«Sono un ribelle permanente»

Incontro con Adolfo Pérez Esquivel

Guerra e pace, economia e neoliberismo, risorse e multinazionali, governi e diritti umani. Tutti temi
su cui il premio Nobel per la pace ha posizioni nette, senza ambiguità. Un personaggio che confida nella forza della fede e della spiritualità. Un personaggio che, con identica sincerità, non ha paura di criticare Barack Obama o elogiare Fidel Castro.


Buenos Aires. Porta gli occhiali ed ha i capelli bianchi «sparati» alla Einstein.
Le pareti del suo ufficio presso la Fundación Servicio Paz y Justicia (Serpaj) dicono molto. Ci sono quadri: «Questa è una tappa della Via Crucis latinoamericana che dipinsi nel 1991»(1). Ci sono foto: immagini storiche e foto di incontri con religiosi e politici di ogni dove. «Qui sono con Fidel Castro, un uomo molto capace e solidale, a dispetto dei forti attacchi che subisce. È uno dei grandi statisti del nostro tempo». Lui si chiama Adolfo Pérez Esquivel, premio Nobel per la pace dell’anno 1980. Nato a Buenos Aires nel 1931, professore di architettura, pittore e scultore, Esquivel ha ricevuto il riconoscimento dell’Accademia svedese per la sua lotta durante la dittatura argentina, ma da allora – e sono ormai passati 30 anni – non ha mai smesso di lottare per affermare e difendere i diritti umani nel mondo.

Lei è premio Nobel per la pace come il presidente degli Stati Uniti Barack Obama. Come si sente?
«Sono rimasto sorpreso – risponde con un sorriso -, ma gli ho inviato una lettera di complimenti.
Ho scritto ad Obama che mi aveva sorpreso la sua designazione, ma che ora, in quanto premio Nobel, doveva essere coerente, lavorando e lottando per la pace. Però, lamentabilmente, Obama ha subito una metamorfosi. Ogni giorno di più si sta mimetizzando con George Bush. Non può essere che installi 7 basi militari in Colombia, che concordi con la riattivazione della IV Flotta della marina, che mandi 30.000 soldati in Afghanistan in una guerra persa, aggiungendo morte e dolore alla vita di quelle genti. Inclusa a quella dei soldati Usa e della Nato che tornano morti o irrecuperabili per il resto dell’esistenza.
Queste sono le guerre dei paesi ricchi contro i paesi impoveriti. Sono guerre economiche e per l’appropriazione delle risorse naturali.
Se questa è la politica degli Stati Uniti e di Obama, niente ha a che vedere con la pace. Credo che la pace sia un’altra cosa. La pace è un progetto di vita. Obama ha un progetto di morte(2)».

Tuttavia, l’elezione di Obama ha generato molte speranze, soprattutto al di fuori degli Stati Uniti…
«Io capisco che Obama è arrivato al governo, ma non al potere. Una cosa è ciò che Obama può volere come persona, altra è ciò che può fare come capo di una potenza che gli impone condizioni. Lui è schiavo di alcuni centri di potere: il complesso militare statunitense, il Pentagono, la Cia, le grandi imprese multinazionali».

Lei insiste sempre molto sul ruolo che le imprese multinazionali hanno nella situazione mondiale.
«Le multinazionali non hanno frontiere e si muovono nel mondo in funzione di saccheggiare le risorse dei popoli. Le Nazioni Unite hanno lanciato un allarme sulla sovranità alimentare. Secondo la Fao, ogni giorno nel mondo muoiono di fame 35.000 bambini. Come si chiama questo?
Questa è la sfida che dobbiamo affrontare. Le grandi multinazionali lavorano sulle monocolture. Ma la natura non ha mai creato monocolture, ma diversità per generare l’equilibrio. Stanno distruggendo una creazione di Dio. Soltanto piantando il seme della solidarietà e del lavoro, si possono generare la pace e la vita».

Per tornare alla domanda iniziale, allora perché l’Accademia svedese ha assegnato il premio Nobel per la pace a Barack Obama?
«Francamente non lo so. Come – a dire il vero – non so perché lo diedero a me. Credo che si sbagliarono anche nel mio caso. Perché io sono un ribelle permanente di fronte alle ingiustizie.
Sì, un ribelle, ma nella speranza».

La chiesa, la fede,
la speranza

Un ribelle di base cristiana…
«Sì, io ho una base cristiana, che
per me è fondamentale. La mia fonte è il vangelo. Io sono cresciuto con i francescani. E seguo molto quella spiritualità, come quella di Charles de Foucauld».

Si dice spesso che la chiesa stia sempre con il potere…
«No, non la chiesa, ma la gerarchia e comunque non tutta. Guardate le pareti di questo ufficio… Lì sta Evaristo As, vescovo di San Paolo. Qui sta la foto di mons. Angelelli, un martire, assassinato dalla dittatura militare. Pensiamo a una figura come mons. Romero…
Io sono un uomo di meditazione e preghiera. Per me l’azione deve avere un retroterra trascendente. Ci sono valori e principi. Tutte le persone sono fratelli o sorelle, anche se sono miei nemici.
Quando si dice “ama anche il tuo
nemico”, cosa si sta dicendo? Di non fare loro danno, ma di cercare di trasformae il cuore.
Io sono un sopravvivente e l’unica
cosa che mi sostenne in quei momenti fu la fede. Quando, dopo 32 giorni in un calabozo(3) immondo (perché non entrava né luce né altro), aprirono la porta, vidi sul muro che un prigioniero precedente aveva scritto con il proprio sangue: “Dios no mata” (Dio non uccide). Questo è una testimonianza di fede profonda».

Ci dica qualcosa di più sulla sua prigionia durante la dittatura…
«Fui 14 mesi in prigione e quindi in libertà vigilata. Il 5 di maggio del 1977 mi presero e, incatenato, mi misero su un aereo della morte che volò alcune ore sul Rio de la Plata ed il mare. Alla fine decisero di non gettarmi fuori a causa delle forti pressioni inteazionali.
Debbo ringraziare Dio per essere
ancora qui a lavorare e a testimoniare. Dunque, come non si può avere fede? E non una fede distruttiva. Per me la fede è vita».

Si spieghi…
«Nel senso dell’allegria del vivere e non dell’angustia esistenziale. A volte la chiesa dice: “In questa valle di lacrime…”. Ma no, ciò che abbiamo è un mondo con ricchezze straordinarie da condividere. Le lacrime ci sono, ma sono la guerra, l’Iraq, l’Afghanistan, la fame, la povertà, i bambini a cui hanno rubato la speranza della vita».
A dispetto di tutto, lei parla ancora di speranza…
«Perché, nonostante tutto, abbiamo la capacità di trasformare la realtà. E questa è la speranza».

Un tribunale
per l’ambiente

Come presidente dell’Accademia internazionale di Scienze ambientali di Venezia, cosa pensa del recente vertice di Copenhagen?
«Credo che l’unica cosa che si è ottenuta a Copenhagen(4) è che non si è approvato nulla. Si è capito che c’è una guerra tra i paesi poveri o impoveriti e quelli ricchi, che vogliono appropriarsi delle risorse e che per questo mettono in campo gli eserciti, le forze multinazionali, l’Organizzazione mondiale, del commercio, il Fondo internazionale, la Banca mondiale…
Questo è il tragico.
Attraverso l’Accademia delle scienze di Venezia, di cui io sono presidente, abbiamo proposto la costituzione del Tribunale penale internazionale per l’ambiente e un Osservatorio internazionale sul comportamento ambientale delle imprese multinazionali che sono le principali responsabili della distruzione dell’ambiente.
Si pensi alle imprese minerarie o a quelle della soia. Si pensi alle imprese contaminanti del Nord che vengono mandate in America Latina, Africa ed Asia. Sono le multinazionali che si appropriano dei semi e se un contadino li usa, lo accusano di essere un delinquente».
E qui dove vede la speranza?
«Per esempio, il movimento dei
contadini senza terra dell’America Latina che si sta diffondendo anche in Africa e in Asia tentando in tal modo di stabilire dei vincoli Sud-Sud. Questi contadini vogliono la terra per lavorarla, non per sfruttarla; per dare vita, non per dare morte. Al contrario delle multinazionali che stanno distruggendo per guadagnare di più e in poco tempo. Altra cosa a cui occorre prestare molta attenzione è il movimento degli indigeni, che stanno recuperando la memoria e la lingua e che si stanno organizzando. Altro elemento importante sono i movimenti delle donne, che stanno avanzando in tutti i campi con la loro sensibilità, con il loro diverso modo di pensare. Sono leader straordinarie per le sfide che ci attendono».

L’uomo, la tecnologia e
l’accelerazione del tempo

A quali sfide si riferisce?
«Abbiamo avuto enormi progressi nel campo della scienza e della tecnologia, che ci hanno portato ad un processo di “accelerazione del tempo”. Ma in questa accelerazione noi abbiamo perso la capacità di analisi e il ritmo con la natura. Non abbiamo più tempo per guardare il sole, l’acqua, gli insetti. Siamo entrati in una dinamica che ci fa dimenticare di essere umani e ci fa diventare schiavi della tecnologia. Dobbiamo liberarci. Dobbiamo liberare la parola. In una parola, dobbiamo pensare».

È azzardato dire che spesso la gran parte dei media non aiuta a pensare?
«I mezzi di comunicazione non
stanno a servizio della gente, ma del potere. Non permettono di pensare e non informano, al contrario disinformano. E condizionano. Quando fui in Iraq, ci fu una strage di centinaia di bambini e mamme. La sola cosa che la Cnn disse è che due bombe intelligenti – perché adesso le bombe “pensano” – erano entrate per i canali di ventilazione di un bunker militare e avevano ucciso delle persone.
Una parola può essere tanto distruttiva come un’arma. E poi la menzogna, che è – come diceva Ghandi – la madre di tutte le violenze. Su una menzogna si sono fatte le guerre d’Iraq e di Afghanistan e praticamente tutte le guerre.
Oggi i mezzi di comunicazione ci
impongono il pensiero unico. Per questo, abbiamo necessità della ribellione sociale, politica e dello spirito. Per liberarci e per recuperare il senso di essere persone».

«Essere persone» sembrerebbe una ovvietà…
«Nel teatro greco, gli attori usavano maschere, che fungevano anche da amplificatore della voce. Quando si toglievano la maschera, gli attori smettevano di essere personaggi e tornavano ad essere persone. Nella nostra società ci sono persone che continuano ad essere personaggi e non si tolgono la maschera per paura di vedere se stessi. Sta capitando ai nostri politici, sta capitando ad Obama. Sta capitando a molti – politici, presidenti, premi Nobel – che si comportano come personaggi avendo paura di essere persone».

Ad ogni persona fanno capo dei diritti proprio in quanto persona. Lei ha combattuto per i diritti umani negli anni della dittatura. Com’è oggi la situazione?
«I diritti umani non sono soltanto
quelli per cui abbiamo combattuto contro la dittatura. Sono anche quelli economici, sociali e culturali. Sono quelli di educazione, di lavoro, di informare e di essere informato. Sono quelli della cosiddetta “terza generazione”, dove ad esempio si parla del diritto all’ambiente. In breve, i diritti umani sono integrali e indivisibili. Come la democrazia è indivisibile dai diritti umani».

Tutti parlano di diritti umani, ma alla prova dei fatti la realtà è spesso diversa…
«È vero. Ci sono governi che hanno firmato, ma che non hanno ratificato gli accordi. Per esempio, gli Stati Uniti che fino al giorno d’oggi non hanno ratificato la “Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia”(5). Come può essere che una grande potenza che si atteggia a difensore della democrazia si opponga?
Questo va molto al di là della volontà personale di Obama. È la politica degli Stati Uniti che impone la propria volontà al resto del pianeta. Ma tutto questo può terminare perché nessuna società è statica. Come i diritti umani che sono una dinamica permanente della vita. Una dichiarazione non è una lettera morta. C’è una dinamica nella società e nelle coscienze. Credo che nei prossimi anni assisteremo a cambi fondamentali.
Oggi c’è uno svuotamento di valori e  di contenuti, ma non dobbiamo disperare».

La fame in Argentina:
incredibile, ma vero

Come vede l’Argentina dopo gli anni del tracollo economico?
«È un paese ricchissimo, ma impoverito. E purtroppo non gli si permette di uscire da questa situazione di impoverimento. C’è una sorta di sottomissione.
Quando ci sono 10 milioni di persone in condizioni di povertà su un totale di 40, la situazione è allarmante. Quando, in un paese produttore di alimenti, muoiono di fame 25 bambini al giorno…».

Al giorno?
«Al giorno, al giorno, secondo dati ufficiali dell’Unicef. Ma la realtà è più drammatica. Il mio amico dom Helder Camara – che vedete in quella foto – raccontava che, quando egli dava un piatto di cibo ad un povero, si commentava: “Questo vescovo è un santo”. Ma quando cominciò a chiedere perché ci sono i poveri, l’opinione cambiava: “Questo vescovo è comunista”.
Non possiamo fermarci agli effetti, senza ricercare le cause. Perché c’è la povertà? Perché si espellono i contadini dalle campagne? Perché le imprese minerarie transnazionali si portano via tutti i minerali strategici? In tutto questo, c’è una grande complicità dei governi».

United Colours
of Benetton

Anche dell’attuale governo argentino?
«Del nostro governo attuale come dei precedenti. Insomma, dobbiamo domandare perché i poveri sono aumentati in un paese dove nessuno dovrebbe morire di fame. Dobbiamo attaccare le cause. Dobbiamo domandare perché si svende la terra ad un signore che voi conoscete bene…».

Si riferisce a Benetton?
«Benetton possiede più di un milione di ettari(6). E ha tolto 385 ettari ad una famiglia mapuche(7). Oltre ad essere immorale, questo è ingiusto. Ma quando protestiamo, dobbiamo anche fare una domanda: chi vendette questa terra a Benetton?».

