Cana (12) Un Dio «straniero» abolisce i confini

Il racconto delle nozze di Cana (12)

«Manifestò la sua gloria e i suoi discepoli cominciarono a credere a lui» (Gv 2,11).
Abbiamo riflettuto a lungo sul significato del vino e le sue implicanze, e, senza esaurie la simbologia e i testi, ne abbiamo esaminato i più importanti. Facciamo un passo avanti proponendo l’ipotesi che il racconto dello sposalizio di Cana possa essere un midràsh cristiano della liberazione dalla schiavitù d’Egitto che, passando attraverso «i colpi» (le piaghe) e la peregrinazione nel deserto, trova nel Sinai il proprio fondamento e culmine. All’interno di questa prospettiva, possiamo dare alcune indicazioni ulteriori che ci aiutino a vedere sempre più profondamente Cana in rapporto con il Sinai, mettendo in evidenza analogie e confronti che di primo acchito non sono evidenti.
Nel «segno» di un Dio diverso
Nella mentalità e nella intenzione dell’evangelista, l’evento di Cana è connesso con la 1a delle dieci piaghe con cui Dio ha spezzato la resistenza del faraone perché liberasse Israele dalla schiavitù. La parola «piaga», in ebraico «negà‘» e in greco «plēghê», nel libro dell’Esodo è usata solo per il decimo colpo che convincerà definitivamente il faraone: l’uccisione dei primogeniti (cf Es 11,1). Per i primi nove fatti, descritti nei capitoli 7-10 del libro dell’esodo, l’ebraico usa sempre il termine «’ot» che il greco della Lxx traduce sempre con «sēmeîon» (cf Es 4,8-9.30; 7,9), lo stesso che usa Giovanni per definire lo sposalizio di Cana (cf Gv 1,11). Non si tratta come banalmente si dice di «miracoli» nel senso moderno del termine, ma di «segni» che devono accreditare il Dio di Mosè presso gli Israeliti schiavi e presso il faraone che è invitato a riconoscere la «potenza» del nuovo Dio.
Non entriamo nel merito della formazione del testo del racconto dell’esodo che è la confluenza di diverse tradizioni con riflessioni di natura teologica, scritte in epoca tardiva, ma proiettate in epoca antica da un redattore che sta riflettendo sulla «teologia della storia». Sarebbe inutile, oltre che stupido, volere cercare la spiegazione di questi «segni» in prodigi astronomici o con le scienze naturali, perché si tratta di fenomeni naturali, all’epoca conosciuti, riletti in modo iperbolico per fare risplendere davanti agli Israeliti e al faraone l’onnipotenza del Dio straniero Yhwh che vanta diritti anche dentro i confini dell’Egitto.
Nel 2° millennio a. C. la concezione della divinità era quella del «dio territoriale»: una divinità cioè non aveva poteri fuori dei confini di sua competenza. La divinità è legata alla terra, gli dèi egiziani erano impotenti in Babilonia e quelli di Assiria nulla potevano in terra di Canaan. Il loro sconfinamento era affidato alla guerra: se un popolo vinceva su un altro popolo, gli dèi di questi si sottomettevano a quelli del vincitore. Due esempi classici di «divinità territoriale» si trovano nel ciclo delle gesta di Eliseo: la donna di Zarèpta (Libano meridionale) crede in un Dio straniero annunciato da un profeta straniero che viene da oltre confine e ne riceve il beneficio della farina e dell’olio (cf 1Re 17,10-16); l’altro esempio è Nàaman, capo dell’esercito siriano, affetto da lebbra. Egli va da Eliseo che lo guarisce. Prima di ritornare al suo paese, egli chiede al profeta di potersi portare un po’ di terra d’Israele, quanta ne possono trasportare due muli. Giunto al suo paese, per potere ringraziare il Dio d’Israele che lo ha guarito, è sufficiente che salga su di essa per ritrovarsi «realmente» sulla terra d’Israele (2Re 5,1-27; Lc 4,27). Pregare su quella terra aveva, quindi, lo stesso valore che essere in Israele (è lo stesso principio che sta alla base del tappeto di preghiera dei Musulmani).
Il «segno» non è miracolo
In questo contesto, è evidente che lo scopo dei «segni» operati da Mosè è rivelare agli Israeliti e al faraone che il Dio straniero rappresentato da Mosè non conosce confini, ma è libero di agire nel deserto, nella terra di Madian quanto in Egitto. Allo stesso modo «il segno» di Cana ha lo scopo di «manifestare la gloria di Gesù», cioè la novità del suo messaggio: il Dio che egli annuncia è un Dio non straniero, ma lo Sposo che chiama alle nozze dell’alleanza l’umanità intera qui rappresentata dai discepoli che sono i garanti del «segno» di Cana di Galilea. Il rapporto con l’esodo non è solo letterario, ma riguarda anche il contenuto. Già in Es 4,9, Yhwh preannuncia che Mosè dovrà cambiare l’acqua del Nilo in «sangue» come avverrà con il 1° segno: «Con il bastone che ho in mano io batto un colpo sulle acque che sono nel Nilo: esse si muteranno in sangue … Tutte le acque del Nilo si mutarono in sangue» (Es 7,14-24, qui 17.20). Accennare soltanto al nesso che può intercorrere tra l’acqua cambiata in vino a Cana e l’acqua cambiata in sangue in Egitto, ci fa immediatamente comprendere la portata del racconto evangelico che travalica il fatto dello sposalizio che è un semplice «accidente» di contorno.
Il parallelo più volte sottolineato tra Sinai e Cana è un dato di fatto che balza agli occhi: da una parte la Toràh rivelata e dall’altra la Gloria manifestata; al Sinai è Yhwh che parla, a Cana è il Lògos che si rivela; nell’uno e nell’altro caso domina il tema dell’alleanza in chiave nuziale. Anche il confronto «tipologico» tra Mosè e Gesù è un elemento acquisito e quasi una costante nei vangeli e specialmente in Gv che lo impone fin dal «prologo» come parametro costitutivo: «La Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia della verità fu data per mezzo di Gesù Cristo» (Gv 1,17). Abbiamo tradotto «la grazia della verità» e non «la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo» (Bibbia-Cei 2008) per coerenza con Gv 1,14: «E noi vedemmo la sua gloria,  gloria come di unigenito dal Padre, pieno [della] grazia della verità», dove i due termini ricorrono insieme e nell’uno e nell’altro caso sono una endiadi (1) di rafforzamento.
Da Mosè alla pienezza della verità
Al Sinai fu data «la Legge», ora a Cana è data «la grazia della verità» cioè la pienezza della rivelazione che «venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). Per Paolo la Legge aveva l’obiettivo di guidare alla fede, dunque è nell’ordine dei mezzi, come la Chiesa, come i sacramenti. Per questo motivo l’apostolo la paragona ad un «pedagogo» che ha il compito di accompagnare il discepolo nel cammino di maturazione e di crescita: «Così la Legge è stata per noi un pedagogo, fino a Cristo, perché fossimo giustificati per la fede» (Gal 3,24-25; cf 1Cor 4,15). Ora che è arrivata «la pienezza della verità», si apre la «cella del vino» che è il monte Sinai e inizia la festa delle nozze del Lògos. La figura di Mosè come anticipazione (tipo) di Cristo (antìtipo) è importante nel IV vangelo(2).
Gv infatti lo cita 13 volte (Gv 1,17.45; 3,14; 5, 45.46; 6,32; 7,19.22 [2x].23; 8,5; 9,28.29), ma solo nella prima parte, nel «libro dei segni» e mai nella seconda parte: «il libro dell’ora» che è quella della rivelazione definitiva, della «epifania della grazia per grazia» (Gv 1,14), il cui culmine e fondamento è la morte-risurrezione di Gesù. Interessante la nota che Mosè compare solo nel «libro dei segni», come a dire che egli è nell’ordine del provvisorio e il suo compito è funzionale al profeta che verrà dopo di lui (cf Dt 18,15.18; At 3,22; 7,37). Anche dall’uso del nome e della sua distribuzione nel testo, concludiamo che Mosè apparteneva alla dimensione del mondo finito, dei «segni», ed era proteso verso il suo naturale compimento: «Il Lògos-Sarx/Cae/Fragilità fu fatto» (Gv 1,14). Qui è il vertice di tutta la rivelazione.
Con la sua presenza a Cana, Gesù non rivela solo la «sua Gloria», ma svela anche il ruolo e l’importanza di Mosè nel disegno di Dio che trova nel Sinai il suo fulcro e la sua chiave di lettura: senza Gesù (antìtipo) anche Mosè (tipo) sarebbe sminuito nella sua importanza. Si potrebbe dire che il fatto di Cana è l’evento-cerniera che per Giovanni evangelista salda il cammino dell’AT con quello del NT: l’uno senza l’altro non può sussistere e l’uno diventa il senso o quanto meno il fondamento di senso dell’altro. In questo sta il principio che la Scrittura deve essere letta tutta nel suo contesto globale perché è una storia «unica» che si snoda in molte tappe e che ancora non è finita.
Principio o inizio?
Siamo convinti che il racconto dello sposalizio di Cana con il Vino che fa da protagonista d’eccellenza, sia un midràsh di tutto il racconto dell’esodo. Per capire meglio il testo del vangelo nel contesto di tutta la Bibbia, esamineremo il testo biblico, la versione della Lxx, il targum e infine il midràsh che costituiscono il materiale e l’ambiente dove nasce, si forma e si sviluppa il NT, in modo particolare il vangelo. è evidente che Gv non prende ogni singolo fatto, ma si riferisce ad alcuni di essi che diventano così emblematici e quindi tipologici. L’obiettivo a cui tende il racconto è Gv 2,11: «Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui». Così almeno la traduzione corrente, anche dell’ultima edizione della Bibbia-Cei (2008), che nella nota al versetto spiega: «[Gv] 2,11 Questo … fu l’inizio dei segni»: non solo il primo dei segni, ma il modello di tutti (questo è il significato della parola greca tradotta con inizio). Difatti il miracolo di Cana ha rivelato la divinità (gloria) di Gesù e ha aperto ai suoi discepoli il significato delle opere prodigiose (che Gv preferisce chiamare segni)». Non fu solo il primo segno, ma un «modello».
Secondo noi, mantenendo l’uniformità con il prologo, Gv 2,11 non deve essere tradotto con «inizio dei segni», perché si darebbe una connotazione temporale che l’autore esclude volutamente, ma si deve tradurre così: «Questo principio dei segni fece Gesù in Cana di Galilea, e manifestò la sua gloria e i suoi discepoli cominciarono a credere a lui». L’evangelista, infatti, usa il termine «archê» che in Gv 1,1 tutte le Bibbie traducono correttamente con «In principio» e non si capisce perché la stessa parola qui debba essere tradotta con «inizio» dandovi una connotazione temporale, mentre in Gv 1,1 deve essere tradotta con «principio» che invece ha una valenza fondativa, cioè di senso profondo. Inoltre la frase «i suoi discepoli cedettero in lui» per noi ha un valore non compiuto, ma ingressivo perché comincia a svilupparsi, lasciando davanti a sé uno spazio per una maggiore maturazione che, secondo noi, avverrà dopo la morte/risurrezione di Gesù con l’opera del Paràcleto (cf Gv 14,26). La traduzione più consona è dunque: «I suoi discepoli cominciarono a credere a lui», cioè mettono in moto un’attitudine verso Gesù, perché la fede non è un atto acquisito una volta per tutte, ma un processo, un cammino, una maturazione.  
Dalla non-fede a «cominciarono a credere»
Il riferimento alla fede iniziale dei discepoli non è una nota folcloristica o ascetica, ma un preciso commento teologico che Gv mette in relazione con il «principio» della fede incipiente dei discepoli. Si crea così un confronto aperto tra esso e Mosè che invece è nella esperienza del roveto ardente si mostra uomo «di poca fede», cercando di svignarsela opponendo ostacoli motivati forse dalla paura (Es 3,1-15). Al «segno» (sēmêion) che Dio dà dal roveto, l’arrivo cioè al monte Sinai (cf Es 3,12), Mosè risponde con una obiezione d’incredulità: mi chiederanno chi mi manda, non si fideranno (cf Es 3,13) che diventa certezza di rifiuto, anzi opposizione dichiarata. A Dio che garantisce «ascolteranno la tua voce» (Es 3,18), Mosè risponde coinvolgendo nella sua incredulità coloro che nemmeno conosce e attribuendo loro la certezza della non-fede, ipotecando la loro fede. Egli cioè, attribuisce agli assenti atteggiamenti e sentimenti di cui lui non può disporre: «non mi crederanno, non daranno ascolto alla mia voce» (Es 4,1). Mosè non vuole nemmeno «cominciare» a credere perché l’obiezione è una scusa per esimersi dalla sua missione. Qui è il dramma: Mosè estende la sua non-fede agli assenti. Alla fine, dopo una lunga intervista e contrattazione con Dio (cf Es 3,13-4,1), Mosè accetta il compito di tornare in Egitto a liberare gli schiavi, ma pagherà amaramente, come vedremo, questa sua incredulità.
A Cana invece, i discepoli videro la «Gloria» e «cominciarono a credere», come anche l’atteggiamento della Madre, simbolo del popolo d’Israele credente e in attesa di Dio, che si abbandona con fiducia alla parola del Figlio, nonostante la sua resistenza: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela» (Gv 2,5). Da una parte l’incredulo Mosè che trascina nell’incredulità anche coloro che dovrebbe liberare e dall’altra la fede senza riserve della Madre-Israele e dei discepoli-Umanità. Vi è la contrapposizione di fede/non fede che nel Prologo viene individuata nel binomio luce/tenebra (cf Gv 1,5.9.11). Dio si era impegnato in prima persona con parole che avrebbero dovuto smuovere qualsiasi dubbio: la liberazione degli schiavi d’Egitto è «già avvenuta», è scontata. L’autore, infatti, mette in evidenza che Dio non è ancora intervenuto e usa i verbi del suo agire al passato [tranne il terzo], come se fossero già conclusi: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto» (Es 3,8). Anche a Cana è Dio stesso che è convocato alle nozze: «Fu invitato alle nozze anche Gesù» (Gv 2,2) che è una annotazione strana e superflua nel contesto di un matrimonio in Palestina, a cui partecipa tutto il villaggio con parenti e amici. L’evangelista poteva/doveva omettere questa indicazione dell’invito, a meno che non avesse avuto una ragione nascosta per sottolineare la «presenza» di Gesù che non è casuale; come se dicesse che Gesù doveva e voleva andare alle nozze perché in quello scenario di sottofondo avrebbe cominciato a svelare qualcosa della sua personalità e della sua gloria, cioè della sua divinità. – [continua – 12 ]

Di Paolo Farinella

Note

(1) Endiadi
Dal Greco «hèn – una cosa / dià – per mezzo / dyòin – due», endiadi è una figura retorica con cui si esprime un concetto attraverso due o più parole: in questo caso «grazia e verità» sta per «grazia della verità» e riguarda la «rivelazione» nuova, fatta da Gesù. Mosè è legato all’alleanza del Sinai che conduce alla rivelazione definitiva del Lògos in Gesù di Nazaret (su queste questioni e temi cf F. Manns, L’Evangile de Jean, 29-30 e relativa bibliografia; v. inoltre M.-E. Boismard, Moïse ou Jésus, essai de christologie johannique, Leuven 1988, 22-46).
(2) Il Confronto tipologico
Si chiama «tipo» una figura o un personaggio o  un fatto precedente che anticipa una figura o un personaggio o un fatto successivo che invece viene chiamato «antìtipo» dal greco «antìtypon – cosa che accade dopo». Nell’esegesi biblica, un fatto del NT è «antìtipo» di un analogo fatto dell’AT o «tipo» che ne aveva dato l’anticipazione profetica: es. Gesù nel sepolcro per tre giorni è «antìtipo» di Giona che resta tre giorni nel ventre della balena e che è quindi  il «tipo». L’arca di Noè è il «tipo» del battesimo che è l’«antìtipo» (cf 1Pt 3,20-21).

