L’ultimo bazar (all’ombra della Mezzaluna)
Lo Xinjiang e gli uiguri
Lo Xinjiang è la regione abitata dagli uiguri, cinesi loro malgrado. L’immigrazione han ha ormai conquistato le città ed occupato tutti i posti chiave, ma la popolazione uigura resiste, forte di una diversità che è fisica e culturale. Oggi la loro ultima frontiera è la religione islamica e soprattutto la lingua, da difendere ad ogni costo. Tra mille difficoltà.
La terra che oggi è la Regione autonoma uigura del Xinjiang, la più grande provincia della Repubblica popolare cinese, copre un sesto del suo territorio. Zona dei floridi commerci di un tempo, che si sviluppavano sulla via della seta dal II secolo, è decaduta quando sono state aperte altre rotte di scambio tra Oriente e Occidente. I suoi confini toccano otto paesi: Mongolia, Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Afghanistan, Pakistan e la parte di Kashmir controllato dall’India. È gialla, nella sua parte meridionale, arida e secca laddove il deserto del Taklamakan sottrae all’uomo una parte vastissima di terra, o tra gli spettacolari canyon formatisi agli argini del deserto dalle forme e colori più diversi. Verde al Nord, dove montagne di perenni ghiacciai sfiorano il cielo, laghi dai colori cangianti e fiumi impetuosi hanno la forza di portare via ponti e strade e la rendono fertile per i pastori nomadi che in estate occupano le alte praterie. È in questa zona, a 320 km al nord di Urumqi che si trova il punto della terra più distante dal mare.
Le sue genti sono 13 diverse minoranze, di cui la maggiore è quella uigura. La popolazione cinese han oggi ha raggiunto quasi il numero di quest’ultima, facendosi spazio soprattutto nelle cittadine lungo la via centrale, dove anche le infrastrutture sono maggiormente sviluppate.
A Urumqi, capoluogo e centro economico del Xinjiang, per esempio, proprio via del popolo segna la linea divisoria tra le due etnie cinese e uigura. Sul bazar di Urumqi, negli anni Ottanta, Terzani scriveva: «È un museo dell’umanità: ad eccezione di quella nera, tutte le razze vi sono rappresentate». Quel bazar è stato teatro nel 2009 del tragico attacco degli uiguri ai danni dei cinesi e del contro attacco di quest’ultimi. I conflitti sociali di oggi che dividono le città e le persone hanno radici storiche, politiche ed economiche. Non è nostra intenzione parlarne in questa sede, però si sentono chiari sotto il sole cocente, come sono chiari i pregiudizi che crescono nelle due etnie in uguale misura, rafforzati da una propaganda che al posto dell’armonia crea sentimenti di rifiuto, contrasto e puro campanilismo. La politica ha certamente un ruolo fondamentale in tutto questo. Non è la cultura a dividere, ma oggi, insieme alla religione, diventa un tema tra i più strumentalizzati nelle analisi e nelle reazioni delle due parti e nessuna delle due sembra più disposta a incontrare l’altra. Se non davanti ad un banco di frutta o di carne.
Si deve procedere per zone meno battute al sud, sulla strada che da Kashgar torna verso Oriente o si ramifica fino al Tibet e ai monti Kunlun, per trovare ancora qualche passaggio originale di una melodia tutta uigura. Questa è la zona dove gli uiguri sono ufficialmente ancora la maggioranza.
UIGURI: CINESI, MA TURCHI
L’origine degli uiguri è fatta risalire ad una tribù altaica dell’Asia centrale. Dal lago Baikal, vennero verso sud, nella parte nord del Xinjiang. In seguito ad un’ivasione kirghiza (840 d.C.) si spinsero più a sud, nel bacino del Tarim, dove incontrarono gli unni, popolazioni turche dell’Asia centrale. Alla caduta degli unni, nell’850 d.C., nacque il Turkestan orientale e con esso il primo regno uiguro1.
