Incontro con Abdessalam Najjar, primo abitante di Nevé Shalom
In territorio israeliano c’è un villaggio dove ebrei e palestinesi vivono insieme: lo ha inventato un domenicano ebreo, Bruno Hussar, profeta di grande fede, per testimoniare e insegnare che la pace non è solo un sogno e i conflitti possono essere superati con accettazione, rispetto e collaborazione reciproca.
«Mi chiamo Abdessalam e da oltre 30 anni sono in questa comunità chiamata Nevé Shalom-Wahat as-Salam, un villaggio in cui vivono insieme ebrei e palestinesi di cittadinanza israeliana, impegnati nel lavoro di educazione per la pace, l’uguaglianza e la comprensione tra le due popolazioni. La nostra esperienza è la dimostrazione tangibile che i due gruppi possono coesistere, vivere in pace e lavorare insieme».
Inizia così l’incontro con il professore Abdessalam Najjar, uno dei fondatori dell’«Oasi di Pace»: è questo il significato letterale della duplice espressione, in ebraico e in arabo,Nevé Shalom-Wahat as-Salam; termine ispirato alla promessa del profeta Isaia: «Il mio popolo abiterà in un’oasi di pace» (Is 32,18).
SOGNO DI PACE
«L’oasi nasce da un sogno di un domenicano ebreo: padre Bruno Hussar. Uomo di grande fede, arrivato a Gerusalemme nel 1960, aveva subito attratto attorno a sé un gruppo di persone di differente credo religioso e promosso incontri di dialogo tra cristiani, ebrei, musulmani. All’inizio era spinto da entusiasmo e buona volontà, senza sapere cosa avrebbe raggiunto: diceva che parlare è meglio che litigare».
Sorride Abdessalam e continua: «Dopo tanti incontri, padre Bruno cominciò a riflettere: “Siamo qui seduti in un piccolo gruppo, cristiani, ebrei, musulmani, tutta brava gente, tutti vogliamo la pace… ma perché fuori non c’è pace? Forse il gruppo di dialogo non basta; dobbiamo fare qualcosa di più”».
Alla fine degli anni ‘60 egli ottenne un pezzo di terra in prestito dal monastero trappista di Latrun e cominciò a sognare la sua «oasi di pace», iniziando a tenervi i suoi incontri soprattutto nei fine-settimana. Cominciò ad arrivare varia gente, soprattutto dall’Europa, giovani capelloni, nella loro strada verso l’India o di ritorno dall’India in cerca di un guru. Padre Bruno accoglieva tutti con molta cordialità, ma non era sua intenzione essere un guru. Il suo progetto era ben differente: mirava alle persone in conflitto, ebrei a palestinesi, disposti a vivere insieme, esplorando le cause del conflitto, per superarle ogni giorno, prendendo insieme le decisioni adeguate.
«A quei tempi – continua Abdessalam – quando incontrai per la prima volta padre Bruno, ero impegnato insieme a mia moglie nel dialogo tra studenti universitari ebrei e palestinesi e stavamo progettando una scuola per ebrei e palestinesi insieme. Egli mi invitò a costruirla nel suo villaggio di Nevé Shalom. Non vi immaginate la delusione che provammo quando andammo a visitarlo: mi aspettavo alberi e case come si addice a un’oasi; trovai solo un vecchio autobus in disuso, un pergolato di bambù e alcune pietre per sedersi. Padre Bruno cominciò a parlare del suo villaggio, di bambini che si arrampicavano sugli alberi… Domandai dove fosse realmente tale villaggio: “Ora ci siete voi e abbiamo Nevé Shalom; poi arriveranno anche i bambini” rispose seraficamente. Era fatto così: pensava una cosa ed era convinto che sarebbe diventata subito realtà».
Naturalmente ci vollero altri incontri per esplorare le varie possibilità, finché fu deciso di organizzare un campo estivo, tanto per dare vita a qualcosa di concreto: nell’estate del 1977 c’erano circa 300 giovani, ebrei e arabi, seduti insieme a discutere su che cosa significhi dialogare, lavorare, vivere insieme. Fu un evento importante, ma il sogno di padre Bruno divenne realtà l’anno seguente: alla fine del 1978 si stabilirono le prime quattro famiglie, tre ebree e una palestinese. Da quel momento la comunità continuò a crescere gradualmente, con l’arrivo di due-tre famiglie l’anno. Ora esse sono 60, metà ebree e metà palestinesi, tutte hanno la cittadinanza israeliana. Il progetto continua per raggiungere le 140 famiglie.
EDUCAZIONE BILINGUE
Narrata l’origine di Nevé Shalom, il dottor Najjar passa a spiegare la vita attuale del villaggio, guidandoci nella visita alle varie strutture della comunità, prime tra tutte gli asili nido. «Il problema educativo si è imposto fin dall’inizio, con la nascita dei primi figli. Fu deciso di educarli insieme. Ogni asilo ha una madre ebrea e una madre araba; ognuna parla la propria lingua ai bambini, in modo che ognuno cresca secondo le proprie tradizioni culturali, e al tempo stesso impari la lingua dei compagni di cultura differente. Col crescere dei bambini abbiamo deciso con padre Bruno di aprire la scuola matea, seguita poi da quella elementare. La comunità mi chiese di lasciare l’impiego nella scuola statale per insegnare qui, insieme a una maestra ebrea».