Paolo Farinella




Il sogno di Jeff

Israele e Palestina: tra pareti abbattute e muri eretti

È possibile avviare un processo di riconciliazione, oggi, tra Israele e Palestina? Lo abbiamo chiesto all’antropologo e attivista isrealiano Jeff Halper, direttore del Comitato isrealiano
contro la demolizione delle case (Icahd).

Più di una volta la nostra rivista ha affrontato il tema del conflitto isrealiano- palestinese. Vorremmo chiedere se, oggi come oggi, vedi una qualche possibilità di riconciliazione fra le due parti.
Parlare di  riconciliazione è  prematuro. Questa può e deve avvenire soltanto dopo aver stabilito un accordo di pace. Ci sono stati in passato molti tentativi di dialogo tra israeliani e palestinesi; continuiamo  sempre a dire che faremo lo sforzo di capirci di più, che ci conosceremo meglio, che parleremo dei nostri problemi… Purtroppo, sono tutti tentativi che, in realtà, non hanno mai funzionato; anche perché il governo israeliano non ha mai manifestato la volontà di smantellare, far cessare l’occupazione. Né che al governo ci fossero i laburisti, il Likud, o qualsiasi altro partito.
Chiaramente, quando i palestinesi entrano in dialogo con gli israeliani che fanno parte di un movimento di pace, si rendono conto che questi ultimi non sono in realtà capaci di influenzare la politica del loro governo e quindi il dialogo si esaurisce ben presto perché i palestinesi dicono: «Non possiamo normalizzare le relazioni, imparare a conoscere meglio voi israeliani, diventare amici e, nel contempo, continuare a subire l’occupazione». Bisogna eliminare l’occupazione dai territori palestinesi e poi si potrà iniziare a dialogare. Non possiamo mettere il carro davanti ai buoi.

Cosa ostacola l’inizio di un processo di normalizzazione e, quindi, di pace e riconciliazione?
Il vero problema è rappresentato dalla politica e dalle strategie politiche che vengono prima di ogni processo di riconciliazione. Ciò che mi sorprende sempre è il fatto che non vi sia odio fra la gente comune delle due parti in conflitto. Anzi, in questo senso, penso che siamo noi israeliani ad essere in difetto. Siamo indifferenti ai palestinesi, non ci importa di loro, non ci importa neppure di odiarli; semplicemente, viviamo la nostra vita. Loro sono arabi, vivono sullo sfondo, appartengono allo scenario, non influenzano la nostra vita, siamo convinti di potee fare a meno. L’economia israeliana sta andando bene, il turismo si sta riprendendo… gli israeliani si sentono tranquilli. Il fatto è che noi possiamo  vivere tranquillamente con l’occupazione, non ci pensiamo neppure all’occupazione. Ecco il vero problema.
Per contro, la maggior parte dei palestinesi andrebbe anche d’accordo con gli israeliani… Tutto sommato, non credo che sentano odio verso di noi. L’anno scorso ho fatto parte di uno dei primi gruppi che sono riusciti ad entrare a Gaza rompendo l’assedio dopo l’operazione «Piombo fuso». Ero l’unico isrealiano. e c’erano un sacco di persone che mi chiamavano, mi invitavano per un caffè; alcuni, i più anziani, volevano perfino parlare ebraico. E non di politica, non volevano fare discorsi politici…si chiedevano semplicemente come si sarebbe potuti uscire tutti insieme da questa situazione, da questo marasma che si era creato. Era una conversazione fra gente comune che non discuteva di soluzioni «politiche» come quelle che si potrebbero prendere a livello governativo: gli isrealiani qui, i palestinesi dall’altra parte;  meglio una soluzione che contempli uno stato unico, oppure due stati… Niente di tutto ciò. La conversazione partiva dal dato di fatto che ci fosse un “noi” da tenere presente, protagonista di tutta la vicenda: «Perché “noi” non possiamo semplicemente vivere in questo paese? “Noi”, israeliani e palestinesi. Già viviamo tutti nello stesso paese, perché non possiamo convivere tranquillamente?». Questo discorso, fatto da gente comune, mi ha colpito profondamente; è stato importante per me ascoltare ciò che la gente mi stava comunicando. Se loro avessero detto: «Noi palestinesi “dobbiamo” vivere con voi israeliani, siamo costretti a farlo, ma non lo vorremmo assolutamente», la situazione sarebbe stata radicalmente diversa. Ma quello che si stava invece dicendo è: «Siamo qui tutti insieme, allora viviamo in pace tutti insieme». E, lo diceva la gente comune, che è comunque la maggioranza. Su questa base potrebbe iniziare un cammino di riconciliazione, ma la premessa è, ovviamente, la possibilità di avere una vera pace.

E dal punto di vista di Israele?
Non è che la gente di Isreale sia di principio contro la pace; semplicemente agli israeliani non importa nulla di impegnarsi in un processo di pace. L’insistenza dei governi  non è sull’idea di pace, ma su quella di sicurezza, cosa che convince la gente della necessità di continuare l’invasione, di costruire il muro, ecc..
Gli israeliani, per dirla molto brutalmente, possono convivere tranquillamente con l’occupazione, non trovano una seria motivazione per terminare con essa; non c’è una vera pressione internazionale che possa obbligarci ad agire diversamente, l’economia tira, le condizioni di vita della gente sono tutto sommato favorevoli, il terrorismo è in calo e ci si sente sicuri, quindi… 
Il grande problema è che il ritornello della nostra classe dirigente, sia di sinistra che di destra, è sempre stato: «Gli “arabi“ (noi non usiamo il termine palestinese, perché non li riconosciamo come tali), sono fatti così, sono nemici permanenti, ci odiano, non cambieranno mai».
Uno si rende conto che la cosa è semplicemente ridicola, ma è ciò che gente comune crede. La gente dice: «Noi vorremmo la pace ma gli arabi non lo permetterebbero mai. Abbiamo lasciato Gaza e hanno iniziato a lanciarci dei missili, se ora abbandoniamo anche la West Bank sarebbe ancora peggio».
Anche coloro che non hanno mai partecipato direttamente all’occupazione, che non sono mai diventati coloni, sono però convinti che gli «arabi» ci vogliano buttare a mare. E se si dà eccessivo credito a questa visione, viene meno la fiducia nel trovare una soluzione politica al conflitto e cresce la tentazione di appoggiare i partiti più intransigenti nei confronti dei palestinesi e meno inclini a cercare soluzioni politiche e più favorevoli a quelle militari. È un circolo vizioso dal quale è difficile uscire.
La cosa veramente sorprendente è che pur essendo Israele una società aperta, il 90% degli israeliani ha approvato l’invasione di Gaza dell’anno scorso. È un dato incredibile, testimone di un sentimento assolutamente trasversale, che va ben al di là della dialettica politica fra destra e sinistra.  Un sacco di gente di sinistra ha accettato l’idea che, per la nostra sicurezza, noi dobbiamo usare la mano dura nei confronti dei palestinesi.
Israele non vuole accettare nessuna responsabilità e preferisce presentarsi come una vittima. È un fenomeno che appare chiaro anche solo dalla lettura quotidiana dei giornali; per esempio, si giustifica la costruzione del muro per cercare di evitare che i “terroristi” vengano messi a contatto, si mischino con le loro “vittime”. Se tu sei la vittima non potrai essere considerato responsabile e Israele è proprio questo che non accetta: la responsabilità.
Chiaramente, per poter continuare ad essere la vittima ed evitare di assumerti le tue responsabilità è meglio non conoscere, essere lasciati nell’ignoranza delle cose. Lascia che ti faccia un esempio. Uno dei miei migliori amici, professore universitario in Israele, definisce il muro “lo steccato”. Gli sembra una parola migliore, più elegante. Gli ho detto varie volte: «Dammi 10 minuti che ti faccio fare un giro in macchina e ti faccio vedere questo «steccato di cemento alto 8 metri », ma lui si è sempre rifiutato, anche perché dopo averlo visto non potrebbe continuare a chiamare tranquillamente «steccato» un muro di quel genere. C’è quasi come uno sforzo conscio e deliberato da parte nostra di non vedere, di non vedere e di non sapere. Così possiamo continuare tranquillamente a giocare il ruolo di vittime…

Qual è il tuo sogno? Che paese vorresti lasciare nelle mani dei tuoi nipoti?
Vorrei che Israele fosse un unico stato democratico, non in un territorio con due stati differenti.  Questo è il sogno. Oggi, però, ci troviamo in una situazione politica particolare in cui, se da una parte l’idea dei due stati va esaurendosi , occorre constatare realisticamente che non siamo ancora pronti per rivendicare l’idea di un unico stato. Ma cosa vorrei davvero arrivare a vedere, sarebbe un qualcosa di simile a ciò che era la Comunità Economica Europea 30 anni fa: una confederazione economica. In altre parole: Israele, Palestina, Giordania, Siria, Libano a formare un territorio in cui tutti siano liberi di muoversi, di lavorare, di vivere liberamente al suo interno: una sorta di piccola Schengen medio-orientale. Questa, credo, sarebbe un’alternativa possibile ed idonea alla nostra situazione. Lo dico perché non penso che la soluzione dei nostri problemi si possa trovare all’interno dei confini di un unico stato; sono tutti problemi regionali (acqua, sicurezza, sviluppo, rifugiati), che non possono essere circoscritti al  territorio israeliano-palestinese. Bisogna guardare a un’unità più vasta, che comprenda anche i paesi arabi più vicini. Questo darebbe inoltre più sviluppo economico all’interno della regione. Peccato che, purtroppo, nessuno stia riflettendo e lavorando seriamente a questa idea.

Che cosa significa l’uso del bulldozer in un contesto di guerra? Che messaggio trasmette?
Nel contesto del conflitto che stiamo vivendo, i messaggi che vengono trasmessi sono essenzialmente due; il primo è: «Noi siamo al potere e non abbiamo bisogno di voi. Nessun discorso di uguaglianza, non siamo soci… questo è il nostro paese». Il secondo, conseguenza del primo, è: «Fuori di qui!».
 Se tu neghi una casa ad una persona, è come se gliela negassi anche collettivamente, neghi a questa persona il diritto di appartenere a una comunità, il diritto di avere una patria. Questo è il messaggio di fondo che si vuole trasmettere se si demolisce la casa di un altro. La politica delle demolizioni portate avanti dal governo israeliano rappresenta in un certo senso la vera essenza del conflitto. Dal 1967 ad oggi Israele ha demolito più di 24 mila abitazioni palestinesi nei territori occupati. Il nostro lavoro per la riconciliazione consiste oggi soprattutto in questo aspetto. Quando noi ricostruiamo case lo facciamo anche in vista dell’avviamento di un processo di riconciliazione… Diciamo che il nostro lavoro di riconciliazione è oggi politico: consiste nell’essere presenti, nell’aiutare, appoggiare, ma sul territorio consiste nel resistere fisicamente alla demolizione. Resistiamo, ci incateniamo fisicamente alle case perché non vengano distrutte e per questa ragione veniamo anche arrestati… Inoltre, raccogliamo dei fondi per ricostruire case che sono state demolite. È un’azione pacifica di resistenza, non un atto militare. Negli ultimi 10 anni abbiamo ricostruito 165 case, siamo palestinesi e israeliani, uniti in un atto politico e non-violento di resistenza. Vi sono case che sono state distrutte anche due, tre, volte e noi ogni volta le ricostruiamo. Forse non si può materialmente parlare di riconciliazione, ma si tratta, comunque,  diun tentativo per mantenere viva la solidarietà, la nostra voglia di vivere e lavorare insieme. Quando intravedi una soluzione politica dei conflitti allora anche la riconciliazione diventa possibile; i palestinesi vedono che vi sono israeliani che hanno voglia di impegnarsi per una pace giusta. Senza questo ponte politico fra le due parti non credo che si possa arrivare un giorno a parlare di riconciliazione. 

Di Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Resistere Resistere Resistere

Taybeh: ultimo villaggio interamente cristiano

Tre campanili e nessun minareto: l’antica Efraim è l’unico villaggio palestinese interamente cristiano, ma è a rischio estinzione: varie iniziative provvedono lavoro e motivazioni perché la gente resista alla tentazione di emigrare.

