«COME UN PESCE NELL’ACQUA»
DONATA CAIRO, missionaria italiana in cile
Oggi lavora a Copiapó, nella regione cilena di Atacama, conosciuta per i suoi deserti e le sue miniere. Un tempo lavorava come operaia tessile in Puglia. Anche per questo Donata Cairo lotta e combatte per i lavoratori, siano essi minatori, raccoglitori di uva o indios mapuche. Missionaria delle «Piccole sorelle di Gesù», suor Donata non dimentica le sue origini, ma neppure il suo carisma.
In gioventù, fu operaia in un maglificio (a Ugento, in provincia di Lecce). Poi conobbe il Movimento giovanile missionario, le idee di don Tonino Bello e Carlo Carretto e la sua vita cambiò. Entrò nella congregazione delle «Piccole sorelle di Gesù di Charles de Foucauld»1. Oggi Donata Cairo, questo il suo nome, vive e lavora a Copiapó, nella regione di Atacama, in Cile. A dispetto del deserto, nei dintorni della città cilena si estendono pregiati vigneti, dove lavorano moltissimi stagionali. A pochi chilometri da Copiapó c’è poi la miniera di San José, diventata famosa in tutto il mondo per via dell’incidente che, per 69 giorni (dal 5 agosto al 13 ottobre 2010), ha imprigionato sottoterra 33 lavoratori.
Donata appartiene ad una piccola comunità di quattro religiose, tutte di diversa nazionalità. Temperamento combattivo (nel 2008 è stata anche in carcere), la missionaria italiana ha idee molto chiare.
Donata, mentre le telecamere del mondo erano puntate sulla vicenda dei 33 minatori intrappolati a 700 metri sotto terra, in molte carceri del Cile prigionieri mapuche erano in sciopero della fame nell’indifferenza generale. Come spiegare questa diversità di attenzione?
«È vero: mentre 33 persone sopravvivevano a 700 metri di profondità, altre 34 si lasciavano morire, perché sentivano di non avere diritto di vivere con dignità… La diversità del trattamento è dipesa dagli interessi economici e politici in gioco. Però, una cosa è comune: sia i minatori sia i mapuche sono vittime di un sistema economico ingiusto. E mi spiego. Il salvataggio dei minatori è stata una cosa buonissima. Si sono utilizzate risorse economiche e mediatiche mai viste in Cile. Gli indici di appoggio al governo erano caduti ai minimi termini, per il modo come si stava affrontando la ricostruzione del dopo terremoto (quello avvenuto il 27 febbraio 2010, ndr) e lo tsunami nel sud del paese. Il riscatto dei minatori ha fatto alzare, da un giorno all’altro, questi indici. Sui minatori non si è però affrontato il problema di fondo che è quello delle condizioni lavorative e della sicurezza sul lavoro, non solo nelle miniere. Essi sono stati trasformati in “eroi” dimenticando che, in primis, sono vittime. L’evento della miniera di San José è servito anche per nascondere il conflitto con il popolo mapuche. Accettare che in Cile esista un popolo indigeno è accettare la sua identitá. E l’identità mapuche è legata alla terra: un mapuche senza terra è una persona senza identità».
Cosa sta succedendo nei territori dei mapuche, suor Donata?
«I territori mapuche sono finiti nella disponibilità delle grandi imprese multinazionali e non. Dunque, oggi le terre (tra l’altro molto fertili) sono in mano all’oligarchia e alle imprese straniere: imprese idroelettriche, industrie del legno, allevamenti di bestiame, industrie della pesca. Oltre a ciò, le terre sono ancora fortemente militarizzate e per qualsiasi “reato” si applica la legge antiterrorista emanata da Pinochet2, ma ancora in vigore. Tutto ciò è utile per alimentare la paura e scoraggiare qualsiasi intento di far valere i propri diritti. Dunque, accade che la gente mapuche lavora su una terra, che dovrebbe essere sua, alle dipendenze di altri e per salari da fame. A chi conviene che i mapuche siano i proprietari della terra? A nessuno. Anzi, spesso sono gli stessi governanti ad essere i nuovi padroni. Le leggi le fanno e le applicano loro stessi. E, si badi bene, la situazione non si è creata soltanto con questo governo di destra. Anche con i governi di centrosinistra è stato lo stesso…».