Possiamo affermare che questa popolazione fu l’anello centrale degli scambi, prima di tutto commerciali, tra Oriente e Occidente. Data la natura di quella terra poi – al Nord adatta a una vita nomade e al Sud a una vita più stanziale -, gli antenati degli uiguri di oggi furono anche il popolo che meglio si adattò a queste condizioni. Riuscirono a svilupparsi grazie all’abilità di mercanti, ma anche a una elasticità nell’amministrazione che contribuiva a mantenere la pace necessaria al commercio. La loro cultura perciò nasce e cresce in quest’ambiente dove coesistevano allo stesso tempo diverse religioni e diversi popoli, e su questo si basa. Foitori della giada ai cinesi da 3500 anni, hanno goduto del favore della dinastia Tang, che li apprezzava come maestri di musica, e della dinastia mongola Yuan, che permise la diffusione dell’islam. Nel XXI secolo sono per lo più contadini e pastori nei piccoli villaggi intorno alle oasi. Alcuni sono impiegati negli uffici governativi o nelle aziende in città, con uno stile di vita nuovo. Si dichiarano turchi con onore e si riferiscono alla loro terra con il nome di «Turkistan orientale», nel nostalgico intento di continuare ad affermare la loro identità almeno nella propria lingua.
Nelle campagne greggi di pecore e capre pascolano sotto i pali delle centrali eoliche; qui i mezzi sono molto limitati, l’educazione è scadente e le opportunità sono poche. Un conseguente fenomeno è la migrazione verso le città costiere, dove la manodopera è sempre richiesta. Il governo ne è fautore e sono sempre di più gli uiguri, specie le donne, a spostarsi nella Cina centrale per lavorare, partecipando alla mescolanza di genti che avviene massiccia tra Cina centrale e questi territori occidentali. Me lo raccontano in una città singolare sulla via della seta centrale, Kuqa, che sembra ancora oggi un’oasi nel mantenere intatta la sua parte di case di fango basse e bianche affianco alle costruzioni cinesi. Forse perché tra queste case, in passato (dal 200 al 650 ca.), è vissuta un importante cultura, la Qiuzi, il cui carattere buddista è rimasto nelle grandiose grotte dei mille Budda di Kizil o meglio nelle 180 casse di affreschi portate in Europa dall’archeologo tedesco Van le Coq nel 1906 e nel 1913. In punta dei piedi tra i vicoli di Kuqa, intorno a ciò che è rimasto dell’antico regno, ormai muri di fango logorato da vento e acqua, spiando dalle porte aperte, quando il vento alza le tende, si vedono cortili interni coperti da pergole di viti che assicurano la necessaria ombra nelle ore più calde della giornata. Oltre le tende ci sono la vita familiare e le abitudini degli uiguri: grasse matrone su letti di tappeti osservano con sguardo da sfinge il chiasso dei bambini che giocano intorno. Stanno sdraiate, rotolano sui tappeti, si appoggiano su grandi cuscini ricamati a mano. Offrono ricovero allo straniero che passa, una panchetta di legno e un po’ di ombra, del profumatissimo tè alla menta; lamentano la mancanza di lavoro e le ristrettezze economiche in cui vivono. Le donne stanno a casa, gli uomini, se non specializzati, si arrangiano con lavori di consegne o simili.
Verso sud, dopo varie città dove i caratteri cinesi vanno per la maggiore e dopo Atush, dove risiedono gli uiguri ricchi figli del petrolio, finalmente ecco Kashgar.
PER LA NUOVA KASHGAR «RINGRAZIAMO “IL PARTITO”»
«Di fango son le case, di fango son le strade, le moschee, le tombe. Solo Mao è di granito». Quest’altra affascinante descrizione di Terzani, va rettificata. All’arrivo a Kashgar l’emozione non può che essere ferita dallo spettacolo triste delle demolizioni e dagli occhi ancora più tristi dei suoi abitanti. Patrimonio culturale dell’umanità, la parte protetta dal biglietto d’ingresso è ciò che ne rimarrà. La città è oggi al centro del nuovo piano di sviluppo economico messo a punto per questa parte di Cina. Squadre di operai cinesi e qualche uiguro si danno da fare, giorno e notte, per ricostruire su quello che è già ridiventato polvere: «Costruiamo la nuova Kashgar», «Ringraziamo il Partito per la sua attenzione al popolo del Xinjiang» sottolineano i cartelli in caratteri cinesi intorno alle macerie. I bambini ci giocano sopra, le donne stanno sedute fuori dagli usci delle case ancora in piedi. La terra secca dei muri abbattuti è tanta che, al passarci sopra, schizza come l’acqua pestata in una pozzanghera.
