Il peso del MITO

Monsignor Romero

Ricordo bene la prima volta in cui sentii parlare male di Monsignor Oscar Aulfo Romero. L’invettiva lanciata all’indirizzo dell’ex arcivescovo di San Salvador da parte di una sua relativamente giovane conterranea fu pesante, l’equivalente di «vecchio schifoso comunista». La donna considerava anche lui responsabile della sua situazione di emigrata, nonché della perdita di status e benefici garantiti a lei e alla sua famiglia dal lavoro svolto a suo tempo in patria: impiegata in un ministero. In fondo, riceveva lo stipendio da chi con il vescovo ce l’aveva al punto da farlo fuori. Lo ammetto, ci restai male.
Del resto, che sulla figura del presule salvadoregno non ci sia mai stata uniformità di pensiero è un fatto che non si discute. All’interno della chiesa stessa, per alcuni Romero sarebbe da fare «santo subito», per altri «santo mai». Sono convinto che, come successo in occasione degli anniversari precedenti, neppure la celebrazione del trentennale di questo martire della fede e della giustizia, il 24 marzo prossimo, darà impulso al processo di beatificazione che lo riguarda.

Tuttavia, ciò che dovrebbe farci riflettere, al di là della possibilità di trovare un giorno San Oscar Aulfo sul calendario, è l’ingiallimento progressivo che la sua memoria sta subendo, come se fosse una vecchia foto che l’incedere degli anni priva di contrasto e nitidezza. Non è detto, comunque, che questo fatto debba risultare del tutto negativo. In passato, Romero ha sicuramente pagato lo scotto di una qual certa strumentalizzazione politica, concretizzatasi nella costruzione di un mito tanto ingombrante quanto estraneo alla profonda motivazione cristiana che ne animava l’azione pastorale. Una riscoperta in chiave puramente evangelica della sua persona eviterebbe, forse, di prestare il fianco a pericolose forme di revisionismo e, soprattutto, fornirebbe un modello sempre attuale di testimonianza del Vangelo, senza compromessi e senza frontiere.
Anzi, le battaglie di Romero, proprio perché combattute alla luce e con la forza della Parola e non di un’ideologia, mantengono tutta la loro freschezza e carica ispiratrice, riproponendo una lettura profetica della realtà che, come la Buona Novella, non conosce confini e mai dovrebbe appassire.
Sono innumerevoli, oggi, le sacche di povertà e le situazioni di ingiustizia che chiedono ai cristiani un’azione che sia allo stesso tempo di annuncio e denuncia. La figura dell’arcivescovo di San Salvador, la sua presa di coscienza della realtà e il conseguente, radicale abbraccio al messaggio di giustizia del Vangelo possono e dovrebbero servirci da modello di autentico servizio profetico alla nostra chiesa. Oggi come oggi e anche qui in Italia, il suo «lasciarsi convertire ed evangelizzare dai poveri» rimane per noi una sfida profondamente missionaria, ben sapendo che tale assunzione di responsabilità può arrivare a presentare un conto ben salato.

Di Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Haiti: Alzati e cammina!


Non esiste un altro posto così al mondo. Un paese di figli di schiavi. Ma di schiavi ribelli, che si rivoltano guidati da un grande leader, quale fu Toussaint Louverture e arrivano a sconfiggere le truppe di Napoleone. Così il primo gennaio 1804 nasce la prima repubblica indipendente delle Americhe, con popolazione di origine africana. Ma poi la storia non è clemente e le dittature si susseguono, tra le più feroci quella dei Duvalier, durata trent’anni, che mette in ginocchio il paese. Nei primi anni Novanta uno spiraglio che diventa una speranza per tutta l’America Latina oppressa. La teologia della liberazione sembra incarnarsi in un altro leader, il padre salesiano Jean-Bertrand Aristide, che, appoggiato dalla chiesa di base diventa presidente della repubblica. «Gli haitiani sono un popolo “messianico” hanno bisogno di un leader carismatico, poi lo seguono, in massa» mi diceva padre Jean-Yves Urfié.

