Senegal: incontro con la «sindachessa» di Louga
In Senegal, per una donna, è difficile avere accesso a cariche pubbliche. Le donne sono relegate ai lavori domestici. Ma il Corano non c’entra e occorre sensibilizzare entrambi i sessi sui diritti delle donne. È la battaglia di Aminata Ndiaye, già ministro, ora sindaco di Louga. Le sue battaglie vanno dalla lotta contro le mutilazioni genitali, alla democrazia partecipativa, al turismo come veicolo di sviluppo e di contrasto dell’emigrazione. L’abbiamo incontrata.
«Se si applicasse davvero quel che prescrive il Corano, la donna dovrebbe starsene tutto il giorno in panciolle, servita e riverita dal marito». Parola di Aminata Mbengue Ndiaye, senegalese. Già ministro della Donna e della Solidarietà nazionale ai tempi del governo di Abdou Diouf, Aminata è oggi presidente del movimento femminile del Partito socialista senegalese e «sindachessa» di Louga, nel Nord del paese. L’abbiamo incontrata in occasione del meeting internazionale «Turismo responsabile, lotta alla povertà e co-sviluppo» organizzato a Torino lo scorso ottobre (vedi box) allo scopo di promuovere il turismo responsabile come volano per la crescita economica e culturale dei paesi africani.
«In Senegal la donna è spesso costretta a prendere in mano le redini della famiglia e provvedere al mantenimento di tutti con il suo lavoro, complice anche l’elevata emigrazione maschile che costringe molti giovani a cercare lavoro all’estero» continua Aminata. Lei, che oggi ha 50 anni, è da sempre paladina dei diritti umani e delle donne: non a caso la prima legge africana contro le mutilazioni genitali fu varata proprio in Senegal, nel ’99, mentre Aminata Mbengue era Ministro della Donna e della Famiglia.
Tradizioni da cambiare
La carriera politica di questa «militante dello sviluppo», come lei stessa si definisce, è iniziata quand’era giovanissima, appena terminati gli studi all’École economique di Dakar: agente per lo sviluppo rurale, prima donna a capo di una sezione di formazione regionale, nel ’95 fu eletta sindaco di Louga, sua città natale, e nel ’98 direttrice del Segretariato di Stato. Dal marzo 2009 è stata riconfermata primo cittadino di Louga, mandato che ricoprirà fino al 2014. Qualcuno sussurra persino che potrebbe essere tra i papabili alle prossime elezioni presidenziali del 2012. Ma lei tiene i piedi per terra, e gli occhi puntati alle condizioni della stragrande maggioranza delle sue connazionali: «Nel nostro paese è molto difficile per le donne avere accesso alle cariche pubbliche, da loro ci si aspetta che accudiscano i figli e si occupino delle faccende domestiche». Un atteggiamento dovuto a tradizioni ataviche che relegano la donna in secondo piano. «Ma la religione non c’entra nulla» tiene a precisare Aminata Mbengue, «l’Islam esprime una posizione avanguardista di tutela delle donne; nel Corano ad esempio è scritto: se devi picchiare una donna, fallo con un filo di cotone! Il problema sono le interpretazioni fuorvianti che ne vengono date da parte di alcune etnie, favorevoli alla subordinazione della donna».
Da questo punto di vista si rende necessario «un duplice lavoro di sensibilizzazione, che renda le donne consapevoli dei propri diritti e faccia capire agli uomini, leader religiosi e politici, l’importanza di rispettarli». Un indubbio passo avanti è stata la legge votata in parlamento lo scorso 24 maggio, che ha sancito la parità di genere nelle liste elettorali. In Senegal – cosa da far invidia all’Italia e riprova, secondo Aminata, che l’Islam non pone veti all’emancipazione femminile – su 30 ministri, ben 10 sono donne.
mutilazioni: no grazie
«La nuova legge crea finalmente una situazione di equità politica e sociale, visto che le donne in Senegal rappresentano il 52% della popolazione, cioè la maggioranza» dice Aminata. La normativa dischiude loro nuove possibilità a tutti i livelli, dall’Assemblea nazionale fino alle casse rurali dei singoli municipi, con implicazioni non solo politiche ma anche economiche. Tuttavia «la legge da sola non basta, perché le donne non sono ancora abituate a parlare liberamente in pubblico, in presenza degli uomini, per esprimere le loro esigenze e i loro punti di vista. Quel che serve adesso è attivare percorsi di formazione perché le donne diventino più consapevoli delle proprie capacità ma anche più preparate e competenti, in modo da rendere davvero un buon servizio al loro paese».