Nasceva così, nel 1984, la scuola bilingue ebreo-araba, la prima del genere in Israele. «Benché non fossimo preparati a tale impresa – continua il dottor Najjar -, dato che non esisteva alcuna struttura per preparare insegnanti di scuole del genere, l’esperienza riscosse un successo superiore alle aspettative: molte famiglie attorno chiesero di accogliere e istruire i loro figli nella nostra scuola».
Oggi la scuola elementare e quella matea contano complessivamente circa 300 bambini, oltre il 90% dei quali provengono dai villaggi vicini sia arabi che ebrei. Un nuovo edificio è stato richiesto per estendere il curriculum scolastico alla scuola media.
MODELLO DA ESPORTARE?
Nel 1997, il Ministero israeliano dell’Educazione riconobbe ufficialmente la scuola matea e l’anno seguente quella elementare; nel 2000 «incorporò» la scuola matea nel sistema scolastico nazionale. «Era uno degli obiettivi del nostro metodo educativo: lanciare un modello che potesse essere imitato particolarmente in città o regioni con popolazione binazionale. I nostri sforzi sembrano avere successo: oggi in Israele abbiamo 5 scuole come questa, bilingue arabo-ebrea. Abbiamo lavorato in altri paesi con situazioni di conflitto, come Irlanda, Cipro e nella ex Yugoslavia».
A Skoplie, in Macedonia, per esempio, è sorto un asilo infantile bilingue: le insegnanti sono state a Nevé Shalom per prepararsi a una scuola del genere. Si è tentata un’esperienza anche in Kosovo, con le comunità di albanesi e serbi, ma con gruppi separati, perché i serbi sono chiusi in enclaves e le restrizioni non permettono ancora di organizzare una scuola biligue.
Più che un modello da esportare, Nevé Shalom vuole essere un esempio, un laboratorio di metodologia educativa, da adattare alle situazioni concrete dei popoli in conflitto. Le pubblicazioni che descrivono i percorsi e i metodi educativi sperimentati a Nevé Shalom sono ora disponibili in ebraico, arabo e inglese.
SCUOLA PER LA PACE
Scopo di Nevé Shalom non era solo di formare una comunità, ma anche di espandee l’impatto educativo all’esterno. Già prima che le famiglie si stabilissero a Nevé Shalom, erano stati organizzati incontri di studenti di scuole arabe e di scuole israeliane per incontrarsi e discutere insieme. «Le chiamavamo “scuole di pace”. Non era una vera scuola, dato che l’incontro durava un giorno solo – racconta Abdessalam -; però si parlava di pace. Molte altre scuole vollero venire a parlare di pace. Quando le discussioni si svolgevano con calma e i giovani tornavano a casa tranquilli, dicevamo che l’incontro aveva avuto un bel successo. Ma una volta ci fu una discussione accesa e sperimentammo fortissime tensioni: non sapevamo cosa fare. La sera concludemmo che era stato un fallimento.
Qualcuno, invece, ci disse che le forti discussioni non significavano fallimento e che era meglio discutere i problemi piuttosto che non affrontarli. Ci spiegò che, trattandosi di problemi emozionali, non basati sulla razionalità, avremmo dovuto chiamare qualche persona qualificata per organizzare i gruppi, adottare le strategie per guidare le discussioni, valutare i risultati finali e i metodi adottati».
Dopo quattro anni di valutazione e studio, si giunse alla conclusione che un giorno era troppo poco, una settimana troppo lunga; la durata ideale per la scuola di pace era di tre giorni, con gruppi misti ristretti di 15-18 partecipanti, con due facilitatori, uno arabo e uno ebreo. La Scuola per la pace (School for peace, Sfp) cominciò ad avere una fisionomia più regolare e metodica anche nella struttura di lavoro, con meno lezione o informazione e più dinamica di gruppo.
Fu cambiato anche il fine da raggiungere: all’inizio si parlava di trasformazione politica. Cosa impossibile. Primo traguardo da raggiungere era prendere coscienza di se stessi, pensare e agire senza stereotipi e generalizzazioni, in modo da comprendere e capire gli altri. «Per raggiungere tale comprensione reciproca, tra ebrei e palestinesi, ci vuole tempo – spiega il dottor Najjar -. Non basta un incontro, ma occorrono più esperienze in altre situazioni e in altri gruppi, dopo di che è possibile che qualcosa cambi».
centro spirituale
La terza istituzione educativa, sogno di padre Bruno, è stato il Centro spirituale pluralista. Anche se in questa terra i conflitti non sono di natura religiosa, negli ultimi anni, purtroppo, la religione ha cominciato a giocarvi un ruolo importante. Padre Bruno si domandava: «Come mai noi popoli del libro ci facciamo guerra in nome di Dio? Deve esserci una interpretazione sbagliata della sacra scrittura. Nulla è più sacro dell’umano: non è la terra che fa la santità di un popolo, ma è il popolo che fa santa la terra. Più che parlare di cose spirituali, bisogna parlare in modo spirituale, poiché ogni aspetto della nostra vita ha una dimensione spirituale» insegnava padre Bruno.