Paolo Moiola

Paolo Moiola




«Ricostruire» la persona

La parola allo psicologo (missionario)

Padre Enzo Viscardi, missionario della Consolata, psicologo, è docente all’Università Cattolica di Milano. È al suo secondo viaggio ad Haiti (dopo il sisma) per lavorare sulla «rimozione del trauma» con seminaristi, preti e religiosi. Lo abbiamo incontrato a Lilavois, periferia di Port-au-Prince, dai missionari Scalabriniani.
«Si parla di disturbo post traumatico da stress. Il rischio maggiore è la non azione, l’incapacità di riattivarsi, restare a contemplare le macerie e non fare nulla. Poi ci sono reazioni tipo la disperazione o la negazione, per cui non vedi la situazione reale. Senza contare le varie conseguenze che si portano avanti nel tempo, come allucinazioni, ansie improvvise, difficoltà di rimanere in posti chiusi, fino a problemi fisici, come tremiti del corpo, ecc. Il fatto è che questi disturbi diventano cronici alcuni mesi dopo l’evento. Per questo l’intervento dovrebbe essere fatto all’inizio».
Lui e la sua équipe sono intervenuti a diversi livelli.
«Si parte dai dati scientifici che descrivono la realtà. Per questo abbiamo fatto interventi su cos’è il terremoto, come ci si può salvare, come gestire l’emergenza.
Dopo si fanno esempi concreti per dare loro il senso che si può ricostruire partendo dalle piccole cose. Se prendo un mattone un giorno e domani ne prendo un altro e lo metto sopra, dopo due giorni sarà ancora lì. Perché il senso che ti rimane è quello dell’inutilità di ricostruire, in quanto poi tutto sarà distrutto».
Poi si passa a terapie individuali e di gruppo.
«Questo consiste soprattutto nel far raccontare alla persona quello che ha vissuto, nei particolari. C’è bisogno di ricordare. Tra le conseguenze ci sono anche le amnesie. La gente non ricorda per negazione. Ha bisogno del racconto personale e l’ascolto del racconto degli altri, per questo i racconti si fanno in gruppo. Ha bisogno di ricollegare, rimettere insieme i pezzi di una situazione che è stata molto traumatica.
Chi subisce un trauma di questo genere, quando inizia a raccontare poi va avanti e fa uscire quello che ha dentro. Però non basta. L’intervento non si deve fermare al solo racconto ma si passa alla ricostruzione, quindi alla rimotivazione».
Dentro chi ha vissuto il terremoto nascono molte domande. Come mai io ero qui, mi sono salvato e la persona che era a cinque metri da me io l’ho vista morire? Come i seminaristi dei padri Camilliani, salvi nel parcheggio mentre i loro colleghi, già in macchina, venivano sepolti dalle macerie. E tantissimi altri casi.
«A queste domande si risponde in modo pericoloso, come: chi meritava di vivere o di morire … Di fronte a un’esperienza estrema come questa dove, come dice il Vangelo “uno viene preso e l’altro viene lasciato” occorre lavorare sul senso e sul significato di quello che è successo non solo a livello fisico ma di motivazione e senso della vita».
«Qui ad Haiti c’è stata la questione di chi ha mandato il terremoto. Dall’inizio l’interpretazione più frequente è legata al vudù. Oppure a Dio che “ci ha puniti un’altra volta per i nostri peccati”. L’immagine di Dio contro questo popolo sempre molto martoriato. L’intervento sui significati io l’ho fatto da prete, con celebrazioni, messe. Ho parlato della bontà del Padre che non è lì a decidere di fare il terremoto sui cattivi o sui buoni».
L’analisi di padre Enzo si spinge a scovare alcuni aspetti «positivi, se possibile» del terribile evento.
«Ci sono due o tre esperienze che la gente ha fatto, soprattutto i giovani.
Primo: si sono resi conto che il mondo li ha riconosciuti come popolo. Si sono meravigliati su come tutto il mondo si sia accorto di loro. Pensavano di non esistere.
Secondo: hanno capito che gran parte della distruzione è causa di come loro avevano costruito e urbanizzato la città.
Terzo: c’è la voglia di provare a ricostruire la società su basi diverse. è positivo il fatto di dire: “tutto è distrutto, possiamo riprovarci”. Altra cosa: all’inizio c’era una solidarietà tra di loro che non c’era mai stata. Questo è importante. Un’esperienza che non avevano mai fatto». Padre Enzo è ad Haiti anche per un altro progetto. Verificare la possibilità di una collaborazione tra l’Università cattolica di Haiti e quella di Milano: «È un’idea della Conferenza episcopale haitiana e ne abbiamo parlato con monsignor Louis Kebrau, vescovo di Cap Haitien, l’attuale presidente. Chiedono l’appoggio a nuovi leader in ambito amministrativo e politico» racconta padre Enzo. «Si potrebbe realizzare una convenzione tra università e poi organizzare diverse iniziative, iniziando ad esempio con un master in comune».

Marco Bello

Marco Bello




Due volte vittime

Chi gestisce il futuro del Paese

Dopo il terremoto la comunità internazionale si mobilita. Gli Usa inviano 20.000 marines e prendono in mano la situazione. Il governo haitiano si affida a esperti stranieri per il piano di ricostruzione nazionale. Quando avrebbe dovuto mobilitare le «forze vive» della nazione. Ma società civile e partiti politici non ci stanno. Intanto si profila all’orizzonte la scadenza elettorale.  E la commissione per la ricostruzione è cornordinata da una vecchia conoscenza: Bill Clinton.

«Il terremoto rappresenta una nuova tappa per Haiti. In un certo senso niente può essere come prima. I 35 secondi del sisma hanno avuto un impatto di ampiezza straordinaria, che si prolungherà per molto tempo ancora». Suzy Castor parla nel suo ufficio nel Cresfed  (Centro di ricerca e di formazione economica e sociale per lo sviluppo), situato nel quartiere di Canapé Vert. Struttura che, nonostante le vistose crepe, è sopravvissuta al sisma. «Questo è valido sia che si tratti di distruzione fisica materiale sia di perdita di vite. Perché 300 mila morti sono anche 300 mila risorse che abbiamo perso». La storica haitiana è anche militante politica (partito Opl, Organizzazione del popolo in lotta): «Per questo io credo, non sia un’opportunità, ma l’occasione per potere ricostruire, non solo fisicamente, ma anche materialmente. Noi parliamo di “rifondazione”. C’è stata la fondazione nazionale con il primo gennaio 1804, l’indipendenza di Haiti, la libertà, i molti sogni. Penso che questa rifondazione debba farsi, in modo naturale. Tutti ne parlano adesso».
Un’opportunità importante, che però sta inesorabilmente scivolando via dalle mani degli haitiani. E non è la prima volta nella storia del paese.

Aiuti, marines e piani di sviluppo

Dopo il sisma che crea un vero disastro, la comunità internazionale si attiva. La solidarietà dai popoli di mezzo mondo è commovente, ma anche gli interessi di alcuni stati sono evidenti. Gli Usa mandano nel paese 20.000 marines.
Il 31 marzo si tiene a New York la conferenza per la ricostruzione di Haiti. Vi partecipano i paesi donatori e le Nazioni Unite.
Il governo haitiano deve preparare un piano di sviluppo per il paese. Per farlo, anziché coinvolgere i diversi settori della nazione, utilizza un altro documento il Post disaster needs assessments, un modello (anglosassone) di valutazione dei bisogni dopo i disastri, realizzata, in questo caso, in gran parte da esperti stranieri. è così che il governo partorisce il «Piano d’azione per il sollevamento e lo sviluppo di Haiti» con l’obiettivo di fare «di Haiti un paese emergente da oggi al 2030».
Ma i movimenti sociali e i partiti politici haitiani non ci stanno e contestano duramente il documento. Nei contenuti e soprattutto nel metodo. «A livello della società civile, le organizzazioni hanno denunciato l’assenza di partecipazione. Di fatto non riconoscono il piano del governo perché loro non hanno potuto partecipare» ci spiega il giornalista Gotson Pierre. «Il piano non collega le richieste che potevano venire dal paese rurale, dalle donne, dai quartieri popolari, dai campi di sfollati, etc. Non è veramente articolato sulle aspirazioni dei settori sociali di Haiti».  E continua: «Lo stato da solo non può risolvere questa situazione. Da qui la necessità di cercare di mobilitare l’insieme della società haitiana per far affrontare la situazione: questo è il ruolo dello stato». Ma tutto ciò non è successo. Gotson Pierre: «Non si sente questa capacità di mobilitazione dei settori della società per far fronte a questa situazione». Anche gli aiuti della comunità internazionale vanno cornordinati: «Bisogna creare questa sinergia tra la volontà della comunità internazionale, la possibilità dello stato di cornordinare lui stesso questo sforzo e la società haitiana, altrimenti non arriviamo da nessuna parte».

Groviglio politico interno …

Ma non basta. Il 15 aprile il governo riesce a far votare al Parlamento il prolungamento di 18 mesi della «Legge sullo stato di emergenza», legge che di fatto trasferisce tutti i poteri all’esecutivo. Il 10 maggio la camera dei deputati e un terzo del senato scadono (ad Haiti il senato è rinnovato un terzo alla volta per sei anni). In effetti le elezioni generali (amministrative, legislative e presidenziali) dovrebbero – il condizionale è d’obbligo – tenersi a fine novembre, in modo che il nuovo presidente della Repubblica (René Préval non può ricandidarsi) possa assumere la carica alla scadenza costituzionale: il 7 febbraio.
Il senatore Jean-William Jeanty fa parte di un gruppo di 10 parlamentari che hanno votato contro la legge d’emergenza e si definiscono «resistenti»: «Abbiamo denunciato questa legge e abbiamo pubblicato una lettera, protestando contro la sua incostituzionalità».
Un’altra mossa del presidente è stata far votare un emendamento della legge elettorale che rende possibile prolungare il mandato presidenziale «qualora non fosse possibile tenere le elezioni nella data costituzionale». Continua l’onorevole Jeanty: «Abbiamo poi scritto una lettera contro la legge che corregge il mandato del presidente. Noi siamo in “resistenza” completa rispetto a quello che si fa attualmente nel paese».

… e affari inteazionali

E con la legge di emergenza riaffiora anche un vecchio «adagio» della geopolitica dell’area. Continua il senatore Jeanty: «La legge sullo stato di emergenza delega i poteri non solo all’esecutivo ma anche all’internazionale, perché in essa è definita la creazione della Commissione ad interim per la ricostruzione di Haiti (Cirh), di cui Bill Clinton sarà il cornordinatore principale». La Cirh ha preso ufficialmente forma il 17 giugno scorso ed è composta per la metà di rappresentanti di istituzioni e paesi donatori (Usa, Francia, Canada, Spagna, Brasile, Unione europea, Onu, Banca mondiale, ecc.), e per l’altra metà di rappresentanti haitiani «istituzionali», parlamento, governo, giudiziario e (poco) collettività locali. È co-presieduta dal primo ministro Jean-Max Bellerive e da Bill Clinton. Quest’ultimo non è estraneo alla storia di Haiti, in quanto fu lui (insieme a 20.000 marines) a «riportare in patria» il presidente Jean-Bertrand Aristide, dopo i tre anni di sanguinoso regime di Raul Cédras (1991-94). Un Aristide molto vicino ai democratici statunitensi, ormai edulcorato e «venduto» agli interessi dello zio Sam.
«In questa legge si dice chiaramente che la Cirh deve assicurare la “messa in esecuzione del programma di sviluppo” di Haiti. Questo vuol dire che i poteri della commissione sono superiori a quelli dell’esecutivo» continua Jeanty. Una vera ingerenza degli stranieri negli affari interni del paese.
La società civile e i partiti politici, tenuti totalmente al di fuori del processo, temono che non solo la ricostruzione del paese ma anche la visione del futuro di Haiti sia gestito dai paesi stranieri, in particolare dagli Stati Uniti.
Ribadisce Suzy Castor: «Nella storia non conosciamo alcun caso in cui il salvataggio viene dall’estero solamente. Non dico che non si deve contare sull’appoggio dell’esterno, ma se non è il popolo che prende in mano il suo destino, non c’è futuro».
Mettere nelle mani della comunità internazionale gli orientamenti per lo sviluppo di una nazione è, certo, fatto anomalo e premessa a nuove forme di controllo geopolitico. Continua Suzy Castor: «Per questo dico, il primo responsabile di questo orientamento deve essere il governo haitiano, insieme alla popolazione. La cooperazione può continuare a essere quello che è con i risultati che conosciamo, oppure, approfittando di questa esperienza, fare un passo che può essere benefico alla nazione. Ma questa cooperazione rischia di trasformarsi in nuove forme di tutela per il XXI secolo».
Tutela che gli Usa cercano da oltre un secolo (riuscirono ad occupare il paese dal 1915 al ’34). Haiti interessa non solo perché è nel “cortile di casa”, nell’area geopolitica a totale (o quasi) controllo nordamericano. È da vent’anni il principale snodo per il traffico della cocaina dal Sud al Nord America, pratica incoraggiata da governi corrotti e putchisti o dalla mancanza dello stato. È all’origine delle migliaia di boat people, che a ondate successive hanno tentato (e tentano) di raggiungere la Florida. È inoltre molto vicino a Cuba: le due isole sono separate solo dagli 80 Km del Passe du Vent, nel Nord Ovest. Zona dove, già da molti anni si dice, gli Usa volessero trasferire la base di Guantanamo. Per gli Usa Haiti è anche un mercato, del riso in particolare, alimento base della dieta haitiana. Secondo una strategia ben pianificata l’american rice invade da oltre 15 anni i piatti degli haitiani a scapito dei produttori locali. E dopo il sisma l’immissione di riso Usa è stata straordinaria. Perché dunque, in prospettiva, non fare di Haiti una nuova Porto Rico?

Verso improbabili elezioni

Secondo il senatore Jeanty il governo non ha offerto alcun margine di negoziato. Per questo il movimento tende a radicalizzarsi e la situazione potrebbe scaldarsi.
Fino dal 10 maggio si moltiplicano le manifestazioni in capitale e nei capoluoghi dei dipartimenti. Mobilitazioni contro il presidente René Garcia Préval e contro la legge di emergenza. Sono organizzate dai movimenti della società civile e dai partiti politici. Alcuni settori chiedono le dimissioni del presidente e la creazione di un governo di transizione, altri vogliono che si tengano le elezioni nei tempi stabiliti. Tutti sono contrari al prolungamento –  fuori costituzione – del mandato. «Per me è essenziale che si metta in piedi un potere di transizione che identifichi i bisogni di questo momento e formi le strutture che permettano di farci uscire da questa situazione creatasi a gennaio e per poter andare avanti» spiega Jeanty.
Il 24 giugno nuova mossa del presidente: il Consiglio elettorale provvisorio (Cep), presieduto da Gaillont Dorsainvil ottiene il mandato per organizzare le elezioni del 28 novembre. Ma il Cep è un altro nodo duramente contestato da opposizione e società civile. Dorsainvil aveva la stessa carica durante le passate elezioni, che hanno visto la vittoria di Préval ed è accusato di essere vicino al presidente. L’attuale Cep è poi stato coinvolto in diversi scandali. La richiesta popolare è invece quella di un Consiglio nominato secondo i criteri dettati dalla costituzione del 1987, con maggiore partecipazione di tutti i settori della società haitiana. «E inoltre c’è la volontà di Préval: lui vuole organizzare le sue proprie elezioni, in maniera da portare la sua ombra al palazzo presidenziale dopo di lui» sostiene il senatore.

