«A Sud delle nuvole»

Lo Yunnan, cuore della multiculturalità

Schiacciato tra le montagne tibetane ed i confini con gli stati del sud-est asiatico, lo Yunnan è terra di frontiera, di scambi culturali e commistioni etniche. Pechino vi ha imposto uno sviluppo turistico rapidissimo, con effetti devastanti sulla regione e sulle minoranze.

Se una volta, in aree di confine come questa, occorreva spargere molto sangue (in guerre senza l’obiettivo della pulizia etnica, ma tendenti all’annessione o sottomissione del potere locale), oggi, senza necessità di violenza fisica, la maggioranza etnica han è riuscita ad imporre la propria supremazia non solo numerica, ma anche culturale. A suon di denaro e mattoni. Ce ne accorgiamo appena scesi dall’autobus notturno Kunming – Zhongdian, quando la foschia dell’alba ci accoglie nella contea di Xianggelila, il nuovo nome esotico che il governo cinese ha affibbiato al distretto montuoso sul confine tibetano, adottando e cinesizzando il nome Shangri-La, che James Hilton negli anni Trenta aveva utilizzato nel suo «Orizzonte perduto» per descrivere la mitica e mistica regione montuosa del Kunlun, retta dai lama tibetani.
In realtà, i territori descritti da Hilton corrispondono oggi alla parte settentrionale dell’altopiano tibetano, estesi fino all’attuale provincia del Gansu, ma nel 2001 le autorità di Pechino hanno deciso di dare a Zhongdian e dintorni questo nome a forte carica evocativa mistica, iniziando con l’inganno un processo di modeizzazione ed imposizione del progresso su larga scala.
Zhongdian – chissà com’era dieci anni fa – nel 2010 è una città snaturata: camminando dalla stazione degli autobus al centro storico si rincorrono desolanti costruzioni squadrate ed austere, tipiche dell’espansionismo demografico cinese, hotel a sei o sette piani illuminati come discobar anche in pieno giorno, negozi di chincaglieria assortita, lavori in corso in ogni angolo, centri per la telefonia mobile e negozi di souvenir. Appena varcata la soglia immaginaria che divide la città vecchia dalla periferia, l’inganno assume delle fattezze disneyane.
La città vecchia, completamente ricostruita nel 2004, è un parco a tema plasmato intorno all’ideale tibetano prêt-à-porter: signore agghindate nei vestiti tradizionali gestiscono i negozietti di souvenir, che compongono almeno l’80% dell’intera città vecchia, dove si trova di tutto, dall’oggettistica del sacro ai pupazzetti celebrativi dell’Expo di Shanghai, passando per pashmine tibetane, scarpe tibetane, maglie tibetane, cappelli tibetani, occhiali tibetani, coltelli tibetani, nella perversione che qualsiasi cosa vendano i negozi di Zhongdian, oltre 3.000 m di altezza, debba per forza essere «tibetana». Gli spazi rimanenti, che si snodano tra le vie ciottolate del centro, sono tutti popolati da guesthouse o ristoranti per tasche occidentali o per cinesi dalle tasche occidentali, ricostruiti secondo i presunti canoni architettonici tibetani.