La sua storia risale a migliaia di anni prima di Cristo, quando arrivarono nella regione alcuni clan cananei, provenienti dalla penisola araba; una storia travagliata fin dal nome, citato almeno sei volte nella bibbia come Ofra, Efron, Efraim, Afra, finché nel 1187 il Saladino gli diede il nome definitivo: era capitato che, ricevendo gli omaggi di una delegazione di Afra, il presentatore storpiò talmente il nome da significare «demonio malefico»; affascinato dalla bellezza e gentilezza dei delegati, il condottiero musulmano cambiò il nome in «Taybeh», che significa «Bello di nome».
Taybeh è bello anche di fatto, con le sue casette bianche appollaiate su una collina sassosa, 35 chilometri a nord-est di Gerusalemme, ai margini della Samaria e del deserto di Giuda. Visto da lontano assomiglia ad altri innumerevoli villaggi arabi disseminati nelle zone collinose della Terra Santa; è così piccolo che non figura sulle mappe ufficiali di Israele e Palestina; ma quanto più ci si avvicina tanto più appare la sua singolarità: al posto del solito minareto e rispettiva moschea, spiccano tre bei campanili di altrettante chiese cristiane: la cattolica latina, che conta oltre 750 fedeli, quella greca-ortodossa con poco più di 450 membri e quella greco-cattolica o melchita con circa 160 seguaci.
Storia e tradizioni
«Taybeh è l’unico villaggio della Terra Santa abitato da soli cristiani: tutti arabi. Anch’io sono arabo, nato a Jenin 42 anni fa; dal 2002 sono parroco della comunità cristiana di rito latino» esordisce don Raed Abusalhia, parlando ai visitatori, come fa ogni domenica dopo la celebrazione della messa. Di solito li accoglie nella «Sala del divano», ammobiliata come una tenda di beduini; questa volta, però, ci raduna tutti in chiesa, poiché due gruppi di ospiti (indiani del Kerala e cristiani uniati di San Francisco, Usa) sono troppo numerosi.  
«Gli abitanti del villaggio sono tutti arabi – ripete don Raed – e si vantano di essere stati evangelizzati da Gesù in persona, come si legge nel vangelo». Dopo la risurrezione di Lazzaro, racconta l’evangelista Giovanni, «i sommi sacerdoti e i farisei riunirono il sinedrio… e decisero di uccidere Gesù. Pertanto egli… si ritirò di là nella regione vicina al deserto, in una città chiamata Efraim, dove si trattenne con i suoi discepoli» (Giovanni, 11,47-54).
L’enunciato evangelico è molto scao. Ma ci ha pensato la fantasia mediorientale a fornire altri dettagli, a cui si ispira anche don Raed. «Gesù venne in questo luogo per quattro motivi – continua il parroco. Primo perché la Samaria è un posto tranquillo e i samaritani sono ospitali; secondo perché questo era un luogo di rifugio e chi vi accorreva godeva di immunità e non poteva essere perseguito neppure dai rabbini; terzo perché qui Gesù aveva degli amici a cui ricorreva nelle difficoltà; soprattutto egli venne in questo luogo quasi desertico per prepararsi agli ultimi eventi della sua vita, come aveva già fatto tre anni prima, ritirandosi a pochi chilometri da qui, sul monte della Quarantena o delle Tentazioni, per prepararsi alla sua vita pubblica».
Secondo la tradizione, proprio sulla strada verso Efraim sarebbe avvenuta la guarigione dei 10 lebbrosi (Luca 17,12) e il samaritano guarito avrebbe accompagnato Gesù fino al villaggio, gridando talmente la sua felicità che gli apostoli ne furono irritati. Ma Gesù, continua la leggenda, si fermò, chiamò il samaritano, lo benedisse e lo congedò. L’uomo, baciando il suolo, chiese un nuovo nome e Gesù lo chiamò «Efraim», che significa «doppio frutto», cioè, la vita ricevuta due volte.
Un’altra tradizione racconta che, arrivato ad Efraim, i notabili del villaggio lo invitarono a restare con loro, poiché quelli del tempio lo odiavano, e un ragazzo gli corse incontro con un melograno. Gesù ne approfittò per raccontare una parabola. Spaccò il melograno e lo mostrò ai presenti, dicendo: «I chicchi di questo frutto sono dolci, come sapete, ma sono racchiusi in una membrana molto amara. Così il Figlio dell’uomo deve passare attraverso le amarezze della morte, prima di gustare la dolcezza della risurrezione».  
Anche alla Madonna, venuta a Taybeh per trovare il Figlio, la gente avrebbe offerto un melograno. A tale leggenda si ispira l’icona della «Madonna di Efraim», in cui la vergine è rappresentata con in mano il melograno, frutto sacro in oriente, simbolo di pienezza, fecondità ed eternità.
«Leggende a parte – continua il parroco – i cristiani di Taybeh rivendicano la discendenza apostolica della loro fede e la consapevolezza di avere mantenuto vivo il vangelo da due mila anni senza interruzione, resistendo all’islamizzazione avvenuta invece nel resto della Palestina. Tale resistenza e costanza nella fede è testimoniata dalle rovine di due antichissime chiese bizantine costruite nel paese fin dall’inizio del IV secolo. In una di esse, El Khader o chiesa di san Giorgio, potete vedere il battistero in cui gli abitanti di Taybeh hanno attinto e continuano ad attingere la fede cristiana» (vedi riquadro).
Uniti  dalla stessa sorte
Taybeh è un laboratorio di ecumenismo. I parroci delle tre comunità formano un comitato che si incontra una volta al mese per discutere i problemi della gente, trovare soluzioni ed anche per pregare insieme, fatto non comune in Terra Santa. Tale intesa è necessaria anche perché molte famiglie, in seguito ai matrimoni misti, fanno parte di più chiese. Per evitare confusioni in famiglia e di fronte ai musulmani, le tre chiese hanno concordato di celebrare natale e pasqua nelle stesse date, nonostante le differenze di calendario: natale il 25 dicembre, secondo il calendario gregoriano-latino, e pasqua seguendo il calendario giuliano-ortodosso.
«Qui pratichiamo l’ecumenismo della vita. Non capisco perché, con tanti incontri ecumenici ad alto livello non si riesca a stabilire una data definitiva per la pasqua valida per tutte le chiese cristiane nel mondo, senza dipendere dalle fasi della luna» sottolinea polemicamente don Raed, tra sonori applausi degli uniati americani.
«Coltiviamo buoni rapporti anche con i musulmani: una quarantina locali (“ospiti di passaggio” dicono i paesani), e quelli dei 16 villaggi circostanti. Noi cristiani ci sentiamo palestinesi a tutti gli effetti. Viviamo insieme da almeno 14 secoli e ci sentiamo un solo popolo: stesse tradizioni, stessa lingua, stessi problemi, stessa sorte. Nel conflitto in corso non rappresentiamo una terza parte, ma siamo sulla stessa barca con i nostri fratelli musulmani e abbiamo a cuore la liberazione della nostra terra in modo pacifico, senza essere antisemiti né anti-israeliani».
Don Raed insiste nell’affermare che lui e la sua comunità sono arabi, per confutare una certa «propaganda» che identifica il cristiano con l’occidentale e lo contrappone all’arabo islamico. «A volte ci capita di essere vittime di reciproci “pregiudizi”, ma con il dialogo riusciamo a superarli». Lo prova il fatto che gli alunni più piccoli della scuola del Patriarcato Latino sono per un terzo musulmani: vengono dai villaggi vicini, compagni di scuola dei ragazzi di Taybeh con normalissime relazioni di amicizia.
«Noi cristiani – continua don Raed – non vogliamo essere definiti “minoranza”: parola che in arabo ha la stessa radice di debole, perseguitato, straniero. Niente di tutto questo. La nostra rilevanza non dipende dal numero, ma dal tipo di presenza e testimonianza che riusciamo a garantire». Ma non si pensi che sia facile restare cristiani in Terra Santa. «Il problema principale è la mancanza di libertà, in seguito all’occupazione militare israeliana e alla politica di sicurezza, diventata più oppressiva dopo lo scoppio della seconda intifada» spiega don Abusalhia. Centinaia di chilometri di «muro», posti di blocco, check points tengono i palestinesi prigionieri nei loro territori, dai quali non possono uscire senza uno speciale permesso, rilasciato dall’amministrazione israeliana solo per motivi particolari.
Tale isolamento è reso più pesante dalla politica di colonizzazione perseguita dal governo ebraico senza sosta e con ogni mezzo, comprando dai palestinesi o espropriando con la forza i loro terreni. Attoo a Taybeh ci sono già cinque insediamenti ebraici e quello di Ofra continua ad espandersi, erodendo anche il territorio del villaggio cristiano. Tale politica rende più difficile gli spostamenti anche all’interno dei territori palestinesi: alcune strade sono riservate esclusivamente alle auto dei coloni israeliani, costringendo i palestinesi a nuovi e più lunghi percorsi. «Prima della costruzione di Ofra – precisa don Abusalhia – il percorso tra Taybeh a Ramallah era di 13 chilometri; oggi è di 35».
Sopravvivenza a rischio
Conseguenza di tale situazione è l’emorragia migratoria, che minaccia la sopravvivenza del villaggio cristiano, al pari della presenza cristiana nel resto della Terra Santa. Prima della guerra dei sei giorni (1967), Taybeh contava 3.400 abitanti; oggi sono più che dimezzati; almeno 7 mila persone originarie di Taybeh sono sparse per il mondo, in America, Giordania o semplicemente a Gerusalemme.
Per frenare tale emorragia le autorità religiose e civili di Taybeh hanno posto in atto varie iniziative. Prima di tutto, contro la minaccia della colonizzazione, è stato costituito un fondo comune, con il contributo degli emigrati, per acquistare i beni di chi decidesse di emigrare: una legge non scritta, ma scrupolosamente osservata, proibisce di vendere ai non cristiani le proprietà, terreni e case, che devono passare da padre in figlio.
Ma non basta: bisogna motivare la gente a restare nel paese, foendo lavoro e prospettive per il futuro. La chiesa ortodossa ha lanciato il progetto per la costruzione di 20 abitazioni: alla raccolta dei fondi contribuiscono anche cattolici romani. «La spesa prevista è di un milione di dollari» chiarisce don Raed, con un sorriso accattivante verso gli uniati americani.
«In tempi di check point e strade chiuse – continua don Raed – è quasi impossibile raggiungere l’ospedale di Ramallah o Gerusalemme; in questi anni, nei check point abbiamo avuto la nascita di 76 bambini e 24 decessi tra madri e bambini. Per questo abbiamo dovuto ingrandire il centro medico, foendolo di una sala parto e altre piccole strutture di emergenza. Oggi il centro medico, nonostante la sua minuscola taglia, offre tutti i servizi di un vero ospedale. E questo grazie al vostro aiuto» conclude il parroco ammiccando agli estasiati americani. E continua senza distogliere lo sguardo dal gruppo califoiano: «Cerchiamo sponsor e volontari per sostenere la scuola, che oggi accoglie oltre 450 alunni, dall’asilo al liceo, e la nostra Beit Afram, la casa di riposo per anziani e di riabilitazione per handicappati, realizzata nel 2005 con fondi donati dalla parrocchia di San Lorenzo in Firenze e gestita dalle suore Figlie dell’Addolorata».
A Taybeh c’è anche una casa di accoglienza per pellegrini e gente di passaggio, intitolata a Charles de Foucauld, il quale passò a Taybeh una prima volta nel 1897 e vi ritoò l’anno seguente per una settimana di ritiro, dal 14 al 21 marzo, traendo da qui ispirazione per ben 35 pagine dei suoi scritti spirituali.
Olio extra vergine e…
 per la pace
La parrocchia cattolica, essendo la più numerosa e meglio organizzata, è l’asse portante di tutto lo sviluppo del paese, valorizzando al massimo le risorse locali e con gli aiuti che vengono dall’estero. «Ma noi cristiani di Terra Santa non vogliamo restare mendicanti, dipendere dagli altri. La nostra gente ha voglia di lavorare e creare prodotti di qualità» continua il parroco.
Appena arrivato a Taybeh don Raed ha creato la Olive Branch Foundation (Fondazione ramo d’olivo) che ha finanziato la realizzazione di un moderno oleificio e l’avvio di laboratori artigianali per la produzione di oggetti di legno d’olivo, sapone, candele, maftul (cuscus), ceramiche… La produzione dell’olio di oliva è un’attività ancestrale a Taybeh, praticata da 300 famiglie su 380, con oltre 30 mila olivi e altri 180 mila nei territori dei villaggi circostanti. Ma l’intifada e relative misure di sicurezza israeliane hanno reso difficile il mercato dell’olio di Taybeh, dimezzandone il prezzo e riducendolo a moneta di baratto.
La gente era così scoraggiata che non si curava più di raccogliere le olive. «Un anno, all’apertura delle scuole, molta gente si trovò senza soldi per pagare la tassa scolastica – racconta don Raed -. Dissi che potevano pagare con l’olio: sei taniche da 16 litri all’anno per ogni studente. Mi ritrovai con oltre trenta ettolitri d’olio d’oliva da smaltire, in compenso la gente trovò nuovo coraggio».
L’installazione a Taybeh del frantornio moderno, senza più dipendere da quello di Silwad, ha permesso di ottimizzare la produzione dell’olio con certi accorgimenti tecnici, come la raccolta ritardata delle olive e la frantumazione in giornata, cosicché l’olio può  essere classificato come «extra vergine». «Nel 2003 – continua don Raed – abbiamo firmato un contratto con una Ong francese, Ater Ego, che assorbe gran parte della produzione locale: oggi l’olio di Taybeh viene venduto in 4 mila supermercati francesi, mentre i prodotti artigianali, tramite il commercio equo-solidale, vengono spediti in ogni parte del mondo».
Un’altra idea del vulcanico parroco, lanciata nel 2004, è la «lampada della pace», una ceramica a forma di lucerna tradizionale o di colomba, che oltre a dare lavoro e di che vivere dignitosamente ad una ventina di famiglie, vuole richiamare l’attenzione sulla Terra Santa, straziata da decenni di conflitto israelo-palestinese, in una situazione che a tutt’oggi sembra senza via di uscita. «Ci resta un ultimo rimedio: rivolgiamo al Signore la nostra preghiera per la pace in Terra Santa, attorno a un’idea semplice e simbolica: la lampada, con olio e luce, è un messaggio di pace da parte nostra e un segno di solidarietà da parte vostra» spiega il parroco sempre rivolto agli americani.
Il suo obiettivo è far giungere le «lampade della pace» a più di 100 mila chiese in tutto il mondo. «Con una tale catena di preghiera che unisce i cristiani di tutto il mondo, il buon Dio ascolterà il nostro appello, non avrà altra scelta!» conclude don Raed, volgendo lo sguardo accattivante anche agli indiani del Kerala.