Quella dei mapuche sembrerebbe una lotta disperata, senza possibilità di successo…
«Sì, è come uno scontro tra Davide e Golia. Però, almeno per ora, gli indios l’hanno spuntata, grazie all’intervento opportuno della Chiesa, nella persona di Ricardo Ezzati, un vescovo salesiano italiano che è in Cile da quando era giovanissimo. Il problema non è stato risolto, ma si sono fatti passi in avanti. Per lo meno, non si dovrebbe applicare la legge antiterrorismo. Pensa che qualcuno ha rischiato di farsi 60 anni di carcere per essere stato accusato di aver bucato un pneumatico di un camion. Un camion appartenente ad una impresa forestale che trasportava legname preso sulla terra mapuche…».
Dopo gli anni sotto la guida della Concertación, il Cile è tornato ad essere guidato dalla destra, tra l’altro abbastanza vicina alle idee pinochetiste. Il Cile sta cambiando in meglio, in peggio o tra i due schieramenti non c’è molta differenza?
«A livello macro-economico non c’è differenza, ma per i progetti sociali, per i più poveri, sì. Questo è un governo di immagine, mostra quello che non è, è megalomane. Figurati che invece di impegnarsi in toto alla ricostruzione dopo un terremoto così devastante (9,2 gradi Richter), si vuole fare un gran monumento per ricordare l’evento. Lo stesso atteggiamento è stato tenuto per i minatori: “Li trasformiamo in eroi, teniamo il paese e il mondo intero davanti agli schermi della Tv, senza raccontare che la gente continua a morire nelle miniere a causa delle condizioni insicure sul lavoro”. E, si badi bene, le miniere non sono miniere qualsiasi, sono miniere d’oro!».
Gli organismi economici inteazionali hanno sempre indicato il Cile come il miglior paese dell’America Latina in fatto di sviluppo economico e di applicazione del sistema neoliberista. Questo ha accentuato le differenze sociali all’interno della società cilena? Ad esempio, i cittadini sono tutti eguali quando necessitano di cure mediche e di istruzione?
«I cittadini cileni hanno libero accesso ai mezzi di comunicazione modei e tutte le novitá che esistono nel mondo (cellulari, internet, apparati vari…). Hanno anche libero accesso al credito per il consumo, cioè possono andare nelle grandi catene di negozi e comprare a rate ciò che vogliono. Tutto sembra facile ed accessibile e si pubblicizza in ogni modo, ma in realtà questo è il paese piú ingiusto del mondo. Si può comprare di tutto, ma non una casa, non si possono mandare a studiare i figli alle scuole superiori e se ti ammali, puoi anche morire perché l’accesso alla salute pubblica è molto ridotto. La salute è un business, per cui è accessibile solo a chi guadagna molto. Gli operai con cui noi condividiamo la vita, vivono con 230 euro al mese, e i prezzi sono a livello europeo. Un Kg di pane costa un euro e 40. Inutile parlarti del lavoratori stagionali dell’uva da esportazione, quella che tra poco avrete sulle vostre tavole. Noi Piccole sorelle ci siamo dentro dal 1975 ed io dal 1990. Condizioni di lavoro, salari, sicurezza erano spaventose. Per questo abbiamo portato avanti una difficile lotta. Finalmente, con il governo della presidente Bachelet, siamo arrivate ad ottenere alcune “conquiste”: non ci sono più bambini che lavorano, c’è il diritto a un contratto lavorativo, abbiamo bagni e acqua potabile accessibili durante il lavoro. Tutto questo, che a voi potrebbe sembrare ovvio, a noi è costato anni di lotta».
Come descriverebbe la Chiesa cilena?
«Una volta arrivata la democrazia, si è fatta avanti l’idea che la Chiesa non si dovesse immischiare in altre tematiche, se non quelle ad essa proprie. Diciamo che è rientrata nella sacrestia. Questo non vuol dire che la gente di Chiesa non si sporchi le mani, ma gli orientamenti generali sono diventati altri. Sono stati nominati vari vescovi dell’Opus Dei, ed altri “de bajo perfil”, come dicono qui. Ma altri – una minoranza, certo – hanno continuato con le proprie scelte. La “teologia della liberazione” è ancora valida e le comunitá di base esistono ancora. Sicuramente, questo non fa notizia, anche perché non costituisce il tragitto principale.
Attualmente sembra che ci sia però un risorgere delle posizioni profetiche della Chiesa. I temi scottanti sono, ad esempio, quelli connessi al diritto all’acqua: alcune grandi imprese minerarie stanno distruggendo e contaminando i ghiacciai (che alimentano fiumi essenziali per la vita delle valli), per estrarre oro, e questo al sud, come al nord del paese. Basta vedere il “progetto Pascua-Lama” per avere un’idea delle devastazioni.
E poi le condizioni di lavoro di cui parlavo prima, e il conflitto mapuche. Su questi temi abbiamo avuto vescovi che hanno alzato la voce, ma la copertura mediatica del governo è tale da gettare “nuvole di fumo” su tutto».