Per «offrire» case più sicure e antisismiche in tutte le città che visito ci sono lavori in corso, demolizioni e avvisi per chi ci vive di prepararsi al ricollocamento entro i prossimi cinque anni. Nelle stesse città, cercare la moschea vuol dire trovare la zona che, nel tempo, è rimasta più intoccata e con lei panorami che mi riportano nella invisibile Eufemia di Calvino2.
Città nascoste dentro la città si fanno scoprire tra i vicoli bassi e stretti dove giocano bambini o chiacchierano le donne affacciate alle finestre. I bambini uiguri sono curiosi, gentili e affettuosi con lo straniero. Lo prendono per mano per guidarlo nei vicoli o si lanciano in un abbraccio che fa tremare chi non se lo aspetta. I sorrisi che aprono i loro occhi, neri o azzurri, fanno pensare quanto questa gente sia aperta verso l’esterno. Mahermut, un bambino di otto anni, mi indica il nome del nonno tra quelli della lista sul muro in lingua uigura. Ci vivono da anni in quel vicolo e si conoscono tutti. Mi guida in un giro tra racconti della scuola cinese che frequenta e domande su quello che sta lontano dal suo mondo ma vicino alla sua immaginazione. Passeggiamo in un sali e scendi tra profumi di pane appena sfornato, spezie macinate dal medico tradizionale per il tè, sangue del montone appena sacrificato ad Allah e vapori dei cibi comuni che si trovano per strada: pecora che bolle da ore nel pentolone con odori e spezie, il soffritto per il risotto, gli spaghetti gialli di grano che si servono freddi con verdure, aceto e salsa di sesamo.
UN COLLANTE DI NOME ISLAM
La città successiva è quella degli artigiani che continuano il mestiere dei loro padri. Balaustre ombreggiate delle case a due piani di inizio secolo danno sulla strada, e balconate coperte da motivi arabi e colori pastello attirano lo sguardo al cielo. C’è chi forgia il ferro creando zappe, lame, falci, picconi, chi batte sulla lamiera per fae casse di ogni dimensione, o i lavandini per i ristoranti e le brocche da giardino, chi fa piatti, teiere o anfore in rame per la casa, chi con il legno modella pioli per i letti e per le culle, o una scacchiera con re, regine, cavalli e pedoni. Abili mani tessono tappeti, altre lavorano l’oro, materiale di cui la zona è abbastanza foita.
Gli uiguri amano l’oro. Le donne portano sulle mani, pitturate di henna, bellissimi anelli intarsiati, intrecci di ricami quasi barocchi. Per le strade o nei mercati le donne sono una delle cose più belle da osservare, nei loro modi, nei gesti eleganti di mani segnate dal lavoro. Occhi scuri di nero kajal, rendono ancora più affascinante lo sguardo di quelle che mi vengono incontro. Amano curarsi, amano i profumi e portano, specie nel sud, il velo. Chi annodato dietro la testa a mo’ di copricapo, chi sotto il mento, chi lascia solo gli occhi allo sguardo altrui. Ce ne sono anche alcune che preferiscono guardare attraverso la rete del burqa. Tutte mi ricambiano con la stessa curiosità.
La figura della donna nella società uigura è centrale e molto particolare, se inserita in un contesto religioso musulmano: gli uiguri già buddisti, hanno adottato l’islam in una pratica molto meno stretta rispetto ai paesi arabi. Se è la donna a stare a casa, questa ha anche la libertà di uscire, studiare, e può scegliere di non portare il velo, come succede spesso tra le più giovani.