PER MILLE YUAN AL MESE:
Storia di John, il tibetano

In uno di questi alberghi finto-autentici, convinco un giovane cameriere a raccontarmi la sua storia, alternando il suo inglese approssimativo al mio cinese stentato.
Si fa chiamare John, ha 20 anni ed è di etnia tibetana. Proviene da un villaggio lontano da Zhongdian, e come molti coetanei ha deciso di spostarsi in città per tentare la fortuna. Dopo una serie di lavori come manovale, riesce a farsi assumere in un hotel fuori dalla città vecchia – lussuosi e costosi, come piacciono ai turisti cinesi – dove ricopre una quantità indefinita di mansioni. Il suo ruolo è il tuttofare, la paga è buona, oltre 1.000 yuan al mese. John vuole imparare l’inglese, che considera il lasciapassare per una vita migliore. Vuole essere «open to the world» (aperto al mondo, ndr), lo ripete spesso durante la nostra chiacchierata. Il giovane tibetano racconta che, dopo aver messo da parte i soldi necessari, si è licenziato dal lavoro ed è partito per Canton, una meta per nulla casuale. A Canton infatti si tengono dei corsi d’inglese full immersion di una settimana chiamati «Crazy English», delle lezioni comuni a gruppi di centinaia di giovani cinesi tenute dal celeberrimo Li Yang, il guru dell’apprendimento dell’inglese in Cina. Tariffa giornaliera 1.000 yuan, che per una settimana fanno 7.000 yuan, ovvero sette mesi di lavoro pieni, senza contare le spese per la sopravvivenza ed il trasporto. Dopo l’esperienza cantonese, John ha fatto ritorno a Zhongdian ed ha trovato lo stesso lavoro di prima, ma in una guesthouse della città vecchia, a 800 yuan al mese.
Nonostante abbia dilapidato presumibilmente un anno di lavoro per una settimana di english full immersion, il risultato è stato oggettivamente abbastanza deludente: John si è ritrovato di nuovo impantanato nel mercato dei lavoretti stagionali, gli unici ai quali hanno accesso le fasce della minoranza etnica tibetana di Zhongdian e dintorni.
Come mi confida un gentilissimo cameriere tibetano la sera seguente, il grosso del business lo muovono imprenditori non autoctoni. Dal 2004, tutte le vecchie case tradizionali del centro sono state comprate da uomini d’affari provenienti dal sud dello Yunnan, dallo Zhejiang e dal Guandong. Dopo averle ristrutturate, portato la corrente elettrica in pianta stabile – nonostante i numerosissimi black out – ed il collegamento ad Inteet, gli affaristi han hanno affidato a persone di fiducia la gestione delle loro nuove proprietà, escludendo di fatto la popolazione locale, relegata ai banchi del mercato coperto o all’artigianato. Molti di loro si reinventano guide turistiche, ripetendo sistematicamente il nuovo mantra «Do you need a car?» (Ha bisogno di un’auto?, ndr) non appena intravedono un turista occidentale.
Solo la sera, nella piazza principale della città vecchia, i tibetani della zona si riuniscono a ballare sulle note delle musiche tradizionali, diffuse da potenti amplificatori posizionati sul perimetro dello spiazzo: di fronte a turisti occidentali e cinesi entusiasti, la popolazione locale mantiene vivi, apparentemente in modo naturale, i brandelli della propria cultura inevitabilmente destinata all’estinzione, di fronte al progresso veicolato dalle infrastrutture per le telecomunicazioni ed il turismo sponsorizzate dal governo centrale di Pechino. La strada a due corsie che collega Zhongdian a Deqin, località più remota della provincia di Shangri-La, apre infatti un flusso turistico interno tanto inedito quanto devastante, fatto di lussuosi hotel a quattro stelle e souvenir a buon mercato; un fenomeno che trae dall’esperienza di Lijiang la propria ispirazione.

IL DESTINO DEI NAXI

Lijiang, a metà strada tra Zhongdian e la capitale della provincia Kunming, nel 1997 è stata iscritta nel registro dei patrimoni mondiali dell’Unesco: con alle spalle una storia di oltre 800 anni, è stata la capitale di un regno indipendente, inglobato alla fine del XIII secolo dall’Impero cinese sotto la dinastia Yuan, popolato dalla minoranza etnica dei naxi. Perfettamente conservata, la città vecchia di Lijiang è un giorniello architettonico che ha mantenuto pressoché immutati i caratteri distintivi dell’antico borgo cinese: strade di ciottoli, tetti di pietra decorati, canali e lantee hanno valso a Lijiang il titolo di patrimonio dell’umanità, un riconoscimento che automaticamente ha messo a repentaglio la sua sopravvivenza.
Dal 1997, il governo ha preso il controllo della zona, premendo l’acceleratore sullo sviluppo turistico che, con la sua assenza, aveva preservato la bellezza del luogo. Pur mantenendo in alcune parti dei tratti di autentica pace, dove la sera si passeggia sentendo l’eco dei propri passi, oggi la città vecchia di Lijiang è in larga parte un contenitore per turisti, una tappa dei pacchetti vacanze «Lo Yunnan in una settimana». La città vive in uno stato di sovreccitazione perenne, scandito dagli orari di apertura e chiusura di ostelli, hotel, negozi di souvenir e ristoranti. La minoranza etnica dei naxi, tradizionalmente matrilineare, come nel caso di Zhongdian, si è ritagliata la sopravvivenza grazie all’artigianato locale, abitando prevalentemente i villaggi circostanti. A testimonianza vivente di resistenza perpetua, le anziane donne naxi vestono ancora gli abiti tradizionali, caratterizzati dalle vesti a manica larga colorate di un blu acceso, abbinate al coprispalla di pelle di pecora; il dongba, la lingua dei naxi, secondo l’ultimo censimento cinese del 2000 è parlato da 310.000 persone, 110.000 delle quali non conoscono nessun altro idioma, mentre il sistema di scrittura a pittogrammi sta lottando contro l’estinzione grazie ai programmi specifici di insegnamento scolastico, promossi lodevolmente dal governo locale fin dal 1996.
Il destino dei naxi e della loro cultura, seppur meglio preservati rispetto alla minoranza tibetana di Shangri-La, si scontra con le conseguenze del miracolo economico cinese. Un miracolo che ha creato una classe media con un potere d’acquisto tale da nutrire un turismo interno dalle conseguenze devastanti: turisti cinesi arrivano letteralmente a migliaia da tutta la Repubblica popolare, in un adattamento contemporaneo dell’esercito imperiale. A cavallo di pullman con condizionatore interno, armati di carta di credito e macchine fotografiche, l’orda han si riversa euforicamente e rumorosamente nei luoghi diventati simbolo della grandezza della Cina nel mondo, portando con sé gli strumenti del benessere e dello svago tipici delle grandi metropoli: i karaoke, i fast food occidentali, i centri commerciali, i negozi di moda.