Aristide promette di liberare il paese dal giogo degli aiuti e dell’imperialismo. Un cattivo esempio, giudicano a Washington, dove siede George Bush (padre). La Cia organizza un sanguinoso colpo di stato. È il 1991. Aristide non è morto, ma «comprato» e quando sarà riportato al potere dagli Usa di Clinton, è diventato un burattino, che si arricchisce con i soldi degli aiuti e del traffico di droga. Il sogno è svanito. Il popolo ancora tradito. L’isola è in mano alle bande criminali che dettano legge. Uno dei paesi più poveri del mondo, ma forse il popolo più sfortunato. Un popolo accogliente, caloroso. Ma sanguigno, rissoso … per il quale la violenza è ancora uno dei tratti caratteristici. Un paese dai sentimenti forti. Non è un popolo di miserabili, come si vorrebbe. Ma un popolo di grandi artisti, pittori, poeti, scrittori e musici. Jaques Stephen Alexis poeta e scrittore fonda la corrente del «Realismo meraviglioso».

La realtà descritta ha sempre qualcosa di meraviglioso, di magico. Ed è proprio questo Haiti: i confini tra la realtà e la magia si fondano. Terra di gente profondamente religiosa, che ha saputo unire le credenze africane con il cristianesimo, imposto all’inizio dai padroni agli schiavi delle piantagioni. Dove il culto dei morti occupa un posto di particolare importanza. Un popolo al 90% di origine africana, ma non di africani. Che sente le sue radici affondare nell’acqua per cercare di raggiungere la Guiné (come viene chiamata l’Africa in creolo) senza mai arrivarci. Un popolo che ha creato il proprio idioma, kreyol, fondendo lingue africane, francese, un pizzico di spagnolo e poi sempre più neologismi inglesi. Una lingua e una cultura che il grandissimo scrittore Félix Morisseau-Leroy, haitiano doc, ha promosso, fino ad adattare l’Antigone di Sofocle all’immaginario creolo.

Cosa succederà adesso? Duecento anni rasi al suolo in un minuto. Il cuore pulsante di Haiti non c’è più. Un paese povero, vero, dove la speranza di vita è tra le più basse del mondo e grande parte della popolazione vive di stenti. Ma che stava (prima), lentamente, trovando una via per migliorare. Adesso interi settori della società haitiana sono finiti sotto le macerie di Port-au-Prince nell’immane tragedia del 12 gennaio. Il clero, ad esempio, è stato decimato. Tutte le chiese della capitale sono crollate. Poi gli intellettuali, i funzionari, i professionisti (un esempio tra tutti medici e infermieri). Ripercorro con la mente le vie di Port-au-Prince, che è stata la mia città, e penso alla sua gente. Da ricostruire non saranno solo le case, ma la stessa società haitiana. Difficile oggi pensare al dopo. Quando i riflettori si spegneranno. Quando la primissima emergenza sarà passata e le fosse con decine di migliaia di cadaveri saranno chiuse. Quando tutte le infrastrutture saranno da ricostruire e non ci saranno competenze per fare e per gestire. Una generazione di orfani da far crescere. Non ci dimentichiamo di Haiti: un posto speciale, un popolo unico. Non ne esiste uno uguale al mondo.

Marco Bello




Cana (10) UN PROTAGONISTA DELLE NOZZE: IL VINO DEL MESSIA

Il racconto delle nozze di Cana (10)

«E disse: “Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza versato per molti. In verità vi dico che io non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel regno di Dio”» (Mc 14,24-25).
Prima di cominciare il commento del racconto di Cana versetto dopo versetto, dobbiamo incontrare e conoscere, in questa e nella prossima puntata, un protagonista indiscusso dello sposalizio di Cana che è il Vino: all’inizio della narrazione manca ed è motivo di preoccupazione e alla fine abbonda e migliora. In tutto il racconto il vino è citato 5 volte (Gv 2,3[2x].9.10 [2x], mentre, come abbiamo detto a più riprese, la sposa è nominata neppure una volta e lo sposo una volta appena, alla fine del racconto (Gv 2,9) e solo per ricevere il rimprovero del responsabile delle nozze. Tutti questi elementi sottolineano insieme che il vero protagonista dello sposalizio di Cana è lui, il Vino, che assume un ruolo determinante perché in esso si cela una concentrazione straordinaria di significati che dovremo trovare.
Un vino per tutti i popoli
La Bibbia attribuisce a Noè la piantagione della prima vigna da cui ricava il vino, fonte di allegria e di gioia (cf Gen 9,20-21). Il vino è anche una droga al centro di un incesto tra due figlie e il loro padre, Lot, che ubriacano per avere da lui una discendenza per paura di estinguersi (cf Gen 19,30-38). La Palestina, come in tutto il Medio Oriente, è un paese agricolo mediterraneo e l’uva e il vino non solo sono familiari, ma formano parte importante del nutrimento ordinario, se è vero che la terra promessa è descritta come un paese «dove scorre latte e miele» (Es 3,8.17; 13,5, ecc.) e dove abbonda il vino, segno di fertilità, di abbondanza e di gioia (cf Gen 49,11; Dt 33,28). Quando gli Ebrei arrivano ai confini di quella che da terra promessa diventerà il loro paese, Mosè manda alcuni esploratori in ricognizione ed essi ritornano con un grappolo d’uva, colto nelle vicinanze di Ebron, che portano in due (cf Nm 13,23).
Non meraviglia quindi che tanto nella letteratura che nella Scrittura il vino assuma anche un simbolismo molto forte1. Il vino nella tradizione biblica è sinonimo di gioia e di festa come si legge nel Cantico dei Cantici che tutta la tradizione giudaico-cristiana interpreta allegoricamente come il canto dell’alleanza nuziale tra Yhwh e il suo popolo. Qui troviamo anche il nesso tra il vino e le nozze perché non vi può essere allegria senza il vino che diventa anche la misura della tenerezza sponsale: «Sì, migliore del vino è il tuo amore» (Ct 1,2). In ebraico «vino» si dice «yayìn», le cui consonanti (y_y_n) corrispondono al numero 70 (10+10+50), cioè le settanta nazioni che popolano la terra, secondo la convinzione, ancora attuale al tempo di Gesù.
Il Targum mette in relazione «amore» e «vino» contrapponendoli perché il primo simboleggia Israele che Dio ama più di tutte le nazioni, simboleggiate nel secondo: «Per la grandezza del suo amore, con cui ama noi [= Israele] più che le settanta nazioni» (cf Targum a Ct 1,2) a cui fa eco il midràsh: «Il tuo amore è migliore» è Israele; «più del vino» sono le nazioni del mondo; sono le settanta nazioni del mondo. Così ti insegna che Israele è caro al Santo – benedetto Egli sia – più di tutte le nazioni» (Cantico Rabbà, I,19). Nelle nozze di Cana, donando un vino abbondante e migliore del vino precedente, Gesù offre al mondo intero una rivelazione universale per radunare tutti i popoli sotto il segno della manifestazione della «Gloria». Il vino di Cana estende ai popoli senza alcuna riserva l’alleanza del Sinai che prefigura quella che avverrà nel vino/sangue versato sulla croce: «Uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua» (Gv 19,34).
Il Sinai, cantina e scuola della Toràh
Nel Cantico dei Cantici il vino è citato 8 volte e sempre in un contesto erotico-amoroso che trasporta la sposa-Israele verso lo Sposo-Dio (Ct 1,2.4; 2,4; 4,10; 5,1; 7,3.10; 8,2): «Mi ha introdotto nella cella del vino e il suo vessillo su di me è amore» (Ct 2,4). La tradizione rabbinica considera il monte Sinai come la cantina, la «casa del vino» per eccellenza dove fin dalla creazione del mondo Dio ha conservato per Israele il vino buono della Toràh, come spiega dettagliatamente il midràsh:
«“Mi condusse alla casa del vino”: è il Sinai, dove è stata data la Toràh, che è paragonata al vino: “Bevete il vino che io ho preparato” [Pr 9,5]» (Midràsh Numeri Rabbà II, 3).
«Disse l’Assemblea d’Israele: Il Santo – benedetto Egli sia – mi ha condotto alla grande cantina del vino, cioè al Sinai e là mi ha dato gli ordinamenti della Legge e i precetti e le opere buone, e con grande amore li accolsi» (Midràsh Cantico Rabbà II,12).
Per questo il monte Sinai è anche una scuola dove si beve il vino della Parola: «Mosè passò quaranta giorni sul monte: e stava seduto davanti al Santo – benedetto Egli sia – come un discepolo sta seduto davanti al suo maestro» (Midràsh Pirqè/Massime di R. Eliezer XLVI; cf A. Serra, Contributi, 237-238). Al tempo di Gesù, il Targum, cioè la traduzione aramaica della Bibbia ebraica che si faceva in sinagoga per fare capire la Parola nella lingua del popolo, così commentava Ct 2,4 sopra citato:
«L’Assemblea d’Israele disse: Il Signore mi fece salire alla casa di studio della scuola del Sinai perché imparassi la Toràh dalla bocca di Mosè, il grande scriba. E l’ordinamento dei suoi precetti accolsi su di me con amore, e dissi: tutto quello che il Signore ha ordinato lo farò, e obbedirò» (Targum a Ct 2,4).
Al Targum fa eco anche il Midràsh di Cantico Rabbà 2,4,1 (150 ca. a.C.) che dice: «…R. Abba insegnava nel nome di R. Isaac. Disse l’Assemblea di Israele: “Il Santo – benedetto Egli sia – mi introdusse nella grande cantina del vino, il Sinai. E lì mi diede la Toràh che è spiegata da 49 motivi per dichiarare puro e 49 per dichiarare impuro, perché il valore numerico di “vessillo” è appunto 49». In ebraico infatti ad ogni consonante corrisponde un numero (i numeri furono inventati dagli Arabi nel sec. VIII d. C.: prima si usavano le consonanti dell’alfabeto) e in Ct 2,4 la parola «vessillo», in ebraico «wedighelò», è formata dalle consonanti «w_d_g_l_w» la cui somma numerica fa appunto 49. Il vino della Toràh è conservato da Dio ancora prima della creazione del mondo in vista della rivelazione del Sinai e dell’alleanza. Su questo punto la tradizione rabbinica è costante. Nel libro dei Proverbi, infatti, «Donna Sapienza» parla della sua «preesistenza» accanto al creatore:
«22 Il Signore mi ha creato come inizio della sua attività, prima di ogni sua opera, all’origine. 23 Dall’eternità sono stata formata, fin dal principio, dagli inizi della terra. 24 Quando non esistevano gli abissi, io fui generata, quando ancora non vi erano le sorgenti cariche d’acqua; 25 prima che fossero fissate le basi dei monti, prima delle colline, io fui generata, 26 quando ancora non aveva fatto la terra e i campi, né le prime zolle del mondo. 27 Quando egli fissava i cieli, io ero là; quando tracciava un cerchio sull’abisso, 28 quando condensava le nubi in alto, quando fissava le sorgenti dell’abisso, 29 quando stabiliva al mare i suoi limiti, così che le acque non ne oltrepassassero i confini, quando disponeva le fondamenta della terra, 30 io ero con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno: giocavo davanti a lui in ogni istante, 31 giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo» (Pr 8,22-31).
La Mishnà si collega a questa tradizione perché tra le «dieci cose» create prima della creazione del mondo, elenca anche «la scrittura», cioè le lettere dell’alfabeto e «le Tavole della Toràh» che con quelle furono scritte. In altre parole: il vino delizioso della Toràh non è una creatura di Dio, ma è parte di Dio stesso, prima ancora che la creazione avesse inizio:
«Dieci cose furono create al crepuscolo del primo Sabato: l’apertura della terra, la bocca del pozzo, la bocca dell’asina, l’arcobaleno, la manna, la verga [di Mosè], lo shamìr, le lettere dell’alfabeto, la scrittura e le Tavole della Legge. C’è chi dice: anche gli spiriti maligni e la tomba di Mosè nostro maestro, l’ariete di Abramo nostro patriarca e c’è chi dice anche la tenaglia fatta con tenaglia» (Pirqè Avot – Massime dei Padri V, 6; cf Talmud babilonese Pesachìm/Pasque 54a; Midràsh Genesi Rabbà 1,4; Midràsh Levitico Rabbà 19,1).