Ricostruzione: «this is business»

Un segnale evidente dell’interesse Usa e Canadese è l’impegno che questi due stati si sono presi per ricostruire rispettivamente 47.000 e 16.500 edifici. Impegno che in realtà è il grosso business della ricostruzione edilizia. Il primo ministro canadese è volato ad Haiti per assicurarsi che le imprese canadesi vi partecipino. C’è un negoziato politico in appoggio all’imprenditoria. Da sottolineare che la legge sullo stato di emergenza rende molto semplificate le procedure per l’assegnazione degli appalti.
Nella conferenza di New York del 31 marzo i paesi donatori hanno promesso 9,9 miliardi di dollari su 5-10 anni per la ricostruzione di Haiti. Cifra in parte confermata (7,8 milioni) all’incontro internazionale del 2 giugno a Punta Cana (Repubblica Domenicana). Di fatto, però, a cinque mesi dal sisma, solo 150 milioni di dollari erano stati sbloccati da Brasile e Venezuela. Quest’ultimo ha anche cancellato un debito petrolifero di 395 milioni.
È chiaro che questa montagna di soldi “promessi” solletichi la cupidigia di molti. Si pensi, inoltre, che nel 2006 Haiti era il paese più corrotto del mondo secondo la classifica di Transparency Inteational (vedi MC gennaio 2007). Forse per questo Préval e la sua équipe hanno difficoltà a mettersi da parte.
René Préval, già primo ministro e delfino di Aristide (’95), è poi diventato presidente della Repubblica in un primo mandato (’96-2001) durante il quale subiva la pesante influenza del predecessore. È di nuovo eletto presidente nel 2006, dopo il periodo di transizione del primo ministro Gérard Latortue (vedi intervista su MC marzo 2005). Ma durante i suoi due mandati non ha mai fatto nulla di concreto e ha pesanti responsabilità sullo stato in cui versa oggi il paese.
Camille Chalmers, direttore esecutivo del Papda (piattaforma di organizzazioni della società civile haitiana), mette in luce il doppio dramma del popolo haitiano.
«Oggi per la maggior parte degli attori potenti sul terreno, lo spazio di ricostruzione è uno spazio di riconquista e ri-colonizzazione, per approfittare della terribile crisi post sisma e spingere su una serie di riforme economiche, che vanno nel senso di un controllo diretto delle risorse strategiche da parte delle multinazionali».
I movimenti della società civile haitiana, nati agli inizi degli anni ’80 per cacciare Duvalier, hanno vissuto periodi storici altei di effervescenza e appiattimento. Oggi, rivitalizzanti da questa nuova solidarietà interhaitiana, stanno cercando di creare un fronte unico e fornire proposte alternative. Vogliono una rottura rispetto allo stato della dipendenza, dell’esclusione e del dominio oligarchico. Chalmers: «Secondo noi pensare oggi a delle risposte alla crisi post sisma vuol dire pensare delle risposte alla crisi strutturale haitiana che data molto prima il 12 gennaio e attraversa tutto il XX secolo». Ma come?
«Uno degli strumenti che stiamo cercando di mettere in piedi è quello che chiamiamo l’Assemblea dei movimenti sociali di fronte alla crisi haitiana. Sarà uno spazio di incontro di tutti i movimenti sociali di Haiti, nel quale vorremmo arrivare a definire l’opzione di sviluppo, ovvero una visione di sviluppo economico e sociale, per avere un minimo di accordo sui grandi orientamenti da prendere rispetto al futuro».
Ma la strada è ancora lunga e, soprattutto, il cammino intrapreso dal governo dopo il sisma va nella direzione opposta.

Marco Bello

Marco Bello




Ritorno a Port-au-Prince

Alla riscoperta della capitale caraibica

Sono passati alcuni mesi dalla grande tragedia del 12 gennaio. La stagione delle piogge è arrivata e dopo di lei quella degli uragani. Port-au-Prince, con i suoi quasi 3 milioni d’abitanti è una città ferita. Case distrutte e tendopoli si sono aggiunti al caos quotidiano, al caldo, all’umidità e agli odori forti. Ma la dignità è grande e una nuova solidarietà sembra nata.

L’aereo che ci porta a Port-au-Prince atterra sotto una pioggia battente. È buio pesto perché è sera inoltrata. Non pensavo che la pista della capitale avesse le luci. Il bus interno ci recupera e ci lascia ad un hangar poco lontano. È qui che sono stati allestiti gli arrivi dell’aeroporto Toussaint Louverture, danneggiato durante il sisma del 12 gennaio. Una poliziotta gentile ci timbra il passaporto e poco dopo una doganiera assonnata ci indica di uscire. Tutto è tranquillo e normale. La stagione delle piogge è cominciata e con lei gli allagamenti di strade, cortili, terreni.

Per le strade della capitale

Il mattino Port-au-Prince ci accoglie con il suo solito caos. Con i tap-tap smarmittati carichi di gente, e i giganteschi camion americani «Mack» che non guardano in faccia a nessuno prendendosi la strada come e quando vogliono. Le lunghe file di mezzi di ogni tipo a passo d’uomo lungo le arterie principali. Sotto un sole caldo e un’umidità che induce una traspirazione continua. Se si prende un appuntamento bisogna contare più di un’ora per un qualsiasi trasferimento: il tempo è aleatorio, non è una variabile di nostro dominio. Ma il traffico congestionato, i blokis, come si dice in creolo, sono una costante di questa città, almeno negli ultimi 15 anni. Non è certo una scoperta del terremoto.
Ci rinfranca vedere che la capitale non è distrutta. Molte case sono crollate, ma molte hanno resistito. È strano notare come sia successo a «scacchiera»: un edificio in perfette condizioni a fianco di un altro ridotto a un mucchio di macerie, o ancora a una casa molto danneggiata. La distruzione è avvenuta di più in certi quartieri piuttosto che in altri. La città bassa, ba lavil, il centro nevralgico, è il più colpito e con lei molti edifici pubblici e simbolici. Dal palazzo presidenziale a diversi ministeri e uffici governativi. La cattedrale, la chiesa del Sacro Cuore. Alcuni hotel rinomati. Molte le scuole crollate o danneggiate, così come gli immobili dell’università.
E il traffico vuol dire movimento, commercio, lavoro, vita. Sì, Port-au-Prince è viva, vitale, molto più di quello che ci si possa aspettare dopo il dramma che l’ha colpita e dopo le immagini che abbiamo visto attraverso i mass media. Già dal mattino presto il formicaio umano si attiva. Uomini e donne con il vestito «buono» cercano di infilarsi su uno degli innumerevoli tap-tap per recarsi in ufficio. Mamme e papà zig-zagando nel traffico, accompagnano per mano il figlioletto a scuola, vestito con l’impeccabile uniforme. Gli operai si accalcano per attraversare il cancello del Parc Industriel Métropolitain (ampia area recintata e controllata nella periferia Nord), dove faticheranno tutta la giornata per poco più di un dollaro, in una delle tante fabbriche manifatturiere. Le madam sara – donne commercianti al dettaglio di ogni cosa, dal sale alla verdura, dai quadei ai prodotti di bellezza – sono già appostate con i loro grandi cappelli di paglia nelle vie di mercato. Segni di quotidianità. Di voglia di vivere. «La gente ha subito reagito – ci racconta l’amico giornalista Gotson Pierre – il giorno stesso. Non si è fermata un istante. Se si fossero fermati sarebbe stato peggio, avrebbero avuto più difficoltà a riprendersi. Invece hanno cominciato subito: a soccorrere i feriti, a togliere macerie».
E una grande solidarietà umana, da tempo perduta in questa città caotica e violenta, sembra rinata, come ci spiega Suzy Castor, nota storica e politica haitiana: «La solidarietà interhaitiana è venuta fuori fin dal primo giorno. Ci si lamentava molto della mancanza di questo valore, ma con il terremoto è stata spontanea. Si vedevano delle cose straordinarie che rasentavano l’eroismo». E continua: «Il terremoto è stato duro, terribilmente. Ma due o tre giorni dopo la vita è ricominciata. Per me è straordinario questo dinamismo di cui ha fatto prova il popolo haitiano. Questa forza nella disavventura, è una grande fortuna che abbiamo».

Città nella città

Ma il paesaggio urbano di Port-au-Prince non è cambiato solo per le case distrutte. E i mucchi di macerie lungo le strade fatti da chi, faticosamente, toglie pezzo per pezzo quello che resta della propria casa e lo ammucchia in strada, nella speranza che un giorno qualcuno porti via tutto. Ovunque in capitale, come nella vicina Petion-Ville (comune adiacente dalla parte montagnosa, abitato dalla classe media) e a Léogane, epicentro del sisma, sono comparse tende di ogni specie e forma. Qualsiasi spazio aperto, piazza, campo sportivo, cortile è diventato una tendopoli. Lo sono i Champs de Mars, giardini di fronte al palazzo presidenziale, lo è la piacevole piazza Saint Pierre, nel centro di Petion-Ville. Ci sono zone dove al posto delle tende si trovano ancora i ripari di fortuna, fatti da lenzuoli, stuoie e teli colorati. Altrove sono i teloni blu degli aiuti umanitari che hanno avuto la meglio.
Anche a Canapé Vert, bel quartiere residenziale che si arrampica sulla collina, come a Pacot, a Tourgeau, a Bois Patate, file di tende a igloo, dalla due posti alla famigliare sono allineate sui bordi delle strade rendendo difficile il passaggio.
Sulla route Nazionale 2, in uscita dalla capitale verso la città satellite Carrefour, i ripari di fortuna si trovano addirittura nell’isola tra le due carreggiate.
Camp Fierté è una tendopoli o «centro di accoglienza» come sono anche chiamati, nel cuore di Cité Soleil, una delle più grandi e tristemente conosciute (anche prima del terremoto) bidonville di Port-au-Prince. Qui è difficile lavorare, la tensione è sempre palpabile, proprio per la popolazione che abita questo quartiere e la sua storia. Il campo è assistito da Medici senza frontiere e dall’Ong italiana Avsi. Sotto alcune grosse tende si è ricreata una scuola e un ambulatorio per consultazioni e prime cure dove si avvicendano medici italiani, sempre con un progetto di Avsi. «Ieri è arrivato un tizio con una grossa ferita da arma da taglio – ci racconta uno dei medici sul posto – lo abbiamo suturato in fretta e poi abbiamo capito che c’era più tensione del solito. Per questo abbiamo finito le consultazioni molto presto». «Questo bambino è un “meno quattro”, non ne avevo ancora visti qui» dice un’altra dottoressa con in braccio un frugoletto che pare avere pochi mesi. In gergo vuole dire che pesa quattro chili in meno di quanto dovrebbe: «È in uno stato avanzato di malnutrizione».
Marino Contiero, cornoperante dell’Avsi, lavora qui ogni giorno. Organizza distribuzioni di cibo e di acqua. Ci accompagna in giro tra le grosse e pesanti tende della Protezione civile italiana e quelle più leggere di Medici senza frontiere. «Il clima in generale non è buono e nei campi la situazione si fa dura ed è sempre più difficile lavorare. Anche nei quartieri di Cité Soleil (ci sono ampie zone di baracche non crollate, ndr.) si verificano continui scontri tra le bande e le sparatorie sono giornaliere». Ci racconta che anche in altre zone, come Martissant, quartiere popolare all’uscita Sud della capitale, le gang sono tornate attive e a volte impediscono le distribuzioni alimentari (si veda su questo fenomeno MC gennaio 2007).
Nel campo vediamo soprattutto donne e bambini, ma anche ragazzi. Gli uomini sembrano non esserci. Ci chiediamo quali saranno i tempi per il ritorno alla «normalità» o piuttosto a una casa decente per tutte queste persone. Molte tende non sono fatte per resistere mesi sotto il forte sole dei Caraibi e si stanno deteriorando. Le piogge iniziate a maggio sono torrenziali, e creano fiumi di fango. A giugno è anche iniziata la stagione degli uragani e questi ripari possono facilmente prendere il volo.
Marino: «Spero di terminare presto con le distribuzioni e incominciare a fare qualche cosa di concreto per aiutare le famiglie a tornare a casa loro». Questo è infatti previsto dal programma. Le distribuzioni non sono fatte a caso: «Noi di-
stribuiamo solo a donne e bambini e abbiamo delle liste ben verificate. Non diamo più teloni come all’inizio e il cibo è dosato con grande precisione. Occorre fare di tutto affinché non si inneschi la spirale della dipendenza». In effetti questo è un rischio enorme. Esistono già i campi «fantasmi» dove la gente viene di giorno solo perché una qualche Ong internazionale distribuisce cibo. Poi la notte rientra nei propri quartieri. «Ma allo stato attuale distribuire acqua e cibo in alcune zone è necessario perché ci sono molti casi di malnutrizione, anche grave, nei bambini» conclude Marino.
Le stime ufficiali parlano di 1,3 milioni di senza tetto a causa del terremoto e circa 500.000 sarebbero quelli che ancora vivono in tenda.

Il trauma che non si vede

Ma c’è qualcosa più difficile da vedere, se si guarda solo in superficie. Qualcosa di molto importante, che si percepisce parlando con la gente. «La popolazione è rimasta traumatizzata. Ad esempio i nostri seminaristi che hanno visto morire i loro compagni». Chi parla è padre Crescenzo Mazzella, camilliano, da oltre dieci anni nel paese. Il crollo del centro di formazione della Conferenza haitiana dei religiosi (Chr) ha causato molte vittime. «I nostri seminaristi erano in macchina e stavano per partire. A fianco, nel parcheggio, la macchina di un gruppo di loro compagni era già accesa. La scossa li ha sepolti, mentre i nostri sono rimasti indenni. Ma scioccati. Ora è molto più difficile lavorare con loro». Il sisma, qui come altrove, ha deciso per la vita o la morte di qualcuno secondo un criterio che non ci è dato conoscere. «Dopo questi drammi occorre ricostruire la persona, prima ancora di ricostruire le infrastrutture» afferma padre Enzo Viscardi, missionario della Consolata e psicologo. Dopo il sisma ha già compiuto due viaggia ad Haiti, su richiesta del nunzio apostolico, Monsignor Beardito Auza, proprio per lavorare con religiosi e seminaristi sulla «gestione e rimozione del trauma». «Occorre aiutare le persone a gestire il trauma, e motivarle per riprendere la vita normale con un impegno in prima persona nella ricostruzione – ci racconta padre Enzo -. Abbiamo lavorato con terapie individuali e di gruppo, per togliere il senso di “distruzione totale” che porta alla non azione» (vedi box).
L’appoggio psicologico è dunque altrettanto importante quanto quello materiale, anche se meno visibile e forse meno praticato.
Tutti, a Port-au-Prince, parlano della «grande scossa» che deve ancora arrivare. Molti, dopo mesi, pur avendo la casa in buone condizioni e usandola durante il giorno, preferiscono dormire nella tendina piantata in cortile o in strada. Ed è forse anche per questo che il governo (nel momento in cui scriviamo) non ha ancora dato il permesso di ricostruire le scuole e gli altri edifici in muratura, ma solo in materiali provvisori: legno, lamiere, tende. Le Ong e gli enti privati hanno costruito in questo modo le scuole crollate, e così – fatto molto importante – i bambini e i ragazzi hanno potuto riprendere le lezioni.
Come al College Saint Martial un’antica scuola della capitale, fondata dai padri dello Spirito Santo (Spiritani). Dall’asilo al liceo, la scuola è sempre stata un riferimento per gli abitanti di Port-au-Prince. Situato nella città bassa, alla fine di rue de Miracles, il College ha subito danni gravissimi. I due grossi edifici con le aule scolastiche sono crollati e la casa dei padri, seriamente danneggiata, è da radere al suolo. La Bibliothèque Haitienne, collezione unica di volumi, giornali, documenti originali e fotografie sulla storia di Haiti si trovava al secondo piano. «Siamo riusciti a salvare quasi tutto, e a metterlo al sicuro nella cappella – ci racconta padre Paulin Innocent, superiore regionale degli Spiritani – in attesa di rifare la biblioteca in un nuovo edificio. Per smantellare il palazzo rimasto in piedi ci hanno chiesto 100 mila dollari!».
Ma gli oltre 1.000 allievi di Saint Martial hanno potuto riprendere i corsi a marzo. Tutti, nelle loro uniformi pulite, dai piccoli dell’asilo, in una tendona dell’Unicef, all’ultimo anno del liceo, in aule fabbricate in materiale leggero. Il tutto dipinto in verde-giallo, da sempre i colori della scuola. Sono segni importanti per un ritorno alla normalità.