Di Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Cari missionari

I conti della pace

Riflettendo sulla lettera «Armi e bandiere» (Missioni Consolata dicembre 2009), e senza entrare nel merito dell’opportunità o meno dell’acquisto degli F-35, ho pensato di mettere a disposizione la mia competenza professionale (faccio il contabile) per chiarire un po’ la questione dei posti di lavoro che verrebbero creati dall’assemblaggio a Cameri dei suddetti aerei: 300 posti a fronte di un investimento complessivo stimato in 15 miliardi di euro. Facendo la divisione risulta che ogni posto di lavoro verrebbe a costare allo Stato (cioè ai contribuenti) 50 milioni di euro. Ipotizzando che il lavoro per la produzione dei caccia si protragga per un ventennio, è possibile fare un confronto con il costo di un posto di lavoro «pacifico» per lo stesso periodo di tempo Dunque, calcolando (ad abundantiam) in 50 mila euro il costo del lavoro medio annuo (comprensivo di stipendio, imposte e contributi) di un operaio specializzato, o impiegato, o insegnante ecc., e moltiplican- dolo per venti, si ottiene un costo totale per vent’anni di 1 milione di euro, vale a dire un cinquantesimo del costo per ogni unità lavorativa nel programma F-35. Detto in altri termini, con quel che costa un posto di lavoro nello stabilimento di Cameri, si possono creare 50 posti di lavoro nelle industrie civili, nel commercio, nella sanità, nella scuola. In totale 15.000 posti di lavoro invece di 400. Riservati 300 di questi posti di lavoro “pacifici” ai mancati lavoratori di Cameri – al Sig. Pietro perché possa pagare le rate del mutuo, all’Ing. Giorgio appena divenuto papà, al Dott. Giuseppe perché possa mantenere la famiglia, ecc. – con i costi rimanenti si petrebbe permettere a 14.700 altre persone attualmente disoccupate di provvedere agli stessi bisogni.
Tengo a precisare, a scanso di equivoci, che l’abissale differenza nel costo dei posti di lavoro (50 a 1, come detto), non dipende assolutamente da un’altrettanto grande differenza nelle retribuzioni dei lavoratori. Il fatto è che nel programma F-35 l’incidenza del costo del lavoro è minima, il grosso dei costi essendo costituito dalle spese per lo sviluppo (o l’acquisto dagli Usa) delle sofisticatissime tecnologie del nuovo caccia.
Viceversa, il costo per creare un posto di lavoro nell’istruzione o nella sanità equivale in pratica alla sola retribuzione lorda del lavoratore in quanto non si tratterebbe di costruire nuove scuole ed ospedali (che pure costerebbero assai meno dei cacciabombardieri) ma solo di assegnare personale aggiuntivo alle strutture già esistenti, quasi tutte sofferenti per carenza di organico (si veda per la scuola la riforma Gelmini).
Se poi si volessero investire i 15 miliardi di euro nell’edilizia popolare, calcolando in 100 mila euro il costo di costruzione di un dignitoso appartamento, risulta che se ne potrebbero costruire ben 150 mila! A quante persone si darebbe lavoro costruendo 150 mila alloggi? E a quante si darebbe un tetto?

Giorgio Parodi
Asti

Anche la «ragioneria della pace» può essere utile a chiarire i vari aspetti di un problema complesso come quello degli armamenti. Ringraziamo il lettore che ha provato a dare fondamento economico a una discussione che si era finora mantenuta su un piano prettamente etico .

Grazie Antonella

Carissimi amici,
Gesù dice che non c’è amore più grande che dare la vita per coloro che si amano. Così vi racconto di una giovane madre, che ho aiutato a crescere da quando aveva otto anni.
Ho ricevuto tre messaggini dal Kenya. Il primo era del 2 dicembre scorso: «Ho bisogno di preghiere, sono malata. La settimana scorsa mi han detto che ho un cancro del sangue. Sono incinta di sette mesi. Per favore, domanda a Dio che mi dia ancora tre mesi». Il secondo, del 9 febbraio di quest’anno, era scritto dal marito: «Sembra che la fine sia vicina. Dio è stato buono. Abbiamo una bellissima figlia nell’incubatore. I dottori qui non possono fare di più». L’hanno chiamata Olivia. L’11 febbraio è arrivato il terzo: «Mi dispiace. Il Signore ha chiamato Seya questa mattina». In questi tre messaggini si sintetizza il grandissimo atto di amore di Antonella Seya, giovane mamma turkana che avrebbe compiuto 28 anni il prossimo settembre.
Antonella ha dato la sua vita per la figlia che portava in grembo. Non ha scelto l’aborto, che certamente le hanno proposto. Ha dato tutto. Un grandissimo dono, da chi non aveva altro che la sua vita da donare.
Antonella, piccola donna africana, la tua morte non ha fatto notizia, neanche nel tuo paese, il Kenya. Con l’appoggio di molti amici avevo investito tanto su di te, per aiutarti a diventare un’infermiera. Economicamente è stato un povero investimento davvero, visto che hai lavorato solo per pochi anni. Ma sono fiero di te, perché hai dato una grandissima prova d’amore. Sei stata l’investimento più bello che abbia mai fatto.
Approfitto di queste poche righe per ringraziare tutti coloro che han letto la storia pubblicata sulla rivista dello scorso dicembre, «Colei-che-ride non ride più», e hanno dato una mano. Il vostro aiuto è investito specialmente in educazione, perché con l’educazione si combatte la povertà e si rendono persone soggetto del proprio riscatto. Se poi, donando un po’ di affetto, si aiutano anche delle persone a fare delle scelte d’amore, allora l’investimento è davvero perfetto. Grazie di cuore. Se altri vogliono unirsi e dare una mano a far studiare tanti ragazzi e giovani, sono i benvenuti, perché questo servizio ha tempi lunghi e i bisogni sono tanti. Grazie, asante sana (kiswahili), ace olen (samburu).

p. Gigi Anataloni
Torino

I missionari alla Rai: spegnete il gossip,
riaccendete l’informazione

La Federazione Stampa Missionaria Italiana (Fesmi), che raduna una quarantina di testate per un totale di 500mila copie mensili, interviene contro l’intenzione della Rai di chiudere 5 sedi estere.

A meno di clamorosi ripensamenti, la Rai sta per chiudere cinque sedi di corrispondenza nel mondo: Beirut, Il Cairo, Nairobi, New Delhi e Buenos Aires. Cinque su quindici in totale. Stiamo parlando di entrambe le sedi africane, dell’unica in America Latina e di quella in un paese così importante, non solo politicamente ed economicamente, come l’India, oltre che di quella di un paese-simbolo come il Libano.
Se andasse in porto, sarebbe una decisione grave, contraddittoria e miope. In una parola: controproducente.
Come Federazione della Stampa Missionaria Italiana, la condanniamo con forza, auspicando che la dirigenza Rai torni sui suoi passi, anche alla luce delle proteste non solo nostre, ma di molte altre realtà della società civile che in queste ore si stanno levando.
L’ipotesi di chiudere un terzo delle sedi di corrispondenza nel mondo è grave, perché va a colpire il Sud del mondo, quella parte di pianeta già oggi marginale nel circuito informativo italiano. È grave perché ispirata a criteri economicisti che, come tali, dovrebbero essere estranei a un «servizio pubblico» che voglia qualificarsi davvero come tale. Se un problema di compatibilità economica esiste, non è spegnendo l’informazione sul mondo che si risolve ma, semmai, vigilando sugli esosi compensi alle «star» del piccolo schermo o sugli sprechi cui la Rai ci abituato da troppo tempo.
È una decisione contraddittoria, perché la sede di Nairobi è stata aperta – anche per effetto di un tenace «pressing» delle riviste missionarie – soltanto due anni fa.
Ancora: qual è il senso della chiusura di una sede come l’Egitto, cruciale per monitorare l’area mediterranea e, in parte, il mondo islamico? Che senso avrebbe abbandonare oggi l’India, da tutti indicata come uno dei paesi-chiave del presente e del futuro? Appare chiaro che siamo di fronte a una scelta – se attuata – per nulla lungimirante e, alla distanza, destinata a ricadute negative. Controproducente, appunto. Il contrario di quell’efficienza che tanto viene sbandierata.
Contro la deriva di un’informazione Tv sempre più avvitata su stessa, ci eravamo pronunciati nel febbraio 2006 con l’appello «Notizie, non gossip», pubblicato da tutte le riviste della Fesmi: chiedevamo alla Rai una risposta alla scarsità di notizie da intere aree del mondo. Nel maggio 2007, dopo l’apertura della sede di Nairobi, avevamo salutato con favore l’evento: «Se la Rai ha aperto una sede in Africa, molto lo si deve alla mobilitazione del mondo missionario», aveva detto in quell’occasione Enzo Nucci, corrispondente Rai da Nairobi. Speravamo fosse l’inizio di un impegno serio. Per dar voce a popoli, culture, paesi senza voce. Purtroppo – duole constatarlo – non è andata così.
Con tutta evidenza, il problema dei tagli delle sedi estere è solo la punta di un iceberg: la questione riguarda la sensibilità complessiva per i fatti del mondo, le vicende dei continenti solo apparentemente «lontani». Non vorremmo che la scelta di dismettere le sedi straniere confermasse una volontà di ritirarsi nel guscio di un’informazione che per baricentro abbia l’Italia o l’Europa.
Un servizio pubblico che voglia dirsi realmente tale dovrebbe puntare a rendere i suoi telespettatori autentici «cittadini del mondo». Non è certo questa la strada. Chiediamo ai vertici di Viale Mazzini un tempestivo e radicale ripensamento.

FESMI (Federazione Stampa
Missionaria Italiana)




Maschere in crisi

Il nome è uno dei tanti, difficili da pronunciare e ancor più da scrivere, di quelli che solo la fervida fantasia di un genitore sudamericano riesce a concepire per i propri figli nel tentativo di imitare il suono dell’originale yankee. Ha circa trent’anni e guadagna venti-trenta euro al giorno, tirati su senza molta speranza, vestito da cartone animato in una delle più affollate piazze di Madrid.
Il nome lo ascolto distrattamente e alla storia che lo accompagna mi sembra di aver già molte volte prestato attenzione, ovunque mi è capitato di incontrare migrantes latinoamericani: un passato da dimenticare, un presente che si vorrebbe cambiare e un futuro il cui colore oscilla tra il verde degli agognati dollari, sui quali costruire il sogno di una casetta nel paese natio e il grigio di altre giornate spagnole passate a cercare di sopravvivere fino alla fine del mese.
Per il turista che si aggira nella città asburgica, fra la Puerta del Sol e la Plaza Mayor, è impossibile non imbattersi in uno di loro: uomini e donne travestiti da pupazzi. Sono centinaia, attenti a gestirsi ogni singola mattonella di pavé, agghindati nelle fogge più strane fra cui trionfano gigantesche Minnie, ansimanti (per il caldo e il sudore) Pluto… e persino un grottesco Uomo Ragno con tanto di improbabili e debordanti maniglie dell’amore. Alcuni si convertono in statue viventi, altri, molti, si contendono spiccioli di Euro e scampoli di gloria intralciando il passo di chi gira rapito dalle magie dell’architettura e incantato dalla musica di qualche chitarra che suda flamenco. Posano per una foto e chiedono un contributo per le ore spese vestiti da fumetto, modei picaros senza arte né parte.

Presenti in ogni città turistica, a Madrid hanno fatto il nido e conquistato il centro, colorata e allegra denuncia di una crisi economica che non accenna a passare e che vede la Spagna vivere il suo momento più nero dopo gli anni delle vacche grasse.
Per i primi che vi si sono dedicati, questa sorta di attività para-turistica è stata in effetti una buona opportunità per sbarcare il lunario, in attesa di potersi riconvertire professionalmente. Ultimamente, molti hanno infatti perso un lavoro che, fino a pochi anni fa, era ritenuto discretamente sicuro, tanto nell’edilizia quanto nel turismo. Oggi, l’inflazione dei personaggi di gommapiuma crea una stagnazione anche in questa piccola e spontanea Disneyland nel cuore della capitale spagnola.
Due statue viventi esemplificano la situazione. La prima è «l’uomo con le valigie» , figura di «migrante immobile», una vera e propria contraddizione in termini. Eppure, a ben pensarci, modello di non pochi viaggiatori della speranza, fermati alla frontiera del sogno europeo o titubanti se tornare da dove vengono e consegnarsi alla storia di sempre, da cui si è fuggiti, stanchi di sfidare la sorte e le bizze dell’economia spagnola che li sta tradendo.
Il secondo è una caricatura di Gesù, immobile al centro della Plaza del Sol, a guardare inebetito una folla di gente che non lo va più a cercare in chiesa, ma lo trova lì a sudarsi lo spazio fra un guerriero Apache e una sagoma di Pippo. Anche lui, povero Cristo, cerca di guadagnarsi una resurrezione a breve termine. Di questi tempi, si accontenterebbe forse anche solo di quella del Pil.

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Testimoni di Cristo nella sua terra

Incontro con Michel Sabbah, patriarca latino emerito

Cosa significa essere cristiani, oggi, nella Terra santa? Essi hanno una vocazione speciale: come minoranza schiacciata tra ebraismo e musulmanesimo, sono chiamati a vivere in Gesù Cristo e renderlo presente nella sua stessa terra; come appartenenti in maggioranza a un popolo di oppressi, sono chiamati a lottare per la pace e la giustizia, attraverso la solidarietà, il dialogo, la riconciliazione.