Con la vittoria di Piñera si è parlato di un ritorno del pinochetismo. Durante la dittatura, il generale Augusto Pinochet non perdeva occasione per ricordare la sua venerazione per la Madonna. All’epoca, come si comportò la Chiesa cilena?
«Durante la dittatura militare, la Chiesa cilena ha avuto un ruolo fondamentale. Ha rischiato moltissimo, salvando molte vite umane. Anche noi nascondevamo gente nel sottotetto della casa, aiutavamo a saltare il muro dell’ambasciata italiana, offrivamo spazi nelle parrocchie per le riunioni… Molti sono potuti uscire dal paese perché nascosti nella macchina del vescovo, o perché vestiti da prete o da suora… Abbiamo avuto preti ammazzati dalla dittatura, come per esempio Antres Jarlan, Juan Alsina. Altri sono stati prigionieri, torturati e espulsi… Molti teologi, suore, parroci, partecipavano al “Movimento contro la tortura Sebastian Azevedo”, con proteste, manifestazioni pubbliche… Insomma, qui non è successo come, ad esempio, avvenuto in Argentina o in Perú. Diversa è la situazione nei paesi del Centro America, dove la posizione della Chiesa è stata ancora più chiara».
Toiamo ai mapuche e ai minatori. I primi vogliono difendere i loro diritti di popolo indigeno, i secondi vogliono un lavoro sicuro e con un salario dignitoso. Che succederà?
«I diritti degli uni e degli altri sono giusti. È difficile dire ciò che succederà, perché per cambiare veramente bisogna volerlo, avere volontà politica e un senso di solidarietà che non ci sono. Con il governo della Bachelet, c’era la speranza che qualcosa potesse andare in questo senso, ma con Piñera assolutamente niente. È solo immagine. Lui è un grandisimo impresario che ha scelto i ministri tra i gerenti e amministratori delle sue imprese. Speriamo che il popolo si risvegli da questo letargo che la propaganda mediatica gli ha provocato. Quello che temiamo maggiormente è che il fossato tra i piú ricchi e i piú poveri si allarghi sempre di più».
A proposito di poveri e di lotte, nel 2008 lei è stata in carcere per aver scioperato a fianco dei raccoglitori d’uva…
«Sì, in piena raccolta, nell’unico sciopero riuscito, venne la polizia e caricò tutti, e tra i molti c’ero anch’io… Ci tennero varie ore in cella in commissariato con l’accusa di disordine pubblico, ma poi ci rilasciarono tutti. Inutile dire lo scandalo sui giornali e in televisione, perché era dal tempo della dittatura militare che non succedeva che mettessero dentro una suora. Ricordo che io rimasi sola in una cella per diverse ore. In quella situazione mi dissi che l’unico modo per resistere era la preghiera. Allora, visto che sulle pareti della cella c’era scritto di tutto e di più, a ricordo della gente che era passata da lì, mi dissi che anch’io potevo fare testimonianza per altri: cominciai a pregare scrivendo sulle pareti i salmi recitati a memoria, passi del Vangelo, riflessioni. Non so se le mie scritte siano state utili a qualcuno, ma a me servirono per superare una situazione emotivamente difficile».
La sua esperienza in fabbrica l’ha aiutata ad essere più vicina ai lavoratori?
«Il fatto di provenire da un ambiente operaio, mi ha fatto sentire sempre “un pesce nell’acqua” e ho potuto vivere, giornire, lottare e sperare come loro e con loro. Scoprire che il Volto di Gesù “nazareno”, quotidiano, comune, è come me, come loro, mi ha dato la chiave di lettura, d’interpretazione della vita della gente comune, specialmente dei piú poveri. In un rapporto di evangelizzazione reciproca, perché Gesù ha scelto questa quotidianità per fare una proposta di vita per tutti. Io sono qui senza mai dimenticare il nostro carisma».
E allora qual è il vostro carisma, suor Donata?
«Accogliere e costruire i valori del Regno; amare gratuitamente di un amore rispettoso e delicato; vivere in comunità nella comunione delle differenze e dei beni; essere una presenza tra gli esclusi; condividere la vita con i più poveri. In poche parole, noi Piccole sorelle siamo chiamate a vivere nei luoghi di esclusione dove il dolore umano è di casa. Qui vogliamo annunciare un Dio misericordioso che ci accompagna con l’amore e la speranza».
(1) Si veda: www.piccolesorelledigesu.it; www.hermanitasdejesus.org.
(2) Legge antiterrorismo 18.314.
Paolo Moiola