Marco Bello

Marco Bello




12.01.2010 HAITI (ORA) ESISTE

Quel che resta di Boukman

«Haiti n’existe pas», Haiti non esiste, è il titolo di un libro dell’esperto Christophe Wargny, dedicato al bicentenario dell’indipendenza di Haiti (1804-2004). Ebbene, questo era vero fino al 12 gennaio scorso. Nessuno conosceva neppure l’esistenza di questo piccolo paese dalla storia tanto originale e travagliata. Molti italiani lo confondevano con Thaiti, atollo del Pacifico.
Oggi, per lo meno si sa che esiste e più o meno che si trova nelle Americhe. È stato pure scritto che è il più povero …
Peccato, però, che l’informazione  – di massa – che si è avuta su Haiti nei giorni e nelle settimane successive al terribile evento, sia stata sovente molto parziale, superficiale e fatto più grave, viziata dal punto di vista italiano (vedi sparate di Bertolaso e battibecco con Hillary Clinton e trionfalismo per l’intervento – minimo e fuori luogo – delle autorità del nostro paese).  
Tanto di cappello per i colleghi inviati che hanno raggiunto Port-au-Prince pochi giorni dopo il sisma. Sapersi muovere in quella situazione, non essendo mai stati nel paese era impresa non facile. Peccato che, come spesso accade in questi casi, ma soprattutto per la «sconosciuta» Haiti, ci sia stata scarsità di conoscenza del paese, della sua storia, della sua cultura. La lettura della realtà, nuda e cruda come si vedeva. Ma dando poco, o nulla, la parola agli haitiani.

Siamo tornati ad Haiti. Ci siamo tornati anche per raccontarvi cosa sta succedendo adesso, quando nessuno ne parla più e gli italiani credono che sia tutto finito. Per portarvi le speranze e i sogni degli haitiani sul loro futuro, ma anche per mettere in luce i meccanismi e gli intrecci che si stanno giocando sulla pelle di questo popolo. Un popolo ricco di umanità, ma sfortunato. Perché anche qui, sul terremoto, qualcuno ci sta guadagnando.

Marco Bello

Marco Bello




Cana (15) Le nozze di Cana, oltre le nozze di Cana

Il racconto delle nozze di Cana (15)

Nelle puntate precedenti, iniziando il commento dell’espressione «E nel terzo giorno» mettemmo in relazione la settimana della creazione di Gen 1 e la settimana che descrive Giovanni 1, elencando i singoli giorni e gli eventi che vi accadono. Abbiamo detto che lo schema dell’una e dell’altra settimana non è cronologico, ma teologico. In altre parole, non bisogna chiedersi «che cosa è avvenuto?», ma «che cosa l’autore vuole insegnare?». La prima domanda esige una risposta puntuale dal punto di vista storico-scientifico; la seconda, invece, attende una risposta di «valore»: qual è il senso di ciò che l’autore scrive e perché scrive in questo modo? Le due settimane, infatti, sono portatrici di un contenuto che va oltre la banalità dell’accaduto cronologico.
Se non entriamo nella prospettiva globale della Scrittura come sfondo, principio e fine di ogni singolo passo, di ogni singola parola, finiremo sempre per leggere la Bibbia a spizzichi, piccoli aneddoti edificanti senza sale e senza senso, buoni solo per occupare un po’ di tempo distratto durante la celebrazione della messa.

Se va male, il celebrante usa quel testo, preso come capita, per imbastire esortazioni morali o invettive contro il mondo che nulla hanno da spartire con il testo e la rivelazione. Il sale perde il suo sapore (cf Lc 14,34-35) e la lucerna diventa opaca (cf Mt 5,15), inutile per illuminare la strada e per dare senso al percorso. Il fuoco bruciante della Parola di Dio ridotto a misero scaldino della nostra ignoranza.

Una Biblioteca per la Parola
La Bibbia non è un libro scientifico in senso tecnico, ma un libro di salvezza, in senso teologico; lo aveva capito bene Galileo Galilei, che all’inquisizione che lo condannava per le sue ipotesi «eretiche» sulla subalteità della terra nei confronti del sole, diceva: «La Bibbia non ci insegna come è fatto il cielo, ma come andare in cielo». È compito della scienza dirci «come è fatto il cielo», mentre è compito della fede che emerge dalla Scrittura, dirci «come andare in cielo». Non bisogna cercare a tutti i costi una sovrapposizione tra scienza e fede perché le due prospettive viaggiano su binari diversi e non necessariamente devono combaciare perché hanno metodi e strumenti d’indagine diversi. È importante che la fede non voglia prevaricare sulla scienza e questa su quella.
Il Concilio Vaticano II, nella costituzione dogmatica sulla divina rivelazione Dei Verbum, forse il documento più bello tra i sedici conciliari, ci sostiene e rafforza in questa convinzione e in questo metodo perché con la sua autorevolezza magisteriale ci garantisce che è così (sottolineature nostre).

«Poiché… tutto ciò che gli autori ispirati o agiografi asseriscono è da ritenersi asserito dallo Spirito Santo, bisogna ritenere, per conseguenza, che i libri della Scrittura insegnano con certezza, fedelmente e senza errore la verità che Dio, per la nostra salvezza volle fosse consegnata nelle sacre Scritture. Pertanto “tutta la Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona” (2Tm 3,16). Poiché Dio nella sacra Scrittura ha parlato per mezzo di uomini alla maniera umana, l’interprete della sacra Scrittura, per capire bene ciò che egli ha voluto comunicarci, deve ricercare con attenzione che cosa gli agiografi (=autori) abbiano veramente voluto dire e a Dio è piaciuto manifestare con le loro parole. Per ricavare l’intenzione degli agiografi, si deve tener conto fra l’altro anche dei generi letterari. La verità infatti viene diversamente proposta ed espressa in testi in vario modo storici, o profetici, o poetici, o anche in altri generi di espressione. È necessario… che l’interprete ricerchi il senso che l’agiografo in determinate circostanze, secondo la condizione del suo tempo e della sua cultura, per mezzo dei generi letterari allora in uso, intendeva esprimere e ha di fatto espresso. Per comprendere infatti in maniera esatta ciò che l’autore sacro volle asserire nello scrivere, si deve far debita attenzione sia agli abituali e originali modi di sentire, di esprimersi e di raccontare vigenti ai tempi dell’agiografo, sia a quelli che nei vari luoghi erano allora in uso nei rapporti umani. Perciò, dovendo la sacra Scrittura essere letta e interpretata alla luce dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta, per ricavare con esattezza il senso dei sacri testi, si deve badare con non minore diligenza al contenuto e all’unità di tutta la Scrittura, tenuto debito conto della viva tradizione di tutta la Chiesa e dell’analogia della fede» (Dei Verbum, nn. 11 e 12).

Cinque custodie e una biblioteca
Per capire la lunga citazione del concilio, che con questo testo ha operato una vera rivoluzione negli studi biblici, è necessario fare un passo avanti sul modo con cui noi leggiamo le sacre Scritture. Quando prendiamo in mano una Bibbia, abbiamo davanti un libro che cominciamo a sfogliare dalla prima pagina in avanti. Ben presto ci stanchiamo e lasciamo perdere perché quello che leggiamo ci sembra anacronistico, irreale, fantasioso; ma molto più spesso lasciamo perdere perché non capiamo.
Tutto ciò è inevitabile perché noi pretendiamo di leggere con le nostre categorie mentali di «oggi» un libro scritto con criteri diversi e categorie mentali che si snodano in un arco di 1.600 anni. Vi si trovano autori diversi che scrivono in tempi diversi, con linguaggi diversi e con metodi e generi letterari diversi. Se vogliamo capirci qualcosa, dobbiamo entrare «nel» mondo della Bibbia e abitarlo, imparandone i linguaggi, le trame narrative o poetiche, disceendo i diversi livelli di storicità e le tecniche di trasmissione che l’hanno portata fino a noi.
Quando prendiamo in mano la Bibbia, dobbiamo avere la consapevolezza che di fatto abbiamo davanti non «un libro», ma una intera «biblioteca» composta da 73 libri, di cui 46 dell’Antico Testamento, quasi tutti in ebraico e 27 del Nuovo Testamento, tutti in greco.
Questa «biblioteca» è complessa, con sezioni, scaffali, generi diversi e ogni volume può essere opera di un singolo, ma molto spesso è frutto dell’apporto di tanti autori, di norma anonimi, che bisogna imparare a conoscere nella loro personalità, nei luoghi di vita, nella loro storia e formazione. Per fare questo bisogna interrogare molte scienze: le lingue antiche in cui furono scritti i singoli libri, la letteratura del tempo corrispondente, se esiste, e poi la poesia, la storia, la geografia, l’archeologia, la musica, le usanze proprie non solo dell’autore di ogni libro, ma anche dei popoli vicini.
Bisogna imparare i metodi per tramandare insegnamenti e scritti e tutto ciò che in qualsiasi modo può interessare e aiutare la comprensione di un testo e di un autore. Non basta leggere la Bibbia, bisogna anche sapere «come» leggerla e da dove cominciare.
Chi legge la prima pagina della Genesi, non può limitarsi a ripetere noiosamente: «E fu sera e fu mattino: giorno primo… secondo… sesto», senza sapere che il primo racconto della creazione con cui si apre la Bibbia è quasi la «ouverture» musicale del primo libro che è «la Genesi». Esso contiene tutti i temi del libro e non è affatto noioso, ma ha un andamento liturgico, ieratico.
Su questo racconto viene proiettata la solennità liturgica del tempio di Gerusalemme su cui si misura la creazione. Il creato è il tempio in cui celebra la liturgia della vita nascente a cui le schiere celesti rispondono, come nel tempio, con il ritornello salmodiante «fu sera e fu mattino» e «Dio vide che era cosa buona». Dio è il sommo sacerdote che distende il cielo come la tenda del tempio, raccoglie le acque come quelle del catino per la purificazione, separa gli esseri viventi, come fa il sacerdote con le vittime sacrificali, benedice le creature come il sacerdote fa nel tempio con il popolo partecipante.
Il racconto della creazione è la trasposizione della liturgia del tempio a livello cosmico e universale, esattamente come fa Giovanni che proietta la nascita di Gesù di Nàzaret a livello del «Lògos» eterno che «è presso Dio». Nulla può essere di più stridente se è vera la convinzione di Natanaele: «Da Nàzaret può venire qualcosa di buono?» (Gv 1,46).
Quanti lettori, a una immediata lettura, sanno che il racconto della creazione di Gen 1 è stato pensato verso il sec. VI a.C. a Babilonia, durante l’esilio, e tramandato per circa un secolo oralmente fino al 444 a.C., quando fu raccolto in un rotolo/libro? Esso è il racconto più recente, che però viene messo «in principio» proprio per la sua natura liturgico-sacerdotale, finalizzata alla difesa della settimana, culminante nel giorno di «shabàt», che è il vero obiettivo della narrazione.
Quanti lettori sanno che, al contrario, il racconto della creazione, riportato nei capitoli 2-3 di Genesi che parlano del serpente, dell’albero, di Adamo e della costola, è invece il racconto più antico, databile al sec. IX-X a.C. e posto in secondo piano perché ha una prospettiva e un andamento diversi dal primo?
Il libro della Genesi contiene dunque due racconti di «creazione», che non hanno un senso storico (nel senso moderno del termine), ma sono una proiezione della storia di Israele a livello cosmico (Gen 1) e a livello universale sul piano dell’umanità (Gen 2-3). Gli Ebrei lo indicano con la prima parola con cui inizia: «Bereshit – In principio»; la Bibbia greca detta Lxx in greco, invece, la indica con il suo contenuto: poiché tratta delle «origini» del mondo, dell’uomo e dei patriarchi, dà al racconto il titolo di «Genesi». Questo volume di 50 capitoli, a sua volta, è messo insieme ad altri 4 rotoli/libri che prendono il nome di «Pentateuco – Cinque custodie» (dal gr. penta – cinque e thêke- – custodia/fodero) cioè cinque libri.

La nuzialità oltre le apparenze
È possibile che i nostri lettori siano impazienti di arrivare alla spiegazione diretta e immediata del testo delle nozze di Cana. La loro impazienza è comprensibile perché sono stati educati a «sentire» pezzi di Bibbia, letti durante la Messa e ai quali non si presta eccessiva importanza, perché considerati «una cosa che bisogna fare», ma che forse si vorrebbe abolire perché «allunga» inutilmente la Messa.
A ciò si deve aggiungere che spesso l’omelia non aiuta, ma aggrava le cose per la sua superficialità e perché il testo biblico viene preso «a pretesto» per una predica morale, travisando così il senso del testo e la mente dell’autore che lo ha scritto. Il popolo cristiano non ha una formazione biblica, anzi ignora la Scrittura, per cui la sua religiosità è spesso acqua tiepida riscaldata che si raffredda al primo soffio di vento.
Un esempio esplicito è il racconto delle nozze di Cana. Il testo integrale è proclamato nella liturgia latina della 2a domenica del tempo ordinario dell’anno liturgico C, cioè la domenica dopo il Battesimo del Signore, che a sua volta segue immediatamente la festa dell’Epifania. La scelta della riforma di Paolo VI non è casuale, ma riprende la tradizione antica orientale, presente ancora oggi nell’Ortodossia, che in un’unica festività (Epifania) celebra quattro manifestazioni o «rivelazioni» di Gesù.
La liturgia latina ha separato i quattro momenti che sono: Natale, Epifania, Battesimo e Cana. In essi si vive una «pedagogia» salvifica e catechetica centrata sul tema dell’incarnazione, che esplode in quello centrale dell’alleanza, espressa con il tema della nuzialità.
Gli antichi, e oggi gli Ortodossi, nella festa della Epifania celebrano: la manifestazione di Gesù agli Ebrei (Natale), ai Pagani (Epifania) e all’umanità intera (Battesimo). La quarta manifestazione (Cana) è la chiave d’interpretazione per capire il senso delle prime tre: Cana non è la consacrazione delle nozze come sacramento, che è un concetto totalmente assente all’autore, ma la «ragione» per cui Dio si è manifestato agli Ebrei, ai Pagani e al mondo: stabilire l’alleanza nuova preannunciata dal Ger 31,31:

«31Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore -, nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova. 32Non sarà come l’alleanza che ho concluso con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dalla terra d’Egitto, alleanza che essi hanno infranto, benché io fossi loro Signore. Oracolo del Signore. 33Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa d’Israele dopo quei giorni – oracolo del Signore -: porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo».

Dire che la presenza di Gesù santifica le nozze di Cana e istituisce il sacramento del matrimonio è una mistificazione del testo, estranea al senso immediato e al contesto del racconto, che invece ha una portata profetica che abbraccia l’Antico e il Nuovo Testamento.
Il profeta Geremia, infatti, parla di «alleanza nuova» che per il secolo VII a. C., ma anche per il tempo di Gesù, è una bestemmia e una eresia perché essa è messa direttamente in contrapposizione con quella antica del Sinai a cui gli Ebrei non furono fedeli. Non solo, ma il Signore dice espressamente: «Scriverò sul loro cuore» questa alleanza. Anche un cieco vi vedrebbe immediatamente un riferimento alla Legge del Sinai, scritta «sulle pietre». Tutti questi temi si trovano nel racconto delle nozze di Cana che, pensato e scritto come commento (midràsh) dell’alleanza del Sinai, porta una novità supplementare, una grande novità: la «nuova alleanza» del profeta Geremia che Gesù «manifesta» non è un’alleanza diversa che sostituisce la prima, ma è quella stessa del Sinai che in Gesù di Nàzaret diventa «nuova ed eterna».
Abituati a «sentire» solo pezzi di Bibbia e solo nella Messa, i cattolici vivono un dramma: non hanno mai una visione d’insieme della Scrittura e nemmeno dei singoli libri o autori. Il loro approccio è occasionale, la loro formazione è episodica e agiografica (raccontini edificanti) e la loro ignoranza diventa, di occasione in occasione, permanente.
Dubitiamo che chi comunemente legge il racconto delle nozze di Cana di Gv 2 metta direttamente il testo in relazione con la settimana che l’autore descrive in Gv 1 e successivamente, attraverso questa, richiami anche la settimana per eccellenza, quella della creazione, che apre la rivelazione scritta in Gen 1, cercando e trovando un nesso logico che diventa visione di salvezza, conoscenza e contemplazione del disegno di amore sponsale che la Scrittura vuole comunicare.
Solo in questa visione d’insieme ci rende conto che lo «sposalizio» è un puro «accidente», cioè un piccolo evento banale di vita quotidiana per dire e dare un grande messaggio che travalica i tempi, all’indietro, per giungere alle origini dell’umanità, passando per il monte Sinai e, in avanti, superando ogni spazio per giungere integro fino a noi per annunciare l’unica salvezza, quella che Dio ha promesso a Israele e che ora nei tempi nuovi, realizza pienamente in Gesù Cristo, lo sposo delle nuove nozze che Dio prepara per la nuova umanità.                   [continua – 15]

Paolo Farinella

Paolo Farinella




Come una goccia di rugiada

Mukululu –  Gallarate: quando lacrime di gioia e di dolore diventano gocce di vita e fraternità

 

Le gocce della foresta pluviale del Nyambene sono tra quelle più fotografate al mondo. Io stesso le ho fotografate per vent’anni. Non sono gocce diverse dalle altre, è sempre e solo acqua, eppure quelle hanno un fascino tutto speciale, perché da quelle gocce dipende ormai la vita di migliaia di persone. Vi riassumo qui quarant’anni di una storia, che forse avete già letto altre volte su queste pagine.

GOCCE, MILIONI, MILIARDI DI GOCCE

C’era una volta una regione ai piedi del Monte Kenya, tutta terra vulcanica fertilissima, dove fiumi, ruscelli o sorgenti sparivano ingoiati dal terreno dopo una vita fugace. L’acqua era il cruccio e la fatica più grande delle donne. Se ne trovava poca e a grandi distanze. I bambini soffrivano; la poliomielite era di casa.
Un giorno, negli anni Sessanta, un missionario dal cuore (P. Franco Soldati) grande creò a Tuuru un centro per i piccoli malati di polio. Vi si facevano miracoli di carità. All’acqua provvedeva la pioggia. Poi venne una grande siccità, ma nessuno aveva il cuore di rimandare i piccoli là da dove erano venuti. Il vescovo del posto (Mons. Lorenzo Bessone di Meru), che doveva fare il burbero, ma burbero non era, convocò senza preamboli un giovane fratello missionario che si era già fatto notare per la sua capacità di risolvere situazioni impossibili. «I bambini hanno bisogno di acqua», gli disse. «Pensaci tu». Il giovane, che mago non era, ma aveva intelligenza, volontà e cuore da vendere, si mise all’opera e trovò l’acqua lontano, lontano, nascosta nella foresta su un vulcano addormentato, il Nyambene. Giuseppe si chiamava, della famiglia degli Argese da Martina Franca, la terra dei trulli, dove l’acqua è sempre stata un bene più prezioso dell’oro.

Una foresta generosa

Senza soldi e tanto ingegno si mise all’opera per far sì che i piccoli polio di Tuuru potessero bagnarsi nelle salubri acque della foresta del Nyambene. Motori e pompe fuori questione, si alleò con la gravità e in men che non si dica, si fa per dire, il progetto fu pronto. Con l’aiuto del vescovo si trovarono anche i finanziatori, generosi ed efficienti, della Misereor di Germania. «Compera uno scavatore e il lavoro sarà fatto in un attimo», gli dissero. Fece due conti. Uno scavatore = lavoro per 100 operai per tre anni. Comperò pale, picconi e carriole; formò sul campo muratori e carpentieri, falegnami e scalpellini, idraulici e tubisti. Ed ecco là: nel 1971 a Tuuru bastava aprire un rubinetto e l’acqua scorreva in abbondanza. Ma …
Ma non erano solo i piccoli di Tuuru ad aver bisogno di acqua. Lungo i 25 chilometri del tracciato quante capanne, quanti villaggi, quante scuole. Acqua, più acqua, ancora acqua. Però la sorgente iniziale era davvero piccola.
Come accontentare tutti? Osservazione e gambe buone furono gli alleati di fratel Mukiri (già, perché la gente aveva cominciato a chiamarlo così, il silenzioso). L’osservazione, che gli fece notare come i canali appena scavati si riempissero d’acqua ogni santo giorno. Le gambe buone, che lo portarono ad esplorare ogni angolo della vasta foresta alla scoperta di sorgenti e rivoletti d’acqua.
Da dove veniva quell’acqua che invadeva gli scavi, visto che non c’erano né sorgenti né ruscelli né scrosci di pioggia nottua? Quel che osservava era solo la gran nebbia mattutina e la rugiada abbondante in un ciclo continuo tra la foresta e l’atmosfera. Saltò allora dentro gli scavi e cominciò a studiare il terreno, strato dopo strato. Ed ecco lì il segreto svelato: un leggero manto di argilla impermeabile raccoglieva tutta l’acqua immagazzinata dall’humus della foresta. Evaporazione, condensazione, nebbia, gocce di rugiada sulle foglie, inumidimento dell’humus: un ciclo vitale continuo dove la foresta assorbiva l’umidità dell’atmosfera anche durante i periodi senza pioggia.
Da qui allo scavo di gallerie che seguissero lo strato sotterraneo di argilla, il passo fu breve. Le gocce, milioni, miliardi di gocce divennero rivoletti. I rivoletti, convogliati nell’acquedotto, si trasformarono in vita per cento, mille, centomila persone in più.

Un lungo cammino

Dopo quarant’anni i risultati sono là, davanti a tutti. C’è una rete di oltre 250 chilometri di tubi con molti serbatorni sparsi sul territorio; ci sono centinaia di water points (lett. punti acqua) e rubinetti comunitari, in villaggi, posti di mercato e case; decine di scuole e centri di salute possono riempire i loro serbatorni, e oltre 270 mila persone e quasi 70 mila animali beneficiano dell’acqua della foresta pluviale del Nyambene. Ogni giorno, quando le stagioni sono regolari, 3 milioni e mezzo di litri vengono distribuiti (ca. 13 litri per persona, non contando gli animali). Non molti secondo i nostri standard (noi consumiamo in media 80 litri a testa al giorno!), molto meglio di quando di litri ne avevano solo 40 per famiglia alla settimana, ma ancora molto lontano dal livello minimo di 25 litri per persona al giorno suggerito dalle Nazioni Unite.
Durante i periodi di siccità, che non mancano mai, l’acqua viene razionata e ridotta a un milione e mezzo di litri al giorno, equivalente a solo 6 litri a testa. Poco sì, ma … è vero, dopo quarant’anni di lavoro c’è ancora molto da fare per assicurare quello che è un bene essenziale e un diritto fondamentale di ogni uomo (checché ne dicano certe convenzioni interazionali manipolate dalle lobby dei signori dell’acqua che ne vogliono la privatizzazione a tutti i costi).
Evidenzio poi, tra gli altri, due grossi risultati: il centro per bambini polio a Tuuru è quasi senza clienti e, dopo quarant’anni, il progetto continua a funzionare, cresce ed è pieno di nuove idee. Se pensate che questo sia un risultato da poco, basta ricordare che moltissimi altri progetti contemporanei o simili sono disastrati o defunti.

Verso il luogo di costruzione dell’URA Dam 3

Un sogno che cerca altri sognatori

L’ultimo sogno? Fare una diga in foresta per creare un grande bacino artificiale sul torrente Ura (che si perde presto nel fiume Tana), e poter immagazzinare la maggior quantità possibile di acqua, sfruttando le piogge torrenziali caratteristiche del posto. Ci sono già due piccole dighe che insieme immagazzinano 63,5 milioni di litri di acqua, il sufficiente per ammortizzare 20 giorni di distribuzione durante i periodi di siccità o di disastri naturali. Ma è niente quando la siccità dura per mesi, come è successo già più volte, l’ultima l’anno scorso, 2009, quando fu necessario razionare l’acqua per oltre cinque mesi. Così il non più giovane Giuseppe (il prossimo novembre avrà 78 anni) accarezza un sogno: una nuova doppia diga che raccolga prima 500 milioni e poi un miliardo di litri, allora sì, i lunghi periodi di siccità non farebbero più paura, e ci sarebbe acqua anche per orti e piccoli campicelli.
Questo sogno non è di ieri, Giuseppe, i suoi amici e collaboratori del Tuuru Water Scheme (TWS) ci stanno lavorando dal 2006. I progetti sono pronti nei minimi particolari, persone generose ci hanno lavorato per anni con Mukiri. Il tutto è stato studiato in ogni dettaglio, secondo la filosofia che ha caratterizzato il TWS fino ad ora: rispetto, difesa e miglioramento dell’ambiente, coinvolgimento della popolazione locale e tecnologia non invasiva. Questi sono i tre capisaldi che hanno  fatto sì che il TWS sia ancora vivo e funzionante, esempio studiato e copiato in tutto il mondo.
Una meraviglia ecologica
Entrare nella foresta del Nyambene è come entrare in una cattedrale gotica. Lasciato il campo di Mukululu, dove Fratel Giuseppe Argese ha la base, si sale attraverso una strada sterrata stretta che zigzaga nel verde di splendidi campi di tè che assediano la foresta da tutti i lati. Entrati nella foresta viene subito da guardare in su in cerca della luce che penetra a stento tra il fitto fogliame, gli alberi enormi come colonne che sostengono il cielo. La foresta è una fragile e stupenda meraviglia ecologica, un prodotto di milioni di anni di paziente lavoro della natura su quello che resta di un vulcano spento, una delle tante bocche ai piedi del maestoso vulcano che era il Monte Kenya.
In questa foresta centinaia di uomini hanno lavorato per oltre quarant’anni a caccia di acqua, e il loro impatto è minimale. Le piste sono strette e zigzaganti tra albero ed albero, abbastanza per passare con un trattore o un fuoristrada. Dove si è lavorato, altri alberi sono stati piantati; dove i lavori sono di tanto tempo fa, la foresta ha riconquistato i suoi spazi perduti. Una pattuglia attenta di guardiani protegge dai boscaioli abusivi a caccia di legno pregiato, come la canfora. I sentieri sono rinforzati con paletti per farne delle scalinate onde evitare inutili erosioni. I disastri naturali sono curati, anche a costo di enormi sacrifici, come è successo l’anno scorso, quando dopo una notte in cui sono caduti 200 millimetri di pioggia, si sono registrate grosse frane, cedimenti negli sbarramenti e occlusioni ai punti di raccolta acqua.
C’è poi il piano di cintare la foresta, registrata dal governo come area protetta, per evitare le intrusioni, il disboscamento e l’impoverimento del manto boschivo a difesa di un’area essenziale alla vita di tante persone. Il tutto accompagnato anche da un lavoro di sensibilizzazione nelle scuole e nelle comunità locali, tante volte manipolate da affaristi o politicanti senza scrupoli che vorrebbero mettere le mani su una realtà dalle grandi potenzialità economiche (legname) e politiche (controllo di voti e mani sui fondi di gestione e mantenimento del progetto TWS).

Che possiamo fare?

In questi quarant’anni si sono spesi (bene) miliardi di lire in un progetto amato dalla gente e stimato a livello internazionale. Il finanziamento locale (la gente paga 2 centesimi di euro per ogni 20 litri di acqua, ma non tutti pagano) serve per la manutenzione ordinaria, il rinnovamento delle linee, i salari del personale impiegato nella gestione e manutenzione della rete. Per il grande sogno, la nuova diga con relativo bacino, sono necessari circa un milione di euro.
Sono in molti a crederci: la Diocesi di Meru, il TWS, gruppi di amici ed Onlus (anche la nostra) e Ong varie. Fratel Giuseppe è sereno su questo. Ha cominciato senza soldi e la Provvidenza ci ha pensato. Se anche questa è un’opera che Dio vuole, i soldi arriveranno.
Per gli ampliamenti a livello locale, piccole linee aggiuntive e nuovi punti di distribuzione, si punta invece molto sulla cooperazione locale con l’aiuto di mini progetti sostenuti da amici in tutto il mondo. È in questo contesto che l’esperienza seguente trova il suo spazio. Vi lascio a Samuele Cattaneo, che condivide con noi una storia bellissima.

LA FONTANA DI SUSANNA

Gianluca Water Point

Quante volte chi – come noi – ha figli in età scolare si è domandato il senso dei ripetuti regali di fine anno scolastico o di fine ciclo propinati alle insegnanti? Quante discussioni sfibranti sono state fatte circa il colore della cintura o la caratura della collanina, o la pietra dell’anellino – dell’ennesimo anellino di cui talune insegnanti magari prossime alla pensione hanno pieni i cassetti? Per i nostri tre figli Isacco, Noemi e Susanna, un sacco di volte. Forse per questo motivo, quando Noemi concluse la scuola dell’infanzia, come rappresentanti di classe proponemmo, ai genitori dei bambini che avrebbero definitivamente salutato la maestra Donatella, di pensare a qualcosa di diverso, e forse a lei più gradito. Donatella è stata insegnante d’asilo anche di Isacco, che ora ha 11 anni: la conosciamo bene fin da quel tragico anno (Isacco era al suo secondo anno di scuola materna) in cui in un incidente stradale perse Gianluca, suo unico figlio diciannovenne, dopo più di un mese di terapia intensiva. Con tantissima fatica Dona(tella) si è rialzata dalla grande tristezza, e ha continuato a far crescere con amore i nostri figli e i figli di molte altre famiglie di Gallarate. E dunque quale regalo migliore poteva esserci se non quello di dedicare a Gianluca qualcosa di speciale? Di certo Dona l’avrebbe gradito più che non l’ennesimo ciondolo d’oro bianco … Bisognava solo trovare qualcosa di più comprensibile e utile tanto a chi riceveva, quanto a chi offriva il dono, in questo caso famiglie di bimbi di 5/6 anni. In quell’anno a scuola Dona aveva trattato ampiamente il tema dell’acqua, all’interno di un percorso di educazione ambientale, facendo comprendere quanto questa sia un dono prezioso, da rispettare e non sprecare, soprattutto pensando a quei paesi che ne soffrono l’estrema scarsità. L’acqua è un diritto di tutti, e di tutto bisogna fare perché tutti ne abbiano disponibilità. Perché allora non dedicare a Gianluca la costruzione di un pozzo? Ci siamo subito informati presso diverse associazioni ed ONG, laiche ed ecclesiali, ma ci siamo subito scoraggiati: l’importo minimo per l’escavazione di un pozzo nelle diverse microrealizzazioni a noi note non era inferiore ai 2.500 euro; noi avremmo al massimo potuto raccoglierne 500, almeno inizialmente …

