Moschee e reciprocità
Abbonato da tanti anni, apprezzo il respiro universale della rivista […]. Mi permetto però di dissentire dall’orientamento delll’editoriale del gennaio 2011. È inammissibile paragonare le stragi di cristiani effettuate a sangue freddo in vari Paesi islamici (e non) ad episodi di intolleranza che in Italia non hanno mai travalicato il dibattito politico. Nel nostro Paese stragi di islamici non se le sogna nessuno! è vero invece che, in nome di una malintesa apertura ad altre religioni (in particolare l’Islam) si passa sotto silenzio la necessità di rispettare reciprocamente diritti e doveri. Nel nostro caso l’ostilità all’apertura di moschee nella maggior parte dei casi è motivata dal giustificato timore che si possano costituire luoghi privi di controllo, dove col pretesto della pratica religiosa si possa dare attuazione a programmi politici eversivi, ispirati da collegamenti inteazionali.
Per chi vive a Milano questa situazione è purtroppo ampiamente documentata. L’esperienza ci insegna che l’Islam è anche terrorismo e che si avvale di notevoli strumenti finanziari per alimentare una penetrazione capillare nelle nostre città. Non bisogna trascurare che anche i cristiani hanno diritto di costruire chiese e semplicemente di testimoniare la loro fede in paesi che spesso nella loro legislazione negano il diritto elementare di libertà religiosa.
Sul piano dei diritti/doveri lo Stato e le istituzioni locali non possono prescindere da questi punti fermi riguardanti la reciprocità delle effettive libertà di credere e praticare la propria religione. Questi principi vanno calati nella realtà, chiedendo per esempio delle garanzie, che nel caso dell’Islam vuol dire per es. selezionare gli Imam con la creazione di albi, ovvero poter controllare i testi, che spesso non sono solo preghiere ma anche messaggi politici (come avviene in Germania); la trasparenza deve valere anche per loro! Creare delle regole servirà prima di tutto a garantire chi nell’Islam ha soltanto a cuore gli insegnamenti dell’unico Dio. Ne trarranno giovamento anche i cristiani che saranno aiutati a liberarsi da diffidenze non sempre ingiustificate e a stabilire un’effettiva collaborazione con tutti i credenti. Cordiali saluti.
Franco Bianchi
via email, 25.01.2010
Gent.mo Direttore,
nulla da eccepire sul contenuto del suo editoriale del gennaio 2011, ma ritengo prematuro il concedere le moschee ai musulmani. Noti, non sono contrario, ma vorrei la reciprocità. Noi giustamente dovremmo concedere loro le moschee, ma loro non ci concedono chiese, ci perseguitano e ci ammazzano anche. Guai a parlare di proselitismo, mentre loro il proselitismo lo fanno e costringono anche alla conversione forzata. Da noi la conversione deve essere voluta, mai forzata. Da queste considerazioni mi pare che concedere loro le moschee sia uno spalancare le porte all’islamismo. […] Se spalanchiamo le porte all’Islam nessuno di noi avrà la forza di arginare l’invadenza e la violenza delle correnti estremiste. Cordiali saluti.
Graziano Grua
via email, 24.01.2010
Grazie del vostro contributo su questo tema scottante. Certamente gli avvenimenti passati e recenti, come i massacri di cristiani in Iraq, Egitto, Indonesia, Pakistan e in altre nazioni a maggioranza islamica non fanno che aumentare le legittime riserve e paure riguardo all’apertura di luoghi di culto e centri islamici nelle nostre città. Tuttavia credo sia necessario affrontare il problema nella giusta prospettiva, aprendo un dialogo tra le varie parti, ciascuno secondo le proprie competenze. A mio avviso ci sono due livelli da considerare: il livello politico-sociale e quello religioso. A livello politico-sociale mi pare sia accettato che lo scopo della legge non è solo quello di prevenire abusi e violazioni e stabilire doveri, ma anche quello di garantire e difendere i diritti fondamentali della persona e della comunità. È quindi giusto e doveroso che una nazione da una parte assicuri a tutti i cittadini l’esercizio dei diritti fondamentali (tra cui la libertà di culto) e dall’altra esiga l’osservanza delle leggi da parte di tutti richiedendo quindi ad ogni nuova «istituzione» una ragionevole garanzia «di conformità» affinché il bene comune sia salvaguardato. Per questo concordo pienamente con molte delle osservazioni del sig. Franco.