Ci furono molti incontri di dialogo interreligioso, non a livello di contenuto teologico, ma a livcello esistenziale: si discuteva su come devono essere le relazioni umane tra persone di diversa fede religiosa; sul perché in certi periodi i rapporti erano più pacifici o più ostili; su cosa bisogna fare per creare relazioni di pace.
«Anche oggi – continua Abdessalam – le iniziative di dialogo interreligioso sono sempre legate alla realtà che stiamo vivendo; partecipiamo agli incontri come esseri umani, cioè portando con noi tensioni e problemi, conflitti e paure, emozioni e pregiudizi… per cercare di esplorarli psicologicamente e trattarli in modo spirituale, in modo religioso».
Un’altra intuizione di padre Bruno, suggerita dalla sua prima collaboratrice Anne Le Meignen, fu di non edificare una chiesa, una sinagoga o una moschea, ma un luogo speciale, aperto a tutte le religioni: la «Casa del silenzio» (Bet Dumia-Sakina, in ebraico e arabo rispettivamente). L’ispirazione era venuta dalla meditazione sul Salmo 65,2: «Per Te il silenzio (dumìa) è lode, o Dio…».
È una cupola candida, sul dorsale della collina boscosa, affacciata sulla pianura sottostante; unici arredi sono alcuni cuscini per sedersi. Qui ciascun abitante del villaggio, religioso o no, a qualunque fede faccia riferimento, può raccogliersi, per pregare, meditare, riflettere. L’unico linguaggio che vi si parla è, appunto, il silenzio.
«Dio si rivela nel silenzio – spiega Anne Le Meignen -. Ricordate l’esperienza di Elia sull’Oreb: Dio non era nel vento impetuoso, nel terremoto, nel fuoco, ma nel “qol demama daqqa, una voce di silenzio lieve” (1Re 19,12)».
Nel 2006 attorno alla Dumia è sorto appunto il «Centro spirituale pluralista Bruno Hussar», una struttura per incontri, giornate di studio e corsi dedicati a una riflessione spirituale sui problemi che costituiscono il cuore del conflitto in Medio Oriente e sulla ricerca di una possibile soluzione, attingendo le risorse disponibili nella propria cultura e tradizioni religiose.
Un altro sogno di padre Bruno sta per realizzarsi: la «Casa degli studi silenziosi», un edificio con sale riunioni, biblioteca, spazi per la creatività artistica… un ulteriore strumento di carattere spirituale per educare al dialogo, alla riconciliazione ed alla pace, attraverso la ricerca dei punti comuni, da rintracciare anche nelle rispettive scritture sacre delle diverse religioni.
La vita a Nevé Shalom
Il villaggio è gestito in modo democratico: ogni anno viene eletto un segretario che lo governa, affiancato da quattro consiglieri; almeno una volta al mese viene convocata l’assemblea plenaria per prendere le decisioni più importanti.
Attualmente vi sono una sessantina di famiglie, metà ebree e metà palestinesi, ma presto se ne aggiungeranno altre. La lista di attesa è lunga; un comitato studia i vari casi, ne analizza le motivazioni, istruisce sulle condizioni ed esigenze per vivere nella comunità, esamina le capacità di resistenza e alla fine fa la selezione.
Ogni famiglia deve costruirsi la propria casa. La terra è della comunità, la casa è proprietà privata, ma non può essere venduta; se una famiglia lascia il villaggio, terra e casa rimangono alla comunità, non viene venduta ad altra famiglia.
Lingua ufficiale è l’ebraico, anche perché gli arabi sono generalmente bilingui; d’altronde, i palestinesi hanno bisogno di conoscere l’ebraico per vari motivi; gli ebrei invece, non conoscono l’arabo; magari sono bilingui di una lingua europea.
Il villaggio non è affiliato ad alcun partito o movimento politico. Fino ad ora nessun governo israeliano ha considerato Nevé Shalom un’iniziativa o progetto di interesse nazionale; c’è rispetto e nulla più. È stato chiesto in concessione un pezzo di terra, come il governo fa per i kibbutz, ma fino ad ora la richiesta è stata rifiutata, con la scusa che non è una iniziativa di necessità nazionale; in realtà non si vuole la presenza di arabi in territorio israeliano.
Dal punto di vista religioso a Nevé Shalom risiedono ebrei, cristiani, musulmani e agnostici. Buona parte di essi non vi sono entrati per motivi religiosi; anzi, molti non sono neppure coscienti della loro identità religiosa. Era una delle critiche mosse a padre Bruno: come prete avrebbe dovuto interessarsi solo di cristiani, invece accoglieva tutti, senza chiedere la loro appartenenza religiosa. Padre Bruno rispondeva: «Da parte mia non rinuncio a nulla della mia fede; quanto a quelli che ancora non hanno trovato la strada che porta a Dio, sono certo che, al momento, agiscono secondo la parola di Dio; un giorno forse troveranno anche la loro via a Dio».
Benedetto Bellesi