L’incontro con Mukiri

La Provvidenza ha poi fatto sì che la nostra ricerca incrociasse la storia di Fratel Argese e della sua opera come fratello missionario della Consolata in Kenya. Là, da quarant’anni, Mukiri, il silenzioso, unendo ingegno e fatica al naturale fenomeno della rugiada mattutina prodotta dalla fortissima escursione termica lungo le pendici del Monte Nyambene, ha realizzato un sistema idrico che eroga acqua potabile in centinaia di punti di distribuzione ed evitando così decine di chilometri a piedi per l’approvvigionamento d’acqua. Contattati i missionari della Consolata a Torino scoprimmo che con le nostre forze avremmo potuto realizzare un punto di distribuzione per rendere più usufruibile l’acqua di Mukiri. Ecco cosa avremmo regalato a Dona come segno di riconoscenza per l’affetto e la dedizione educativa di quegli anni: un rubinetto aperto in Kenya, a circa 5.800 km da Gallarate!
«Dal Cielo, dove Gianluca abita tra le braccia del Padre Buono, scende la rugiada. Le mani silenziose di Mukiri l’hanno incanalata in mille zampilli che dissetano la gente di Mukululu, e gli allievi grandi di Dona, che lasciano la scuola materna, “hanno aperto” un altro rubinetto, quello della Fontana di Gianluca. Altri bambini berranno da lì, ricordandosi dei loro amici italiani, della loro maestra e di suo figlio».
Con non poche difficoltà queste parole ci aiutarono a convincere gli altri genitori, un po’ frastornati dalla novità dell’iniziativa, e una sera, tutti in pizzeria insieme a Dona, i bambini alternarono la lettura della filastrocca «La fontana di Gianluca» con le loro grida ripetute come tam tam nella savana. Pochi mesi dopo, grazie alla fattiva collaborazione di P. Adolfo De Col, giungeva a Dona la foto del «Gianluca’s water point», come là ormai viene chiamato.
Questa nano-realizzazione ebbe poi un seguito imprevedibile: l’idea di dedicare alla memoria di una persona cara una parte dell’impianto di distribuzione idrica del progetto acqua di Mukiri raccolse altre adesioni: ormai sono numerose le “fontane” che hanno un nome italiano sulle colline del Nyambene.
Ma lo Spirito non aveva smesso di soffiare …

Una goccia di nome Susanna

Pochi anni dopo, nel 2007, Isacco doveva partecipare alla sua messa di Prima Comunione. E anche qui si ripeteva il solito rito consumistico del regalo che ci lasciava tanti dubbi. Pensammo allora che le fontane di Mukiri potevano essere anche qualcosa di diverso da cippi funerari: perché non suggerire ai missionari della Consolata il meccanismo delle “bomboniere solidali” della Caritas Ambrosiana? Al posto dei soldi gettati in angioletti in gesso o in peltro, potevamo offrire gocce di rugiada per una nuova fontana in Kenya, non più dedicata alla memoria di un defunto, ma come segno vivo di una promessa di vita cristiana, di volta in volta arricchita dai doni sacramentali. Iniziammo così a versare le nostre prime offerte per «Isaac’s water point», la Fontana di Isacco. In calce alla targa della fontana, non più una data di morte, ma la scritta «Jesus give him Living Water, Living Bread» (Gesù, donagli l’Acqua viva, il Pane vivo).
Poi il 27 dicembre 2008, alle ore 8.50, un’altra goccia cadde sul Monte Nyambene. Non era una goccia di rugiada, ma la prima di tante lacrime versate da quella mattina per la morte improvvisa di Susanna, la nostra piccola di tre anni e mezzo, stroncata in meno di 48 ore da una polmonite fulminante… «Guidami, Luce Gentile nel buio che mi avvolge, Guidami Tu. La notte è oscura e la casa è lontana, Guidami tu. Custodisci i miei passi. Non ti chiedo di vedere l’orizzonte lontano, un passo alla volta è abbastanza per me …» (J. H. Newman).
Ci fece subito visita la direttrice dell’asilo, insieme a Dona (Susanna da tre mesi aveva iniziato, ancora con lei, la scuola materna): «Molti genitori vorrebbero offrire dei fiori, ma ho preferito prima chiedere a voi»… Guardo negli occhi Daniela (mia moglie) e subito rispondiamo che avremmo preferito dirottare questi soldi … in un’altra fontana. «Susanna’s water point – A life that is lit and that will never stop shining»: una vita che si accende e non si spegnerà mai, furono le parole che ci disse il nostro Vescovo in quei giorni e che ora si leggono sull’insegna di quella fontana in Kenya.
Alla fine della celebrazione della «Nascita al Cielo di Susanna» c’era la necessità di parlare ai numerosissimi bambini presenti: cosa dire per rendere meno dolorosa la partenza della loro amica, o compagna o sorella dei loro compagni di scuola? Forse bastava spiegare che le nostre lacrime dovevano trasformarsi in gocce di rugiada, e raccontare di nuovo la storia di Mukiri: «… E sapete, bambini? Da oggi, per la generosità di molti tra i presenti e in ricordo della vostra compagna di scuola, di queste fontane di rugiada, ce ne sarà una in più, a disposizione di tutte le mamme dell’Ura Valley, a nord del vulcano Nyambene. La chiameremo la Fontana di Susanna. Perché a Susanna piaceva scavare e giocare con la terra. Perché nelle sue ultime ore Susanna aveva una gran sete e oggi dal Cielo sarebbe contenta di offrire un po’ d’acqua a chi la prova tutti i giorni in terra d’Africa. Perché anche Susanna è un po’ come una goccia di rugiada, che una mattina è caduta, piccolissima, nella terra, che ora sembra non esserci più, ma che non smetterà mai di dissetare con la sua vivacità le arsure della nostra esistenza».

Nano-realizzazioni

Il testo girò nelle scuole, la notizia della micro realizzazione si diffuse tra le famiglie, gli allievi e le orchestre in cui suona Daniela, tra i colleghi di lavoro, il Nuoto Club a cui sono iscritti i nostri figli, parenti e amici. Nel giro di pochi mesi la somma raccolta fu così consistente che ci ha permesso di offrire, oltre alla Fontana di Susanna, anche la cucina e la sala mensa dell’Asilo Infantile di Mukululu, là dove Mukiri, dopo averne dissetato i corpi, ora disseta anche la mente dei bambini del Nyambene!
La notizia della Fontana di Susanna ha ridato nuovo vigore all’idea della nano-realizzazione: sono sempre più numerose le persone che si sono rivolte ai missionari della Consolata per dedicare un punto di distribuzione idrica a persone defunte o a testimonianza di un sacramento ricevuto.
Forse un giorno avremo la possibilità di unirci a quanti ogni anno partecipano alla carovana dei missionari della Consolata in Kenya, e lavare le nostre quotidiane lacrime alla Fontana di Susanna. Per ora ci basta gioire, ogni mattina presto, nel vedere una goccia di rugiada velare l’erba sotto casa: anche a 6.000 km da lì Susanna, in braccio a Dio Padre, sta dissetando nello stesso modo qualche suo e nostro fratello africano.

Gigi Anataloni e Samuele Cattaneo

La cascata dell’Ura, all’origine del torrente Ura, è dentro nel cuore della foresta. Qui c’è sempre acqua.