Ma porre come condizione essenziale la «reciprocità», mi pare vada oltre il dovuto, soprattutto quando questo si applica a livello locale. Una piccola comunità islamica (spesso di nazionalità eterogenee) che vuol costruire un luogo di preghiera, non ha più potere di influenza nello scacchiere della reciprocità di un singolo missionario in Cina, in Buthan o in Egitto alle prese con la burocrazia locale per il permesso di costruire una nuova chiesa. La reciprocità ha un suo ambito specifico, rafforzato da diritti e doveri codificati a livello internazionale, nelle relazioni tra stati e organizzazioni sovra-nazionali.
Dal punto di vista religioso, soprattutto della nostra religione, le cose vanno oltre la logica del diritto-dovere. È nel contesto religioso che ho osato chiamare traditori de «la loro religione e il loro Dio» i fondamentalisti sia islamici che cristiani, anche se oggettivamente l’ammazzare cristiani e l’opporsi alla costruzione di una moschea non sono certo la stessa cosa (come voi fate giustamente notare). Tuttavia, se l’azione finale è di una gravità ben diversa, l’atteggiamento di fondo può essere ugualmente sbagliato. E questo è importante per noi. Per un cristiano (= una persona che segue la via di Gesù Cristo e con lui si identifica) non conta tanto l’azione finale, ma l’atteggiamento di fondo, la mentalità, quello che uno sente nel cuore. Un cristiano ha come punto fondamentale di riferimento la «via di giustizia» insegnata da Gesù, non la logica della legge umana. Basta andare al capitolo 5 del vangelo di Matteo per sapere qual è la logica che ci deve guidare, anche se agli occhi del senso comune può sembrare «stoltezza». In quel capitolo Gesù non declina la parola reciprocità, ma gratuità, che è amore misurato sulla perfezione di Dio. «Vi è stato detto… ma io vi dico: porgi l’altra guancia, ama i nemici, a chi ti chiede la tunica dà anche il mantello… Se amate quelli che vi amano che merito ne avete? Siate perfetti come il Padre…».
Ideale? Certamente. Questi comandi, «legge» del cristiano da 2000 anni, non sono una norma stabilita dalla Chiesa (che, tra l’altro, ha tradito questa stessa legge troppe volte!), ma «Parola» di Gesù stesso. Gesù è il punto di verifica del vivere sociale e politico del cristiano, non la cosiddetta «cultura cristiana» di cui qualcuno si fa paladino. Questa legge di Cristo – per i cristiani – è l’anima della legge umana, pur nel rispetto della reciproca autonomia.
Congo belga
Egregio Direttore,
sono un occasionale lettore della vostra bella e interessante rivista che ho sempre apprezzato, e mi è capitato di leggere l’articolo di Giusy Baioni sulla R. D. Congo (MC 10/2010, pp. 47-50). Ne riporto un passaggio: «… un passato remoto segnato da una delle colonizzazioni più feroci, quella Belga, che ha dimezzato la popolazione di allora con una schiavitù inumana…» (p. 47).
Vorrei, molto brevemente, affermare quanto segue, e Le sarei molto grato se potesse pubblicarlo, per amore della verità. Premetto che ho vissuto venti anni, fino al 1966, in Congo, prima colonia belga, poi Repubblica del Congo/Zaire, e posso affermare nel modo più assoluto che non ho mai visto, conosciuto, né sentito raccontare la colonizzazione feroce di cui parla la dott.ssa Baioni. Mio nonno, con nonna e figli, nel secolo scorso ha attraversato tutto il Congo perché era un esploratore; mio padre vi ha vissuto tanti anni, e riposa nella regione del Kivu/Sud. I miei suoceri con la loro famiglia e fratelli hanno lavorato nel Katanga/Lubumbashi; le mie figlie sono nate a Bukavu, ed erano la terza generazione residente in Africa; amici hanno trascorso la loro vita nella zona del Virunga/Kivu Nord; ho conosciuto la famiglia, moglie, figli e nipoti di uno dei primi comandanti del battello di servizio sul fiume Congo e molti altri, nessuno di loro ha mai visto o conosciuto questa colonizzazione feroce. Avrei molto da dire sui lati positivi della colonizzazione belga, e sono obbligato a contestare nel modo più assoluto certe affermazioni penso basate sul «sentito dire». Cordialmente La saluto.