Ancora più a Sud, Hotan la descrivono come uno dei posti più duri per i forestieri, in quanto là gli uiguri sarebbero più chiusi nei dogmi religiosi. Al mio arrivo quasi non ne vedo. La statua di Mao e Kurban Tulun, l’eroe uiguro della rivoluzione cinese, governa piazza dell’Unità. È l’unico monumento in tutta la Cina che vede il vecchio Mao in compagnia. Nelle strade passano i taxi, i camion dei supermercati, quelli che portano macchine nuove o petrolio, passano bus enormi, passano camionette blindate della polizia. Tutte superano un carretto, che ben accostato al marciapiede prosegue lento per la sua strada. Lo trascina un mulo guidato da un vecchio uiguro che indossa un copricapo con ricami verdi, tanto popolare tra questa gente. Osservo e mi chiedo dove sia il suo mondo. Sul carro, donne, bambini, ragazzi uiguri che usano questo come taxi, dalle zone più periferiche. Al ritorno dal bazar della giada di Hotan, dove ogni venerdì e domenica, è mercanteggiata giada verde, bianca, nera, rosa, di fiume o di montagna, seduta sui tappeti ben piegati, per cinque mao (pari a cinque centesimi di euro), vedo le strade passare dal lato opposto: la periferia di case basse, ristoranti e lunghi barbecue per arrostire la carne di pecora venduta a tutti gli angoli, gli uomini che fanno la fila dal barbiere, le donne sulle scale di una moschea che offrono il loro acidissimo yogurt. E ancora foi rialzati per cuocere i tanti tipi di pane, sui quali i panettieri si chinano e con un gesto antico millenni mettono dentro l’impasto a forma di pizza con sesamo e cipolla.
Camminando tra la gente per questa terra, ho l’impressione che sia chiusa: le seconda domanda che rivolgono allo straniero in genere è: «Li conoscete gli uiguri al tuo paese? Ce ne sono?», «Beh… ora un po’ di più», la risposta imbarazzata dalla consapevolezza di quanto in Occidente non sappiamo. Perché degli uiguri se ne sente parlare da poco tempo e solo se ci sono rivolte o attentati. Anche in Cina.
ALLA «GUERRA» della lingua
I fatti dell’11 settembre e l’inserimento del «Partito islamico del Turkestan orientale» nella lista nera dei terroristi stranieri da parte del governo statunitense e delle Nazioni Uniti nel 2002, hanno fornito ai cinesi i presupposti formali per campagne antiterroristiche in queste zone. Ma questa è un’altra storia3.
Gli uiguri sono lontani, da Pechino e dal mondo. Dai loro cortili al mondo, si passa comunque per la Cina. D’altronde sono cinesi. Sono però «i cinesi meno cinesi». Loro malgrado. Lo dice il Dna. Lo dicono i loro capelli ricci e i nasi di falco. Lo dicono la musica, la passione per il ballo, l’espansività dei gesti, dei modi, i rapporti sociali. Lo dicono le preghiere ripetute durante la giornata, quando per le stradine che circondano le moschee di Kashgar come del più remoto villaggio, da un minareto si diffonde la voce piena e possente del muezzin che li chiama a raccolta. Interrompono tutto, per questa pausa di preghiera. Sono di sicuro tra le minoranze meno sinizzate, probabilmente grazie al mantenimento di una lingua propria che, sostenuta dalla religione, porta con sé una identità molto distinta.
E l’uso di questa lingua nella religione è l’unico fattore che fa credere che la lingua uigura non morirà. Ma è la lingua cinese che permette agli uiguri di Cina di avere opportunità di scambio con l’estero, che non sia Turchia. È tramite il cinese che si studia l’inglese e sono cinesi le aziende che offrono lavori migliori. Ne sono sempre più convinti anche tanti genitori uiguri, come dimostrano ricerche cinesi e non sulle politiche linguistiche e sociali adottate4.
L’uiguro appartiene alle lingue turco-altaiche, di qui le similitudini e la passione uigura per la Turchia. La sua scrittura è basata su un alfabeto molto simile a quello arabo. La Costituzione cinese assicura il diritto per le minoranze di studiare nella propria lingua, e l’articolo 49 della Legge sull’autonomia regionale afferma addirittura che «i quadri di nazionalità han dovrebbero imparare a leggere e scrivere le lingue delle minoranze locali»5.
La storia e la politica a questo proposito è lunga e vede molti cambi di direzione durante gli anni. Con la rivoluzione culturale il «nuovo» per gli uiguri fu l’uso delle lettere latine al posto di quelle uigure, producendo una generazione di analfabeti. Dopo la reintroduzione dell’uiguro scritto, sono state lanciate le scuole miste, a maggioranza cinese o uigura, poi trasformate in tre tipi di scuole: cinesi, uigure e miste. Nel 2004 sono state introdotte classi sperimentali con la doppia lingua.
Per gli uiguri, per la loro identità tali trasformazioni possono portare a cambiamenti culturali senza via di ritorno. E una lingua scritta e parlata è forse più importante dell’identità stessa, perché permette a questa identità di descriversi e di vivere.
Per il governo cinese invece, l’esistenza di quella cultura ma soprattutto di quella religione, può risultare scomoda sotto molti punti di vista. Il suo obiettivo, secondo i documenti ufficiali, è di avere, entro il 2012, l’85% delle scuole matee bilingue, cioè insegnare il cinese alla maggior parte della popolazione fin dai primi anni. E, temono gli uiguri, questo sarà un altro grande passo sulla strada che – piano piano – porterà alla scomparsa delle scuole e della lingua uigure. Testimoni riportano recenti campagne di confisca di libri uiguri, bruciati perché «colpevoli» di supportare il sentimento separatista6.
Al momento molti denunciano una situazione in genere caotica, che vede studenti uiguri delle scuole a maggioranza cinese non saper scrivere nella lingua madre usata oltre i recinti scolastici, mentre quelli delle scuole a maggioranza uigura notevolmente svantaggiati quando aprono la loro porta sul mondo esterno. Nelle classi sperimentali bilingue invece, vengono insegnate le materie scientifiche in lingua cinese, mentre quelle letterarie e la lingua in uiguro. È del maggio 2002 la decisione del governo di insegnare la maggioranza dei corsi in cinese, come mi conferma Ohelan, insegnante uigura alla scuola media del villaggio di Dunkuotan, vicino Kuqa che, seguendo le politiche governative insegna in cinese e si rende conto di quanto ciò contribuisce a creare un livello bassissimo di educazione per i bambini. Secondo le statistiche il 98,6% degli insegnanti è uiguro; il restante cinese sembra non avere basi linguistiche uigure adeguate all’insegnamento, specie nelle zone più remote. D’altra parte, gli sforzi del governo mirati a bilanciare questa situazione sono molti e quasi tutti in «favore» delle minoranze: oltre alle ricerche per i libri di testo, ci sono i sussidi per i bimbi uiguri che scelgono una scuola matea con classi bilingue, o lo sconto sui crediti per studenti non han in sede d’esame d’accesso all’università, per i quali sono previsti anche esami in lingua madre.
L’Università del Xinjiang offre il corso di studio in «lingue e culture delle minoranze» in uiguro e kazako, ma Wang Lequan, capo del Pcc in Xinjiang dal 1994 affermava, anni fa, che il lavoro educativo e ideologico sarebbe stato una priorità nella battaglia al separatismo. Lui, che introdusse il cinese nelle scuole primarie e vietò agli uiguri impiegati in uffici governativi di portare la barba o il velo e di osservare il ramadan, è stato sostituito con una nuova classe di politici nell’aprile 20107.
Gli uiguri si dicono fiduciosi nel cambio al governo, fiduciosi di persone che sembrano essere più disposte al dialogo e al rispetto degli spazi di una cultura diversa. Nel frattempo, continuano a vivere secondo la loro musica.
Tania Di Muzio