Sull’importanza della formazione Aminata Mbengue Ndiaye si è sempre battuta, anche prima di diventare portavoce per l’Africa alla Conferenza mondiale delle donne tenutasi a Pechino nel ‘95, quando prese una netta posizione contro le mutilazioni genitali femminili. Da allora in questo ambito si sono fatti molti passi avanti, come l’introduzione della legge che punisce con la reclusione da 6 mesi a 5 anni chi compie queste pratiche invalidanti. Ma, anche qui, la legge da sola non basta. «Proprio perché si radicano nella cultura tradizionale e pre-islamica del Senegal, queste usanze risultano difficili da estirpare. Bisogna cambiare la mentalità delle persone, a cominciare dalle donne stesse, sia quelle che hanno subito le mutilazioni e a loro volta si tramandano la pratica di madre in figlia, sia le donne che la effettuano e per cui si devono creare occasioni di lavoro alternative». In quest’ottica, l’alfabetizzazione di ragazze e bambine sul tema dei diritti e la diffusione di maggiori conoscenze igienico-sanitarie sulle gravidanze e i parti, contribuiscono spesso all’abbandono delle vecchie pratiche, cui si rinuncia nel corso di elaborati rituali in cui si depongono simbolicamente a terra coltelli, forbici, ecc. Aminata si dice ottimista: «Oggi le mutilazioni sono molto diminuite, penso che la prossima generazione non le farà più».
Democrazia made in Louga
Ma la battaglia di Aminata Mbengue Ndiaye non riguarda solo i diritti delle donne. Perché «promuovere tali diritti rappresenta un vantaggio per tutta la società: le donne infatti sono più attente alle esigenze e al benessere non solo individuali, ma di tutta la famiglia e dell’intera collettività». Un modo di essere e di fare che si rispecchia perfettamente nello stile di governo della «sindachessa», ispirato alla «democrazia partecipativa» sul modello dei Forum sociali di Porto Alegre, cui Aminata del resto ha sempre preso parte e da cui ha tratto l’idea di creare nel proprio paese i primi bilanci partecipativi.
«Non ho mai creduto nei processi contorti della politica, ma non prendo nessuna decisione senza aver prima consultato la gente», ci spiega lei con semplicità. Così nel primo anno del suo attuale mandato ha creato undici Consigli di quartiere in modo da avvicinare la municipalità alla popolazione, direttamente interpellata per giungere poi a formulare insieme una diagnosi precisa delle varie necessità. Questo lavoro di consultazione ha coinvolto tutte le realtà della società civile nessuna esclusa, dalle donne ai giovani, dai portatori di handicap alle associazioni professionali, dai gruppi sportivi a quelli culturali, permettendo l’emergere delle priorità da affrontare nei diversi quartieri: la pulizia delle strade, l’elettrificazione di alcune zone, il sostegno all’imprenditorialità…
Raccogliendo le idee di tutti si è poi elaborata una Carta dei consigli di quartiere, in cui si sono definite le linee guida e le procedure secondo cui orientare gli interventi concreti. «Così facendo nessuno dirà che “il sindaco ha scelto” questa o quella priorità, ma che è stata la gente a decidere», spiega Aminata con una punta d’orgoglio.
Tra i temi caldi dell’agenda politica di Aminata ha un posto importante la lotta all’emigrazione clandestina. Un problema cui la «sindachessa» si è sensibilizzata nel corso del tempo e dei numerosi viaggi in Europa, dove ha potuto incontrare le associazioni dei migranti senegalesi e conoscere le loro reali condizioni di vita. «Per loro è dura, tutti vogliono tornare indietro, ma in Senegal queste cose non si sanno». Perciò, ancora una volta, il lavoro di sensibilizzazione e formazione è il primo passo da compiere. Non solo per informare i giovani intenzionati ad andarsene sui rischi e le difficoltà legate alla vita da clandestino, ma anche «perché, se proprio non vogliono rinunciare a partire, lo facciano almeno dopo aver studiato e acquisito titoli e competenze da poter spendere in modo proficuo sul mercato del lavoro occidentale».
Intanto, madame Ndiaye si impegna per creare concrete occasioni d’impiego nella sua città, così da contribuire ad arrestare quell’emorragia di braccia e cervelli ormai tristemente nota come «diaspora senegalese». In quest’ottica si colloca l’impegno della «sindachessa» a favore del turismo responsabile, che l’ha portata in Italia di recente (si veda anche MC dicembre 2009). «La prima volta che sono venuta nel vostro paese è stato 30 anni fa, quando viaggiavo in cerca di appoggio per i gruppi femminili del Senegal e ho conosciuto l’Ong Cisv di Torino» racconta. Oggi, insieme a Cisv e Fondazioni4Africa, cerca di promuovere il turismo responsabile a Louga, che rappresenta un centro culturale di primaria importanza in Senegal e ogni anno attrae migliaia di visitatori, soprattutto nel periodo tra Natale e capodanno in cui si svolge il Fesfop, Festival internazionale di folklore e percussioni. «Il turismo è importante perché promuove lo sviluppo, crea posti di lavoro e occasioni di reddito, anche per le donne, impegnate ad esempio nelle attività ricettive e artigianali.
Ma la cosa più importante per me è che contribuisce a ricostruire l’immagine dell’Africa agli occhi dell’Occidente» dice Aminata. «E forse la pratica del turismo responsabile permetterà agli occidentali di guardare con occhi diversi gli africani immigrati nei loro paesi: smettendo di vederli, come spesso accade, con fastidio, disprezzo o paura».
Stefania Garini