Saverio Giancarlo
Riva del Garda (TN)
Egregio Sig. Saverio,
grazie per la sua testimonianza che nasce dal vissuto. Vorrei farle però notare che le affermazioni della dott.ssa Baioni non si basano affatto sul «sentito dire». Tutta la documentazione storica è concorde nel provare che il primo periodo della colonizzazione belga (1876-1908, quando il Congo era considerato «proprietà privata» del re del Belgio Leopoldo II) è stato terribile, cinico e violento, con la soppressione spietata di qualsiasi forma di opposizione allo sfruttamento commerciale soprattutto del caucciù, che in quel tempo era molto richiesto. Perfino la nostra Enciclopedia Italiana Treccani nel 1929 scriveva: «Sembra che specialmente nello sfruttamento del caucciù alcune società concessionarie e senza dubbio anche agenti dello stato si fossero resi colpevoli di abuso in pregiudizio degl’indigeni. Questi fatti provocarono in alcuni paesi una violenta campagna di protesta, specialmente in Inghilterra, dove le critiche furono esagerate al punto da assumere spesso carattere di vere calunnie. Tutto ciò affrettò l’annessione del Congo allo stato belga: il 15 novembre 1908 una legge faceva dello Stato del Congo una colonia belga» (Treccani XI, 142/2).
Una delle vittime più note di queste violenze fu Isidore Bakanja (1885-1909), morto a seguito delle punizioni ricevute dal suo padrone e beatificato nel 1994 da papa Giovanni Paolo II.
Le parole, datate, della Treccani ammettono una realtà molto grave, tanto grave che il governo belga intervenne nel 1908 togliendo il Congo dalle mani del re e delle compagnie private.
P. Benedetto Bellesi, nostro redattore, scrisse su questa rivista (MC 10-11/2004, pag. 17): «La scoperta della vulcanizzazione della gomma e il suo impiego industriale fecero della colonia uno dei più grandi serbatorni mondiali di questo prodotto fondamentale per l’industrializzazione dell’Occidente. Ma occorreva mano d’opera per raccoglierlo e trasportarlo al mare. Il problema fu subito risolto: tutti gli africani (ironicamente chiamati «cittadini») furono obbligati a raccogliere il caucciù senza alcun compenso e ogni villaggio doveva consegnare agli emissari del re-proprietario una certa quota del prezioso prodotto vegetale. Chi si rifiutava, o consegnava quantità minori di quelle richieste, era punito duramente, fino alla mutilazione: a chi non produceva la quota di caucciù veniva tagliata una mano o un piede, alle donne le mammelle. Contro i ribelli si ricorreva all’assassinio, a spedizioni punitive, distruzioni di villaggi e presa in ostaggio delle donne.
A fare il lavoro sporco erano circa 2.000 agenti bianchi, disseminati nei punti più importanti del paese: molti di essi erano malfamati in patria e mal pagati in Congo. Ogni agente comandava un certo numero di nativi armati (capitani), presi da etnie diverse e dislocati nei singoli villaggi, per assicurare che la gente facesse il proprio dovere. Se la quota era inferiore a quella stabilita, anche i capitani subivano fustigazioni o mutilazioni. Era il metodo del terrore, tanto efficace quanto diabolico.
In 23 anni di esistenza, nel Libero stato del Congo morirono circa 10 milioni di persone, direttamente per la repressione o indirettamente per epidemie o fame, dovuta alla distruzione punitiva dei raccolti. Fu un vero genocidio, in cui perì quasi metà della popolazione congolese, stimata a circa 20-25 milioni di abitanti nel 1880.
A ciò si aggiunga la caduta del tasso di natalità: un missionario giunto in Congo nel 1910 fu stupito dall’assenza quasi totale di bambini tra i 7 e i 14 anni, nati cioè tra il 1896 e il 1903, periodo in cui la raccolta di caucciù raggiunse il suo apice».
Quanto scrisse p. Bellesi non sono calunnie, ma informazioni documentate raccolte da una commissione d’inchiesta mandata dal governo belga in Congo nel 1906.
Con una riserva: la cifra di 10 milioni pare molto esagerata e andrebbe valutata realisticamente contro i dati della popolazione presente prima dell’inizio della colonizzazione e il censimento del 1928, rapportati anche al numero di coloni bianchi coinvolti (poche migliaia). Questo però non toglie nulla all’estrema gravità di quello che p. Bellesi chiama «genocidio dimenticato»: fossero state anche solo 100 mila le vittime di questa violenza, non renderebbero la tragedia più accettabile.
Che lei e i suoi familiari non abbiate avuto sentore di questo dramma, non stupisce. Il re Leopoldo II prima di consegnare la sua proprietà privata al governo bruciò sistematicamente gran parte dei documenti incriminanti, mentre i coloni belgi avevano tutte le buone ragioni per passare il tutto sotto silenzio.
