Una storia di cooperazione partita dal palato
Isolata e senza prospettive la zona si era spopolata. Poi, nel 2005, Temur e Nana pensarono che con le mucche e i pascoli avrebbero potuto cambiare il presente e il futuro di Khizabavra.
Con l’aiuto dei missionari camilliani, della Caritas e di alcuni esperti venuti da Belluno è nato un caseificio che produce un formaggio apprezzato da tutti: cattolici e ortodossi, georgiani, armeni e italiani.
Il Javakheti è un altopiano che si estende dal confine armeno-turco fino alla valle del Mtkvari, il principale corso d’acqua della Georgia. Il fiume scorre in un ampio corridoio inciso nell’altopiano, le cui pareti, le coste dei monti, salgono dapprima assai ripide per poi bruscamente distendersi in ampie praterie. La strada che porta a Khizabavra sale erta fino a raggiungere il limite di questa balza da dove la vista si spalanca sul pianoro, in fondo al quale si scorge il borgo raccolto intorno alla chiesa. Qui gli abitanti sono georgiani, ma se si sale ancora, addentrandosi nell’altipiano, s’incontrano villaggi interamente armeni. La convivenza tra i due gruppi etnici non è mai stata semplice. Da secoli georgiani e armeni si contendono primati culturali, artistici, religiosi, nonché la terra, su cui hanno sempre vissuto insieme.
Le rivalità etniche, rimaste sopite sotto il regime sovietico, si sono risvegliate con l’istituzione della repubblica indipendente di Georgia, quando gli armeni del Javakheti si sono sentiti, e non del tutto a torto, cittadini di seconda categoria. Sono nati partiti politici che chiedevano maggiore autonomia dal governo centrale, il quale, dal canto suo riservava poche attenzioni a questo territorio isolato e arretrato. Fortunatamente, a differenza di Abkhazia e Ossezia, le aspirazioni irredentiste non hanno portato a un conflitto armato, sebbene le condizioni per una secessione ci fossero qui molto più che altrove. Il Javakheti, infatti, non solo confina con l’Armenia, ma è abitato per il 95% da armeni.
L’ARRIVO DEI CATTOLICI
La fine del regime comunista ha creato le condizioni per una rinascita religiosa in tutto il territorio dell’Urss, e la Georgia non ha fatto eccezione. Nel paese c’è una presenza cattolica non numerosa ma di vecchia data. Negli anni Novanta cominciarono ad arrivare i primi sacerdoti cattolici per prendersi cura delle comunità di fedeli che stavano riorganizzandosi e tentando di riaprire le chiese rimaste chiuse per decenni.
Sebbene la Georgia sia un paese tradizionalmente cristiano ortodosso, i rapporti con il mondo cattolico nei secoli sono stati generalmente non conflittuali, e in certi periodi, apertamente amichevoli. Così in disparte com’era rispetto al teatro delle dispute teologiche che occuparono i cristiani nel corso del primo millennio, la Georgia non ha vissuto il dramma della frattura tra le chiese d’Oriente e d’Occidente, consumatosi con lo scisma del 1054. Solo nel XIII secolo prese coscienza che era avvenuta una separazione tra la sua chiesa e quella di Roma, ma nessun atto ufficiale la sancisce. I missionari cattolici erano accolti con benevolenza dai signori georgiani, che, tra l’altro, speravano di ottenere dall’Occidente cattolico un aiuto contro i più potenti vicini musulmani; aiuto che non giunse mai.
Francescani e domenicani furono i primi ad arrivare in Georgia proprio nel XIII secolo. Nel 1329 fu istituito a Tbilisi (capitale della Georgia) il vescovato cattolico. Nel XVII secolo anche i teatini e i cappuccini fondarono proprie missioni nel paese. Intoo ad esse si crearono piccole comunità cattoliche che sono giunte fino a noi, attraverso secoli di dominazione musulmana e settant’anni di ateismo di stato. Queste comunità erano rimaste senza pastori durante il periodo sovietico, per cui, non appena fu possibile, furono inviati loro sacerdoti dall’Europa. Vi arrivarono gli stimmatini da Verona e i camilliani dalla Polonia. Ai polacchi la Santa Sede ha tradizionalmente affidato la cura dei fedeli cattolici nei paesi dell’area ex sovietica, contando sulla loro conoscenza del russo, che ha continuato a essere lingua di comunicazione anche dopo il crollo dell’Urss. La scelta degli italiani si spiega, invece, per le evidenti affinità di carattere che esistono tra i due popoli.
