un’etnia particolare, gli alifuru, che usano portare una bandana rossa e fino alla seconda guerra mondiale erano noti come cacciatori di teste.
Per raggiungere la costa nord e il villaggio su palafitte di Sawai, dobbiamo cercare posto sul veicolo 4×4 che lo collega al capoluogo Masohi, trasportando persone, cose e casse di pesci. Dobbiamo superare una serie di catene montuose, in 4 ore di curve e ripide salite. L’ultimo tratto di strada risulta essere una pista piena di buche e fango.
La notte si scatenano violenti temporali, ma il giorno può essere radioso, con passaggi di nubi che si arrossano al tramonto. La capanna di bambù in cui alloggiamo ha l’assito che di notte lascia filtrare la luce della luna, riflessa sull’acqua. L’umidità sale e la mattina ci troviamo con gli indumenti bagnati.
Tra le palafitte sotto casa veleggiano leggiadri pesci pipistrello; le strade del villaggio risuonano delle grida e delle risa di tanti bambini; gli uomini sono intenti a scavare con scalpelli i tronchi che diventeranno sampan, leggere imbarcazioni. Le donne lavano e si lavano allegre, tuffandosi nei canali d’acqua dolce e fresca, che scende dalle alte pareti di roccia che circondano l’abitato.
La scuola si trova su un’altura e dall’altra parte della baia vi è un villaggio cristiano. La sera il muezzin chiama alla preghiera, le bambine vestono una mantellina bianca con cuffia e si recano in moschea, separate dagli altri fedeli da un drappo appeso.
KEI KECIL
Traghetti e speed boats collegano le varie isole dell’arcipelago, ma i viaggi sono lunghi e pieni d’incognite. Per le isole Kei ho trovato due posti sul volo che parte da Ambon all’alba.
Jan Pieterszoon Coen è ricordato come lo spietato condottiero che assicurò all’Olanda il monopolio del commercio delle spezie, dopo aver sconfitto i portoghesi, che per primi erano giunti nelle isole Molucche, nel 1512.
La popolazione di Banda, le isole della noce moscata, che si era rifiutata di sottostare alle sue imposizioni, fu sterminata e i pochi sopravvissuti fuggirono alle Kei, isole remote che rimangono ancora oggi il centro più importante del cattolicesimo delle Molucche.
I gesuiti arrivarono a Kei nel 1888; le Missioni del Sacro Cuore di Gesù li sostituirono nel 1920. Sede vescovile, nel 1946 Kei inviò a Papua i missionari cattolici e gli insegnanti con le loro famiglie per portare il messaggio cristiano.
Kei Kecil (piccola) è unita a Dullah da un ponte. Lungo la via principale si notano le insegne di scuole cattoliche, con ampi spazi verdi e campi sportivi. Veniamo fermate da tre studenti in divisa, il più grande si chiama Feri e studia turismo nell’istituto Santa Teresia, gestito dalle suore del Sacro Cuore.
Feri vuol farci conoscere Olav Luis, l’insegnante d’inglese che ci invita a scambiarci il numero di telefono. Feri non ci lascerà più, i suoi sms mi seguiranno per tutto il resto del viaggio. Lo porteremo con noi nelle visite a Dullah, l’isola dove abita con la famiglia, ma che non conosce. Prendiamo in affitto un vecchio bemo e raggiungiamo i villaggi, tutti islamici, dove i bimbi ci guardano attoniti. Spaventati dai nostri visi estranei, scoppiano a piangere e corrono dai fratellini.
Anche queste isole hanno tradizioni simili alle altre che abbiamo visitato. I villaggi, i cui abitanti possono essere di religione diversa, hanno una forma di gemellaggio, detta Pela che li coinvolge nei casi di bisogno.
Il matrimonio tra gli abitanti dei due villaggi, che possono essere anche situati su isole diverse, sono considerati incestuosi e puniti severamente, anche con la morte.
Kei ha una particolarità, le tre caste: la maggior parte della gente appartiene alla casta media e non ha problemi, che invece toccano coloro che appartengono alla casta inferiore o a quella superiore.
L’ultima sera visitiamo la famiglia di Feri, che abita una casa di fango, tra i campi di manioca, l’unica coltura possibile, a parte il cocco e le banane, in un’isola fatta di corallo. La stanza è rischiarata da un lume a petrolio che manda un fumo acre. In cucina è pronta la cena a base di pesce secco e manioca bollita.
Paulina è una mamma bella e stanca, nativa di Kisar, isola non lontana da Timor Est; anche il marito è un bell’uomo, gentile. Così pure i 5 figli. Per noi hanno disteso un foglio di plastica sul pavimento e hanno appeso delle tende alle pareti.
Ci salutiamo. «Devi ritornare – insiste Feri -; ti potrò accompagnare a Kei Besar, l’isola grande, dove sono nato e dove vive la famiglia di papà».
Claudia Caramanti