Sulle orme dello zio

Quando l’esempio non muore

Amazzonia, missione Catrimani, questa la meta del nostro viaggio. Fino a due anni fa neanche ci conoscevamo, ma la curiosità e l’interesse per la figura di padre Giovanni Calleri ci portano oggi a partire per una regione sperduta a nord ovest del Brasile, Roraima.
Quarant’anni, tanto ha atteso questo viaggio per essere realizzato. p. Calleri, missionario della Consolata originario di Carrù (CN), diocesi di Mondovì venne ucciso nel 1968 durante una spedizione di pace nel territorio degli indios Waimiri Atroarí; da allora nessun parente si è recato in quei luoghi, anche se diverse iniziative sono state portate avanti per mantenee vivo il ricordo. Ultima fra le quali è stata la mostra «Padre Giovanni Calleri, la forza dell’esempio», un percorso di conoscenza e animazione missionaria nei luoghi che ne avevano visto il passaggio e il lavoro pastorale prima che il furore missionario lo portasse nel suo amato Brasile. Come non lasciarsi trasportare dall’entusiasmo sempre crescente? Così è nata e ha preso forma l’idea di ripercorrere le orme di p. Giovanni.
Non sappiamo di preciso a cosa stiamo andando incontro, quali possano essere le difficoltà e la realtà che ci troveremo davanti, abbiamo solo voglia di capire le motivazioni che spingono un uomo a sposare una causa, fino a perdere la vita per essa.
La città dei contrasti
P. Giovanni giunse in Brasile nel 1965, atterrando a San Paolo, dirigendosi poi a Manaus, e quindi a Boa Vista, Belem, il Catrimani, Porto Alegre, e infine, nella terra dei Waimiri Atroarí, dove la sua missione ha avuto il suo completamento.
Anche il nostro viaggio alla ricerca di segnali, storie, testimoni e luoghi che ci rivelino il suo passaggio ha inizio da Manaus. Il caldo umido si fa subito sentire rendendo l’aria difficile da respirare.  Metropoli strappata al verde dell’Amazzonia, ricca e povera in un’alternanza di tempi storici e di distanze di quartieri, a Manaus i contrasti sembrano correre vicini senza mescolarsi, come le acque chiare del Rio Solimões con quelle scure del Rio Negro.
Visitandone il centro, la città ci appare brulicante di vita e di commercio: conseguenza fastosa del periodo dell’oro giallo e di quello nero, la gomma. Ci dirigiamo verso il porto: dobbiamo comprare le amache per le notti in foresta. Il mercato, ricco di spezie, erbe medicinali, animali, carriole di frutta e verdura, ci cattura in un’avvolgente atmosfera di colori, odori e rumori. Missione compiuta, acquistiamo le amache con relativa corda: ci viene consigliato di comprare delle amache matrimoniali, dotate di una corda lunga almeno tre metri per parte in modo da riuscire a legare l’amaca anche quando non si hanno appigli vicini. Sono segreti che si riveleranno preziosi nelle aree indigene.
I contrasti iniziano ad apparirci sempre più evidenti. Dalla balconata del Teatro Amazonas l’obiettivo della macchina fotografica si posa dapprima sulla piazzetta antistante, dai tenui colori pastello, abbellita da alberi verdi e da caffetterie segnalate nelle guide turistiche, per poi inquadrare in lontananza i quartieri grigi e poveri di Manaus. Se il Teatro costituisce la principale attrazione della città – qui si spingono i pochi turisti che visitano Manaus prima delle escursioni in foresta – il panna e il rosa della facciata in stile europeo e la cupola dorata, che riprende i colori della bandiera brasiliana, stonano con la povertà di Manaus, soprattutto con quella delle favelas che appaiono a poca distanza dal nostro privilegiato punto di osservazione. «A chi troppo e a chi niente», pensiamo osservando grandi supermercati e i grattacieli delle multinazionali, che si innalzano su una distesa di baracche.  
Un’immagine che si rafforza quando, accompagnate dai missionari, visitiamo le zone povere della città: il bairro Santa Tereza, il quartiere di Santa Etelvina e la realtà delle palafitte che si reggono l’una sull’altra lungo gli igarapé (piccoli fiumi), ricettacolo di spazzatura e di zanzare portatrici di dengue e malaria.
Sono quartieri che si espandono tra la zona Nord della città, vicino ai nuovi distretti industriali, e intorno al centro. Si sono sviluppati negli anni a seguito delle ondate migratorie e presentano differenze nel tipo di costruzioni, in quanto le favelas più vecchie sono ormai dotate di qualche «comfort» in più rispetto a quelle appena costruite in un bairro di invasione in una periferia in costante crescita. Tuttavia le pessime condizioni igieniche, l’odore che si respira, la luce elettrica che arriva nelle case abusivamente (è impressionante vedere quanti fili vengano attaccati a un traliccio della compagnia elettrica!), accomunano queste realtà così come corruzione, mercato nero, prostituzione, traffico di droga e di persone.
Dai racconti dei missionari che ci accompagnano apprendiamo le problematiche e le difficoltà che si incontrano a lavorare in questo contesto, come, ad esempio, il creare comunità in un luogo così marcato dalla diversità etnica e culturale delle persone che vi abitano. Noi, chiaramente, ci sentiamo impotenti di fronte a ciò che vediamo, ma ci sono persone che sanno vincere questa prima sensazione e che non rinunciano a lottare per portare anche solo un segnale di presenza e speranza. Una tra queste, è p. Ruggero Ruvoletto, che conosciamo nel bairro di Santa Etelvina, tutto intento nei preparativi della festa che si sarebbe svolta la sera stessa e che, per la prima volta, avrebbe coinvolto varie comunità vicine. Purtroppo, dopo neanche un mese dal nostro rientro in Italia, veniamo a sapere della tragica uccisione di questo missionario della diocesi di Padova, partito dall’Italia con l’intento di fare del bene, cosa che ha fatto finché gliene è stata data la possibilità.
Lungo la BR-174
Sveglia all’alba, addolcita dal pane fresco, dalla papaia e dalla marmellata di guajava che i padri ci fanno trovare per colazione, zaini sul furgone coperti da teli per ripararli dagli improvvisi acquazzoni che si incontrano attraversando l’Equatore, si parte!
Emozione, eccitazione, curiosità, consapevolezza del significato che ha per noi questa tappa del viaggio, malinconia al tempo stesso, questi i sentimenti che ci accompagnano lungo la BR-174: ci sentiamo immerse nella storia e siamo vigili a ogni dettaglio e segnale che ci parli di p. Giovanni.
La prima sosta è per visitare la «Escola Municipal Padre Calleri» posta ai confini tra la città e la foresta, costruita per accogliere i bambini delle diverse realtà circostanti che la raggiungono, chi in scuolabus, chi in canoa, chi a piedi. Ci fa piacere che questa scuola porti il nome di p. Giovanni soprattutto perché le sue classi miste (sia per età che per provenienza culturale), i colori allegri dell’edificio e i programmi di studio che la direttrice ci illustra, ci trasmettono una sensazione positiva.
A pochi chilometri dalla scuola il paesaggio inizia a cambiare; la BR-174 si addentra nella foresta e una volta penetrati nella riserva indigena Waimiri Atroarí l’asfalto cede il posto alla terra rossa, unica concessione governativa garantita agli indios per la salvaguardia del loro territorio. Un tempo una targa in metallo fissata su un tronco sul ciglio della strada commemorava la spedizione di p. Calleri; oggi rimane solo il tronco: la targa è stata purtroppo rubata. Un cartello avverte che non si possono fare foto, buttare spazzatura, disturbare gli animali, fermarsi; con gentilezza aggiunge: «Os Waimiri Atroarí agradecem boa viagem». Proseguiamo, accompagnati dagli auguri di buon viaggio della gente del posto.
Lungo il percorso, altri segnali indicano la presenza di p. Giovanni: nella piazza di Caracaraì, paesone rurale non distante da Boa Vista, sorge una statua che ritrae p. Calleri con una donna india e un bambino, inaugurata pochi anni fa in ricordo del lavoro che il missionario svolse con gli indigeni.
«Seja bem-vindo nesta cidade» (Sii il benvenuto nella nostra città), così ci saluta a Boa Vista la Rua Padre Calleri – alle volte scritto con una L soltanto, alle volte con due.).
Siamo arrivate nella città che conserva i resti di nostro zio: mentre leggiamo e rileggiamo la targa posta sotto l’altare maggiore della chiesa matrice, sentiamo tutti i nostri famigliari vicini. Ci hanno accompagnato nel lavoro di recupero della memoria, sostenuto, incoraggiato e sicuramente, vista la distanza che ci separa, ci staranno pensando. Non è l’ultimo incontro che faremo con i resti e con i ricordi di p. Giovanni, ma è sicuramente il più intimo.
In città scopriamo che si sta diffondendo la voce del viaggio delle sobrinhas netas (pronipoti) di p. Calleri e divertite ci lasciamo intervistare dalla radio FM Monte Roraima:
«Quale messaggio può trasmettere p. Calleri ai giovani?» ci domandano; ce lo siamo chiesto molte volte presentando la mostra alle tante scolaresche del cuneese che hanno avuto modo di visitarla.
«Speriamo che l’esempio di p. Calleri sia di incoraggiamento per i giovani a percorrere strade anche difficili per perseguire le proprie idee e quello in cui si crede».
Queste parole ci guideranno anche nelle aree indigene…
La regione de Las Serras
«Influenza suina a Roraima. La Funai sospende l’entrata di visitatori nelle terre indigene».
Con questi titoli i giornali locali aprivano in quei giorni le loro edizioni. Erano i giorni caldi della febbre suina e noi vivevamo nell’incertezza più assoluta: saremmo mai riuscite a visitare le aree indigene?
In questi luoghi non avere certezze è prassi comune, lo avremmo capito dopo poco. I missionari sono abituati a questa situazione e ormai non si lasciano più scoraggiare.
Devono essere gli indios a farci entrare nella loro terra, i missionari in questo tratto non possono venire con noi in quanto anch’essi considerati «visitatori». Il 15 agosto partiamo quindi con alcuni Macuxí, tra cui il leader della comunità (tuxaua); ci penseranno loro a farci superare i posti di blocco. Nella complessità dello stato di Roraima, la Raposa Serra do Sol, area indigena che comprende cinque comunità (Macuxí Wapichana, Tuarepang, Ingariko e Patamona), costituisce una realtà peculiare: situata nella punta Nord-est della Cabeça do Cachorro (regione dalla forma a testa di cane), al confine con la Guiana e con il Venezuela, è un’area continua indigena, continua nonostante all’interno di quest’area sia presente il municipio di Uiramutã, non indio, e il Goveo abbia intenzione di costruire delle centrali idroelettriche (come quella della Cachoeira do Tamanduá, Rio Cotingo). Ci mettiamo in marcia per Uiramutã, sperando di poter proseguire per Maturuca, centro della comunità Macuxí.
Il viaggio in macchina è lungo, su strada sterrata, e il nostro portoghese stentato non aiuta il dialogo con l’autista. Bastano però alcuni sguardi, rassicuranti.
Arriviamo ad un fiume, aspettiamo, passa un pulmino della Funai, attimi di paura, poi il fuoristrada sale su una zattera e dopo pochi minuti siamo dall’altra parte del fiume Uraricuera; la prima difficoltà è superata.
Da qui a Uiramutã sono ettari e ettari di savana, la vegetazione è bassa, brulla, alcune vacche bianche ci attraversano la strada, libere. Libertà, vale la pena lottare per essa, e il popolo Macuxí lo sa bene.
Giungiamo al posto di blocco… tensione, preoccupazione di tutti, anche degli indios che però provano a tranquillizzarci. Lo superiamo, e dopo soli pochi metri ci fermiamo a bere qualcosa, ormai non siamo più in pericolo, siamo tra amici.
La regione delle montagne (las Serras) ci accoglie con il tramonto di Maturuca e con tutta la comunità vestita a festa con abiti tradizionali che canta e danza per noi.
I giorni seguenti visitiamo i progetti che la comunità sta realizzando per far fronte ai cambiamenti climatici e alla conseguente carenza di cibo: gli orti comunitari, con manioca, riso, etc., e la pescicoltura. I leaders delle comunità della Raposa e i cornordinatori locali ci parlano della storia della lotta per il riconoscimento e l’omologazione dell’area, avvenuta nel 2005, e dell’attuale organizzazione delle comunità. I Macuxí sono un popolo fiero, consapevole dei propri diritti e con la voglia di lottare per essi e per la terra che è stata lasciata loro dagli antenati e custodisce quindi tutta la storia e la tradizione di questo popolo.
Il lavoro che i missionari hanno sviluppato negli anni in questa regione è stato di appoggio fondamentale alla lotta per i diritti dei popoli indigeni. La festa per l’accoglienza si unisce al momento del distacco della comunità da p. Tiago (Giacomo Mena), che dopo tanti anni a Maturuca lascia la guida della missione. È un momento di grande intensità a cui anche noi assistiamo, commosse e felici al tempo stesso di essere qui a partecipare a questo passaggio storico.
Come il benvenuto, anche il congedo è un momento di festa. Jacir, storico tuxaua indigeno, ci dona, in quanto nipoti di p. Calleri, una collana di semi in ricordo della spedizione, impegnandosi a raccontare ai Waimiri Atroarí presenti nel CIR (Consiglio Indigeno di Roraima) la vera storia del massacro e il nostro viaggio sulle orme di p. Giovanni.
Nel cuore della foresta
I nuvoloni che si addensano all’orizzonte non aiutano ad affrontare con tanta tranquillità il volo che ci porta alla missione Catrimani, partendo da una pista clandestina, sperduta nei campi della periferia di Boa Vista. L’aereo è minuscolo, cinque posti, mai preso uno così piccolo. Saliamo e iniziamo a sorvolare la foresta.
Atterriamo sulla storica pista, costruita più di quarant’anni fa da p. Calleri e p. Bindo Meldolesi, che si allunga sulla terra rossa a poca distanza dal fiume. L’arrivo appaga di tutti gli scossoni e timori del viaggio: non appena scendiamo dall’aereo scorgiamo le casette verdi della missione e gruppetti di indios che ci attendono incuriositi. Sanno del nostro arrivo e hanno raggiunto la missione per conoscerci. Rimaniamo inevitabilmente colpite dai loro corpi nudi, colorati di rosso e oati di perline e piume, ma presto comprendiamo quanto la fisicità qui sia vissuta naturalmente e liberamente, in un rispetto autentico del pudore.
La loro lingua, per noi incomprensibile, non si rivela però un ostacolo, a breve ci troviamo sedute con Maria Zinha, leader indigena di una delle comunità più vicine alla missione, e con delle bambine molto curiose con le quali iniziamo una comunicazione espressa attraverso gesti, disegni e sorrisi.
P. Corrado e p. Laurindo ci accompagnano nell’esplorazione in terra Yanomami. Amache e provviste alla mano, partiamo in barca per la visita alle comunità più lontane dalla missione.
La prima sosta è presso una comunità indigena la cui maloca (casa comune) è spaziosa ma, a differenza di altre, è tutta chiusa ad eccezione di un piccolo foro in cima; il fumo dei fuochi accesi all’interno e l’odore di cibo reso ancora più acre dal caldo e dall’umidità fanno sì che l’aria sia pesante da respirare. Gli indios si dondolano nelle loro amache rosse appese a sostegni in legno, preparano le focacce di tapioca o tessono; ci guardiamo incuriositi, noi e loro. Chiediamo il permesso di scattare qualche foto, rimaniamo affascinate dai colori di un piccolo tucano che i bambini tengono con sé, ma presto torniamo alla barca e via di nuovo contro corrente.
Nel primo pomeriggio raggiungiamo la comunità indigena presso cui passeremo la notte: siamo allo stesso tempo eccitate e titubanti all’idea di dormire in maloca. Gli Yanomami dimostrano nei nostri confronti un’attenzione e una sensibilità che non ci saremmo aspettate: consapevoli delle nostre difficoltà ad adattarci all’ambiente chiuso e comune della maloca, ci riservano due piccole costruzioni estee. Appendiamo le nostre amache e ci lasciamo cullare per un riposo pomeridiano, che non si rivela però essere troppo lungo. Poco dopo infatti insieme agli indios ci immergiamo esitanti nelle acque fangose del fiume, piacevole momento di sollievo dal caldo umido.
Visitiamo i campi di manioca coltivati dagli indios e ci avventuriamo all’interno della foresta, dove la vegetazione si fa più fitta e a stento la luce riesce a filtrare. I bambini ridono della nostra goffaggine nel muoverci nel loro habitat e un po’ per dispetto, un po’ per vanto, si arrampicano ovunque.
Il calare del sole ci riserva un incontro con tutta la comunità. Vengono invocati gli spiriti degli antenati con danze e canti delle donne, che si tengono per mano quasi a formare un cerchio, espressione di tutta la comunità raccolta in questo momento. Le donne nel popolo Yanomami sono le custodi della famiglia, della tradizione e dei valori comunitari. Proprio il concetto di comunità assume in questo luogo delle sfumature nuove per noi: qui il singolo è parte integrante della comunità, in un modello allargato di famiglia che è fonte di protezione, riferimento e sopravvivenza.  
Dopo le reciproche presentazioni, i tuxaua ci illustrano la loro organizzazione, i loro progetti e condividono con noi i ricordi che hanno di p. Calleri. Gli indios che l’hanno conosciuto – ai tempi erano bambini – lo ricordano come un uomo molto generoso e un gran lavoratore. In quegli anni p. Calleri infatti stava costruendo la missione Catrimani e la pista dell’aereo e si serviva molto dell’aiuto degli indios, ripagandoli poi con coltelli e altri beni che questi non possedevano. L’affermazione che ci colpisce di più è quella del tuxaua Carrera, secondo il quale per gli indios Yanomami l’incontro con p. Calleri è stato il primo contatto positivo con i bianchi.
Quando usciamo dalla maloca, il cielo è completamente stellato. Titiri, lo spirito della notte, ci accompagna.
Facciamo ritorno a Boa Vista in un turbinio di emozioni, e ci tornano alla mente le parole che p. Giovanni scrisse nel ’65 ai parenti in Italia:
«Qui ho avuto l’impressione improvvisa di trovarmi in un paradiso terrestre. Tutto diverso quasi completamente dalla nostra Europa, uomini e cose. C’è da imparare molto prima di insegnare. Pensavo che solo noi civilizzati fossimo capaci a vivere. Credo ora che sia diverso, soprattutto moralmente. Costì mi pare che stiamo già passando in una fase vecchia di vita, qui una fase nuova e fresca. Per cui non demoralizzarci ma guardare con un occhio anche a questi per completare le nostre vedute. In conclusione: qui non si tratta solo di battezzare, sarebbe facile, bensì di impostare un mondo che in un domani ci potrà anche essere utile».
Prima di rientrare in Italia abbiamo sfruttato ancora per qualche giorno le bellezze di questo splendido paese. Dopo l’esperienza vissuta a Roraima e le emozioni provate nel ripercorrere i passi di nostro zio, lasciandosi invadere dai luoghi e dalle voci che ne avevano popolato la storia, non restava però davvero altro da raccontare.

Margherita Allena e Zelda Guglielminotto

PADRE GIOVANNI CALLERI

Padre Giovanni Calleri nasce a Carrù il 15 aprile 1934 e a soli 11 anni entra in seminario a Mondovì. Da sacerdote esercita il suo ministero dapprima in diocesi, distinguendosi da subito per la sua personalità esuberante e dinamica che non lascia indifferenti, soprattutto i giovani. Questi aspetti del suo carattere lo accompagnano anche nel suo compito di missionario della Consolata in Brasile, dove arriva nel 1964. Insieme a padre Bindo Meldolesi costruisce la Missione del Catrimani, in una zona dell’Amazzonia ancora pressoché inesplorata, e inizia un cammino di reciproca conoscenza e scambio culturale insieme agli indios Yanomami.
Nel 1968 parte per una spedizione di pace nel territorio degli indios Waimiri Atroarí, ma dopo poco meno di un mese si perdono i contatti con i membri della spedizione, i cui corpi senza vita verranno ritrovati il 30 novembre dello stesso anno.
L’assassinio di padre Giovanni Calleri e dei suoi compagni di spedizione si inserisce in una delle tante pagine buie che hanno segnato l’insediamento dell’uomo bianco in territorio amazzonico. Nel 1967 il governo brasiliano inizia la costruzione della strada BR-174 per collegare Manaus con Boa Vista e il Venezuela, abbattendo grandi estensioni di foresta e attraversando il territorio degli indios Waimiri Atroarí, che si oppongono al passaggio della strada. Padre Calleri individua un’area limitrofa in cui istituire un «parco protetto» per preservare il gruppo indigeno e la sua identità etnico-culturale. Il piano di contatto da lui elaborato potrebbe garantire il successo della spedizione ed evitare ai Waimiri Atroarí violente ripercussioni. Purtroppo, la riserva si trova nel cuore di un’area ricca di minerali al cui sfruttamento mirano i potentati economici brasiliani ed americani, che si mobilitano subito per impedire la riuscita del progetto.
Sebbene la versione ufficiale incolpi del massacro gli stessi indios Waimiri Atroarí che non vogliono la costruzione della BR-174 sulla loro terra, ricerche seguenti condotte in modo particolare da padre Silvano Sabatini, rivelano scenari molto più complessi ed inquietanti.

Per approfondire la storia di padre Calleri:
Silvano Sabatini, Sangue nella foresta amazzonica. La spedizione di padre Giovanni Calleri tra gli indios Waimiri Atroarí, Emi, Bologna 2001.
Marco Bello, «Massacro. Complotti, interessi, bugie», in Missioni Consolata, settembre 2008.

Margherita Allena e Zelda Guglielminotto




Ricominciare per Continuare

Diventare direttore di questa rivista, era una delle possibilità prevedibili fin da quando ho cominciato il mio servizio missionario nella stampa ormai 34 anni fa, appena ordinato sacerdote. Me lo avevano perfino augurato alla fine del liceo. Ma che lo diventi all’età di andare in pensione mi sembra buffo. Rientrato dopo 21 anni di Kenya, dove per 17 anni ho fatto di tutto (anche l’editore) nella rivista che pubblicavo laggiù (il Seme, The Seed), mi trovo ora a ricominciare (perché qui ho già lavorato dall’80 all’86) con voi questa avventura in una rivista ricca di storia come è Missioni Consolata. Già, la storia ultracentenaria di questa rivista mi affascina e mi spaventa. È una responsabilità non da poco succedere al canonico Giacomo Camisassa e a grandi direttori come i padri Vittorio Sandrone, Mario Bianchi, Giovanni Mazza, Gabriele Soldati, Francesco Beardi, Benedetto Bellesi e Ugo Pozzoli, solo per nominae alcuni.

Questa si definisce la rivista missionaria della famiglia. Sono due qualifiche: missionaria e della famiglia, che mi danno a pensare. Missionaria: rimanda alla Missione; quella con la M maiuscola non è certo cambiata: è sempre l’annuncio di Gesù figlio di Dio incarnato, morto e risorto per la salvezza dell’umanità e del cosmo, l’unico Signore e Salvatore che ci chiama ad accogliere il regno di Dio. Ma la missione, quella spicciola e quotidiana, quella che è traduzione in azione e vita della grande Missione, è sempre in cambiamento e trasformazione. Cosa vuol dire fare, pensare ed essere missione nel 2010? Come raccontarla oggi? È una grande sfida. Della famiglia! La mia esperienza di famiglia, quasi patriarcale, sembra lontana anni luce da quanto si vive oggi. Anche la visione africana della famiglia, che ha avuto un ruolo importante nella mia esperienza keniana, e che tanto ha ispirato la Chiesa africana, è una realtà che sta passando attraverso un grande processo di trasformazione, spesso sofferto e contraddittorio. Quale famiglia oggi in questa nostra Italia, in questa Europa?