I CAMILLIANI E PADRE PAATA
La presenza cattolica in Samtskhe-Javakheti è concentrata in alcuni insediamenti: ad Arali, Vale, Ude, Khizabavra e Vargavi. Khizabavra fu affidata ai camilliani. Il primo fu padre Pawel Szczepanek nel 1997. Lui e i suoi confratelli, che nel frattempo avevano aperto una missione permanente aTbilisi, si dovettero rimboccare le maniche. Si trattava di ricominciare quasi da zero un’attività pastorale dopo decenni di vuoto totale.
Sotto il regime comunista la chiesa cattolica, costruita nel 1898 dall’architetto Varzelashvili, era stata chiusa e adibita a deposito, la casa parrocchiale era diventata un distaccamento della scuola locale. Adesso gli edifici non recano più le tracce del triste passato sovietico. La casa parrocchiale ha ripreso la sua funzione originaria ed è stata completamente ristrutturata. La grande chiesa in cima al villaggio è fresca di pittura. Un busto a Varzelashvili, il cui figlio fu fucilato nel 1937, è stato posto nel giardinetto accanto alla scuola. Caritas Georgia ha aperto un ambulatorio, dove si possono ricevere gratuitamente assistenza e farmaci, i camilliani hanno costruito un asilo per circa settanta bambini.
Molto più difficile, però, si è dimostrato ricostruire una vita di comunità. I fedeli dovevano riprendere pratiche di culto abbandonate da decenni senza sacerdoti che parlassero la loro lingua. Ai camilliani toccò imparare il georgiano e dedicarsi al catechismo, alla formazione dei giovani, all’attività pastorale con adulti e anziani, in attesa che i primi seminaristi locali terminassero gli studi e potessero sostituirsi a loro. Ora a Khizabavra c’è finalmente un sacerdote georgiano, padre Paata.
Sembrerebbe, dunque, che ormai non rimanessero più ostacoli alla rinascita di una piena vita religiosa. Paradossalmente, però, il senso di appartenenza alla chiesa, sopravvissuto all’ostracismo e alle persecuzioni riservate alla religione sotto il comunismo, in questi due decenni di libertà si è andato dissipando. Ora che il culto è tornato libero, ad esempio, ci sono tanti che scelgono di non battezzarsi.
Padre Paata vede le ragioni di tale scelta in parte nelle difficoltà economiche: mancano i soldi per fare una festa come si deve, secondo i grandiosi criteri locali; in parte nel timore di avere problemi con gli ortodossi in quanto cattolici.
Se pensiamo che in Georgia cristiani ortodossi e cattolici, ebrei e musulmani hanno convissuto in pace per secoli, raro esempio di tolleranza in epoche in cui tale virtù era poco praticata, si può dire che la fase attuale costituisce una rottura col passato. Il dopo Urss si è inaugurato con lo slogan «la Georgia ai georgiani». Un esasperato nazionalismo è stato iniettato nel sangue degli abitanti di questa terra generosa. Questo nuovo corso ideologico ha fatto dell’Ortodossia la bandiera della rinascita nazionale. Essere georgiani s’identifica con l’essere ortodossi; per questo motivo oggi in Georgia l’unica chiesa riconosciuta e ufficialmente registrata dallo stato è quella ortodossa.
LA CRISI
All’indomani della fine del sistema sovietico i georgiani si sono trovati a fare i conti anche con una gravissima crisi economica. In Samtskhe-Javakheti, area prevalentemente rurale, le occupazioni tradizionali sono agricoltura, allevamento e produzione di latte. Negli anni Novanta la chiusura totale, o parziale, delle imprese alimentari e l’interruzione del sistema distributivo ebbero come conseguenza un drastico calo della produzione agricola e un declino nel numero degli animali.
La crisi cominciò a spingere molte persone fuori dei villaggi, della regione, o addirittura del paese. «Un tempo qui c’erano 300 famiglie, ora saranno al massimo 250. Molte case sono rimaste vuote», spiega padre Paata, «perché le persone si sono trasferite in città, o sono espatriate in cerca di lavori più remunerativi. A Vargavi, un villaggio a qualche chilometro da qui, sono rimasti solo in venticinque. Tutti anziani».
