Cana (13) DAL TARGUM AL MIDRÀSH: ACQUA, SANGUE E VINO
Il racconto delle nozze di Cana (13)
«Tutte le acque del Nilo si mutarono in sangue» (Es 4,20).
Alle difficoltà interposte da Mosè, Yhwh pone tre «segni» (cf Es 4,9), di cui due sperimentati sul momento perché preparatori: il bastone che diventa serpente e la mano lebbrosa che guarisce (cf Es 4,2-8), mentre il terzo, che è il vero «segno», qui è solo annunciato, anzi minacciato: «Se non crederanno neppure a questi due segni (nel greco-Lxx: semêia) e non daranno ascolto alla tua voce, prenderai acqua del Nilo e la verserai sulla terra asciutta: l’acqua che avrai preso dal Nilo diventerà sangue sulla terra asciutta» (Es 4,9). Si svela il mistero: l’acqua di Cana cambiata in vino è un esplicito richiamo (antìtipo) all’acqua del Nilo cambiata in sangue (tipo). Vedremo come questo segno sia determinante nella letteratura giudaica per capire il senso di quello che avverrà dopo. Ancora una volta, il rapporto «segno» di Dio e «incredulità/fede» di Mosè è messo in primo piano e bisogna capire cosa accade se si vuole scoprire il senso delle nozze di Cana che si rifanno all’alleanza del Sinai. Per cogliere la portata del racconto evangelico come midràsh è necessario partire da Es 4 e passare in rassegna i tre segni che Dio oppone all’incredulo Mosè.
1° Segno: il bastone
Il 1° segno che Dio oppone all’incredulità di Mosè che egli somma con quella degli schiavi del faraone, è il segno del bastone (Es 4,2-5) che in Oriente è l’insegna del potere, qui di Dio conferito a Mosè:
«1Mosè replicò dicendo: “Ecco, non mi crederanno, non daranno ascolto alla mia voce, ma diranno: ‘Non ti è apparso il Signore!’”. 2Il Signore gli disse: “Che cosa hai in mano?”. Rispose: “Un bastone”. 3Riprese: “Gettalo a terra!”. Lo gettò a terra e il bastone diventò un serpente, davanti al quale Mosè si mise a fuggire. 4Il Signore disse a Mosè: “Stendi la mano e prendilo per la coda!”. Stese la mano, lo prese e diventò di nuovo un bastone nella sua mano. 5“Questo perché credano che ti è apparso il Signore, Dio dei loro padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe”».
L’arte della magia e della trasformazione degli oggetti non deve sorprendere perché era un’attività molto diffusa in Oriente dall’Egitto a Babilonia: le corti abbondavano di maghi che dilettavano il sovrano o impressionavano il popolo con magie più o meno roboanti. In un certo senso, si potrebbe dire che era la tv del tempo. Nell’obiezione di Mosè l’autore usa tre verbi importanti «credere, ascoltare e vedere/apparire», facendo proprio il linguaggio della rivelazione di Dio. Il binomio «ascoltare/vedere» è proiettato verso il «credere» e provengono anche dalla relazione che ogni Ebreo ha con la Toràh che deve essere creduta, ascoltata e contemplata. La fede non è raziocinio, ma è visione e ascolto, cioè contemplazione ed esperienza che si consuma nell’incontro «fisico» tra il credente e il creduto. La fede cristiana parte dalla storia e arriva alla persona, anzi alla Shekinàh – Dimora/Presenza.
Il segno del bastone (1) è importante perché secondo la tradizione giudaica, esso finita la peregrinazione nel deserto, venne custodito prima nella tenda del convegno, dove era alloggiata l’arca e quando Salomone costruì il tempio sulle colline di Sion, stava nel Santo dei Santi, accanto all’arca dell’alleanza, insieme ad una bottiglia con l’acqua del Mare Rosso e un’altra con la manna. Erano i segni «visibili», i «sacramenti» degli interventi di Dio nell’atto fondativo del suo popolo Israele.
2° Segno: la mano lebbrosa guarita
Il 2° segno che Dio, in un crescendo di intensità, oppone all’incredulità di Mosè è quello della mano che diventa lebbrosa: è un segno di conferma e di passaggio al terzo, il più importante:
«6Il Signore gli disse ancora: “Introduci la mano nel seno!”. Egli si mise in seno la mano e poi la ritirò: ecco, la sua mano era diventata lebbrosa, bianca come la neve. 7Egli disse: “Rimetti la mano nel seno!”. Rimise in seno la mano e la tirò fuori: ecco, era tornata come il resto della sua carne. 8“Dunque se non ti credono e non danno retta alla voce del primo segno, crederanno alla voce del secondo!» (Es 4,6-8).
Anche in questo 2° segno è interessante notare come nel greco della Lxx per due volte si mettono in relazione la «fede» con il «segno» (Es 4,8). Quest’ultimo non suscita la fede, ma la svela. Al contrario della convinzione comune che vuole «il miracolo» come «prova» dell’azione di Dio o della fede. Questo modo di vedere le cose non è biblico perché la fede è figlia della Parola che instaura una relazione, e non un teorema che deve essere dimostrato. Come non si dimostra l’amore, così non si può dimostrare la fede.
3° Segno: l’acqua diventa sangue
Con il 3° segno si raggiunge l’apice del crescendo in tutta la sua gravità e drammaticità, qui solo annunciata perché «il segno» sarà operativo solo nel capitolo 7 dell’Esodo che a sua volta anticipa anche l’ultimo «colpo» che piegherà il faraone e tutto l’Egitto: la morte dei primogeniti egiziani nella notte di sangue, quando l’angelo del Signore segnerà con il sangue dell’agnello pasquale gli stipiti delle porte degli Ebrei e ucciderà i figli dell’Egitto: vita per gli uni, morte per gli altri (cf Es 12,29-34, spec. 21-24). Anche qui il rapporto è tra fede e segno, con una particolarità: qui il faraone e la sua corte non devono credere a Yhwh, ma a Mosè e alla sua voce che così viene identificato con la persona stessa di Dio (cf Es 4,9). È quello che farà anche Gv nelle nozze di Cana, dove non fa manifestare la «gloria di Dio», ma quella di Gesù.
Targum e Midràsh: il sangue dalla roccia
Del 1° e del 3° segno, anche combinati insieme, come il bastone che colpisce la roccia e ne fa scaturire sangue, si occupano sia il Targum (traduzione in aramaico delle letture bibliche in ebraico) che il Midràsh (spiegazione della Scrittura con altri testi della Scrittura).
Il testo biblico di riferimento è il libro dei Numeri al capitolo 20 che è il seguente:
«6Allora Mosè e Aronne si allontanarono dall’assemblea per recarsi all’ingresso della tenda del convegno; si prostrarono con la faccia a terra e la gloria del Signore apparve loro. 7Il Signore parlò a Mosè dicendo: 8“Prendi il bastone; tu e tuo fratello Aronne convocate la comunità e parlate alla roccia sotto i loro occhi, ed essa darà la sua acqua; tu farai uscire per loro l’acqua dalla roccia e darai da bere alla comunità e al loro bestiame”. 9Mosè dunque prese il bastone che era davanti al Signore, come il Signore gli aveva ordinato. 10Mosè e Aronne radunarono l’assemblea davanti alla roccia e Mosè disse loro: “Ascoltate, o ribelli: vi faremo noi forse uscire acqua da questa roccia?”. 11Mosè alzò la mano, percosse la roccia con il bastone due volte e ne uscì acqua in abbondanza; ne bevvero la comunità e il bestiame. 12Ma il Signore disse a Mosè e ad Aronne: “Poiché non avete creduto in me, in modo che manifestassi la mia santità agli occhi degli Israeliti, voi non introdurrete quest’assemblea nella terra che io le do”» (Nm 20,6-12).
Il Targum di Gerusalemme a Nm 20,8.11-12 (riportiamo solo i testi che ci interessano) così traduce, mettendo insieme sia la tradizione del bastone sia quella più tardiva della roccia:
«8Prendi il bastone, tu e tuo fratello Aronne. Voi due chiedete alla roccia per il grande Nome divino perché dia acqua davanti ai loro occhi. Se si rifiuta, tu solo, darai un colpo sopra la roccia con il bastone che tieni in mano. 11Mosè alzò la sua mano e colpì la roccia con il suo bastone; la prima volta fece sgorgare sangue, mentre la seconda volta uscì acqua in abbondanza e la comunità potette bere insieme al suo bestiame. 12Yhwh disse a Mosè e ad Aronne: “Giuro: poiché non avete creduto alle mie parole per santificarmi davanti …”».
Adam sempre in agguato
Il Targum di Gerusalemme e anche il Midràsh (Esodo Rabbà a Es 4, 9) dunque mettono in evidenza il binomio fede/non fede di Mosè e Aronne: mentre Dio ordina di colpire «una sola volta» la roccia con il bastone di Dio, Mosè invece colpisce «due volte» la roccia. La prima volta sgorga sangue, e l’acqua la seconda volta. Troviamo anche qui il nesso tra acqua – sangue – fede – non fede; allo stesso modo nelle nozze di Cana troviamo il rapporto tra acqua – vino – fede (della madre e dei servitori) – non fede dell’architriclino. Il Midràsh (a Es 4, 1) aggiunge un paragone: Mosè è paragonato al serpente dell’Eden che insinua in Adam il dubbio malvagio (la gelosia) nei confronti del Creatore; Mosè invece cerca di insinuare in Dio stesso il dubbio sulla fede degli Israeliti oppressi: egli calunnia il popolo di Dio e quindi non santifica il suo Nome:
«Dovresti essere colpito con il bastone che tieni in mano perché hai calunniato i miei figli che invece sono credenti, come sta scritto: “Allora il popolo credette” (Es 4,31); essi infatti sono figli di credenti come sta scritto: “Egli [Abramo] credette al Signore” (Gen 15,6). Mosè agì come il serpente che calunniò il Creatore, quando disse: “Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male” (Gen 3,5). Mosè quindi sarà punito allo stesso modo del serpente che attribuì a Dio una intenzione malvagia agli occhi della prima coppia» (Midràsh, Esodo Rabbà a Es 4,1).
Dal bastone del potere alla Parola dello Sposo
Nelle nozze di Cana non c’è più Mosè con il bastone, simbolo del potere, e non c’è neanche l’intenzione di dubitare, ma vi è una realtà nuova, foriera di una grande novità: c’è l’Israele fedele che aspetta la redenzione, simboleggiata dalla madre, c’è l’Israele incredulo simboleggiato dall’architriclino e dallo sposo ignaro, c’è la disponibilità a cominciare a credere della nuova umanità simboleggiata dagli apostoli, convitati anch’essi alle nozze; ma soprattutto c’è lui, lo Sposo nascosto, che aspetta l’ora della sua Gloria, ma che è costretto dal bisogno del mondo ad anticiparla. L’acqua non si cambia in sangue minaccioso di morte, ma nel vino dell’allegria nel contesto della gioia nuziale. Il nuovo Mosè non deve battere le anfore di pietra con il bastone del potere, ma è sufficiente una sua Parola, perché lo Sposo della nuova alleanza agisce come il Creatore: opera attraverso la Parola. Egli parla e così avviene.
È evidente che lo schema teologico dell’Esodo fa da sfondo al racconto giovanneo che ancora una volta s’interroga e interroga sul mistero della personalità di Gesù, che diventa così la chiave ermeneutica per rileggere gli eventi antichi e scoprie i sensi nascosti che portano in sé. Gesù non è venuto a soppiantare Israele perché egli è immerso nella storia e nella fede del suo popolo e ciò che compie e dice e insegna non è una sostituzione di ciò che lo precede, ma la ricchezza abbondante nascosta e portata alla luce perché il mondo intero potesse «vedere la Gloria e cominciare a credere».
Principio e compimento
L’acqua e il vino, sullo sfondo dell’acqua del Nilo che diventa sangue, acquista anche un altro simbolismo perché anticipa il valore sacramentale della morte di Gesù alla fine del vangelo, costituendo così una particolare inclusione o richiamo non solo verbale, ma tematico, passando per la consapevolezza di Gesù che, prima della lavanda dei piedi dei suoi discepoli (Gv 13,1-38), «sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Gv 13,1). L’espressione «fino alla fine» in greco si dice «eis tèlos» che raggiunge il suo apice nel momento della morte, quando Gesù prima di consegnare il suo Spirito alla nuova umanità, rappresentata dal discepolo e dalla madre, dice: «È compiuto!» (Gv 19,30), espressione che in greco ha la forma verbale del perfetto, quindi dell’azione passata i cui effetti continuano nel presente: «tetèlestai» che deriva dal verbo «telèō – io compio/porto a compimento/concludo» e da cui deriva il sostantivo «tèlos – fine». In questo modo si passa dall’«archê – principio» del prologo (Gv 1,1) e delle nozze di Cana (Gv 2,11) al «compimento» che si realizza nel servizio ai discepoli/umanità e alla «pienezza dell’ora» che si realizza nella morte di Gesù (Gv 19,30): il «principio dei segni» che avviene a Cana trova il suo compimento e il suo riposo ai piedi della croce, quando tutto «è compiuto».
Ora possono cominciare le nozze della risurrezione perché l’umanità insieme ad Israele possono correre verso lo Sposo–roccia che disseta la fame di vita perché «uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua» (Gv 19,34). Nel racconto dell’esodo come anche nel Targum e nel Midràsh è Mosè a colpire con il bastone la roccia da cui scaturisce acqua e sangue, mentre sul Calvario è un pagano (un soldato romano) che colpisce il fianco di Dio, il quale inonda della sua grazia l’umanità intera, rappresentata dai quattro soldati romani/pagani e dalle quattro donne ebree/credenti, uomini e donne (cf Gv 19, 23-27).
Nell’AT il fatto centrale degli eventi era segnato dalla mancanza di fede del faraone e di Mosè che cerca di coinvolgere anche il popolo che ancora non conosce; nel NT inizia e cammina l’avventura della fede che comincia e finisce nella persona di Gesù di Nazaret, figlio della madre/Israele e figlio di Dio/Padre.
Con l’apertura del costato di Cristo si ritorna all’Esodo e all’acqua del Nilo mutata in sangue, con una differenza: l’acqua del Nilo insanguinata è presagio di morte, mentre la morte di Dio fa scaturire dal suo costato le sorgenti dell’acqua e del sangue dei sacramenti che come fiumi di grazia alimentano la vita che cammina verso il regno. La Storia della salvezza comincia nel «segno dell’acqua e del sangue» per la morte e si conclude nel «segno» sacramentale dell’acqua e del sangue per la risurrezione. Tra questi due estremi si colloca il racconto delle nozze di Cana che da un lato richiama e riprende il «segno» dell’esodo e dall’altro prefigura e anticipa il dono di Dio nel «segno» della morte che innaffia la vita con l’acqua e il sangue del corpo di Cristo. Ora, sì, si compie il desiderio dell’Apocalisse: «Lo Spirito e la sposa dicono: “Vieni!”. E chi ascolta, ripeta: “Vieni!”. Chi ha sete, venga; chi vuole, prenda gratuitamente l’acqua della vita» (Ap 22,17).
[continua – 13]
Paolo Farinella