Fare la conoscenza con la chiesa in Terra santa: fa parte del programma del corso di aggioamento presso la casa dei Padri Bianchi a Gerusalemme. Ce ne parla la voce più autorevole: mons. Michel Sabbah, primo palestinese eletto patriarca latino di Gerusalemme dal 1987 al 2008.
La sua presentazione è molto breve: nato a Nazaret nel 1933, ordinato presbitero nel 1955, laureato in filologia araba a Beirut, dottore in filosofia alla Sorbona di Parigi, presidente della Conferenza episcopale dei vescovi latini della regione araba, dell’Assemblea degli ordinari cattolici della Terra santa e di Pax Christi Inteational (1999-2007) è stato e continua ad essere, anche dopo le dimissioni da patriarca per limiti di età, promotore appassionato del dialogo interreligioso con ebrei e musulmani, costruttore di pace e riconciliazione tra i due popoli e le tre religioni presenti nella terra di Gesù.
Testimoni per natura e vocazione 
«Siamo una chiesa piccola e lo siamo da sempre – esordisce con voce pacata e ferma -. Nel III secolo il vescovo di Gerusalemme era suffraganeo dell’arcivescovo di Cesarea e solo nel V secolo ottenne il titolo di patriarca (Concilio di Calcedonia, 451 d.C.). Durante i tre secoli di dominio bizantino i cristiani sono stati in maggioranza, ma sono tornati piccolo gregge dal VII secolo in poi, con la conquista araba (638). Possiamo dire che in tutta la sua storia Gerusalemme non è mai stata una città cristiana. 
Tale piccolezza non è solo un problema di carattere storico e politico, ma fa parte del mistero di Cristo, come afferma l’evangelista Giovanni: “Venne tra i suoi e i suoi non lo riconobbero, non lo accettarono”. Gesù formò un’esigua comunità con gli apostoli, i discepoli e le donne che avevano creduto in lui, e rimase un piccolo gruppo nella sua società. Ancora oggi, dopo quasi 20 secoli, Cristo è nella stessa situazione: non è riconosciuto nella sua terra; non è accettata nella società la sua azione di redenzione».
«Siamo piccoli e siamo molte chiese – continua il patriarca emerito senza reticenze -. A Gerusalemme sono presenti quasi tutte le chiese cristiane storiche: ortodosse, cattoliche e protestanti. Pur con le nostre diversità, dobbiamo rispondere alle sfide del mondo contemporaneo: siamo un piccolo gruppo, ma, come ai tempi delle origini, abbiamo una vocazione speciale: testimoniare Cristo nella sua terra; questa presenza di testimonianza è la vera natura della chiesa di Gerusalemme. Quando incontro dei fedeli che vogliono emigrare dico loro che perdono due cose: patria e vocazione, cioè, essere cristiani e testimoni nella terra di Gesù e in questa società».
Toccando il problema della migrazione, il patriarca si fa serio e ricorda che sono oltre mezzo milione i cristiani palestinesi, in maggioranza dispersi nel mondo dall’emigrazione e dalle guerre del 1948 e del 1967; solo circa 180 mila sono in Terra santa, formando l’1,7% della popolazione sia in Israele che in Palestina.
«Siamo una comunità in via di estinzione? – continua il patriarca ponendosi la domanda e dandosi la risposta -. Molti vorrebbero pensarlo. In realtà, benché piccola siamo una comunità molto viva, partecipe di tutta la vita della chiesa e della società. È vero che tanti sono stremati da una continua lotta per la sopravvivenza e finiscono per andarsene. Altri, però, restano. Resterà sempre in Terra santa una piccola comunità di cristiani. Gesù ha detto ai suoi apostoli: «Voi sarete miei testimoni a Gerusalemme, nella Giudea e nella Samaria e fino agli estremi confini della terra» (At 1,8). Per questo noi restiamo e resteremo, lungo i secoli, i testimoni di Gesù nella sua terra.
Situazione insopportabile 
«Qual è il ruolo dei cristiani, oggi, in Terra santa?» si pone la domanda il patriarca, dandone pure la risposta: «Oltre a chiesa di testimoni, siamo anche chiesa del Calvario, sempre in croce per i conflitti politici che hanno interessato questa terra. Se Gerusalemme è per eccellenza la città della croce, la chiesa di Terra santa nasce sotto di essa. Ogni cristiano partecipa alle sofferenze della sua gente: i cristiani israeliani di espressione ebraica si sentono parte di una società che soffre e ha paura; i cristiani palestinesi condividono le sofferenze e le tragedie dei palestinesi. Sulla carta esiste un’autorità palestinese; in realtà non abbiamo alcuna libertà e l’occupazione militare diventa sempre più insostenibile e violenta».
Muro di separazione, umiliazioni ai chek point, aggressioni, demolizioni di case, impossibilità di movimento, disoccupazione… La lista continua sciorinando le ingiustizie che tengono un popolo in ostaggio, impediscono lo sviluppo e fomentano odio e violenza.
«Ai disagi materiali si aggiungono pericolose ricadute sociali e morali come la disgregazione delle famiglie» prosegue il patriarca, spiegando che, per uscire dai territori occupati occorre uno speciale permesso, che viene molto spesso rifiutato. Ne consegue che se un coniuge lavora a Gerusalemme e l’altro vive nei territori palestinesi, entrambi sono impediti di vivere insieme come famiglia. «Ci sono cristiani di Betlemme, per esempio, che non sono mai stati a pregare nei luoghi santi a Gerusalemme. Si dà la colpa alla Giordania, che ha governato Gerusalemme fino al 1967: a quei tempi gli israeliani non potevano recarsi al muro del pianto. Ora il regime d’Israele si comporta allo stesso modo con i cristiani palestinesi e dei paesi islamici come Siria e Giordania».
Responsabilità di religioni e chiese  
Nel conflitto israelo-palestinese fino a che punto c’entrano le ragioni religiose?
«La situazione di oppressione e violenza in cui viviamo rendono difficili le relazioni tra gruppi e individui e risvegliano l’antagonismo tra sensibilità religiose differenti. Tuttavia la religione diventa molto spesso un pretesto per affermare la posizione politica, come la questione delle moschee sulla spianata del tempio. Nelle grandi feste, come capodanno o sukkot, c’è sempre qualche gruppo di fanatici ebrei che tentano di prendere possesso della spianata del tempio. Da parte araba è nata una nuova ideologia: si afferma che non c’è mai stato il tempio, ma il luogo è islamico dai tempi di Abramo.
L’ostilità dei palestinesi non è contro gli ebrei in quanto ebrei, ma contro lo stato d’Israele: ostilità semplicemente politica, derivate dalla situazione politica e non da sentimenti di antisemitismo.
Ma in Oriente la dimensione religiosa compenetra e anima tutte le attività private e pubbliche, per cui le religioni hanno una grande responsabilità, in questa parte del mondo, nella ricerca della giustizia e della pace; perciò i leader religiosi possono avere un’influenza decisiva sui fedeli, in un senso o nell’altro, incitare alla guerra e violenza o esortare alla pace.

Qual è il rapporto tra chiesa e stato d’Israele?
All’interno del territorio israeliano, i rapporti della chiesa con lo stato d’Israele sono basati sul rispetto dovuto a ogni autorità. Quando i cristiani arabo-israeliani mi chiedono come comportarsi di fronte allo stato, io rispondo: siete cristiani, siete arabi e siete cittadini israeliani. Siete dunque tenuti a una triplice fedeltà: alla vostra fede cristiana, al vostro patrimonio culturale arabo, che condividete con i musulmani d’Israele e i popoli arabi, e allo stato d’Israele in cui vivete e disponete di un sistema democratico dove sviluppare la vostra vita sociale e religiosa.
Nei Territori occupati, invece, i rapporti tra chiesa e stato sono spesso tesi a causa del regime di occupazione. Ogni volta che faccio sentire la mia voce in questo senso, si alza la tensione, pur non arrivando alla rottura. Tuttavia cerco sempre di fare comprendere che, come portavoce della chiesa, voglio solo il bene dei palestinesi e degli israeliani.

Anche le altre chiese sono sulla stessa linea?
Grazie a Dio, oggi in Terra santa viviamo in un clima di amicizia e frateità tra le differenti chiese cristiane e speriamo di crescere in un cammino ecumenico reale che ci orienti verso una maggiore unità e meno status quo, meno vita nel passato e più attenzione alle difficoltà dell’ora presente.
Siamo 13 capi di chiese a Gerusalemme e prendiamo la parola ogni volta che la situazione si fa più opprimente per denunciare le ingiustizie, come abbiamo fatto durante la crisi e l’assedio della basilica di Betlemme. Abbiamo fatto insieme un documento su Gerusalemme, sulla natura e significato cristiano della città. In dicembre abbiamo pubblicato Il documento kairos Palestina (vedi pagina 30).
Pace su Gerusalemme!  
Gerusalemme è il cuore del conflitto: come trasformare il problema in soluzione?
Oggi Gerusalemme è la città di due popoli e tre religioni. Le parti in conflitto pensano più a dividerla che a condividerla. È la città di Dio e, come Dio, è per tutti: nessuno può averla in esclusiva. Essa deve essere aperta a tutti i credenti, facendone una città internazionale con uno statuto speciale, governata alla pari da israeliani e palestinesi; un’entità unica di cui nessuno è padrone, ma comproprietario, sotto la supervisione dell’Onu, per garantire il rispetto delle regole e delle speranze dei due popoli e delle tre religioni.
Gerusalemme è la chiave della pace nella regione; ogni soluzione imposta con la forza, che non rispetti i diritti e i doveri di tutti può portare solo a una tregua, non a una pace definitiva.

Chi ha le chiavi della pace?
Il conflitto in corso non è una guerra: non ci sono due eserciti che si combattono tra loro, ma da una parte c’è l’oppressore, dall’altra l’oppresso. Se si parla di azioni terroristiche palestinesi, bisogna parlare anche di azioni terroristiche israeliane. La violenza palestinese e quella israeliana sono purtroppo legate tra loro.
Come rompere il circolo vizioso? La soluzione è semplice: porre fine all’occupazione militare israeliana; non vedo altro modo possibile per far scoppiare la pace in Medio Oriente. Purtroppo, Israele non parla di occupazione, ma di autodifesa, di diritto alla sicurezza, e non capisce che il vero problema è l’ingiustizia fatta al popolo palestinese. Se cesserà tale ingiustizia, se i palestinesi avranno il loro stato, saranno i migliori amici d’Israele. La pace è molto più utile a Israele che ai palestinesi. E se vuole la pace, deve aprire il dialogo, fare passi concreti; è lo stato più forte ed è l’oppressore, per cui dovrà fare il primo passo. La chiave della pace è in mano a Israele.

In concreto, come risolvere il conflitto?
Non può esserci pace senza risolvere il problema del territorio. Nel 1967 il 78% del territorio formava lo stato di Israele; il 22% sotto il governo giordano; poi Israele lo ha occupato e di questo 22% promette di restituire il 40%, che non basta per fare uno stato. Quindi, o Israele si ritira dai territori occupati e li restituisce ai palestinesi, oppure li incorpora formando un unico stato in cui tutti i cittadini sono uguali, con gli stessi diritti e doveri, cambiando il nome se necessario, tornando magari al nome primitivo, da Èretz Israèl (terra d’Israele) a Terra di Canaan.
Invece Israele continua a costruire nuovi insediamenti nei territori occupati e sta giudeizzando Gerusalemme, confiscando proprietà e case, con il pretesto che prima del 1948 appartenevano o erano abitate da ebrei. Ma lo stesso principio non è applicato per i rifugiati palestinesi, quando reclamano la restituzione delle loro abitazioni, ora occupate da ebrei.

Ma Obama…
Anche Obama ha deluso. Quando ha incontrato il premier israeliano e il presidente dell’Autorità palestinese, non ha concluso niente: si è accontentato di parole, lasciando le cose come stanno, senza fare alcuna pressione su Netanyahu, permettendogli in pratica di continuare la sua politica. Senza imporre sanzioni e farle rispettare, Israele continua a fare ciò che vuole, contro e al di sopra di ogni legge internazionale.
Obama ha capito che c’è un problema di leadership: né Netanyahu, né Abu Mazen, né Hammas sono all’altezza per risolvere il conflitto; per questo non si impegna più di tanto per risolvere il problema.
Ma Obama…
Allora… come cristiani continuiamo a sperare e lavorare. Nella terra sacra per le tre grandi religioni monoteiste il dialogo è possibile e deve essere possibile. Siamo popoli che da due mila anni viviamo gomito a gomito: è un fatto storico. È la storia che ci ha radunati tutti insieme, o meglio, è la Provvidenza, i Signore della storia  che lo ha permesso e voluto.
Da parte nostra facciamo tutto quello che possiamo, convinti di avere una vocazione specifica: essere cristiani, cioè testimoni di Gesù nella sua terra, chiamati a testimoniare il suo amore e la sua riconciliazione qui e non altrove.

Di Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Piccolo gregge, grande missione

Comunità cattoliche di espressione ebraica

Non sono molti, forse un migliaio, i cattolici ebreofoni, ma consapevoli del loro ruolo a livello locale e universale: testimoniare i valori di pace e giustizia, perdono e riconciliazione in un contesto di violenza e di guerra; servire da ponte fra la chiesa universale e il popolo ebreo, accrescere nella chiesa la coscienza delle radici ebraiche e l’identità ebrea di Gesù e degli apostoli. 

«Sono francescano e polacco; quindi un goi (gentile) e non ebreo» dice sorridendo padre Apolinary Szwed, e continua: «Siamo una comunità modesta, che non fa rumore, quasi invisibile, ma viva e cosciente della nostra realtà». Che sia modesta non c’è dubbio. La comunità a lui affidata è formata da una settantina di fedeli, che si raduna in una stanza molto semplice, che funge da chiesa dedicata ai santi Simeone e Anna; ma la novità sta nel fatto che questi cattolici sono di lingua ebraica, e costituiscono un tassello importante nel mosaico della cristianità in Terra santa.  
Tutto è cominciato subito dopo la creazione dello stato di Israele, quando arrivarono in Israele cristiani che pregavano in ebraico. Alcuni preti, per lo più francesi di origine, cominciarono a occuparsi di loro per introdurli nella chiesa di Gerusalemme; a tale scopo fondarono nel 1955 l’associazione chiamata «Opera di san Giacomo», il cui statuto ne stabiliva lo scopo: costituire una comunità di espressione ebraica e colmare il fossato tra giudei e cristiani, promuovere riconciliazione e conoscenza reciproca in seno alla società ebraica.
Per raggiungere tale fine, furono avviate varie iniziative: nel 1959 il domenicano Bruno Hussar, ebreo di origine francese, nato in Egitto e naturalizzato israeliano, fondò la Casa di sant’Isaia, istituto domenicano di ricerche e studi ebraici. Altri religiosi, come Marcel Debois e Jacques Fontaine, promossero tra i giovani francesi lo studio dell’ebraico biblico, della cultura, religione, storia ebraica. Lo stesso padre Hussar fu all’origine di Neve Shalom (Oasi di pace), un villaggio dove ebrei, cristiani e musulmani vivono insieme ed educano i propri figli in una stessa scuola, rispettosa delle due culture arabe ed ebraiche.
Alcuni membri di questa comunità hanno aiutato a formulare varie riforme del Concilio Vaticano II, come la condanna dell’antisemitismo, il ripudio dell’accusa di deicidio, uso della lingua locale nella messa, iniziato in Israele 10 anni prima del Concilio. Per anni hanno svolto un enorme lavoro per tradurre la liturgia, sviluppare una musica sacra e creare un vocabolario teologico cristiano in ebraico.
L’Opera di san Giacomo non è una parrocchia o un insieme di parrocchie, ma un’associazione con statuto particolare e oggi costituisce il «Vicariato ebreofono» all’interno del Patriarcato latino di Gerusalemme. Nel 1990 fu nominato il primo vicario nella persona dell’abate benedettino israeliano Jean Baptiste Gourion, consacrato vescovo nel 2003, morto prematuramente nel 2005. Dal 2009 il vicario patriarcale è il gesuita israeliano David Neuhaus.

Dopo una ventina di anni la comunità è cresciuta, soprattutto con l’ondata migratoria dall’ex Unione Sovietica, che ha portato decine di migliaia di cristiani, tra i quali vari cattolici. Oggi il vicariato patriarcale conta nove preti, alcune centinaia di fedeli e sei centri: quattro di lingua ebraica (Ber Sheva, Haifa, Jaffa e Gerusalemme) e due di lingua russa.
Negli ultimi 20 anni, però, passata l’ondata immigratoria, i cattolici ebreofoni sono diminuiti e si prevede che resteranno pochi. «Abbiamo qualche conversione – spiega padre Apolinary -. Attualmente due adulti si stanno preparando al battesimo. Anche se le leggi statali lasciano libertà di fede, la pressione sociale, economica e giuridica è tale che non solo scoraggia le conversioni, ma consiglia gli ebrei cristiani alla discrezione, senza sbandierare la loro appartenenza al cristianesimo».
Per il resto, essi vivono le realtà e i problemi di tutti gli altri ebrei. Religione, storia, cultura ebraica stabiliscono il ritmo della vita della comunità cattolica, che segue quindi il calendario e partecipa alle feste ebraiche; alcuni cattolici digiunano nel giorno del kippur e partecipano alle funzioni della sinagoga in segno di solidarietà.
Inizialmente le comunità erano formate da ebrei arrivati in Israele durante la grande emigrazione, coppie miste, formate in prevalenza da un uomo laico ebreo e una donna cattolica; vi erano pure cattolici di origine ebraica che avevano scoperto la loro appartenenza al popolo ebraico in seguito alla shoah. Oggi prevalgono i membri nati e cresciuti in Israele, per cui la grande sfida è trasmettere la fede alle nuove generazioni. Problema non facile, dal momento che, a differenza delle comunità cristiane di lingua araba, i piccoli gruppi di cattolici ebreofoni non hanno istituzioni educative proprie, per cui i giovani frequentano le strutture statali, con il rischio di assimilazione nella società ebraica laica.
«Per questo siamo impegnati nella catechesi – spiega padre Apolinary -: formazione dei bambini, preparazione ai sacramenti, sessioni per giovani coppie, incontri di studio della bibbia, ritiri e preparazione dei catechisti della comunità».