Secondo il Midràsh Genesi Rabbà 1,1, la Toràh servì a Dio come «modello» per la creazione del mondo, come a dire che Dio guardava la Toràh e creava le cose. Lo stesso concetto si trova in Paolo il quale descrive Cristo come «primogenito di tutta la creazione perché in lui furono create tutte le cose … Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono» (Col 1,15-17; cf Ef 1,4;) e si trova pure in Pietro che presenta Cristo come «agnello senza difetti e senza macchia. Egli fu predestinato già prima della fondazione del mondo, ma negli ultimi tempi si è manifestato per voi» (1Pt 1,19-20). A questa tradizione sulla Toràh preesistente si riferisce Gesù quando prega dal Padre la «gloria», cioè la sua identità di Dio: «E ora, Padre, glorificami davanti a te, con quella gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse … poiché mi hai amato prima della creazione del mondo» (Gv 17,5.24).
Il vino, la manna e il pane della Parola
Questi testi e questa tradizione sulla «preesistenza», conosciuti da Gesù e dagli apostoli, alla luce del simbolismo del vino che rappresenta la Toràh, ci dicono che l’alleanza del Sinai non è un avvenimento secondario, perché in essa si compie una attesa che era un desiderio e un progetto di Dio, ancora prima che il cosmo esistesse. La Parola di Dio (o «Donna Sapienza» secondo il libro dei Proverbi), infatti, è eterna come il pensiero stesso di Dio e il Sinai è il punto di arrivo del disegno di amore di Dio, quel disegno che Giovanni chiama «Lògos/Dabàr» (Gv 1,1) della cui «gloria manifestata» il racconto dello sposalizio di Cana fa da sfondo e da contesto al cuore della rivelazione: l’incarnazione del Lògos: «E il Lògos carne fu fatto» (Gv 1,14), la cui preesistenza è contenuta anche nel targum che traduceva il libro dell’esodo. Riportiamo in parallelo sinottico il testo dell’Esodo e il testo del Targum che veniva proclamato nella sinagoga per fare vedere come le idee e i pensieri detti da Gesù e riportati dal vangelo fossero materia di formazione comune:
Nel Targum «il pane che è conservato» è il pane dei comandamenti e quindi dell’alleanza cioè il pane della parola di Dio che nella e con la Toràh nutre e vivifica il popolo santo. Da ciò possiamo dedurre che il Giudaismo del sec. I fosse in attesa del tempo del Messia come un tempo in cui Dio avrebbe rinnovato anche il miracolo della manna (2Bar 29,8; Or Sib 7,148-149; Rut R. 2,14) e che l’evangelista Giovanni descrive nel mirabile capitolo 6 del suo vangelo. Il pane/manna non è un cibo per sfamare la fame, ma principalmente il cibo che nutre l’obbedienza ai comandamenti del Padre. Gesù mette al centro del suo vangelo il comandamento dell’amore, riducendo ad esso i 613 precetti della tradizione giudaica (cf Gv 12,50; 13,34; 14,15.21; 15,10.12; 1Gv 1,2.3; 2,7; 3,23; 5,2-3; cf 2Gv 5-7). Infine, la manna è la Parola di Dio che si incarna nei comandamenti che nutrono chi li vive, come insegna anche la Sapienza:
«Hai sfamato il tuo popolo con il cibo degli angeli (Lxx: anghèlōn trophên), dal cielo hai offerto loro un pane pronto senza fatica, capace di procurare ogni delizia e soddisfare ogni gusto … perché i tuoi figli, che hai amato, o Signore, imparassero che non le diverse specie di frutti nutrono l’uomo, ma la tua parola tiene in vita coloro che credono in te» (Sap 16,20-21.26).
Il pane degli angeli diventa il nutrimento dei figli di Dio che sono custoditi e conservati direttamente dalla Parola che ascoltano e che praticano nei comandamenti, nel comandamento dell’amore perché «l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore» (Dt 8,3 cf Mt 4,4). Pane e vino sono alimenti della vita dell’uomo mediorientale e diventano anche «sacramenti» dell’alleanza eterna e nuova (cf Ger 31,31) che si esprime e si manifesta nella Parola di Dio consegnata da lui stesso a Mosè sul Sinai. Le nozze di Cana hanno senso dentro questo quadro di riferimento ampio e solenne perché nell’intenzione dell’autore non sono l’occasione per un miracolo da poco, ma spalancano una porta nuova sulla storia dell’Esodo che oggi noi riviviamo attraverso gli sposi assenti, il vino abbondante e «bello», nella presenza della Madre e nel gesto di Gesù perché l’Esodo è ora, è qui. Adesso. [continua – 10]