C’è un terzo elemento qualificante: Consolata. Consolata indica la dimensione mariana: la Madonna Consolata, fondatrice dell’istituto. Ma non solo, Consolata indica anche un metodo missionario secondo il cuore del beato Giuseppe Allamano: il bene fatto bene (e senza rumore) per l’uomo totale, anima e corpo, nel suo oggi, dove evangelizzazione e promozione umana vanno a braccetto. Per questo “tutto quello che è umano ci interessa”. Per questo possiamo parlare di politica ed economia, di musica e di arte, di sviluppo e di cultura, di moda e di ecologia, di poesia e danza, di giustizia e di pace, di inquinamento e di emigranti, di adozioni e turismo responsabile, di razzismo e guerra, schiavismo e liberazione, acqua e terra, e chi più ne ha più ne metta … e, nello stesso tempo, raccontare sempre più di evangelizzazione e conversione, di battesimi e nuove chiese, di ordinazioni e vescovi, di morale e teologia, religioni ed ecumenismo, papa e catechisti, famiglia e vocazioni, inculturazione e liturgia, preghiera e spiritualità …
Consolata è anche un filtro privilegiato. Non vogliamo e non possiamo essere qualunquisti. Siamo Consolata. Per cui questa non è una rivista neutrale. Siamo schierati, con libertà e senso critico, amore e rispetto. E come Consolata abbiamo un difetto: vediamo le cose con gli occhi del Sud del mondo, dalla prospettiva dei poveri.

Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




CANA (14) : RILETTURA CRISTIANA DI GENESI

Il racconto delle nozze di Cana (14)

«In principio Dio creò il cielo e la terra … e in principio era il Lògos» (Es 4,20).
Dopo dodici puntate di introduzione, tralasciando tutti gli altri problemi riguardanti la critica testuale, l’analisi letteraria e gli approfondimenti relativi, che ci porterebbero a comporre un trattato solo sul racconto di Cana, crediamo utile passare all’analisi del testo che vorremmo gustare parola per parola. Per il credente, lo studio della Parola è preghiera perché diventa carne e sangue, fondamento e prospettiva di vita.
L’alfabeto della Presenza
La Parola di Dio che attraversa il nostro cuore, purificandolo e convertendolo, ritorna da dove è venuta, come la pioggia che scende dal cielo a bagnare la terra che a sua volta la restituisce al cielo in forma di vapore, di nubi e nuova pioggia. Lo descrive in modo impareggiabile il profeta Isaia:
«10Come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme a chi semina e il pane a chi mangia, 11così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: non ritoerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata» (Is 55,10-11).
A) Studiare è sacrificio gradito
La Parola di Dio è l’alfabeto con cui parlare la lingua nuova della Presenza/Shekinàh di Dio e della fede in lui. Per gli Ebrei lo studio della Toràh dispensava sia dal lavoro che dall’osservanza dei precetti perché lo studio della Scrittura era paragonato ad un giogo impegnativo e pesante come insegna Rabbi Ne’hounia ben Hakàna che diceva: «A colui che accetta il giogo della legge, saranno risparmiati  il giogo del Regno ed il giogo delle preoccupazioni del mondo» (Pirqè Avòt/Massime dei Padri III,5). Quando un non ebreo chiedeva di convertirsi all’ebraismo, per scoraggiarlo gli si spiegava come fosse duro portare il giogo della Toràh (Talmud Babilonese, Berakòt 30b). Il giogo però indica anche la fatica quotidiana dello studio della Toràh ed equivale all’osservanza di tutti i comandamenti presi nella loro totalità (cf Mishnàh, Pèah/Angolo, 1,1; Talmud Babilonese, Shabàt 127a). Gesù presenta il suo messaggio come «un giogo buono/facile [da portare] e leggero» (Mt 11,30).  Non solo, ma la tradizione giudaica va ancora oltre: lo studio della Toràh ha un valore espiatorio e sacrificale: «Colui che si dedica allo studio della Toràh è come se avesse offerto lui stesso un olocausto, una offerta o un sacrificio per la remissione della colpa» (Talmud Babilonese Menahòt 110a); oppure:  «Studiare la Toràh è più grande che salvare vite umane» (Talmud Babilonese Megillàh 16b).
B) Fare la corte a Dio
Non è sufficiente leggere la Bibbia, bisogna «re-stare» su di essa per cogliere la verità di noi e la verità di Dio: «Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli» (Gv 8,31) e «re-stare» vuol dire «stare saldamente ancorati» in virtù del rafforzativo «re-». Dalla lunga introduzione, i nostri lettori avranno compreso che leggere, pregare e accogliere la Parola di Dio è cosa seria ed esige tempo, intimità, fatica, pazienza. Accostarsi alla Bibbia non è leggere un racconto edificante per imparare qualcosa, ma educarsi ad un rapporto d’amore, frequentare una conoscenza d’intimità, imparare ad essere innamorati, apprendere a «fare la corte» a Dio, lasciandosi sedurre dalla Parola che è il Lògos, Gesù di Nàzaret, il Figlio del Padre (cf Ger 20,7).
Pregare stanca anche fisicamente perché lo studio impegna energie, volontà, sentimenti, fantasia, emozioni, anima e corpo. Alla Parola bisogna offrire il tempo più bello della giornata, mai gli scarti, perché è un rapporto di conoscenza e di amore che allarga il cuore ad un amore sempre più senza confini. Lo studio e la preghiera, infatti, non sono incontri fugaci di prostituzione, ma profondi aneliti d’amore vissuti in un dinamico e intimo contesto d’amore. Quando releghiamo Dio e la sua Parola ai margini del nostro tempo «per adempiere al nostro dovere», noi annulliamo il patto nuziale di alleanza, diventiamo mercenari interessati e mercanti di religione.
Il testo e la traduzione letterale
Leggiamo il testo del racconto di Cana nella duplice versione: quella della Cei (edizione 2008) e quella letterale che proponiamo noi:
Questo è il testo che, adesso, dopo la lunga e articolata introduzione, ci appare meno semplice e più armonioso di quanto non immaginassimo. A leggerlo lentamente e assaporandolo si ha la sensazione di entrare nel tessuto di una grande storia che non può essere solo un banale sposalizio anonimo: il cuore ci dice che diventiamo protagonisti di eventi cosmici che ci avvolgono nel passato per proiettarci nel futuro di un processo travolgente, dove Dio e noi camminiamo insieme e insieme viviamo una dimensione nuziale che ci apre alla relazione affettiva, fondamento di ogni relazione spirituale. Cana è il luogo del nostro sposalizio, cioè della nostra vita vissuta in chiave nuziale. Entriamo dunque nel villaggio e, seduti, al banchetto delle nozze, assaporiamo le parole del vangelo.
«E nel terzo giorno» (v. 1)
Sul «terzo giorno» abbiamo anticipato molte informazioni nella sesta puntata (luglio/agosto 2009) e nella settima (settembre 2009), in cui abbiamo cercato di collocare questa espressione nel contesto ampio di tutta la Scrittura e offrendo i motivi biblici e culturali che stanno dietro alla mentalità dell’autore. Abbiamo detto che nel «terzo giorno» della creazione vi sono due benedizioni di Dio che descrivono una doppia fecondità e quindi giorno ideale per celebrare le nozze secondo la tradizione giudaica. Le nozze di Dio con Israele avvengono ai piedi del Sinai «nel terzo giorno» che diventa così il giorno della Toràh, la dote che Dio porta alla sposa nel momento in cui «l’acquista» come sua corona e gloria. Al tempo di Gesù nel quarto giorno si riuniva il tribunale a cui si poteva fare immediato ricorso per il ripudio della sposa non trovata vergine e sposata il giorno prima, cioè «il terzo giorno».
A) Una scansione della salvezza
Abbiamo anche sottolineato che il tema del «terzo giorno» attraversa tutta la Scrittura sia del Primo che del Secondo Testamento: Abramo sacrifica Isacco, Giona è salvato dal pesce, Ester salva il suo popolo, Esdra ricostruisce il tempio. Per i profeti è il giorno della risurrezione, ma anche di condanna per gli atei che si fingono religiosi. Nel NT «terzo giorno» è espressione tecnica per indicare la resurrezione di Gesù, per cui possiamo dire che «il terzo giorno» ritma l’eternità di Dio e segna il tempo dell’uomo. Qual è il nostro «terzo giorno»? Un fatto è certo: nella nostra esistenza c’è un «terzo giorno» che segna la nostra identità e l’evento centrale che ha determinato la nostra vita. Se non prendiamo coscienza di esso e se non lo riconosciamo, noi viviamo come ubriachi che camminano a zonzo, senza una direzione e forse scambiamo i lampioni per punti di riferimento: parliamo a vuoto, mentre ci illudiamo di parlare con Dio.
B) Una formula teologica
L’espressione «E nel terzo giorno» è posta all’inizio del racconto e quindi, come si dice tecnicamente, in posizione «enfatica», cioè preminente, come se l’autore volesse che il lettore si rendesse subito conto che non si trova di fronte ad una nota cronologica, ma un evento teologico. Questa posizione di rilievo inoltre è un esplicito richiamo ai giorni precedenti, perché non si dà un «terzo giorno» senza riferirsi ai giorni precedenti che nel capitolo primo cominciano a descrivere una settimana, che è quella iniziale dell’attività di Gesù, presentata dall’evangelista come la settimana corrispondente a quella della Genesi, quando Dio «crea il cielo e la terra». Se mettiamo insieme il ritmo dei giorni descritti dall’autore scopriamo che il «terzo giorno» delle nozze di Cana corrisponde al «sesto giorno» della stessa settimana. Infatti, lo schema che propone il IV vangelo è il seguente:
1.  Gv 1,19-28: «Io non sono il Cristo»:                                 giorno uno della settimana
(Giovanni rende testimonianza e annuncia alla religione ufficiale il nuovo tempo)
2.  Gv 1,29-34: «Il giorno dopo» (gr.: têi epàurion): secondo giorno della settimana:
(Giovanni annuncia al mondo l’«Agnello di Dio»)
3.  Gv 1,35-42: «Il giorno dopo» (gr.: têi epàurion): terzo giorno della settimana:
(Un discepolo anonimo, Andrea e suo fratello Pietro sono chiamati da Gesù)
4.  Gv 1,43-51: «Il giorno dopo» (gr.: têi epàurion): quarto giorno della settimana
(Filippo e Natanaele sono chiamati da Gesù)
5.  Gv 2,1:   «E nel terzo giorno» (gr.: têi hēmèrai têi trìtēi): sesto giorno della settimana:
(Cana: rinnovo dell’alleanza del Sinai in chiave sposale)
6.  Gv 2,12: «Non molti giorni»
(gr.: oú pollàs hēemèras).
(Permanenza di Gesù, sua madre e i discepoli a Cafaao.)
C) Una nuova Genesi?
È evidente che Gv 1 e l’inizio di Gv 2 sono ritmati da questa scansione di giorni che convergono come alla loro foce naturale nel «terzo giorno» di Cana cui fa seguito l’osservazione redazionale che «rimasero non molti giorni» (Gv 2,12), che può essere letto come «un riposo» dopo la settimana impegnativa e di cui parleremo dopo per l’importanza del verbo. In questo modo avremmo uno schema settenario con sei giorni lavorativi e il settimo di riposo, costruito sul modello della settimana della Genesi, in cui per sei giorni Dio «Disse e opera» e, infine, si riposa al settimo. Il terzo giorno del nostro schema corrisponde al sesto giorno della settimana e non al settimo perché secondo il computo ebraico, il giorno si conta dalla fine di quello precedente, dal tramonto al tramonto. Su questo specifico aspetto della struttura settimanale, gli studiosi sono tutti d’accordo nel ritenere che Gv 1,19-2,12 è strutturato nello spazio di una settimana, ma moltissimi divergono nella divisione dei giorni: alcuni calcolano sei giorni, altri sette, altri otto e c’è anche chi ipotizza dieci giorni. Una minoranza di studiosi non ammette nemmeno lo schema settimanale perché secondo loro gli indizi sarebbero fragili. Noi tralasciamo queste discussioni che sono tecniche perché incomprensibili a chi non è addentro a sistemi di indagine esegetica complessa. Chi volesse però approfondire gli argomenti, può ricorrere ad un testo organico e completo di uno dei massimi esperti di Gv e specificamente del racconto di Cana a cui ha dedicato di fatto tutta la vita: Aristide Serra, Le nozze di Cana (Gv 2,1-12). Incidenze cristologico-mariane del primo “segno” di Gesù, Edizioni Messaggero, Padova 2009, pp. 560.
D) Dal «principio» primordiale al «principio»
         dell’incarnazione
A questo punto ci pare quasi ovvio dire che lo schema settimanale, all’interno del quale troviamo l’espressione «E nel terzo giorno», è uno schema teologico e non cronologico. Infatti il riferimento al racconto della creazione di Gen 1 non solo è lecito, ma è anche logico perché l’evangelista presenta l’attività di Gesù dentro uno schema settimanale per mettere in evidenza che è un’attività salvifica, una ripresa dei temi della creazione, anzi, con Gesù inizia «una creazione nuova » che trova nella «nuova alleanza» anticipata da Geremia (cf Ger 31,31) l’inizio del tempo escatologico che sia la Scrittura che la tradizione giudaica annunciano come il tempo del Messia. è anche da sottolineare che lo schema settimanale di Giovanni si apre allo stesso modo, della Genesi, con l’assoluto e solenne «In principio» che da un senso di eternità a tutto il racconto. «In principio» Dio pone mano alla creazione del cielo e della terra così come «In principio» il Lògos irrompe nel tempo della storia per farsi «carne», cioè fragilità e temporalità. In greco si trova  l’espressione «en archê» che è la traduzione con cui la LXX traduce l’ebraico «Bereshìt» di Gen 1,1. I primi cristiani usavano come Bibbia propria appunto la LXX che era quindi la loro Scrittura di riferimento per l’AT. Un altro elemento, o quanto meno un forte indizio, a cui abbiamo solo accennato, si trova nel verbo «rimasero» di Gv 2,12: dopo la settimana di Gv 1 e le nozze di Cana «nel terzo giorno» di Gv 2, Gesù, sua Madre e i discepoli si ritirano a Cafàao, dove «rimasero non molti giorni». Il verbo usato da Gv è «mènō – rimango/resto/sosto» e quindi «riposo», dove vi potrebbe essere un’eco dello «shabàt-riposo» di Dio creatore. In questo caso Gv presenta Gesù non più come la «Sapienza» che era accanto al creatore pronta ad eseguire i suoi ordini (Pr 24,1-13), ma come il «Lògos» eterno che presiede direttamente la nuova creazione che troverà il culmine nella redenzione, espressa e manifestata nella rivelazione della «gloria» che risplende sul mondo dal trono della croce. Il racconto di Cana è dunque sotto questo aspetto, una rilettura cristiana, un midràsh, della creazione di Genesi e, come abbiamo anticipato nelle puntate precedenti e come vedremo in seguito, anche e specialmente della liberazione dell’esodo e del dono della Toràh al monte Sinai.
[continua – 14]

Paolo Farinella

Paolo Farinella