Sono arrivata a Khizabavra una domenica di fine agosto, giusto in tempo per assistere alla liturgia nella chiesa, tutta ridipinta e spaziosa ma semivuota. I fedeli erano in prevalenza bambini e ragazze, che sostenevano i canti. C’era anche qualche anziano. Gli uomini avevano preferito riunirsi a pochi passi dalla chiesa, sotto il grande albero accanto alla fontana, evidentemente un punto di ritrovo. Chiacchieravano o giocavano a carte. È il loro modo di svagarsi nel giorno di festa.
Tra di loro ce n’erano alcuni trasferiti in città e tornati al paese natale solo per qualche giorno di vacanza. Sono considerati fortunati perché sono riusciti a ottenere condizioni di vita più agevoli. Gli «sfortunati» sono rimasti a lavorare nei campi o con gli animali. È una vita dura, perché il lavoro deve essere fatto quasi senza l’ausilio di macchine, troppo costose per essere acquistate da un singolo. Così, chi può se ne va e chi non può tira avanti senza troppa convinzione, limitando il lavoro agricolo a una pura attività di sussistenza.
Questo decadimento dell’agricoltura ha portato a uno dei paradossi più sorprendenti dell’economia georgiana: un paese che sembra benedetto dal cielo per il suo clima e per la fertilità della terra, dove l’industria alimentare e conserviera dovrebbe prosperare, si rifornisce di frutta e verdura in gran parte dalla vicina Turchia. In piena estate le massaie di Tbilisi si lamentano di non riuscire più a trovare sul mercato pomodori e cetrioli nostrani, ma solo quelli turchi, fibrosi e insapori.
Con le loro ampie praterie gli altopiani dello Samtskhe-Javakheti sono luoghi ideali per il pascolo. Vi cresce un’erba fitta, succosa, ricca di fiori odorosi. Ai tempi sovietici alla comunità di Khizabavra furono date in dotazione una porzione di pascolo e una malga quasi al confine con la Turchia, dove nei mesi estivi venivano portate le mucche del kolkhoz, l’azienda agricola statale che raggruppava gli allevatori del villaggio. Vi si faceva il tradizionale formaggio georgiano, il suluguni, non stagionato e conservato in salamoia. Anche quest’attività non aveva retto alla crisi generale. Quando il kolkhoz era stato privatizzato e il suo patrimonio distribuito tra gli allevatori, costoro avevano cominciato a vendere le proprie mucche e la montagna si era andata vuotando.
Questo processo sembrava inarrestabile quando Temur e sua moglie Nana decisero di investire le proprie risorse per riprendere la produzione di formaggio. Non avevano molta esperienza in materia, ma avevano un sogno, maturato vedendo i compaesani lasciare le proprie case e non farvi più ritorno: ripopolare la montagna e riportarvi le attività tradizionali di modo che la gente avesse lavoro e potesse restare. Per far ciò, però, le loro risorse non bastavano. Bisognava incrementare gli animali, pagare l’affitto dei pascoli, ristrutturare la malga in rovina. Ne parlarono con padre Pawel Dyl, il camilliano che aveva preso il posto del primo, compianto, padre Pawel, morto in un incidente stradale nel 1999.
GLI UOMINI VENUTI DA BELLUNO
Il progetto appariva interessante: non solo avrebbe creato lavoro e fatto rivivere un’economia rispettosa del territorio, ma parte della produzione di formaggio sarebbe stata destinata all’asilo di Khizabavra e alle mense dei poveri gestite dai camilliani e da Caritas Georgia nelle città. Il sacerdote si offrì di aiutarli e si mise alla ricerca di uno sponsor. Approdò nel Bellunese, terra con una lunga tradizione nella gestione dei pascoli e nella produzione di formaggio. Caritas Belluno non era contraria a finanziare un progetto di sviluppo in un territorio che presenta caratteristiche simili a quelle della montagna dolomitica e inviò in Javakheti due esperti del Gruppo di Azione Locale Alto Bellunese.
«Non dimenticherò mai come avvenne in nostro primo incontro», racconta Temur. «Finalmente eravamo riusciti a portare alla malga gli italiani e dovevamo conquistare la loro fiducia, dimostrare quanto eravamo capaci di fare. Padre Pawel si era raccomandato di non fargli fare brutta figura ed eravamo tutti in tensione. Si trattava di far vedere come facevamo il formaggio. Mentre eravamo attorno al pentolone di latte che stava sul fuoco, si avvicina il nostro aiutante Sasha, con mani e braccia sporche fino al gomito, perché aveva tentato di aggiustare un vecchio trattore che non partiva. Alza un mignolo e lo immerge nel pentolone. “Non ci siamo ancora”, commenta, e torna al suo lavoro.
Sprofondai nello sconforto. Ora tutto è perduto, pensai, gli italiani non vorranno più sapee di noi e del nostro formaggio. Osservai le loro facce, pensando di trovarvi disappunto, ma vi lessi stupore. “Perché l’ha fatto?”, mi chiesero. “Per misurare la temperatura del latte”, spiegai. Scoppiarono in una fragorosa risata: “150 anni fa nelle nostre montagne non usavamo già più questo metodo!”, esclamarono. Questo episodio li convinse che dovevano assolutamente darci una mano».
Fu così che iniziò una felicissima collaborazione per la produzione di un formaggio molto speciale: il lavoro, i pascoli e il latte, sono georgiani, la tecnologia e la «ricetta», italiane. Molto è stato fatto da quel giorno del 2005, con gli sforzi di tante persone, in primo luogo di coloro che lavorano alla malga e dei due italiani, Luigi Pellegrini e Battista Attorni, che ogni anno vi trascorrono parte delle loro vacanze, controllano la qualità della produzione, si portano via un po’ di latte da analizzare. Ci sono, poi, la Caritas di Belluno-Feltre, le fondazioni Cariverona e San Zeno che hanno sponsorizzato il progetto, Caritas Georgia che segue la logistica e la parte amministrativa. Tanti sforzi che incominciano a dare i loro frutti.
Ora a 2.000 metri sull’altipiano c’è un piccolo caseificio, dotato di macchine italiane e organizzato secondo i migliori criteri d’igiene e sostenibilità. D’altra parte, è la natura stessa del luogo che spinge gli uomini a razionalizzare il più possibile il lavoro. Troppo impegnativo, e costoso, trasportare i bomboloni del gas su per l’orribile mulattiera: così si è pensato di sfruttare il salto d’acqua del vicino ruscello per produrre elettricità. L’operazione, in cui avevano fallito gli ingegneri chiamati da Tbilisi, è finalmente riuscita a un armeno del villaggio vicino, privo di diplomi ma vivo d’ingegno. Il prossimo passo sarà produrre combustibile biologico, utilizzando il letame che si accumula nella stalla.
Nel 2010, i due italiani hanno chiesto a Temur di anticipare la fienagione, che di solito nell’altopiano avviene a fine agosto, alla fase di prefioritura delle piante, quando il loro contenuto nutritivo è maggiore. Se si migliora la qualità del fieno, dicono, gli animali si svilupperanno meglio e produrranno più latte. Così è stato fatto. Quando a fine agosto ho visitato la malga ho trovato due montagne di balle di fieno già pronte per l’inverno. Bisognerà aspettare la primavera per vedere se il nuovo sistema dà buoni risultati.
FRESCO E STAGIONATO
Oltre al tradizionale suluguni, ora alla malga di Khizabavra si fa uno squisito formaggio stagionato, una novità per la Georgia, dove il formaggio è per lo più fresco. Prodotto seguendo la ricetta del signor Battista, questo formaggio è così gradito al palato, che la scorsa estate si è aggiudicato il primo premio alla fiera alimentare di Sighnaghi, un’amena cittadina della Georgia orientale. È così buono, che non ho potuto trattenermi dal fae dono ai miei amici di Tbilisi e dal mettee una forma intera nella borsa prima di rientrare in Italia. Alla prima occasione ne ho dato un pezzetto da assaggiare a un’amica di origini valtellinesi. Vi ha subito sentito qualcosa di famigliare: «Ha dentro il sapore dell’erba, proprio come quello che un tempo ci portavano dai nostri alpeggi».
Così il formaggio di Khizabavra, alla fine, ha messo d’accordo tutti: cattolici e ortodossi, italiani, georgiani e armeni; e sono sicura che ne sarebbero conquistati anche i turchi, se solo potessero assaggiarlo.
Bianca Maria Balestra