Paolo Farinella

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1 Sul tema del «vino» (o della vigna) cf J. L. Mckenzi, Dizionario Biblico, a cura di Bruno Maggioni, Cittadella Editrice, Assisi 1978, 1036-37 [vino] e 1042-44 [vite/vigna]; A. M. Gerard, Dizionario della Bibbia, voll. 1-2, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1994, vol. 2°, 1615-17 [vigna] 1617-19 [vino]; sul tema cf anche la bibliografia in A. Serra, Contributi, 227 nota 2.

Paolo Farinella




Cana (9) Rahab anticipa il terzo giorno

Il racconto delle nozze di Cana (9)

Nel libro di Giosuè si narra la presa di Gerico da parte degli Israeliti con l’aiuto della prostituta Rahab che per prima capisce e accetta il disegno di Dio (Gs 2, 9-13).(1) Consapevole che è inutile combattere contro il Signore degli Israeliti, Rahab accetta di collaborare, in cambio della salvezza per sé e la sua famiglia, nascondendo le spie israelite in casa propria. Quando il re viene a sapere che alcune spie sono andate nella casa della prostituta, mette in moto la sua polizia per cercare gli intrusi e ucciderli. Rahab, incurante del pericolo e correndo il rischio di essere accusata di tradimento, fa fuggire le spie dalla finestra che si affaccia sulle mura della città e li manda  verso i monti per sfuggire gli inseguitori del re di Gerico, suggerendo loro di rimanere nascosti là tre giorni» (Gs 2, 16) fino alla fine del rastrellamento. Le spie israelite, si fidano di Rahàb, la prostituta, e le ubbidiscono:  «Se ne andarono e raggiunsero i monti. Vi rimasero tre giorni, finché non furono tornati gli inseguitori. Gli inseguitori li avevano cercati in ogni direzione, senza trovarli» (Gs 2, 22).
Questi i fatti. Nel testo di Giosuè è evidente che i «tre giorni» indicano un tempo di prova e vigilanza che sfociano nella liberazione, perché le spie possano tornare da Giosuè e informarlo sulle difese della città. (2) Il Midràsh Genesi Rabbà 56 – Midràsh Grande, uno dei più antichi, commentando Gen 22, 4 – «Il terzo giorno Abramo alzò gli occhi e da lontano vide quel luogo» – così commenta:

«Il Santo, Benedetto sia! Non lascia i giusti nell’afflizione più di tre giorni come è detto. Dopo due giorni ci ridarà la vita e il terzo ci farà rialzare, così che potremo vivere alla sua presenza (Os 6, 2); il terzo giorno degli antenati della tribù: e Giuseppe disse loro il terzo giorno: fate questo e vivrete (Gen 42, 18); il terzo giorno della Torah: appunto al terzo giorno sul far del mattino, vi furono tuoni (Es19, 16); il terzo giorno delle spie: e nascondetevi lì tre giorni (Gs 2, 16); il terzo giorno di Giona: Giona restò nel ventre del pesce tre giorni e tre notti (Gn 2, 1); il terzo giorno al ritorno dall’esilio: siamo arrivati a Gerusalemme e ci siamo riposati tre giorni (Esd 8, 36); il terzo giorno di Ester: il terzo giorno, quando ebbe finito di pregare, ella si tolse le vesti da schiava e si coprì di tutto il fasto del suo rango (Est 5, 1), cioè si coprì con tutto il fasto dei suoi antenati. Per i meriti di chi [la liberazione arriva il terzo giorno]? I rabbini dicono: “Per merito del terzo giorno in cui è stata data la Toràh”. R. Levi dice: “Per merito di ciò che ha fatto Abramo il terzo giorno, come è detto: Il terzo giorno Abramo alzò gli occhi e da lontano vide quel luogo” (Gen 22,4)».

«Il terzo giorno» è il giorno della salvezza

Il Midràsh usa lo stesso metodo che abbiamo usato noi nella puntata precedente: mette insieme tutti i testi che parlano del terzo giorno e lega questa espressione ad una salvezza realizzata, dopo una attesa o un pericolo. Il Midràsh mette sullo stesso piano figure diverse, come Rahab, la prostituta, e Abramo, il patriarca fondatore, ambedue protagonisti e strumenti di salvezza per Israele. La prostituta che salva le spie di Israele è di fatto la prima profetessa che proclama la salvezza di Dio nella terra promessa, prima che gli Israeliti vi entrino come popolo e mentre, allo stesso tempo, ne prendono possesso simbolico con l’ingresso delle spie. Certamente Gesù, quando affermava: «I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio» (Mt 21,31), aveva ben presente questo Midràsh di Rahab, che a quel tempo era solo orale.
È singolare che l’evangelista inizi il racconto di Cana con una precisazione di tempo così particolare, pre-cisa e posta al principio del racconto, in posizione d’onore, in primo piano, quasi a metterci sull’avviso che non si tratta soltanto di un «lasso di tempo» cronologico, ma di un evento di salvezza, che irrompe nella storia come la teofania di Dio irruppe sul Monte Sinai dove, attraverso il dono della Toràh, Dio diede coscienza agli schiavi fuggiti dall’Egitto di essere un popolo, e un popolo prediletto. Ora a Cana, nasce un nuovo popolo, non nel senso che soppianta Israele –  cosa impossibile –, ma nel senso che lo stesso Israele assiste all’arrivo dei tempi nuovi, i tempi del Messia che viene a portare a compimento la Toràh del Sinai, rinnovandola e lavandola nel vino del proprio sangue, cioè nell’offerta della propria vita. Le nozze, sì, sono pronte, ma non quelle di una anonima coppia, ma quelle di Dio con il suo popolo, le nozze tra il cielo e la terra.
La scala di Gesù, il nuovo Giacobbe

In questa direzione ci porta lo stesso autore del IV vangelo che prima di aprire il racconto di Cana, chiude il capitolo primo con l’allusione alla scala di Giacobbe: «In verità, in verità io vi dico: vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sopra il Figlio dell’uomo» (Gv 1, 51). Subito dopo questo versetto comincia il capitolo 2 con «Il terzo giorno vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea» (Gv 2, 1). Quale nesso vi è fra i due testi? Gli angeli che salgono e scendono è un evidente ed esplicito richiamo a Giacobbe che sogna una scala che unisce la terra al cielo (Gen 28, 10-17).
Con questo testo allusivo a Giacobbe, Giovanni riprende le tradizioni giudaiche che interpretavano la scala di Giacobbe come simbolo del monte Sinai, attraverso la quale salgono e scendono gli angeli che nella tradizione sono Mosè ed Aronne. Oppure la scala è simbolo del tempio di Gerusalemme e gli angeli sono i sacerdoti che salgono e scendono per il culto. Le due simbologie sono presenti nel IV vangelo: l’espressione «il terzo giorno» (Gv 2, 1) richiama il «terzo giorno»  del Sinai (cf Es 19, 11), come molto spesso abbiamo sottolineato. Immediatamente dopo il racconto di Cana, Giovanni riporta il fatto della purificazione del tempio (Gv 2, 13-22), dove Gesù scaccia i mercanti e restituisce al tempio la sua dignità di «casa del Padre». Non solo, ma subito dopo questo fatto, Giovanni riporta una disputa tra Gesù e i Giudei nella quale egli identifica il suo corpo con il tempio e ancora una volta si serve dello schema del «terzo giorno» per annunciare la sua risurrezione: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere» (Gv 2, 19).
Per l’autore del IV vangelo, Gesù è il nuovo Giacobbe, il padre dei dodici figli che daranno origine alle do-dici tribù d’Israele. Egli come la scala del sogno del patriarca, unisce il cielo e la terra perché ora vediamo e sappiamo che «Il Lògos-carne fu fatto» (Gv 1, 14) ed è il tempio che rinnova e purifica il culto, sostituendo il sacrificio di animali con l’offerta della propria vita e realizzando la profezia del profeta Osea: «Poiché voglio l’amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti» (Os 6, 6). Rivelando e manifestando a Cana che Dio è pronto nuovamente per le nozze con Israele e con la nuova umanità rappresentata dai dodici apostoli, Gesù pone le condizioni per una nuova storia di amore e di tenerezza, dove non prevarrà più la durezza del castigo, ma solo la dolcez-za della nuzialità che diventa così la cifra nuova dell’alleanza nell’umanità redenta.

«Il terzo giorno» porta due benedizioni

Il «terzo giorno» ha segnato l’inizio della coscienza di Israele come popolo, perché Dio si manifesta a Israele per dargli la Toràh (Es 19,10-11.16; cf Targum Gionata a Es 19, 24). Allo stesso modo i figli di Israele segnano l’inizio della vita della nuova coppia, celebrando il matrimonio «nel terzo giorno della settimana» e cioè il martedì, secondo il computo ebraico. Questa scelta è legata sia alla tradizione del Sinai, sia con il fatto che nel terzo giorno della creazione (cf Gen 1,9-13), Dio concede due benedizioni: alla creazione della terra e alla creazione dei frutti della terra. Il terzo giorno, giorno della doppia fecondità, è il più indicato per la celebrazione della fecondità dei figli d’Israele. La Legge e la Benedizione, la coscienza e la relazione sono i segni che svelano il volto di Dio nel volto dei suoi figli: come Dio si lega a Israele suo popolo nel «terzo giorno», allo stesso modo, «nel terzo giorno», i figli di Dio si legano tra di loro nella fecondità sponsale, che è la benedizione di Dio Padre e creatore riversata sul mondo presente e futuro. (9-continua)

Paolo Farinella

Paolo Farinella