I MOSUO, DOVE IL MATRIMONIO È (era)  BANDITO

Fino agli anni Ottanta, il lago Lugu, al confine tra Yunnan e Sichuan, si poteva raggiungere solo dopo una settimana di cammino. Negli anni Novanta fu costruita la prima strada e furono portati elettricità, scuole e beni di consumo. Oggi, considerando solo Lijiang, una decina di autobus al giorno percorrono le strade tortuose e mozzafiato strappate ai clivi delle montagne, raggiungendo il lago in sei ore di tragitto (salvo il rischio frane, particolarmente alto nella stagione piovosa estiva).
Al riparo dalla Storia, felicemente isolati dal resto del mondo, i mosuo (47.000 secondo l’ultimo censimento nazionale del 2000) hanno abitato i dintorni del lago Lugu tramandando una società basata sulla sussistenza e sul sistema matrilineare. Le donne si occupavano della gestione del denaro, delle cerimonie religiose – i mosuo praticano il buddismo tibetano, la religione tibetana tradizionale del Bon e lo sciamanesimo – e dell’allevamento degli animali; ignorando completamente il concetto del matrimonio, nella società mosuo le donne vivono da sole, ospitando di notte in notte i loro amanti, che devono tassativamente fare ritorno nella propria casa matea prima che faccia giorno. I figli nati da questi walking marriages sono riconosciuti solo dalla madre, che passa loro il cognome, e cresciuti dalla famiglia matea. Il padre, quando sia possibile determinae l’identità, è tenuto a prendersi cura del figlio solamente per la durata della relazione con la madre, slegata da vincoli contrattuali.
Con la Rivoluzione culturale però le cose dovettero cambiare: disprezzando il sistema sociale mosuo, definendoli come «animali», i comunisti imposero il rito del matrimonio. Quando la frenesia delle Guardie rosse venne sedata, i mosuo in massa decisero di divorziare legalmente e tornare alle loro usanze.
Oggi, il lago Lugu è diventato una sorta di parco naturale protetto, con biglietto d’entrata di 75 yuan. Grazie alla strada impervia ed alla carenza di alberghi di lusso, le sponde del lago godono ancora di una pace quasi irreale; ma gli scheletri di cemento a dieci piani che spuntano qua e là lungo la strada costiera, in aggiunta alla costruzione già avviata di un aeroporto ad hoc nella provincia del Sichuan, lasciano presagire un futuro sulla scia della «commercializzazione etnica» di Shangri-La e Lijiang. I superstiti mosuo stanno progressivamente abbandonando le loro abitazioni tradizionali in riva al lago, spingendosi nell’entroterra montagnoso dove ancora sono in grado di mantenere in vita le loro tradizioni, ricreando un microcosmo fuori dal tempo e dallo spazio lontano dagli effetti collaterali dell’apertura al mondo. La tradizione dei walking marriages, declinata ad amore libero, ha alimentato il turismo sessuale interno: spacciandosi per mosuo, molte donne si sono stabilite nella zona in veri e propri distretti a luci rosse, mascherando la prostituzione come esercizio per il mantenimento della tradizione.

I COSTI DEL «PROGRESSO»

Senza dubbio, l’espansione economica cinese degli ultimi anni ha progressivamente arricchito molti strati del tessuto sociale, specie la classe media, migliorando le condizioni di vita su larga scala e proiettando il grande paese asiatico verso il gruppo dei paesi sviluppati. Gli evidenti progressi portati dal capitalismo, in Cina come nel mondo occidentale a suo tempo, non si sono fermati davanti all’ambiente o davanti alle peculiarità etniche e culturali a rischio sopravvivenza. Solo di recente, una maggiore consapevolezza ambientalista e multiculturale sta iniziando a penetrare nel sentito comune cinese, ed il governo si sta timidamente affacciando a politiche di salvaguardia delle diversità – come l’iniziativa per l’insegnamento del dongba a Lijiang – e di «sviluppo sostenibile».
Ma i nuovi benestanti cinesi, equiparabili agli yuppies della «Milano da bere», vogliono tutto e lo vogliono subito: la comodità, il lusso, le vacanze ed il consumo non sono più beni accessori fruibili da una stretta minoranza elitaria, ma sono lì a portata di portafogli, santificati dalla nuova Cina ricca e capitalista.
In mezzo a queste tempeste epocali, la fragilità delle minoranze etniche può preservarsi solo se difesa dal potere decisionale cinese. Il governo deve tracciare un limite oltre il quale, rinunciando a profitti immediati, la locomotiva economica cinese non deve avventurarsi: solo in questo modo l’inestimabile varietà etnica e culturale che la Cina vanta potrà sopravvivere, evitando al popolo cinese rimpianti fuori tempo massimo.

Matteo Miavaldi

Matteo Miavaldi