Nonostante la sua quasi invisibilità, la comunità cattolica ebraica è impegnata nella missione che la Provvidenza le ha assegnato. Un primo lavoro è la ricerca delle pecorelle smarrite, cioè coloro che non sanno dell’esistenza della chiesa di lingua ebraica e della possibilità di una vita cattolica nella società israeliana.
Un’altra sfida per i cattolici di lingua ebraica è l’impegno per il dialogo e la riconciliazione. «Le nostre comunità – spiega padre Apolinary – sono diventate un luogo di preghiera per la pace. Vogliamo essere un ponte tra ebrei e arabi, tra la chiesa e il popolo d’Israele, rafforzando i legami di amicizia e testimoniando i valori cristiani di pace e giustizia, perdono e riconciliazione in un contesto di violenza e conflitto armato».
La comunità cattolica di espressione ebraica ha qualcosa da dire anche alla chiesa universale che, a partire dal Concilio Vaticano II, è chiamata a rinnovarsi mediante la riflessione sull’identità ebraica di Gesù, a riscoprire le radici ebraiche della fede cristiana; una sfida che i cattolici in Terra santa vivono quotidianamente. Pregare in ebraico, vivere da cattolico in ebraico, essere minoranza cattolica nell’unica società totalmente ebraica è una realtà nuova per la chiesa locale e universale.

Di Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Stella di Davide e croce di Cristo

Ebrei al cento per cento e discepoli di Yeshua (Gesù)

Credono che Gesù è il Messia, ma non vogliono essere chiamati cristiani; sono una sparuta minoranza, osteggiata e perseguitata, ma in rapida crescita nel mondo e dentro i confini di Israele;
si definiscono «ebrei messianici»: sperano di diventare un ponte tra ebraismo e cristianesimo.

«Mia madre era ebrea irachena, emigrata in Cina, dove sposò un cristiano inglese – comincia Maureen Grimshaw, raccontando la sua storia -. Non cambiò mai la sua fede, ma non volle che i suoi figli fossero educati come ebrei, dopo ciò che era avvenuto con l’olocausto (sono nata nel 1942). Toati in Inghilterra ricevetti un’istruzione cristiana nella chiesa metodista.
Avevo otto anni quando un giorno, sentendomi più triste del solito (mia madre si era risposata), udii una voce che mi disse: “Io ti amo”. Fu la prima esperienza personale di Gesù. Mi piaceva andare al catechismo e sentire parlare di lui. A 12 anni mi domandavo come fosse Dio; un giorno una voce mi risuonò nel cuore: “Io sono l’amore”. A 16 anni, mi sentivo non accettata in famiglia, odiavo me stessa e pregavo il Signore perché mi facesse morire. Ma una notte sentii un grido fortissimo che mi disse: “Io sono morto per te”.
La mia vita mi portò in vari posti per lavoro finché arrivai nel Qatar. Qui sperimentai quanto gli arabi disprezzassero e odiassero americani ed ebrei. “Mia madre è ebrea e io sono ebrea – mi dissi -. Devo andare ad aiutarli”. Pochi mesi dopo tornai a Londra e feci domanda di aliya (migrazione in Israele). Fu un miracolo: mi accettarono, benché fossi coinvolta con il cristianesimo. Lavorai come infermiera, finché sono entrata in questo luogo come volontaria, per testimoniare che Gesù ama gli ebrei».
Il luogo è Christ Church, una chiesa-sinagoga costruita nel 1849 con lo scopo di portare il cristianesimo tra gli ebrei e oggi centro di culto per varie comunità messianiche. E mentre racconta, la signora Maureen intreccia le dita nella catenina da cui pende una medaglia formata dall’unione della stella di Davide e la croce di Cristo. E spiega: «È il simbolo più eloquente della nostra fede: la stella esprime l’identità ebraica; la croce testimonia la fede in Gesù il Cristo».

Si definiscono ebrei al cento per cento e credono che Gesù è il Messia. Per esprimere questa identità essi usano termini ebraici: Gesù diventa Yeshua, Cristo diventa Hamashiah (messia, consacrato); non vogliono essere chiamati giudeo-cristiani o ebreo-cristiani, ma ebrei messianici; tanto meno ebrei convertiti: sono ebrei compiuti o ebrei credenti; la chiesa diventa l’assemblea.
Essi vogliono ricreare le comunità dei primi discepoli del Messia, cresciute a Gerusalemme e in Palestina durante il primo secolo, come sono descritte nel libro degli Atti; comunità formate da ebrei osservanti tutte le tradizioni ebraiche, finché non furono cacciati dalle sinagoghe dal giudaismo talmudico-rabbinico da una parte e assorbiti nel cristianesimo d’impronta greco-romana dall’altra, in cui fu bandita ogni espressione di fede ebraica (sinodo di Nicea 730).
Paolo aveva descritto le comunità dei credenti gentili (non ebrei) come olivo selvatico innestato sull’olivo buono, cioè Israele (Romani 11,17); per quasi 2.000 anni è avvenuto il contrario: l’olivo buono innestato sui rami selvatici: fino a una cinquantina di anni fa un ebreo, per essere battezzato, doveva abiurare il suo ebraismo, perdendo la sua identità ebraica, sia per la sinagoga che per la chiesa.
In quanto ebrei, i messianici rispettano la legge mosaica, seguono la liturgia ebraica, praticano la circoncisione, onorano lo sabath (sabato) e la kasherut (dieta alimentare); alcuni indossano tallit, (scialle della preghiera), kipah (zucchetto) e tefillim (astucci con brani della legge) come gli ebrei più ortodossi; celebrano le feste che ricordano l’intervento di Dio nella storia d’Israele: pessach, shavuot, succot (pasqua, pentecoste e capanne), anche come feste profetiche, che hanno avuto il loro compimento nel Messia.
In quanto messianici credono nel Nuovo Testamento come parte integrante della bibbia, i cui autori e destinatari appartengono al popolo d’Israele, ma data a conoscere a tutte le genti. Celebrano la santa cena in generale una volta al mese. Il battesimo è proposto agli adulti ed è praticato per immersione, come nella chiesa primitiva. Credono nella Trinità e nel valore salvifico della morte del Signore Gesù, ma ostentano la croce nei luoghi di culto, poiché nella memoria collettiva è diventata simbolo di uccisione e morte. «Ma non ci vergogniamo del Messia crocifisso: anche per noi la croce è simbolo significativo della nostra fede, che ci ricorda quello che il Messia ha dovuto soffrire» afferma il messianico Gershon Nerel.

Il messianismo è nato nel 1800 in Inghilterra, quando i cristiani di origine ebraica, per differenziarsi dagli altri, si organizzarono in associazioni proprie, come la «Unione cristiana ebraica» (1865). Associazioni e alleanze messianiche dalla Gran Bretagna si diffusero negli Stati Uniti e nel resto d’Europa, con la stessa visione: riunire i cristiani di origine ebraica e annunciare il Messia agli ebrei.
Q uanti sono oggi gli ebrei messianici? È difficile dirlo, essendo comunità fluttuanti. Ogni assemblea conta tra 20 e 250 membri, che si radunano in appartamenti o sale private, con poche eccezioni, come l’uso di Christ Church. Ciascuna di esse è autonoma, con storia, carattere e organizzazione propria. Molte somigliano a comunità evangeliche e carismatiche, specie quelle dove i membri provengono da movimenti e gruppi carismatici. Nei loro incontri, tutti danno importanza alla testimonianza: «Noi l’abbiamo trovato!».
Mancando una qualsiasi autorità centrale rimane difficile definire il numero dei messianici. Secondo stime approssimative, attualmente essi sarebbero oltre mezzo milione nel mondo, metà dei quali negli Usa e tra i 5 mila e i 15 mila in Israele, distribuiti in un centinaio di comunità; calcoli più realistici contano nel paese 80 assemblee con circa 7 mila membri.
E sono in continua crescita, come scrive un ampio servizio di Up Front (supplemento del Jerusalem Post del 13-2-2009). Il vistoso titolo dice: «La fede avanza: 7 mila credono in Gesù come loro redentore». E il sottotitolo aggiunge: «Con grande irritazione dell’establishement in Israele». Alcune foto a colori mostrano giovani, con T-shirt rosse e scritta in ebraico: «Ebrei per Gesù», che distribuiscono volantini. L’articolo cita pure espressioni della loro fede senza censurarle: «Yeshua è l’incarnazione del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe». «Se mi rifiutassi di parlare di Yeshua ai miei simili, sarebbe come conoscere la medicina contro l’Aids e tenerla per me».
«Ebrei per Gesù» è il gruppo più conosciuto, anche se minoritario, e il più avversato per la sua attività missionaria. I suoi adepti organizzano campagne con predicazioni pubbliche e discussioni individuali per le strade, distribuzione ai passanti di stampati informativi a bizzeffe e uso di tutti i mezzi di comunicazione di massa, per dimostrare agli ebrei che la messianicità di Gesù è fondata su prove evidenti e aiutare i cristiani a ritrovare le radici della loro fede. 

Per lo più gli ebrei messianici preferiscono non mostrare la propria fede. Oltre a essere rispettosi della legge mosaica, essi si comportano da leali cittadini, sono presenti nell’esercito, università e altri settori professionali, in associazioni israeliane umanitarie, hanno fondato quella «Pro Life» per lottare contro l’aborto e aiutare le donne in difficoltà.
Eppure sono spesso oggetto di angherie, intolleranza e persecuzione. Ad aizzare l’ostilità sono almeno due «Organizzazioni anti-missionarie» ultra-ortodosse, come Yad L’achim (Mano ai fratelli) e Lev L’achim (Cuore per i fratelli). I loro attivisti raggiungono, e a volte oltrepassano, i limiti della legalità, denigrando e minacciando gli ebrei messianici, screditando i loro pastori e anziani, attaccando minacciosi manifesti con la foto del «messianico» del quartiere e la scritta «pericolo».
«Quando un ebreo in Europa dice di credere in Gesù Cristo, ciò diventa un biglietto per entrare nella società normale; in Israele è il contrario: credere in Yeshua è un biglietto per uscire, esclude automaticamente dalla società ebraica» afferma un rabbino; e un altro aggiunge: «In Israele un ebreo può essere buddista o ateo, ma non gli è consentito di credere in Yeshua Hamashiah».

Di Benedetto Bellesi

Chiese di Gerusalemme e dintorni

Le tredici «sorelle»

Comunità ortodosse

PATRIARCATO GRECO-ORTODOSSO. Fu istituito dal Concilio di Calcedonia nel 451, legato a Costantinopoli ne seguì il progressivo distacco fino allo scisma con la chiesa latina (1054). Dal 1534 i patriarchi di Gerusalemme sono tutti di origine greca, causando serie tensioni con il clero di lingua araba. I greco-ortodossi costituiscono la chiesa più grande in Terra santa (circa 70 mila fedeli), tutti arabi, eccetto poche centinaia di greci. Sotto la giurisdizione dello stesso patriarcato sono le chiese ortodosse nazionali di Russia e Romania presenti in Israele.

PATRIARCATO ARMENO. Prima nazione cristiana (IV secolo), chiesa non calcedoniana, presente a Gerusalemme fin dal V secolo, dal 1311 gli armeni hanno un proprio patriarca, che risiede nel convento di san Giacomo. La comunità armena crebbe con l’arrivo di profughi dalla fine del XIX secolo alla prima guerra mondiale. Oggi i 1.500 armeni vivono a Gerusalemme, altre centinaia in Israele e Territori palestinesi.

CHIESA SIRIACA o GIACOBITA. Erede di Antiochia, lingua liturgica l’aramaico (lingua di Gesù) è una chiesa non calcedoniana, anche se chiamata «ortodossa». Dei 300 siriaci in Terra santa, 200 vivono a Gerusalemme, presso il monastero di san Marco, guidati da un vescovo (esarca) rappresentante del patriarca residente a Damasco.

CHIESA ORTODOSSA COPTA. Arrivata dall’Egitto a Gerusalemme nel IV secolo, ebbe forte influsso nell’origine del monachesimo nel deserto di Giuda. La comunità oggi è composta da una decina di monaci, il cui superiore ha dignità vescovile; abitano vicino al Santo Sepolcro.

CHIESA ORTODOSSA ETIOPE. Dal IV secolo presente a Gerusalemme, ebbe vari diritti nei luoghi santi, perduti con il dominio turco. Oggi un vescovo guida poche dozzine di monaci e monache, vicino al Santo Sepolcro.

COMUNITÀ Cattoliche

CATTOLICI DI RITO LATINO. Ebbero amministrazione autonoma con l’istituzione del primo patriarca latino di Gerusalemme per opera dei crociati (1099), finito con la riconquista araba (1187) e restaurato nel 1847. Nel frattempo la presenza cattolica fu assicurata dai francescani (Custodia di Terra santa) con opere pastorali, educative, assistenziali, moltiplicate con l’arrivo di vari istituti religiosi a partire dal 1800. Oggi i circa 41 mila cattolici di rito latino sono quasi tutti arabi, compreso il patriarca; alcune centinaia di cattolici sono di espressione ebraica.

CHIESA CALDEA. La chiesa cattolica caldea è nata nel XVI secolo da uno scisma della chiesa assira (conosciuta come chiesa nestoriana), quando alcuni gruppi elessero un proprio vescovo (1552) e chiesero l’approvazione di Roma, ricevendo il titolo di patriarca dei cattolici caldei. In Terra santa la comunità caldea conta poche famiglie; sede vescovile a Gerusalemme.

CHIESA MARONITA. È la sola chiesa orientale interamente cattolica, fondata da san Marone (IV sec.) in Siria e affermatasi in Libano. I maroniti sono circa 8 mila, presenti soprattutto i Galilea, guidati da un arcivescovo (esarca patriarcale)  che risiede a Gerusalemme. 