Suor Eugenia, grazie
Cari Missionari
e Missionarie,
desidero ringraziare ed esprimere tutta la mia stima e condivisione alla consorella che domenica scorsa 13.02 u.s., a Roma, in P.za del Popolo, è intervenuta a favore della dignità della donna. Per televisione si è visto e sentito solo uno stralcio del suo discorso, che, però, mi piacerebbe leggere per intero. Il suo intervento, la sua presenza, la sua partecipazione mi hanno dato speranza e fiducia nel sapere che anche nei nostri difficili tempi c’è chi segue, con la vita, in prima persona, la linea del Maestro Gesù. Penso che la stessa mia speranza e fiducia sia arrivata ad altre persone che credono nei valori della fede e della Verità. Provo tanta pena per i fatti che succedono in Italia, non solo ora, ma da anni e mi chiedo quando crollerà quell’immenso castello di sabbia costruito da un solo uomo, ricco oltre ogni misura e sostenuto da tanti servitori che lo difendono a spada tratta perché ricompensati abbondantemente da ogni grazia che un uomo può desiderare ed una donna sognare.
Nemmeno il Papa, del quale anche i non credenti sanno che è persona buona, dedita a servire Dio ed il prossimo, è stato così difeso, quando da molte parti era attaccato per lo scandalo della pedofilia. Evidentemente non paga così bene, non offre denaro a volontà, festini hard e neanche pregiata erbetta verde. Il Signore però gli ha dato forza, fede, salute e, sia pure con sofferenza, ha saputo affrontare le difficoltà e le problematiche che si sono presentate. Quando si lavora con il Signore e per il Signore, l’aiuto viene da Lui, altrimenti – e questo mi consola, come dice Samuele, nel 1° libro – «certo non prevarrà l’uomo malgrado la sua forza». Questa è la vera giustizia a cui nessuno sfugge. Affidiamo al Padre Beato Giuseppe Allamano, del quale oggi ricordiamo la festa, a 85 anni dalla morte, la nostra patria, chiedendo la sua intercessione per ognuno di noi perché riusciamo a fare sempre bene il bene. Grazie, cara sorella missionaria per la tua limpida testimonianza. Un abbraccio.
Bruna Dalbesio
Terzuolo, via email
Penso che moltissimi dei nostri lettori abbiano già visto quel video. Per chi lo volesse rivedere lo si trova in http://tv.repubblica.it/politica/suor-eugenia-bonetti-riprendiamoci-dignita/61991?video. Il testo si trova sul sito delle Suore Missionarie della Consolata http://www.consolazione.org/donna-nel-mondo/379-messaggio-di-suor-eugenia-bonetti.html e anche nel nuovo sito di Amico (http://amico.rivistamissioniconsolata.it) con link al video. Il mese scorso, in queste pagine, abbiamo pubblicato una sua «rifessione sulla dignità della donna» (MC 3/2011, pag. 5-6).
PLASTICA & MC
Leggo sul numero di gennaio, in questa rubrica, la vostra risposta alla lettera di Isa Monaca sulla richiesta di avvolgere la vostra rivista in una pellicola biodegradabile. Contrariamente a quanto dite voi, di pellicole biodegradabili ce ne sono. Mi piacerebbe vederla usata anche da voi, visto che spesso trattate in maniera ammirevole temi ecologici. Cordialmente.
Andrea Paolini
via email, 29.01.2011
Dopo aver consultato la tipografia, che cura anche la spedizione della rivista, Le posso assicurare che la pellicola che usiamo è in polietilene totalmente riciclabile (naturalmente il totalmente si realizza solo grazie alla collaborazione di chi fa raccolta differenziata). La tipografia è stata certificata conforme alle norme inteazionali UNI EN ISO 9001:2008 e UNI EN ISO 14001:2004 (vedi il sito www.canale.it). Abbiamo inoltrato anche a loro la questione della pellicola biodegradile. La ricerca di una possibile soluzione è avviata. Grazie della pazienza.
Sì, in teoria (la pellica) è riciclabile, come tutta la plastica. Anche i sacchetti del supermercato erano in polietilene, eppure si è dovuto vietarli. Biodegradabile è molto meglio, come i nuovi sacchetti per la spesa. Cordialmente,
Andrea Paolini
via email, 12.02.2011
Speriamo un giorno di poterLe dare la buona notizia che la rivista è spedita in pellicola biodegradabile. Per ora contiamo sulla collaborazione dei lettori per la pratica di un riciclaggio responsabile.