CHIESA GRECO-CATTOLICA o MELKITA. Chiesa calcedonica, dipendente da Antiochia, definitivamente in comunione con Roma nel 1729, segue la liturgia bizantina in lingua araba e greca. I melkiti in Terra santa sono circa 50 mila, buona parte nella Galilea, guidati da un esarca, rappresentante del patriarca di Antiochia.

CHIESA CATTOLICA ARMENA. Fin dai tempi delle crociate ci furono tentativi di unione degli armeni con Roma; con la predicazione dei domenicani si formarono alcune comunità armeno-cattoliche, alle quali papa Benedetto XIV assegnò un patriarca (1742), che dal 1829 risiede a Istanbul. Alcune decine di famiglie di cattolici armeni sono sparse tra Gerusalemme, Haifa, Nazaret e Ramallah; sede dell’esarca patriarcale in santa Maria dello Spasimo.

CHIESA CATTOLICA SIRIACA. Nata in Siria con la predicazione cattolica nel XVII secolo; a causa di persecuzioni, la sede del patriarcato da Aleppo fu portata in Libano. I cattolici siriaci in Terra santa sono 2-300, sparsi in varie città, con sede vescovile a Gerusalemme.

CHIESE PROTESTANTI

COMUNITà ANGLICANA e LUTERANA. I protestanti arrivarono a Gerusalemme solo a partire dal 1800, con l’instaurarsi delle rappresentanze diplomatiche occidentali a Gerusalemme. Oggi contano circa 5 mila fedeli; ognuna delle due comunità è guidata da un proprio vescovo.

Benedetto Bellesi




Babele o profezia?

Chiesa e chiese in Terra santa

A Gerusalemme sono presenti 13 chiese cristiane, con culture, lingue, credi, riti, leggi, tradizioni proprie. Una varietà che risale alle origini, ma che nei secoli è diventata divisione, con conseguenti tensioni
e conflitti. Eppure oggi più che mai i cristiani della Terra santa si sentono uniti in un ricco mosaico di fede e di vita, destinato a diventare un esempio per tutte le chiese del mondo.

Il primo impatto è stato scioccante per non dire scandaloso. Dopo ore di fila riesco a sfiorare la roccia del Calvario, quando un monaco scorbutico mi sollecita ad allontanarmi; nell’edicola del Santo Sepolcro è anche peggio: il monaco assomiglia più a un buttafuori che al custode del luogo sacro. Per non parlare delle celebrazioni religiose delle diverse confessioni: riti e processioni che si susseguono con ritmo incalzante, con canti e incensi in abbondanza, ma scarsa devozione, almeno in apparenza.
Tale freddezza rituale è frutto delle tensioni esistenti tra le differenti chiese che hanno il controllo della basilica o il diritto di officiarvi: devono rispettare con scrupolo tempi e luoghi loro assegnati dalla consuetudine; la minima invasione di tempo o di campo può finire in risse furibonde.
Tali tensioni hanno origini storiche lontane e si coagulano per futili motivi nella gestione del luogo santo, regolata dal cosiddetto Status quo (vedi p. 32) fuori dal tempio, la diversità tra le chiese appare piuttosto come un dono per la chiesa universale.
In principio… era la diversità
A Gerusalemme e in Terra santa esistono ben 13 confessioni cristiane differenti e separate: tutte riconoscono la città santa come loro madre, ma faticano a riconoscersi sorelle. Da dove derivano tante differenze?
Il giorno stesso di pentecoste, fra i tre mila battezzati c’erano «giudei osservanti di ogni nazione sotto il cielo», differenti per cultura e lingua (Atti 2,5). Durante l’era apostolica la chiesa crebbe in pluralità di modi d’intendere riti e comunione, nell’unica chiesa fatta di cristiani-giudei e cristiani-pagani, uniti nell’unica fede in Cristo.
La pluriformità aumentò dopo l’età apostolica, con la diffusione del vangelo in tutte le direzioni nel mondo allora conosciuto e la fondazione di nuove comunità o chiese locali, che si svilupparono in differenti aree geografiche e attorno a importanti centri amministrativi e culturali, sotto la guida di un vescovo. Alle chiese di origine apostolica fu riconosciuta particolare autorità sulle altre chiese. Cinque in particolare, chiamati patriarcati,   Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme (pentarchia), costituirono i vertici  e punto di riferimento, attorno ai quali fu organizzata la chiesa universale, all’interno dell’impero romano e al di fuori dei suoi confini, come in Armenia, Persia, Mesopotamia, Etiopia, India.
Ogni chiesa locale si sviluppò con caratteristiche proprie di lingua, liturgia, teologia, diritto canonico, spiritualità, conservando sempre la comunione e l’unità di fede, riconoscendosi parte dell’unica chiesa di Cristo. Per quattro secoli unità e pluriformità crebbero assieme, fino ai tempi delle grandi controversie cristologiche. 
Poi le divisioni 
L’evoluzione della fede cristiana fu accompagnata fin dagli inizi dall’incalzare di movimenti ereticali, riguardanti soprattutto la figura di Cristo e il mistero della sua incarnazione. Tali controversie teologiche mettevano a rischio anche la pace e unità sociale, per cui l’imperatore stesso si fece promotore di concili ecumenici, convocando i vescovi per risolvere le controversie. I primi due concili, di Nicea (325) e di Costantinopoli (381), che definirono rispettivamente la divinità di Gesù e dello Spirito Santo (da cui il credo niceno-costantinopolitano) furono accettate da tutte le chiese. Non così i concili di Efeso (431) e di Calcedonia (451).
A Efeso fu condannato il nestorianesimo, che sosteneva un’unione apparente tra natura divina e umana di Cristo, negando a Maria l’appellativo di «madre di Dio» (Theotókos), ritenendola genitrice della sola persona del Cristo-uomo. Tale concilio non fu accettato dalle chiese in Persia: nasceva così la chiesa assira, impropriamente chiamata nestoriana, e sostenuta dall’impero persiano, in funzione anti-bizantina.
A Calcedonia fu condannata Eutiche: affermava che Cristo ha solo la natura divina (monofisismo), nella quale la natura umana si fonde come una goccia d’acqua nel mare. Il rifiuto di tale concilio diede origine a chiese nazionali: chiesa egiziana o copta con la sua filiazione etiopica ed eritrea, chiesa siriaca giacobita e chiesa armena.
In passato queste chiese venivano chiamate «monofisite»; oggi si definiscono «ortodosse orientali antiche», per distinguersi da quelle calcedoniane chiamate globalmente «chiesa ortodossa orientale» (o bizantina).
A partire dal IX secolo, con l’evangelizzazione dei popoli slavi, per opera dei santi Cirillo e Metodio e con il battesimo della Rus’ nel 988, furono stabilite altre chiese ortodosse nell’Europa orientale. Queste rimasero in comunione con la chiesa di Roma o latina fino al 1054, quando cioè, dopo un progressivo e reciproco estraneamento e per motivi politici e teologici, le chiese di Bisanzio e di Roma si scomunicarono a vicenda, trascinando nello scisma anche le chiese dell’Europa orientale.
Cinque secoli dopo, la cosiddetta riforma protestante provocò lacerazioni e divisioni anche nella chiesa d’Occidente, con la cosiddetta riforma protestante, con conseguenze indirette anche sulle chiese dell’Est.
Vari missionari inviati nelle chiese orientali riuscirono a creare piccole comunità favorevoli all’unità con Roma, dando origine a «chiese cattoliche orientali» (uniati): chiesa caldea (1552), cattolici ucraini (1595-96), chiesa cattolica siro-malabarica (1599), cattolici siriani (1662), greco-cattolici o melkiti (1724), cattolici armeni (1740), cattolici copti (1895), chiesa cattolica siro-malankara (1930) cattolici etiopici (1961).
Le chiese… pellegrine 
La chiesa di Gerusalemme, inizialmente formata da fedeli di origine, lingua e cultura ebraica, greca e romana, per oltre tre secoli rimase una minoranza nella società, finché, sull’esempio di sant’Elena, madre dell’imperatore Costantino, la devozione verso i luoghi sacri cominciò ad attirare pellegrini di tutte le nazioni: bizantini, armeni, siriani, georgiani, latini; ognuna cercò di organizzare le strutture di accoglienza materiale e spirituale per i propri pellegrini, dando origine a presenze cristiane di differenti riti, lingue, culture. Tuttavia, durante i primi secoli la chiesa di Gerusalemme era unita attorno a un solo vescovo, che aveva giurisdizione anche sui cristiani di origine straniera che venivano e vivevano nella città santa.
Nel V secolo, però, le divisioni provocate dalle controversie cristologiche si ripercossero anche nelle chiese «pellegrine» stabilitesi a Gerusalemme: anche qui le diversità si tradussero in divisioni.
La conquista islamica provocò una graduale arabizzazione e scristianizzazione del paese. Un largo settore della popolazione passò all’islam per evitare vessazioni di indole sociale e fiscale. Il patriarca della comunità cristiana, assai ridotta e povera, cercò appoggio nella chiesa più forte di Bisanzio; quando questa consumò lo scisma con Roma (1054), anche le chiese di Gerusalemme la seguirono.
Nell’epoca crociata (1099-1291), con l’istituzione del patriarcato latino di Gerusalemme la maggioranza cristiana fu attratta nell’orbita romana, ma con la riconquista della città santa da parte del Saladino il patriarca latino fu costretto a fuggire e con la caduta del Regno latino furono espulse tutte le congregazioni religiose occidentali. La presenza cattolica fu continuata dai frati minori, che nel 1336 ottennero di stabilirsi attorno ai luoghi santi: nasceva la Custodia di Terra santa. Da allora fino al 1847, quando fu ristabilito il patriarcato latino, i francescani furono responsabili del lento ritorno di alcuni cristiani all’unità con Roma.
Il passaggio della Palestina dal dominio dei mamelucchi all’impero turco ottomano (1517) segnò la rinascita dell’influenza degli ortodossi a spese dei latini. Non passò un secolo che, favoriti dai vari sultani,  gli ortodossi cominciarono a rivendicare diritti di proprietà sui luoghi santi, sottraendoli con la forza o con l’inganno ai francescani. Questi, per difendere i propri diritti, facevano appello alle potenze occidentali, finché nel secolo XIX la questione dei luoghi santi divenne un caso politico specie tra Francia e Russia: la prima assunse l’esclusiva protezione dei cattolici; la Russia quella dei cristiani orientali. La pressione delle potenze europee sul sultano ottomano ebbe come risultato il decreto del 1852, che fissava i diritti e proprietà attorno ai luoghi santi, confermando lo Status quo, cioè la situazione esistente prima del 1757.
Nel frattempo, molti missionari occidentali si riversarono nella Terra santa e promossero la creazione di nuove comunità cattoliche e protestanti con relative istituzioni gerarchiche. Nel 1754 fu creata l’archidiocesi greco-cattolica di Galilea; nel 1838 fu eretto il vicariato patriarcale greco-cattolico a Gerusalemme; nel 1842 si stabilì a Gerusalemme il vescovo anglicano-luterano; nel 1847 fu ristabilito il patriarcato latino.
Evviva la differenza
Oggi i cristiani in Israele e Territori palestinesi sono circa 180 mila: 100 mila cattolici (50 mila melkiti, 41 mila latini, 8 mila maroniti, un migliaio di altri riti), 70 mila greco-ortodossi e altri 5 mila ortodossi orientali; 5 mila tra anglicani e protestanti. Durante l’ultimo secolo si sono aggiunte nuove realtà, non sempre quantificabili: cattolici di lingua ebraica, assemblee di ebrei messianici, lavoratori migranti, cristiani dall’ex Unione Sovietica, senza contare i milioni di pellegrini da ogni parte del mondo che affollano i luoghi santi.
Ne risulta quindi un ricco e complesso mosaico di chiese, ognuna delle quali con la propria storia, teologia, spiritualità, lingua, riti, tradizioni… Tale pluralità non pregiudica l’unità, ma arricchisce la chiesa universale; anzi, essa offre l’ispirazione per affrontare alcune urgenze ancora attualissime, come il problema dell’inculturazione del vangelo e il rifiuto di ogni tentazione di fondamentalismo e integralismo.
La chiesa di Gerusalemme rimane punto di riferimento, profezia perenne per la chiesa universale e per tutte le chiese locali. Teologicamente e organizzativamente la comunità dell’età apostolica rimane il modello della chiesa di Cristo, al quale si richiamano tutti i cristiani che, in ogni tempo, hanno sentito il bisogno di rinnovarsi spiritualmente. Anche negli atti concreti con cui ha saputo superare le iniziali tensioni e difficoltà intee, la prima chiesa rimane un modello e punto di riferimento per conservare anche oggi l’unità nella diversità.
In un’epoca in cui la globalizzazione rischia di essere confusa con l’uniformità, le chiese di Gerusalemme sono un richiamo a guardare alle origini, quando l’unica verità, che è Gesù Cristo, fu accolta da culture diverse e narrata, celebrata, pensata in modi differenti, nella teologia, liturgia, spiritualità, diritto… Tali espressioni non furono elaborate da un unico centro, ma fu il risultato dell’incontro del vangelo con le situazioni concrete dei singoli popoli. Per questo le chiese di Gerusalemme sono motivo di ispirazione, oggi, per l’attività missionaria della chiesa, nel fare discepoli di Cristo i popoli e le culture a cui è inviata.
Laboratorio di dialogo
Intanto le diversità, che attraverso i secoli sono diventate separazioni, divisioni e competizioni, rimangono quasi intatte nella chiesa di Gerusalemme, minandone la credibilità della testimonianza e facendole assomigliare alla biblica Babele. Tuttavia, al di là delle apparenze, oggi Gerusalemme è un laboratorio di dialogo ecumenico e interreligioso. I cristiani in Terra santa sono impegnati in incontri di dialogo a livello formale e istituzionale e altre iniziative di vario genere per camminare insieme verso l’unità. Per raggiungere tale meta ognuno è esortato a restare fedele alla chiesa in cui Dio gli ha dato di vivere e a restare al tempo stesso aperto alle altre chiese.
Il cammino del dialogo ecumenico, iniziato nel 1964 con l’abbraccio in Terra santa tra papa Paolo VI e il patriarca ortodosso Atenagora, è continuato tra ostacoli ereditati dalla storia e innumerevoli difficoltà provenienti dalla situazione politica, di violenza e oppressione. Ma proprio tale situazione di conflitto ha contribuito alla coesione tra le chiese. Unite dalle stesse prove, si sono riavvicinate le une alle altre per ascoltare e rispondere agli appelli e alle sofferenze delle società in cui sono chiamate a vivere e operare; e per rendere più forte la loro voce contro le ingiustizie.
Tra le iniziative prese in comune dai capi delle chiese va segnalato il memorandum comune sul significato di Gerusalemme (1994); l’apertura del giubileo del 2000; l’accoglienza di Giovanni Paolo II (2000) e di Benedetto XVI (2009); la creazione del Jerusalem Inter-Church Center (Jic, Centro interecclesiale di Gerusalemme). L’ultimo esempio è il «Documento Kairos Palestina», pubblicato lo scorso dicembre (vedi riquadro p. 30).
Ponte di pace e riconciliazione
Nel 1948 i cristiani costituivano il 20% della popolazione palestinese; oggi, la percentuale è scesa all’1,8%. I cristiani sono una minoranza schiacciata tra i due colossi: ebrei e musulmani. Il dialogo interreligioso è un’altra dimensione essenziale nella vita della chiesa, soprattutto con l’islam. La situazione di conflitto contribuisce ad avvicinare i fedeli di queste due religioni, anche se una certa propaganda cerca di fare risaltare un’ipotetica persecuzione islamica contro i cristiani.
Nulla di tutto questo, almeno in Palestina. Anche in fatto di dialogo interreligioso, le chiese presenti nella terra di Gesù sono un esempio per le comunità cristiane che vivono nel mondo in situazioni simili di minoranza religiosa, con conseguenti tensioni e conflitti; soprattutto costituiscono una sconfessione di quanti predicano e praticano il «conflitto di civiltà».
Naturalmente il dialogo è esteso anche all’ebraismo. Pur essendo minoranza, i cristiani hanno un ruolo importante da giocare nel conflitto arabo-israeliano. Avendo essi in comune con i giudei i valori biblici e con i musulmani la lingua araba, possono essere il ponte che permette la riconciliazione. Tanto più che, come afferma un professore dell’università di Betlemme, «senza i cristiani lo scontro tra ebrei e musulmani sarebbe molto più forte».
In tale ruolo, la chiesa continua a ricordare al mondo intero che quella in corso non è una guerra di religione, ma una resistenza in difesa dei diritti umani fondamentali. E per resistere i cristiani chiedono la solidarietà e corresponsabilità di tutte le chiese del mondo verso la chiesa madre: dalla pace e riconciliazione di Gerusalemme dipende il futuro del Medio Oriente.
Le chiese cristiane in Palestina hanno bisogno di sostegno morale e materiale per resistere anche a una forte tentazione: quella di emigrare. La Terra santa rischia di diventare un museo cristiano senza pietre viventi. E cosa sarebbe la terra di Cristo senza cristiani?

Di Benedetto Bellesi

Il documento Kairos Palestina

pace subito
 
P orre fine all’occupazione dei territori palestinesi e al boicottaggio che strangola l’economia della Palestina, riducendo in miseria la popolazione; eliminare il muro di separazione che sigilla la barriera fra i due popoli, rinegoziare con serietà e chiarezza per costruire la pace nella regione: sono i punti principali di un appello firmato e diffuso, in vista del natale 2009, da una quindicina di leader cristiani, fra i quali il patriarca emerito di Gerusalemme, Michel Sabbah, il vescovo luterano Munib Younan, il patriarcato greco-ortodosso di Gerusalemme, Theodosios Atallah Hanna.
L’appello è stato intitolato «Documento Kairos Palestina», proprio perché insiste sul «momento di grazia, tempo favorevole» (kairos), in cui è possibile riprendere in mano con coscienza la questione dell’eterno conflitto fra i popoli di Terra santa. Grazie allo sforzo di buona volontà della comunità internazionale, dei leader politici della regione e delle chiese nel mondo, «la pace è possibile» ed è la sola speranza per il futuro della Terra santa. Ma essa impone uno sforzo concreto da parte di tutti, non solo «parole vuote», risuonate per troppo tempo senza cambiare nulla nella situazione reale.

I firmatari dell’appello denunciano «l’occupazione come peccato contro Dio e l’umanità» e, fra i problemi più scottanti, «il muro di separazione israeliano eretto in territorio palestinese, blocco di Gaza, colonie israeliane che sorgono su terreni palestinesi, umiliazioni subite ai posti di blocco militari, restrizioni religiose e accessi controllati ai luoghi santi, la piaga dei rifugiati che attendono il loro diritto al ritorno, prigionieri detenuti in Israele e paralisi della comunità internazionale di fronte a questa tragedia».
Tuttavia, afferma il testo, «Dio ci ha creato per vivere in pace. La nostra terra ha una missione universale e la promessa della terra non è mai stato un programma politico, ma piuttosto preludio alla salvezza universale».
Inoltre, si fa appello alle chiese di tutto il mondo perché «dicano una parola di verità e prendano posizione riguardo all’occupazione israeliana del territorio palestinese», affinché «venga applicato contro Israele un sistema di sanzioni economiche e boicottaggio», il quale «non rappresenta una vendetta ma piuttosto un’azione seria al fine di raggiungere una pace giusta e definitiva». 
(Fides)

Ttutta colpa dello «status quo»

Durante l’occupazione di Gerusalemme da parte dei crociati, i cristiani di rito latino ebbero il predominio sui luoghi, senza affatto escludere gli orientali. Quando il Saladino conquistò la città santa (1187), confiscò tutte le chiese cristiane; alcune le trasformò in moschee, altre le lasciò ai cristiani, anche per lucrare sulle offerte dei pellegrini. L’entrata del Santo Sepolcro, invece, fu affidata a due famiglie musulmane: ai Joudeh fu data la chiave dell’unico portale rimasto funzionale e ai Nusseibeh il privilegio di chiuderlo e aprirlo.
I governi successivi concedevano i diritti a suon di mazzette. Grazie alle somme sborsate dai sovrani di Napoli e Sicilia, i francescani ottennero i diritti di abitare e ufficiare nella basilica del Santo Sepolcro e costruire un convento  sul monte Sion. Dal 1336 al 1662 essi furono gli unici padroni del Cenacolo, Santo Sepolcro, Calvario, Tomba della Vergine, Mangiatornia di Betlemme. 
Poi i turchi ottomani sottrassero la Palestina ai mamelucchi d’Egitto (1517) e i sultani cominciarono a favorire gli ortodossi, loro sudditi. I monaci greci passarono all’offensiva, rivendicando la chiesa di Betlemme e poi quella della risurrezione: con tangenti e documenti falsi ottennero il controllo della cappella del Calvario e della pietra dell’unzione (1633), poi il possesso esclusivo dell’edicola del Santo Sepolcro (1675). Di fronte a tali scippi i papi sollecitarono le potenze cristiane perché facessero pressione sulla Sublime Porta: un decreto del 1690, dichiarava i francescani legittimi proprietari dei santuari e restituiva loro gli antichi diritti.
Per più di un secolo e mezzo, mentre attorno ai luoghi sacri crescevano interferenze e pressioni delle potenze egemoni, dentro le mura sacre la lotta per il controllo si risolveva spesso a cazzotti e bastonate. L’episodio più grave avvenne nel 1756, con l’irruzione vandalica nella basilica e l’assalto al convento francescano. Un altro decreto del sultano concesse ai greci la comproprietà con i latini del Santo Sepolcro e la proprietà della basilica di Betlemme e della Tomba della Vergine. 
Nel XIX secolo la questione dei luoghi sacri divenne un caso politico soprattutto tra Francia e Russia: la prima si assunse la protezione dei cattolici, la Russia quella degli orientali. Le lotte «fratee» continuarono, usando tutti i modi per estromettersi a vicenda. Nel 1847 i greci rimossero dalla grotta di Betlemme la stella d’argento, con la scritta latina che attestava la proprietà latina del luogo. Francia e Russia costrinsero la Turchia, nel 1852, a firmare l’ennesimo decreto che ripristinava la situazione (status quo) sui diritti di proprietà e accesso all’interno del Santo Sepolcro, della basilica della Natività e della tomba di Maria; situazione risalente al 1767, tenendo conto di ulteriori diritti acquisiti da altre comunità cristiane.

Il documento assegna la basilica del Santo Sepolcro quasi interamente ai greci ortodossi, ma le parti essenziali sono in condominio con cattolici (rappresentati dai frati minori) e armeni, che a tuo si susseguono, notte e giorno, con le rispettive cerimonie liturgiche. Queste tre comunità (latina, greca, armena) hanno pure residenza effettiva nella basilica, ognuna con proprie abitazioni e cappelle. Altre chiese, come siro-giacobiti e ortodossi etiopi, godono di alcune concessioni per svolgere le loro funzioni nelle grandi solennità, mentre i copti posseggono alcune stanze e una cappella dietro l’edicola del Santo Sepolcro, col diritto di officiarvi solo alcuni giorni.  
Lo Status quo determina pure orari e tempi di funzioni, percorsi di processioni e modo di realizzarle con canti e incensi… I diritti di ogni comunità sono stabiliti dall’uso di lampade, addobbi, quadri, candelieri. Di importanza cruciale sono i diritti di pulizia, manutenzione, restauro: chi ripara il tetto o il muro di una cappella ne acquista il possesso esclusivo; appendere o rimuovere una lampada, un quadro da un pilastro o un muro… implica il riconoscimento di possesso su tale pilastro o muro. Ma lo Status quo stabilisce un principio draconiano: senza comune accordo, niente può essere cambiato o innovato, sia nel possesso della basilica che nell’esercizio del culto.

T
ale situazione oggi è considerata un dato di fatto acquisito, ma rimane sempre difficile ridurre al minimo i disagi della coabitazione. Le comunità si incontrano periodicamente per decidere riparazioni e restauri della basilica e cercare una migliore distribuzione delle differenti liturgie, ma le trattative sono lunghe ed estenuanti. I monaci etiopi e copti, per esempio, discutono da decenni su chi spetti restaurare un edificio che minaccia di cadere sul tetto del santuario; migliaia di fedeli passano per una sola porta, ma tra le sei diverse confessioni non c’è modo di accordarsi per aprire un’uscita di sicurezza.
Bisogna tenere presente che per queste comunità ogni piccola cosa assume un significato simbolico. Tuttavia il vento del dialogo ecumenico ha cominciato a soffiare anche dentro queste mura, stemperando i conflitti secolari: non esiste più, almeno da parte cattolica, l’accusa di «usurpazione» dei luoghi santi. Frati, pope, monaci armeni, abuna etiopici ed egiziani, incrociandosi nella penombra del luogo, si scambiano perfino sobri cenni di saluto. Anzi, la pluriforme presenza cristiana su tali luoghi è ritenuta una ricchezza preziosa da salvare e un diritto irrinunciabile.
Rimane ancora il fatto innegabile che basta molto poco, come togliere una ragnatela nel posto altrui, per scatenare risse e scazzottate. Eppure, guardando il lato positivo, reazioni del genere sono segni inequivocabili di attaccamento e amore alle memorie tangibili del nostro Salvatore. E anche Lui, di fronte a tali scene, non si scandalizzerebbe più di tanto, ma si farebbe una tacita risata.

Benedetto Bellesi




GERUSALEMME: ombelico del mondo

«Che gioia, quando mi dissero: “Andiamo alla casa di Dio”. Ora i miei passi si fermano alle tue porte, città di pace» (Sal 121). Così cantava estasiato il pio israelita, quando, dopo un lungo viaggio raggiungeva il Monte degli Ulivi e poteva finalmente contemplare la città santa. Sarà stato anche il canto di Gesù, quando si recava a Gerusalemme per le grandi feste; un canto concluso con un pianto: «Gerusalemme, Gerusalemme… quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figliuoli, come la chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali» (Luca 13,34).
Dal Dominus Flevit, la chiesetta che ricorda tale pianto, la visione di Gerusalemme conserva intatto il suo fascino e mistero. Il panorama di cupole, campanili e minareti attesta la sua singolarità: città unica e universale, dove i fedeli di tre monoteismi possono rivolgersi all’unico Dio. Gerusalemme è il centro dell’ebraismo, è il centro del cristianesimo e dal VI secolo è per l’islam «la Santa» (Al Quds). 
Nelle sue vicende storiche, spesso drammatiche, Gerusalemme è stata la città dell’incontro e continua a essere tale. È stata definita ombelico del mondo (Ezechiele 38,12); è stata cantata da salmisti e profeti quale patria spirituale e universale, in cui tutti i popoli sono chiamati a riconoscersi fratelli, anche i nemici tradizionali come Egitto e Babilonia, a causa dell’origine comune: «Raab e Babilonia… Palestina, Tiro ed Etiopia: tutti là sono nati. Si dirà di Sion: l’uno e l’altro in essa sono nati e lui, l’Altissimo, la mantiene salda. Il Signore registrerà nel libro dei popoli: là costui è nato. E danzando canteranno: sono in te tutte le mie sorgenti» (Salmo 87,4-7).
Vista dall’alto, al momento del tramonto, Gerusalemme diventa tutta d’oro, come se si specchiasse nella città gemella che attende di scendere dall’alto dei cieli e fondersi con la città terrena, come scrive l’Apocalisse. Terrena e celeste, storica e trascendente, materiale e spirituale, temporale e mistica… Gerusalemme è una realtà bipolare, possiede due volti, come ricorda il suo nome ebraico (Jerushalayim è forma duale); una duplice dimensione in perenne tensione dialettica: la Gerusalemme storica richiama quella celeste e la Gerusalemme celeste attrae quella storica e, con essa, attrae tutta la storia umana.

Gerusalemme città dell’incontro o semplicemente città della coesistenza? Un dilemma drammatico che affiora ogni volta che ci si ferma a osservare anche superficialmente il turbinio di lingue, culture, rumori, colori, vestiti e comportamenti che riempiono le stradine della città vecchia: i passi veloci dei rabbini che si recano al Muro e quelli lenti dei musulmani apparentemente senza meta; pellegrini cristiani che pregano ad alta voce a una stazione della via crucis, mentre il bottegaio fuma indifferente il suo naghilé; fogge di monaci ortodossi e suore cattoliche che s’incrociano senza guardarsi; e poi soldati che sembrano bivaccare a ogni angolo delle strade… Ciascuno vive nel suo mondo; mondi differenti che coesistono, l’uno accanto all’altro.
Sotto la scorza di tale coesistenza si celano fortissime tensioni, prima di tutto tra ebrei e palestinesi, che spesso si tramutano in proteste e scontri, e conseguenti repressioni. Tensioni fra le tre religioni monoteistiche e perfino all’interno di ciascuna di queste religioni; tensioni che pervadono anche i fedeli delle varie chiese cristiane.

Nonostante le contraddizioni della sua storia passata e presente, Gerusalemme continua a essere simbolo di tutte le attese e speranze umane. E per rispondere a tali attese è indispensabile che ebrei, cristiani e musulmani realizzino quei valori che concordano nel riconoscere come divini: frateità, amore, giustizia, pace. 
La città senza più né pianto, né lutto, né dolore, della perfetta giustizia e libertà è dono di Dio, è profezia; al tempo stesso è pure sfida e impegno umano. Da Gerusalemme la tradizione delle tre religioni vuole che parta e si concluda la storia della salvezza del genere umano.

di Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi