Anima orientale, ambizioni europee

NON SOLO ORGOGLIO 

Guidata da un partito islamico moderato, la Turchia è un paese in pieno fermento, come dimostra anche il referendum del 12 settembre 2010. Pur aspirando a diventare la nuova guida del mondo islamico, i governanti di Ankara vorrebbero avere rapporti privilegiati con la vicina Europa. Ma le distanze culturali e le diffidenze europee per ora sembrano prevalere.

L’aereo volteggia sul Mare di Marmara. Davanti a noi s’apre una distesa di luci sparse su un lembo di terra tagliata dal Bosforo. Al di là, si estendono le acque del Mar Nero. È Istanbul, la bella. La città dalle splendide moschee e dai mille minareti svettanti contro il cielo. La Bisanzio dei greci, la Costantinopoli dell’Impero Romano d’Oriente e la Istanbul ottomana: antica capitale ricca di storia e di cultura e da sempre ponte tra Occidente e Oriente.
Aggirarsi per le sue vecchie strade e per le sue piazze affollatissime, osservare le sue case di legno, le sue facciate decadenti ma piene di fascino è come fare un tuffo nel passato, stando, paradossalmente, ben ancorati al futuro.
La città e il resto della Turchia, infatti, sono in pieno fermento culturale, politico, sociale ed economico. Una condizione che le distingue molto dagli altri stati della stanca e asfittica Europa, a crescita zero o sottozero e soffocata da un malessere generalizzato.
Qui si respira un’aria di freschezza: sarà per la presenza di tanti bambini e giovani; sarà per la voglia di cambiamento e la speranza nel futuro, ma una cosa è certa, questa regione del pianeta qualcosa di nuovo ha in serbo per i suoi 76 milioni di abitanti.
Quartieri modeissimi e antichissimi si contendono il vasto territorio su cui è costruita Istanbul: la convivenza di passato e futuro è tra gli aspetti più appariscenti di questa metropoli mediterranea.
Dell’antica grandezza bizantina, e poi ottomana, si scorgono tracce dovunque, anche nella fierezza del popolo che, in questi anni, sta ritrovando il perduto orgoglio di «guida» del vasto mondo islamico, e arabo, dominato da dittatori e monarchi invisi ai propri stessi popoli.
La Turchia è infatti balzata alla ribalta per le posizioni «terzomondiste» e mediorientali, per il sostegno al popolo palestinese, per l’amicizia con l’Iran, con le repubbliche latino-americane, e per aver sottratto il ruolo di mediatore nei conflitti del Vicino e Medio Oriente all’Egitto, Stato arabo la cui immagine è andata ormai distrutta dall’ostentata sudditanza agli Usa e a Israele e dalla trentennale dittatura del clan Mubarak.

L’atipicitÀ DEGLI ISLAMICI turchi E LE PAURE DEGLI EUROPEI
La Turchia musulmana, ben espressa attraverso il partito al potere, Akp  (vedi box), è diventata uno dei punti di riferimento per tutta la vasta regione islamica, in particolare quella sunnita.
Proiezione verso Oriente e slancio verso l’Europa sono aspetti che caratterizzano storicamente il Paese, e non sono solo una novità di questi anni. Già verso la fine dell’Ottocento, gli intellettuali turchi erano scissi interiormente, e politicamente, tra due tendenze, quando non appartenevano proprio alle due fazioni opposte: filo-occidentalismo e filo-islamismo ottomano.
L’ascesa dirompente del secolarismo ebbe inizio nell’ultima fase dell’Impero Ottomano e culminò con le riforme del fondatore della Turchia modea, Mustafa Kemal Atatürk, negli anni Venti.
Religiosità e laicismo, riformismo e conservatorismo rappresentano ancora oggi le tante facce di questa nazione. Aspetti contraddittori e, allo stesso tempo, complementari, in una società sempre in gran fermento.
Nel bel romanzo, La figlia di Istanbul, di Halide Edip Adivar (vedi box), ambientato negli anni che precedettero la rivoluzione dei Giovani Turchi e la fine dell’Impero, questa «doppia anima» turca emerge in modo chiaro, evidenziandone tutta la potenzialità sia conflittuale sia dialettica.
Il laicismo, che ha i tratti fondamentalisti dei kemalisti, i seguaci delle dottrine del padre della Patria, Atatürk, ancora molto presenti in diversi apparati statali, si scontra con le esigenze di maggiori libertà politiche, religiose, culturali e sindacali di una parte sempre più consistente di popolazione, che si sente più vicina agli ideali e ai progetti dell’Akp. Seppur di «ispirazione islamica», infatti, il partito al governo rappresenta le istanze più innovatrici e riformiste della società turca. E certamente più democratiche e dialettiche rispetto a quelle veicolate per circa ottanta anni dal kemalismo, i cui principi si sono basati su una fedeltà all’esercito e ad un laicismo opprimenti e anti-popolari.
Abbiamo avuto modo di visitare il Paese diverse volte, dal 2007 al 2010. Ebbene, rispetto a tre anni fa, le differenze sono ormai visibili. La presenza massiccia dei militari, per le strade, sembra essersi ridotta. Scene da «regime dittatoriale», come quelle cui assistemmo – ragazzi fermati soltanto perché ostruivano il passaggio di una squadra militare, nelle vie di Taksim, uno dei quartieri più eleganti ed «europei» di Istanbul – probabilmente rimarranno solo un brutto ricordo.
In questo quadro mutato si inseriscono le relazioni tra la Turchia e l’Unione Europea. Esse sono iniziate negli anni Sessanta, quando la Cee (Comunità economica europea) siglò l’Accordo di Ankara. Recentemente, al fine di rendere possibile l’ingresso della Turchia nella Ue, il primo ministro Recep Tayyip Erdog˘an ha introdotto diverse riforme, tra cui l’abolizione della pena di morte. Ciò che spaventa tanti europei è l’anima islamica della nuova Turchia: temono che l’ingresso del Paese nell’Unione Europea sbilanci a favore dei musulmani l’equilibrio demografico del Vecchio Continente. Inoltre, l’irrisolta questione kurda, il grande potere che l’esercito turco ha sullo Stato e sulla vita dei cittadini, uniti alle politiche di alleanza con le nazioni arabe e islamiche e a una legislazione che ancora non si attiene ai canoni occidentali del rispetto dei diritti umani, rendono problematico e fonte di infinite discussioni diplomatiche e accademiche l’entrata della Turchia nella Ue.

QUALe TURCHIA DOPO IL REFERENDUM?
Sullo scacchiere turco (ed europeo), tuttavia, è stata compiuta una mossa interessante, che introduce un elemento di novità: l’avallo, emerso dall’esito del referendum popolare del 12 settembre, alla riforma costituzionale che toglie poteri ai militari e garantisce maggiore democrazia agli altri organi dello Stato.
La schiacciante vittoria del «sì» permetterà ai legislatori turchi di modificare 26 articoli della Costituzione.
L’Europa vede in questa fase della vita politica turca un segnale positivo, non solo nel senso di una maggiore democratizzazione intea, ma anche della volontà di aderire alla comunità dei popoli europei.
Gli emendamenti aumentano il numero dei membri della Corte costituzionale e del Consiglio superiore della magistratura: essi saranno, inoltre, nominati non più solo dai giudici, ma anche dal Parlamento e dal presidente della Repubblica.
Tra gli altri aspetti della riforma, emerge quello della «discriminazione positiva»: le nuove norme prevedono l’entrata in vigore di misure per «incrementare la presenza delle donne nella vita politica, sociale ed economica del Paese». Attualmente, le parlamentari rappresentano il 9,1% del totale.
Inoltre, il capitolo della Costituzione relativo alla «protezione della famiglia» sarà modificato ampliandolo anche ai «diritti dei minori».
Tuttavia, l’opposizione nazionalista teme che queste riforme possano portare a una presenza più massiccia dei religiosi nelle più alte cariche delle istituzioni statali e che la laicità sia posta a rischio.

L’ISLAM E IL SUFISMO
Nonostante la religione ufficiale in Turchia sia quella musulmana, uno degli effetti del laicismo imposto dalla dottrina kemalista è stato la messa al bando del sufismo, una delle manifestazioni mistiche più significative dell’islam. Dai tempi di Atatürk1 e a fasi altee, infatti, esso è considerato una pratica illegale. In realtà, sia a Istanbul sia a Konya  e in altre città, possiamo trovare numerose confrateite sufi, dissimulate in «centri culturali».
Sin dal XIII secolo, il misticismo islamico turco si espresse attraverso l’adesione agli ordini sufi, le cui sedi rappresentavano dei veri e propri luoghi di spiritualità e di attività sociale.
La parola «sufi» deriva dall’arabo suf , lana, ed era usata per indicare gli asceti che indossavano semplici panni di lana rifiutando i beni e gli agi materiali.
Dal XII secolo, i sufi erano organizzati in tariqah, ordini o confrateite (come i monaci cristiani che praticavano l’ascetismo) che seguivano gli insegnamenti di un Maestro, e si riunivano in tekke o dergah (logge).
Una delle più grandi confrateite turche, la Naqshbandiya, risale al XIV secolo. Un’altra, altrettanto importante, la Mawlawiyah o Mevleviya, venne fondata a Konya: dal figlio e dai seguaci del mistico, teologo e poeta persiano Jalal ad Din Mohammad Balkhi, noto come Mawlana o Rumi.
I membri della sua confrateita sono meglio conosciuti come «Dervishi danzanti» (o roteanti)2, a causa del rito estatico, sema’, da loro eseguito attraverso l’ascolto della musica, la recitazione del dhikr (ricordo di Dio) e una danza rotatoria vertiginosa.

L’ESEMPIO DI SANTA SOFIA: EX CATTEDRALE, EX MOSCHEA
La Turchia è anche un luogo dove si possono incontrare elementi di sincretismo e mescolanza appartenenti a fedi e a culture diverse.
E di questa commistione Istanbul è un po’ l’emblema: è un forziere pieno di tesori architettonici e culturali, frutto della capacità umana non solo di distruggere o entrare in conflitto, ma anche, e soprattutto, di integrare, assimilare, mescolare e rielaborare in modelli completamente diversi da quelli originari.
Hagia Sophia (Aya Sofya), Santa Sofia o Santa Sapienza in italiano, nel quartiere di Sultanahmet, nel cuore antico della città affacciato sul Mare di Marmara, ne è uno splendido esempio.
Nei suoi immensi spazi si realizza un incontro, e un’unione, tra cristianità e islam: la bellezza maestosa di questa ex cattedrale cristiana ed ex moschea musulmana, e ora museo, è un «miracolo» di «assimilazione-trasformazione».
Iniziata sotto Costantino, intorno al 300 d.C., fu ultimata nel 330, durante il regno di Costanzo II. Distrutta da un incendio e ricostruita nel 415 da Teodosio II; nuovamente incendiata e riedificata dopo il 532 da Giustiniano I, la nuova cattedrale, al cui progetto avevano lavorato grandi architetti, venne edificata con materiali preziosi, fatti arrivare da tutte le parti dell’Impero bizantino. All’imperatore Giustiniano dovette sembrare un’opera davvero magnifica, per dichiarare, secondo quanto riporta la tradizione: «Ti ho superato, o Salomone!».
Altri incendi, terremoti, crolli, saccheggi e invasioni (Crociate) resero necessarie ristrutturazioni, modifiche e ampliamenti.
Con la conquista di Costantinopoli, nel 1453, ad opera dei turchi ottomani, Santa Sofia fu trasformata in moschea: vennero costruiti i minareti, coperti gli affreschi interni che ritraevano Gesù, Maria, i santi e gli angeli, e aggiunte opere artistiche islamiche.
Gli antichi mosaici e stucchi bizantini vennero scoperti nel 1849 (e restaurati successivamente). Da allora, coesistono insieme ai simboli e all’arte sacra musulmana, dando alle imponenti navate e gallerie, e all’abside, un’impronta «multireligiosa», che suscita nel visitatore stupore e ammirazione.
La cupola, enorme, è ricoperta di mosaici, ma nel suo centro spiccano decorazioni calligrafiche islamiche (un versetto del Corano dipinto nel XIX secolo). Sui pennacchi, sotto la cupola, si stagliano quattro serafini (due furono realizzati come mosaico, due come affresco). Emblema di questa sovrapposizione e mescolanza tra cristianesimo e islam è la scena che ci si ritrova di fronte abbassando gli occhi dal soffitto e indirizzandoli a est, verso il centro dell’abside: il mihrab (elemento della moschea che indica la direzione della preghiera) è collocato all’interno, ed è sovrastato da un mosaico bizantino del IX secolo che ritrae la Vergine con il Bambino. Il Dio di Gesù e il Dio di Mohammad si fondono dunque in un unico spazio architettonico da cui i fedeli elevavano al cielo le loro preghiere.
Tale sorprendente vicinanza ha una spiegazione pratica: quando Hagia Sophia era un luogo di culto, sia i cristiani sia i musulmani pregavano verso est. Le chiese cristiane erano tradizionalmente rivolte a oriente, così come la qibla, la direzione della preghiera islamica, volge verso Mecca, che, rispetto a Istanbul, si trova a sud-est.
Altre parti di grande interesse artistico sono gli otto «dischi di legno», con incisioni calligrafiche riferite a Dio, al profeta Muhammad, ai primi quattro Califfi (Abu Bakr, Umar, Uthman e Ali) e ai due nipoti di Muhammad (Hasan e Husayn), sospesi alle pareti sotto la cupola, a fianco dell’abside e nella navata. Essi creano un affascinante contrasto con gli elementi decorativi e liturgici cristiani.
Nelle gallerie al piano superiore, che in epoca islamica erano usate per la preghiera delle donne (matroneo), si trovano i mosaici più importanti di Hagia Sophia: il più famoso è quello che ritrae Cristo pantocratore, sovrano e trionfante, vicino a Maria e a Giovanni Battista.
Per oltre 900 anni Santa Sofia fu la sede del Patriarcato ortodosso di Costantinopoli e dei concili ecclesiastici: rimase cristiana fino al 29 maggio del 1453, quando il Sultano Mehmet il Conquistatore entrò trionfante nella città bizantina e trasformò la bellissima basilica in una moschea. Tale rimase per altri 500 anni, divenendo un modello architettonico e artistico per le moschee imperiali di Istanbul, tra cui la stupenda Moschea Blu e quella di Suleyman.
Fu tra il 1847 e il 1849, durante i lavori di restauro commissionati dal Sultano Abdülmecid II a due architetti svizzeri, i fratelli Fossati, che vennero scoperti i mosaici, riportati poi alla luce nel secolo successivo, anche grazie all’Unesco.
Santa Sofia fu trasformata nel museo di Ayasofya nel 1934, durante la presidenza di Kemal Atatürk.
Da allora, almeno all’interno della maestosa e bellissima Santa Sapienza, Occidente cristiano e Oriente musulmano possono convivere in pace e in armonia.

Angela Lano



Angela Lano




Cana (16) Le nozze di cana, il futuro è dietro di noi

Il racconto delle nozze di cana (16)

L’indicazione temporale che apre il racconto di Cana è preciso e delimitato: «E nel terzo giorno» (Gv 2,1). Per comprenderne la portata straordinaria è necessario percorrere il passaggio logico degli eventi e non solo cronologico. Questa indicazione di tempo, così puntuale, come abbiamo più volte osservato, è la conclusione della prima settimana di attività di Gesù, descritta nel capitolo primo e culminante nella festa nuziale di Cana e, nello stesso tempo, è un preciso riferimento alla prima settimana della creazione, con cui Dio inizia la sua attività al di fuori di sé, come è descritta nel capitolo primo del libro della Genesi. Aggiungiamo che in Gv la prima settimana di attività pubblica di Gesù è strettamente connessa anche all’ultima settimana della sua vita terrena, che culmina nella crocifissione (Gv 12,1-19,42). Abbiamo dunque tre settimane da connettere e armonizzare: quella iniziale di Gesù, quella della creazione e quella conclusiva di Gesù. È questo legame che ora ci accingiamo a esaminare e che ci impegnerà anche per la prossima puntata.

Una lettura a ritroso per scoprire Abramo
Il punto di partenza della storia di Israele non è la Genesi, ma l’Esodo. La storia del popolo scelto da Dio non inizia con la creazione, in Adamo, ma in Egitto, dove Israele è schiavo. Qui Dio interviene con Mosè attraverso una epopea di liberazione che nei secoli successivi sarà descritta in termini enfatici, facendo di questo intervento il vero «atto creativo» con cui inizia la storia della salvezza. L’esodo è il punto di partenza, storico e teologico insieme, perché segna «la genesi» di Israele, l’origine di tutto, anche di quello che «avviene prima»: i Patriarchi e la creazione stessa. Dopo l’esodo che si compie nella fantasmagorica traversata del Mare Rosso, degna di una rappresentazione cinematografica «kolossal», l’altro punto assoluto, fulcro centrale di tutta la vita sia di Israele che di ogni singolo israelita, è l’arrivo al Monte Sinai, scenario adeguato e solenne per una mirabile manifestazione, con tutti gli ingredienti della spettacolarità: vi partecipa infatti la natura tutta con tuoni, lampi, fulmini e nubi.
Qui viene consegnata la Toràh / la Legge come coscienza di identità che deve significare il senso profondo che essa esprime: il segno dell’alleanza sponsale tra Dio liberatore e Israele liberato. Da questo momento tutto acquista senso perché l’esodo e in particolare il Sinai diventano la chiave interpretativa di tutta la storia, sia quella futura (cosa ovvia), ma anche quella passata, di cui si sono perdute le tracce nella notte dei tempi, essendo sopravvissuti solo alcuni vaghi ricordi. L’epopea dell’esodo rimette tutto in movimento: il passato (chi sono i patriarchi?) e il futuro (quale terra promessa?).
Se guardiamo solo verso il passato, scopriamo che Israele ha compiuto un’opera di ricostruzione meticolosa e logica. L’esodo pone domande essenziali. Perché Dio ha liberato Israele dalla schiavitù dell’Egitto? Perché Dio ha voluto dare una Legge proprio a Israele tra tutti i popoli esistenti, anche molto più significativi? In altre parole, cosa c’era prima dell’esodo e del Sinai? Qual è il senso del presente, cioè di ciò che accade al Sinai?
La risposta è ovvia: Dio ha dato la Legge a Israele per essere fedele alla promessa che aveva fatto ad Abramo. Inizia così un processo di ricognizione storico-teologica alla ricerca dei patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe per scoprire le fondamenta  del proprio presente e la prospettiva del futuro. La figura del primo patriarca comincia a uscire dalla nebulosità del passato e si proietta maestosa e nobile sul futuro di Israele: egli diventa la prima pietra «angolare» che dà senso all’esodo, nello stesso momento in cui l’esodo dà un nome e un volto al patriarca fondatore. È un cammino a ritroso, alla ricerca delle proprie origini. L’esodo in sé sarebbe poca cosa se non fosse «una promessa» di un Dio, diverso da tutti gli altri «dèi» conosciuti; al contrario, esso è la conclusione del cammino di una «parola» detta nella notte dei tempi che non si è smarrita, ma è diventata un fatto: la parola di Dio ad Abramo ora «si fa carne» e diventa esodo, liberazione.

Alla ricerca di Àdam
Non basta. Cosa c’era prima di Abramo? Proiettando ancora una volta la luce dell’esodo all’indietro, come un faro che illumina il cammino, Israele scopre che prima di Abramo, c’era Adamo che diventa così la coice ancora più ampia della storia della salvezza. Dal padre di Israele al padre dell’umanità. Il processo avviene dal particolare all’universale. Riflettere sull’esodo come evento fondativo significa visitare il proprio passato per cogliere la direzione del futuro e il senso del presente. La liberazione dall’Egitto e la Toràh del Sinai non sono frutti anonimi fuori stagione, ma sono la conseguenza matura di un lungo percorso che è iniziato nella notte dei tempi, anzi nel cuore di Dio. Prima ancora di creare il mondo, Dio aveva pensato Israele come suo popolo ed è per realizzare questa «elezione» che ha creato il mondo, poi ha chiamato Abramo, Isacco e Giacobbe perché «costruissero» il popolo che Dio avrebbe convocato per mezzo di Mosè ai piedi del Sinai per consegnare la Toràh, il codice dell’alleanza da portare a tutti i popoli della terra.
Alla fine si ha questo schema teologico: Dio ha creato l’universo per collocarvi l’umanità, che a sua volta diventa la coice dove avviene la promessa ad Abramo e agli altri patriarchi che diventano così la premessa all’evento principe dell’esodo che culmina nel dono della Toràh come garanzia dell’alleanza sponsale tra Dio e il suo popolo Israele. Il passaggio logico è: Mosè, Abramo, Àdam, non viceversa. Ciò spiega perché nella coscienza di Israele, l’esodo e la creazione non sono mai separati, ma sono i due aspetti complementari dell’intervento di Dio che ha creato il cosmo, formato Àdam e l’umanità, chiamato Abramo, un politeista pagano, solo per amore di Israele, «inventato» da Dio stesso come partner sponsale a cui dona in dote la Toràh, che non è solo una «legge», ma il sigillo dell’alleanza e della prosperità nuziale. Tutta la storia, da Àdam a Mosè ha senso solo se proiettata verso lo scopo e l’obiettivo che è il monte Sinai, il monte dove «nel terzo giorno» Dio consegna se stesso nella forma di Toràh, cioè di «Parola che si fa carne» (cf Gv 1,14) al popolo che ha scelto tra tutti i popoli.

I figli garanzia dei genitori
Narra la tradizione giudaica che Dio prima di Israele interpellò tutti i popoli della terra ai quali offrì in dono la Toràh che tutti rifiutarono per un motivo o per l’altro. Quando giunse infine ad Israele, egli non volle nemmeno sapere ciò che vi era scritto perché l’accettò senza condizioni o riserve.

«Prima di donarla agli Israeliti, l’Onnipotente offrì la Toràh a ogni tribù e nazione del mondo perché nessuno potesse dire: “Se il Santo benedetto avesse voluto darcela noi l’avremmo accolta”. Si recò dai figli di Esaù e chiese: “Accettate la Toràh?” – “Che cosa vi sta scritto?”, risposero quelli. – “Non uccidere” (Es 20,13). – “E tu vorresti privarci della benedizione impartita al nostro padre Esaù, cui è stato detto: ‘vivrai della tua spada?’ (Gen 27,40). Non vogliamo la Toràh”. – Allora il Signore l’offrì alla stirpe di Lot dicendo: “Accettate la Toràh?” – “Che cosa vi sta scritto?”. – “Non commettere adulterio” (Es 20,14). – “Proprio da atti impuri siamo nati! Non vogliamo la Toràh”. Allora il Signore chiese ai figli di Ismaele: “Accettate la Toràh?” – “Che cosa vi sta scritto?”. – “Non rubare” (Es 20,15). – “Vorresti forse portarci via la benedizione impartita a nostro padre, cui fu detto: ‘La sua mano sarà contro tutti’ (Gen 16,12)? No, non vogliamo affatto la Toràh”. Così fece con tutti gli altri popoli, i quali parimenti rifiutarono quel dono dicendo: “Non possiamo rinunciare alla legge dei nostri antenati, non vogliamo la tua Toràh, dalla al tuo popolo Israele”. – Per questo Egli – benedetto sia il suo Nome – andò infine dagli Israeliti e disse: “Accettate la Toràh?” – Risposero: “Che cosa contiene?”. – “Seicentotredici precetti”. Quelli risposero a una sola voce: “Tutto quanto il Signore ha detto noi faremo e ubbidiremo”»(1).

Israele prima mette in pratica la Toràh e solo dopo se ne domanda la ragione. La risposta degli Israeliti è disarmante e totale: (ebr.) «‘asher dibèr Adonai nÈhassèh wenishmà’», che la LXX traduce con «Panta hòsa elàlesen Kýrios poiêsomen kài akousòmetha – Tutto quello che il Signore ha detto, faremo e ascolteremo». Prima si fa e poi si ascolta. È importante mettere in evidenza la risposta di Israele che non s’impegna soltanto a eseguire le parole del Signore, ma accoglie la Toràh prima ancora di conoscee «il peso». In questo atteggiamento di Israele vi è l’entusiasmo dei discepoli che sono affascinati dall’avventura e si buttano con tutta la loro generosità senza calcolare le conseguenze che è il comportamento degli innamorati. Solo in questo contesto «personale» si può spiegare il Midrash (Midrash Ct rabba 1,4; Midras Tehilliìm/Salmi a 8,76-77) che narra di Dio che dopo avere dato la Toràh a Israele resta ancora perplesso e chiede un garante supplementare. Israele risponde dando a garanzia i propri figli, cioè il suo futuro che Dio accetta come pegno:

«Fu così che il popolo portò le mogli con gli infanti al petto e quelle gravide i cui corpi l’Eteo rese trasparenti come vetro. Poi Dio si rivolse a tutti i piccoli con queste parole: “Ecco, sto per dare la Toràh ai vostri padri, siete disposti a impegnarvi perché l’osservino?”. Ed essi risposero: “Sì”… I bambini nel ventre risposero a ogni comandamento positivo con “si” e a ogni comandamento negativo con “no”. L’Eteo diede dunque la Toràh a Israele con la fideiussione dei suoi bambini; ecco perché tanti ne muoiono quando il popolo non la osserva»(2).

Dall’esodo al Sinai per giungere a Cana
Da questa prospettiva, scopriamo che l’evangelista Giovanni è intriso di questa storia, quando scrive il suo vangelo. Collocando lo sposalizio di Cana alla fine della prima settimana di attività di Gesù e all’inizio del suo ministero pubblico, automaticamente costringe ogni credente che conosce la Bibbia a leggere nel racconto un chiaro nesso tra Sinai e Genesi e, a maggior ragione ora nel Nuovo Testamento, tra Sinai, Genesi e «Principio» del «Lògos», che si rivela e si manifesta non più su una montagna del deserto, ma nel Vangelo che assume il volto e la figura di Dio stesso. Con questo racconto l’autore ci costringe a fare lo stesso cammino a ritroso che fece il popolo d’Israele quando formò il suo pensiero teologico e lo sistemò in un organico sistema di sintesi della sua fede.
Su questo rapporto tra Genesi-Esodo-Cana, l’esegeta italiano Aristide Serra, che di fatto ha dedicato l’intera sua vita al racconto delle nozze di Cana, espone una complessa ricerca documentata nel suo ultimo volume «Le nozze di Cana» (Edizioni Messaggero di Padova nel 2009), specialmente alle pp. 110-179. Serra esamina i capitoli 19-24 di Esodo, che egli definisce «come il vangelo dell’Antico Testamento», data «l’importanza sicuramente eccezionale» (p. 119), perché attinente alla rivelazione del Sinai, che ha per oggetto l’alleanza del Signore con Israele. Dall’ampia riflessione giudaica su questo evento fondativo, egli si sofferma sulla «articolazione della settimana», che ha per protagonista la consegna della Toràh e che ha attinenza con la settimana della creazione, evidenziando così un valore cosmico anche all’evento del Sinai.
In Gen 1,3-2,3 i giorni della prima settimana in assoluto, quella della creazione, si susseguono in modo monotono e lineare, scanditi dal ritornello: «E fu sera e fu mattino: giorno primo … secondo giorno … terzo giorno … quarto giorno … quinto giorno … sesto giorno (Gen 1,5.8.13.19.23.31). Nel racconto del Sinai invece si ha un ritmo diverso che esaminiamo a partire dal testo di Es 19:

«1Al terzo mese dall’uscita degli Israeliti dalla terra d’Egitto, nello stesso giorno, essi arrivarono al deserto del Sinai…
10 Il Signore disse a Mosè: “Va’ dal popolo e santificalo, oggi e domani: lavino le loro vesti 11e si tengano pronti per il terzo giorno, perché nel terzo giorno il Signore scenderà sul monte Sinai, alla vista di tutto il popolo.
16 Il terzo giorno, sul far del mattino, vi furono tuoni e lampi, una nube densa sul monte e un suono fortissimo di corno: tutto il popolo che era nell’accampamento fu scosso da tremore».

Su questo testo la letteratura giudaica (targumìm e testi rabbinici) fanno lunghe e minuziose dissertazioni, inquadrando la rivelazione del Sinai in schemi  cronologici di sei, di sette e anche di otto giorni (cf A. Serra, Le nozze di Cana, 97-102 che riporta anche una ampia e accurata bibliografia di testi). In base a questi calcoli il ritmo della scansione della settimana sarebbe il seguente. Il terzo mese del calendario ebraico è il mese di Siwàn (che corrisponde a maggio-giugno). A partire dall’inizio di questo mese, come descrive dettagliatamente il Targum dello pseudo Gionata(3), si contano i giorni con la seguente progressione:

1 giorno:    Gli ebrei giungono al deserto del Sinai (TJ I a Es 19,1-2).
2 giorno:    Mosè sale sul monte e scende (TJ I a Es 19,3-8).
3 giorno    Il Signore preannuncia la sua venuta a Mosè (TJ I a Es 19,9).
4 giorno:    Ordine del Signore a Mosè di purificare il popolo «oggi e domani» e di tenersi pronti per il «terzo giorno», il giorno della Teofania (TJ I a Es 19,10-15).
5 giorno:    Corrisponde al «domani» del punto precedente.
6 giorno:    Corrisponde al «terzo giorno» del punto precedente: Dio si rivela, consegna la Toràh a Mosé che fa avvicinare il popolo ai piedi del monte per consegnargli «le dieci parole» (TJ I a Es 19,16-25).

Nel racconto della Genesi, al sesto giorno è creato Àdam e Eva, cioè la prima umanità; al Sinai al «sesto giorno» che, come abbiamo visto, corrisponde al «terzo giorno», è creato Israele che acquista la identità di «sposa» e nelle nozze di Cana «al terzo giorno» Gesù manifesta la sua gloria. È evidente che in questa progressione cronologica il giorno più importante è «il terzo», il giorno in cui Dio manifesta se stesso sia al Sinai che a Cana e questo «terzo giorno» del Sinai-Cana corrisponde al «giorno sesto» della creazione dove la prima coppia prende vita e contempla in assoluto il volto del Dio creatore                       [continua – 16]

Paolo Farinella

Paolo Farinella




La «terza» via

Paolo Deriu: storia di un laico in missione

Da piccolo gli piacevano i dinosauri. Così scoprì che in Africa erano arrivati i primi ominidi. Pensava di fare il paleontologo. Poi lavoro e università, fino a un’ottima laurea in economia. Ma Paolo era sensibile alla sofferenza e alla miseria, così inizia a lavorare per alcune Ong.
Ma un giorno incontra i missionari della Consolata.

Da Lichinga, capoluogo del Niassa, provincia nel Nord del Mozambico, occorre percorrere 135 km di una strada asfaltata per arrivare a Malanga. Il paesaggio che si attraversa è superbo, montagne aguzze ed ampie vallate. Alberi e campi a perdita d’occhio. Si arriva nel distretto di Majune, povero in quella che è ritenuta la provincia più isolata e depressa del paese.
Qui vivono le etnie Makúa e Ayao, mentre il potere è saldamente in mano ai capi tradizionali e agli stregoni.
«C’è ancora un cattivo utilizzo delle tecniche di coltivazione e una brutta abitudine all’assistenza e al dono». Chi parla è Paolo Deriu, laico missionario della Consolata.
Alto, con il viso ovale, capelli a caschetto. Tranquillo e pacato, con gli occhi sempre vispi dietro a spessi occhiali. Paolo ha un lungo percorso come missionario, laico per l’appunto.

Vocazione laica
Dopo di tre anni a Mecanhelas, sempre nella provincia del Niassa, e un periodo in Italia, è tornato in Mozambico nella missione di Majune. Qui è in comunità con padre Felix Odongo del Kenya e fratel Aires Osmarin brasiliano.
«Io non avevo molti legami con la chiesa, andavo a messa la domenica. Però mi interessava la questione dell’aiuto ai paesi del Sud del Mondo, così mi ero messo nelle Ong, prima come volontario con Mani Tese e poi a livello professionale con Fratelli dell’Uomo. Questa era una organizzazione laica, non aveva contatti con la missione. Poi alcuni amici mi hanno detto che all’Università Cattolica di Milano, dove ho studiato, un sacerdote voleva mettere in piedi un gruppo missionario. Io pensavo che fosse positivo per gli studenti avere una qualche istituzione che li mettesse in contatto con i paesi del Sud». Quel prete era padre Francesco Giuliani, missionario della Consolata, e fu il primo contatto con l’Istituto Missioni Consolata. Tra i due si creò subito intesa.
«Abbiamo fatto un po’ di pubblicità, ed è nato questo gruppo chiamato Spazio aperto, che più tardi è diventato una Onlus, e adesso appoggia alcuni progetti anche a Majune».
In quel periodo Paolo inizia a conoscere il significato di essere missionario e cerca subito di approfondire.
«Io mi interrogavo, perché noi nelle Ong non conoscevamo bene la realtà nel Sud del Mondo, in Africa Occidentale nel mio caso. Erano tante le storie di inganni, fondi che non arrivavano, progetti che non funzionavano. Avrei voluto che questo nostro lavoro fosse più sul campo, più con la gente, e il mondo missionario mi sembrava avesse qualche ipotesi in più per aiutare queste persone. Così mi sono detto: voglio vedere come si fa ad essere missionario».
Paolo scopre che le scelte possibili sono diverse: consacrarsi, prendere i voti, o anche diventare sacerdote. Un’opzione alternativa è vivere la missione come laico.
«Essere padre era un po’ troppo, non ho mai avuto la vocazione di essere consacrato, né padre, né fratello. Allora ho pensato, proviamo come laico missionario, una scelta all’avanguardia, all’epoca nella Consolata non c’era quasi niente. Così sono stato ammesso al postulantato di Alpignano con padre Giordano Rigamonti. Qui ho approfondito la mia conoscenza dell’Istituto, ma anche della religione, il che è stato molto utile».
Paolo difende i due concetti, il laicato e l’essere missionario.
«Anche se io come laico non ho i voti, con padri e fratelli facciamo un lavoro molto simile. Quando siamo qui in missione è più evidente di quando si lavora in Italia. Noi laici, come i fratelli, non diciamo messa, non confessiamo. Il nostro lavoro è entrare in comunità e portare il messaggio di Gesù, ognuno come sa farlo. C’è chi ha la vocazione per incontri di catechesi, chi per orientare gli animatori. Personalmente a me piace di più lavorare sul campo, con le persone per organizzare qualcosa con loro nei settori dell’economia o del sociale. Qualcosa che rimanga, aiuti la popolazione a vivere meglio».

Missione per far crescere
Provenendo dal mondo delle Ong Paolo si porta dietro il concetto di sviluppo, oltre che alla sensibilità per i diritti umani.
«Io comincio un lavoro pensando che domani saranno loro a prenderlo in mano. Ma qua dicono: se il missionario va in Italia, chi prenderà il suo posto? Deve prenderlo uno del Mozambico perché il nostro lavoro è farli crescere, non perpetrare la nostra presenza. Però lamento che ci sono tante situazioni in cui il missionario straniero è la testa e i mozambicani o gli africani stanno a guardare. Falegnamerie, scuole, fattorie, c’è sempre il missionario italiano (o straniero) a capo. Quando vedremo il missionario mozambicano fondare una scuola per aiutare i più poveri? È questo che dobbiamo vedere: le persone del posto che si preoccupano, sentono pena per il loro.
Ma in fatto di solidarietà tra la gente di qua siamo ancora un po’ carenti».
Paolo ripete che la terra nella zona è fertile, si possono fare tre raccolti all’anno, ma c’è ancora un attendismo troppo elevato verso gli stranieri e quindi dipendenza. Lui segue una ventina di progetti di tipo economico e sociale, tutti con aiuti che provengono dall’estero, ma sta lavorando al «Progetto zero», ovvero zero aiuti da fuori. C’è anche il problema della rarità di animatori seri, fondamentali per lavorare sul campo. «Troppo spesso essere animatore, o catechista, viene vista come una posizione sociale, almeno qui a Majune. Altrove sono più seri».
C’è poi un lavoro da fare sui diritti umani.
«I diritti umani sono una questione importante, però io vedo che talvolta, per comodità, è un tema che si trascura. Ad esempio hanno bruciato vivo un malato di mente che rubacchiava nei mercati, una notte il proprietario di una bancarella gli ha versato sopra la benzina e gli ha dato fuoco. Le ustioni erano così avanzate che è morto durante il trasferimento all’ospedale di Lichinga. La domenica successiva neanche una parola a messa. Solo io, negli avvisi, mi sono sentito in dovere di richiamare che era morta una persona, anche se era musulmana. Ucciso in modo barbaro. Gli animatori mi hanno chiesto perché bisognava parlarne e io ho risposto: non ti posso ammazzare un giorno per strada come se niente fosse.
Poi c’è la questione politica, il 22 novembre è l’anniversario dell’assassinio del giornalista Carlos Cardoso, ma nessuno ne vuole parlare. Sono cose importanti. Il peggio è che i deboli qua non sono tutelati. Se una donna venuta da un altro paese o da un altro distretto, sposa un uomo di qui, ma poi divorzia o perde il marito, non ha nessuna protezione. Questi sono problemi gravi e noi dobbiamo sempre essere presenti».

L’impegno per l’infanzia
«Io penso che qui a Majune i bambini siano una categoria molto negletta, perché sono trascurati: igienicamente, nei vestiti, nel cibo. Possono cadere nel fuoco, essere uccisi a calci dal padre ubriaco. Hanno pochi diritti e sono molto abbandonati a se stessi. Circolano di notte da soli, in mezzo agli ubriachi e nessuno si preoccupa».
Paolo è molto fiero di mostrarci un progetto sull’infanzia. È un asilo per sessanta bambini, nel villaggio di Malila. I missionari sono riusciti a coinvolgere la comunità, e le mamme a tuo cucinano il pasto fornito, però, dalla parrocchia. Ci sono alcuni bimbi che gli saltano addosso e gli si appendono al collo. E lui, sempre impassibile, forse per le sue origini olandesi, si lascia intenerire.
Ma Paolo lavora anche con gli anziani. Molti vivono in solitudine, non hanno famiglia, hanno difficoltà a procurarsi da mangiare e sono abbandonati. È il caso di Apita Costa, detta Solzinha (solitaria). I missionari hanno sensibilizzato alcuni giovani affinché si occupino di questi anziani.

Tante sfide, alcune soddisfazioni
Oltre al piacere di essere «sul campo», come dice lui, e avere il contatto con le persone, il nostro missionario laico ci racconta soddisfazioni e sfide di questa scelta.
«Una grande soddisfazione è quando le persone capiscono che vuoi lavorare con loro e per loro e non vuoi essere il loro padrone. Iniziano a rimboccarsi le maniche, ad avere idee e proposte, iniziative, e il tuo lavoro può crescere ancora di più. Quando ci sono dei risultati sul campo, che non è soltanto dire: il malato è guarito, il pazzo è tornato normale. Se vediamo gruppi di persone che dicono: bene adesso siamo noi che aiutiamo i nostri simili.
Le sfide sono tantissime perché quando diventi missionario, laico o religioso che sia, devi andare a vivere in un altro paese. Per esempio se vieni in Mozambico per passare un mese hai un certo spirito, se devi stare tre anni o più il punto di vista cambia notevolmente. L’adattamento, la lingua.  Abituati alle città, in questi villaggi dove non c’è niente di speciale, occorre uno sforzo. Inoltre capire che molti ti considerano solo una mucca da mungere, e tu vorresti fare amicizia, relazionarti da pari a pari. Anche questo è difficile da accettare.
Però c’è sempre della brava gente che lavora. La nostra sfida è scoprire quelli che sono più in gamba, più onesti, quelli che non hanno tanti problemi in testa. Con loro costruire qualcosa di forte e aiutare i più deboli che hanno anche bisogno di modelli».
Essere missionario vuole sovente dire vivere e lavorare con dei confratelli. E anche questo non è sempre cosa facile.
«Se sei in comunità bisogna cercare di evitare di essere persone complicate, capricciose, brontolone. In missione è una sofferenza, perché già dobbiamo spendere molte energie, se poi abbiamo un ambiente teso in casa non si lavora più. Spesso le comunità sono composte da persone di varie nazionalità. Cerchiamo di capirci gli uni con gli altri di evitare soprattutto il rifiuto. Non classificare definitivamente la gente: con quello non si può parlare, con quell’altro non c’è intesa. Questo atteggiamento bloccherebbe tutto. Dobbiamo prendere la persona com’è, talvolta tollerare. Possiamo fare delle osservazioni, ma è importante che dopo la tempesta torni il sereno. Vedi certe case dove i padri si sono chiusi ognuno nella sua zona, e parlano ma non comunicano».

Consigli pratici
Abbiamo chiesto a Paolo che consigli darebbe a chi è interessato a inoltrarsi sulla strada del laicato missionario.
«Colui che vuole vivere qualche tempo come laico missionario deve parlare a lungo con persone che sono già state per vari anni nel paese. È bene che sappia cosa lo aspetta, e non parta con idee strane. Molti pensano ancora che l’Africa sia il continente dei villaggi, della solidarietà, della natura incontaminata e degli anziani. Però l’Africa sta cambiando molto e qui, come in Europa, l’individualismo, la sete dei soldi, sono delle realtà molto forti. Mi dicono che talvolta nella famiglia di oggi nessuno si aiuta, ed è molto peggio della famiglia di ieri dove tutti si aiutavano.
C’è sempre il rischio di chiudersi, nella tristezza, nella rassegnazione e aspettare che il tempo passi.
La persona che va in missione deve avere una formazione di primo piano. Molti hanno la buona volontà, però c’è la solitudine in agguato. Ad esempio il rapporto con gli animatori, con la gente è un punto delicato.
Dobbiamo stimare i nostri collaboratori, cristiani, musulmani. Invece alcuni coltivano un po’ di disprezzo, anche giustificato in parte dalle delusioni che hanno sofferto, le piccole truffe, inganni, vedere l’animatore ubriaco. Da qui cominciamo a essere non dico razzisti ma poco ci manca: “Non si può fare niente con questa gente, sono fatti così”. Ci sono alcuni aspetti che lasciano un po’ perplessi nelle loro abitudini, ma non possiamo lasciarci andare a questo.
E poi non bisogna prendere troppo sul serio i problemi e le difficoltà, fare dei drammi perché alle volte certe cose le ingigantiamo molto dal nostro punto di vista». In Italia non si fa molta promozione di questa «terza via» per fare il missionario. Cosa proporresti?
«Io penso che noi laici dovremmo impegnarci di più per promuovere questa strada. Ci vorrebbe una figura carismatica, un “Allamano dei laici”. È un po’ difficile oggi da trovare, non è facile saper trascinare delle persone, soprattutto in un mondo come quello occidentale dove tutti sono oberati di lavoro e di preoccupazioni e i tempi si fanno sempre più stretti. Ci sono delle persone di buona volontà che portano avanti il laicato, ma non possiamo pretendere che siano sempre i padri a prendere l’iniziativa per incoraggiarlo.
Quando siamo in missione, occorre che anche noi ci interroghiamo su cosa fare per il laicato missionario italiano. È una responsabilità alla quale siamo chiamati».

Il rientro dalla missione
Paolo decide di rientrare in Italia nel giugno dello scorso anno, dopo altri quattro anni di missione.
«Pensavo di dare una sistemata alla mia vita: ogni volta che rientro la mia famiglia si occupa di me, ma non è più pensabile a una certa età. Avrei anche continuato la missione, ma ci sono molte incertezze sul futuro, l’Istituto non ha il dovere di occuparsi di noi finito il servizio. È una situazione che dà poche prospettive».
Questo è un punto debole del laicato missionario. Al momento non esiste un meccanismo che consenta al laico rientrato di inserirsi in comunità italiane e svolgere servizio in madrepatria. Può succedere, ci sono alcune esperienze di questo tipo (vedi box) ma non è sistematico. Anche in Spagna e Portogallo i laici missionari della Consolata hanno alcune comunità. Per dare solidità a questo modo di fare missione sarebbe importante creare un legame forte tra le comunità di vita nel paese di origine e colui che parte. Questo è importante durante il periodo all’estero e fondamentale per reintegrare il laico nella vita italiana al suo rientro. Il missionario dovrebbe essere inviato da un gruppo, che lo appoggia e al quando torna qualcun altro potrà partire, per dare continuità al suo lavoro.
«La prima volta che sono partito ho mantenuto i contatti, la seconda invece questa cosa non ha funzionato. Al mio rientro dalla missione l’Istituto mi ha proposto di lavorare nella pastorale dei migranti».
Paolo è stato inserito nell’équipe della Consolata che presta servizio nell’Ufficio migranti della diocesi di Torino.
«Dopo tanti anni di Africa, tornando in Italia ci sentiamo un po’ spaesati. L’Europa era il nostro mondo, ma in Africa sviluppiamo un’altra sensibilità. In missione trovavo una carica di umanità nonostante tutti i difetti, che non sempre si riesce a riscontrare qui. Dopo un po’ di tempo ci si adatta, ma neanche tanto».

Marco Bello

Marco Bello




Ricordando Roberto

La scomparsa del dottor Topino

Medico impegnato nei temi della salute pubblica e dell’ecologia, spirito libero per natura e critico per forma mentis, da alcuni anni Roberto Topino collaborava con Missioni Consolata, curando in particolare le seguitissime pagine di «Nostra madre terra». Una rubrica che continuerà con Rosanna Novara, moglie di Roberto e biologa.

La notizia della scomparsa di Roberto Topino mi ha raggiunto in Sudafrica; mi ha trovato, ma non mi ha colto di sorpresa. Da mesi, ormai, con silenzio, discrezione e preghiera accompagnavamo il difficile cammino che aveva intrapreso per resistere all’incedere costante della malattia.
Roberto, insieme alla moglie Rosanna, ha collaborato alla nostra rivista durante tutto il periodo della mia direzione, dando lustro e prestigio alle pagine di Missioni Consolata attraverso interventi competenti, puntuali e aggioati, che facevano della rubrica «Nostra madre terra» uno degli spazi di riflessione più attesi e commentati dai lettori della rivista. In questi anni, Roberto ci ha aiutato ad approfondire il tema ecologico, legandolo in modo indissolubile alla salute dell’umanità e al benessere del pianeta. L’impegno verso l’integrità del creato rappresenta l’estrema frontiera della missione e, nel contempo, un richiamo insistente alla giustizia e all’armonia, che di tale integrità sono garanti. Roberto ci ha messo passione e cuore, aspettandosi come contropartita soltanto qualche copia della rivista da distribuire agli amici e continuare così la sua opera di divulgazione al servizio della salute.
Ho saputo della morte di Roberto mentre stavo approfondendo il concetto di Ubuntu, uno dei contributi originali che l’Africa sub-sahariana sta offrendo in fatto di riflessione etica. «Ubuntu» significa umanità con gli altri e verso gli altri, e definisce l’individuo nella sua relazione con chi lo circonda e con cui condivide la terra e le sue ricchezze. A proposito di questo concetto, scrisse una volta Desmond Tutu: «Troppo frequentemente pensiamo a noi stessi soltanto come a degli individui, separati gli uni dagli altri, laddove invece siamo interconnessi. Ciò che facciamo interessa il mondo intero; quando facciamo il bene questo si propaga e diventa bene per l’umanità». Si tratta di un messaggio che Roberto Topino ha tacitamente sottoscritto con la sua testimonianza e la sua lotta a servizio della salute di tutti, anche attraverso le pagine di Missioni Consolata. Grazie di tutto.

Ugo Pozzoli

Lo scorso 1 settembre ci ha lasciati Roberto Topino. Medico, specialista in medicina del lavoro, Roberto aveva 58 anni. Era sposato con Rosanna Novara e padre di Valentina,15 anni, studentessa liceale. Si era laureato e specializzato all’Università di Torino, città dove ha sempre lavorato. Oltre che per la sua famiglia e la medicina, aveva una grande passione per la musica. A casa sua c’è un organo e una montagna di audiocassette, Cd e intramontabili dischi in vinile, soprattutto di musica lirica.
Dal dicembre 2005, Roberto era un assiduo collaboratore di Missioni Consolata. In particolare, con la moglie Rosanna, biologa specializzata in oncologia, curava Nostra madre terra, rubrica seguitissima dai lettori, che spesso scrivevano per sapee di più, per parlare con gli autori e, a volte, per criticarli.
Per chi non ha avuto la fortuna di conoscere Roberto di persona, per intuire chi fosse, è sufficiente leggere i suoi scritti. Perché – al contrario di molti che dicono una cosa e poi nella realtà quotidiana fanno l’opposto o comunque si comportano in maniera incoerente – Roberto era ciò che scriveva. E ciò che scriveva – fosse amianto, Ogm, guerre, rifiuti tossici, energia nucleare o droghe – era di norma fortemente critico, ma sempre poggiando su basi scientifiche solide e documentate. Ovvero mai con approssimazione, per sentito dire, per partito preso o per ideologia.
Oltre alla competenza medica e scientifica, mai influenzata da interessi di lucro (come accade a troppi medici e scienziati), Roberto era sorretto da una fortissima tempra morale, che lo faceva indignare davanti alle ingiustizie. Un’indignazione che non rimaneva confinata nella persona, ma si traduceva in denuncia pubblica. Su Missioni Consolata, ma anche su decine di altri strumenti di comunicazione – svariati blog, Facebook, YouTube – attraverso i quali diffondeva informazioni, fotografie e filmati. 
Roberto è morto a causa di un tumore, che lo ha portato via in soli 3 mesi. Uno dei temi su cui spesso interveniva erano proprio le patologie neoplastiche fossero esse causate dalle polveri dell’amianto, dalle radiazioni o dall’inquinamento. Era convinto che alcune concause dei tumori potessero essere ridotte o eliminate attraverso un’esistenza più sana e ambienti di lavoro più salubri. In ciò facilitato dal fatto di lavorare all’Inail, dove si occupava di infortuni e invalidità. Tra le sue battaglie principali, c’era quella in favore dei troppi lavoratori uccisi dalle polveri dell’amianto («Quasi ogni giorno incontro una persona affetta da mesotelioma pleurico», raccontava) e quella contro gli inceneritori. «È sempre più evidente – scriveva Roberto – che la scelta di bruciare i rifiuti resta una follia».
Girava per Torino con la sua (vecchia) bicicletta e un cellulare con cui faceva anche foto e filmati. Da un anno nella borsa teneva anche… un contatore geiger. La sua ultima denuncia riguardava una pavimentazione stradale fatta con graniti un po’ troppo radioattivi.
Aveva già presentato un ricco elenco di inchieste per i prossimi numeri di Missioni Consolata (con la quale – tra l’altro – collaborava in maniera totalmente gratuita). Erano argomenti impegnativi, come l’alcolismo, gli infortuni sul lavoro, la chirurgia estetica, ma anche il testamento biologico. Un testamento che, ad inizio di luglio, aveva già scritto per se stesso e che, dal suo letto, mi aveva letto prima di consegnarmene una copia. Lo aveva diffuso anche su YouTube, filmandosi con la telecamera del computer portatile che teneva sul letto su cui da giugno era ormai immobilizzato.
Non potrà completare i suoi progetti. Ma l’amata moglie Rosanna continuerà a curare la rubrica Nostra madre terra. Il modo migliore per tenere in vita Roberto.

Paolo Moiola

Ugo Pozzoli e Paolo Moiola




Un futuro insieme

Inervista a Michael Van Heerden

Sedici anni dopo le prime elezioni democratiche, il Sudafrica fa il punto della situazione.
Il paese si sente finalmente libero, ma molti restano soffocati nelle spire della miseria: un nuovo ruolo profetico per la chiesa cattolica post-apartheid.

Dottorato in filosofia all’Università di Lovanio e un lavoro di responsabilità come preside del Saint Augustine College di Johannesburg, l’università cattolica sudafricana, padre Michael Van Heerden, è oggi una delle voci cattoliche più ascoltate. Ci parla delle contraddizioni e delle speranze di un paese che si sforza di lasciarsi alle spalle le grigie ombre del passato per costruire un futuro arcobaleno in cui regnino giustizia e pace… per tutti.

Che cosa significa essere un cattolico, oggi, in Sudafrica?
La grande sfida consiste nel dare una nuova immagine alle relazioni inter-etniche: lavorare e vivere insieme. Nel corso degli anni la chiesa è sempre stata interpellata a questo riguardo; è sovente accorsa in aiuto di altre realtà e ha saputo conquistarsi il rispetto di molti gruppi sociali. È stata capace di dimostrare, attraverso l’esempio, che cosa significa superare un conflitto culturale o conflitti tra gruppi linguistici ed economici differenti.
È un impegno nuovo e stimolante, se si pensa che, in passato, la chiesa cattolica era vista come un corpo estraneo, un prodotto d’importazione. Durante l’apartheid eravamo definiti il «pericolo romano» (romse gevaar), un nemico da temere insieme al pericolo rosso (comunista) e nero (etnico).
Trovarsi ora al centro dell’attenzione sapendo che ciò che si dice viene finalmente preso in considerazione è francamente confortante. Siamo pienamente accettati e visti come un esempio di ciò che il paese vorrebbe o dovrebbe essere; mi riferisco, ovviamente, al carattere universale e inclusivo della chiesa.

In passato, l’esistenza di un nemico comune, l’apartheid, era servito come fattore di unificazione fra le chiese di varia denominazione. Questa unione ha segnato l’inizio di un dialogo ecumenico fra le chiese? È progredito con il tempo? Come?
Certo, durante l’apartheid ci fu molta cooperazione fra le chiese. In quei giorni era facile trovare un terreno d’intesa, perché la realtà stessa presentava moltissimi spunti e temi su cui confrontarsi. Uno dei segnali più importanti fu la pubblicazione del Kairos Document (nel 1985, in pieno stato di emergenza), un testo fondamentale, una lettura teologica e politica e una chiara denuncia nei confronti del governo. Prodotto da teologi cattolici insieme a rappresentanti del Consiglio delle chiese sudafricane, il testo definiva senza mezzi termini l’apartheid come un peccato.
La fine dell’apartheid ha segnato un punto di svolta; le chiese in Sudafrica hanno dovuto ri-pensarsi e cercare di definire il loro ruolo in una nazione che sta velocemente cambiando. Un sentimento diffuso è che nel paese, oggi, si stia affermando un profondo individualismo. Uno degli aspetti negativi della nuova Costituzione, tra le più liberali al mondo, sta, per esempio, nel suo eccessivo liberalismo e in una delle sue conseguenze più deleterie che è l’ormai imperante relativismo.
Le chiese hanno capito che è il momento di riunirsi nuovamente e incentrare il loro dialogo su come fronteggiare il relativismo che si sta diffondendo a macchia d’olio nel paese. Dobbiamo dare il nostro contributo a livello morale: come stabilire dei valori in una società secolarizzata? Come dare significato a questi valori? Come vivere in una società relativistica?
Tale tema sta diventando materia di dialogo non più soltanto ecumenico, ma interreligioso. Esiste una piccola percentuale della popolazione musulmana e hindu che sostiene insieme a noi il bisogno di dialogare sui valori. La libertà, tanto agognata prima e sbandierata dopo il 1994, corre il rischio di rivelarsi un boomerang per la popolazione, perché molti la intendono come il diritto del singolo di fare finalmente ciò che gli pare.
Se si vuole creare una nazione basata sull’unità nella diversità, c’è bisogno di adottare dei valori comuni. Alcuni affermano che tali valori sono già contenuti nella Costituzione, cosa che sotto alcuni aspetti è vera. Sappiamo, però, che la Costituzione è in fondo un documento e il modo di leggere documenti del genere dipende dalla visione del mondo che uno ha: si può leggere lo stesso testo in molti modi diversi e alcune di queste letture o interpretazioni possono risultare distruttive per i valori che si vogliono proporre.

Nel recente passato la chiesa cattolica ha offerto svariate figure profetiche, veri e propri esempi di testimonianza per il paese e per l’intera cristianità; penso, per esempio a mons. Denis Hurley, la cui statura non è inferiore a quella del più famoso arcivescovo anglicano Desmond Tutu. In che cosa consiste la profezia cristiana in Sudafrica oggi?
Per certi versi Tutu è stata una figura più conosciuta e spesso più «vocale», ma mons. Hurley ha lavorato molto di più alla radice dei problemi, per cercare di cambiare le cose. Sebbene anche Hurley denunciasse apertamente la discriminazione razziale, il suo impegno principale era rivolto a stravolgere i fondamenti reali dell’apartheid. È questa l’eredità che gli sopravvive e che ci coinvolge oggi.
Non molto tempo fa ho avuto modo di parlare con mons. Kevin Dawling, vescovo di Restenburg, che fu incaricato del dipartimento di Giustizia e pace della Conferenza episcopale negli anni della transizione verso la democrazia. Mi commentava come, già all’inizio del cammino democratico del paese, i vescovi avessero individuato la giustizia economica come obbiettivo centrale verso cui indirizzare la voce profetica della chiesa.
Già allora risultava chiaro come gran parte della trasformazione vissuta dal paese non fosse in realtà una vera trasformazione. Bianchi ricchi sono stati sostituiti o affiancati da neri ricchi, ma non si è prodotto nessun cambiamento economico radicale che toccasse la grande maggioranza nera e povera del paese. È aumentata significativamente la classe media, e una buona percentuale di essa è composta oggi da neri, ma esiste ancora una larghissima fascia di popolazione nera che non ha visto cambiare minimamente il proprio stato. C’è bisogno di giustizia economica per i più poveri: e questo deve essere il tema centrale del nostro annuncio profetico.
Chiaramente, insieme alla giustizia economica vanno associati temi come corruzione, disoccupazione, Hiv-Aids. La maggior parte delle persone resta intrappolata in una situazione da cui non riesce a liberarsi. Parlo di miseria, difficoltà estrema ad accedere a un livello educativo anche minimo, a un servizio sanitario decente, a costruire strutture familiari adeguate. È povertà che si auto-riproduce e che va contrastata.

Il Sudafrica ha rappresentato un esempio per il modo pacifico in cui è stata vissuta la transizione dal regime dell’apartheid alla democrazia. Come spiega le manifestazioni di estremismo razzista, tanto bianco che nero, e le recenti violenze xenofobe?
Una delle frasi più care a Mandela è quella che, descrivendoci, parla del Sudafrica come di una «nazione arcobaleno». Lo siamo; e non solo, io credo, per la grande differenza di razze, nazioni e lingue, ma anche per la particolare geografia politica sudafricana. La forza del Sudafrica sta nella cosiddetta maggioranza dei gruppi minoritari. Mi spiego: sebbene i due gruppi etnici più numerosi del paese, gli Zulu e gli Xosa, insieme formano la maggioranza relativa, rappresentano comunque soltanto il 40% della popolazione. Esiste un significativo 60% composto dall’insieme degli altri gruppi minori. Questa, in un certo senso, è una situazione salutare per la democrazia, una garanzia di stabilità, che obbliga i gruppi a lavorare insieme.
Detto questo, bisogna però ricordare come nel periodo di transizione verso un governo democratico le aspettative di tutti erano aumentate enormemente. Alcune di esse erano giustificate, realizzabili e sono state in parte soddisfatte; altre aspettative erano invece irrealistiche, ma invece di essere scoraggiate sono state fatte oggetto di promesse, creando nella gente un’insoddisfazione di fondo.
Inoltre, oggi, assistiamo al fenomeno di persone provenienti da altri paesi africani che entrano nel nostro territorio e, sebbene non sia necessariamente vero, si insinua la percezione che la loro presenza possa privare i sudafricani di opportunità di lavoro. Del resto, occorre ricordare che molta della violenza scatenatasi verso gli stranieri avviene presso comunità molto povere in cui, quotidianamente, c’è già una continua battaglia per la sopravvivenza. In questi mesi assistiamo a una continua protesta nei confronti delle autorità, incapaci di garantire servizi basilari alle fasce più povere della popolazione.
Ecco che si ritorna al fattore della giustizia economica; molte comunità, soprattutto le più povere, stanno dicendo al paese: «Non abbiamo combattuto per la democrazia per non avere nulla in cambio. Pretendiamo di avere anche noi una parte nell’intero arricchimento del paese e nella distribuzione delle risorse». È una protesta legittima e, sebbene questi rigurgiti di xenofobia siano una pessima espressione di questa protesta, sono parte di un malcontento generalizzato di gente che è stufa e rifiuta di stare seduta ad accettare passivamente tutto, corruzione compresa.
Aspettano una presa di posizione e un’assunzione di responsabilità da parte del governo. Chiedono servizi: elettricità, condotte fognarie, contributo per la casa… tutte cose promesse e mai garantite. Nel momento in cui non degenera in una violenza xenofoba, ingiustificata e da condannare, questo conflitto in atto potrebbe persino essere visto come un segno che la democrazia sta prendendo piede nel paese.

Questa situazione di forte contrasto non potrebbe però dare vita a estremismi mai sopiti?
Penso che lo stesso fenomeno si verifichi praticamente in tutto il mondo: i due gruppi estremi, la destra e la sinistra, sono normalmente rappresentativi di persone che si sentono deprivate del potere. Il vecchio governo mantenne artificialmente una larga fetta della popolazione bianca a un livello privilegiato. Ora che questi privilegi sono di fatto decaduti se ne possono vedere immediatamente le conseguenze: per la prima volta nella mia vita vedo dei bianchi chiedere l’elemosina per le strade. Questa situazione dà forza a un estremismo bianco.
La stessa cosa succede con l’estremismo «nero»; prendiamo il caso del giovane politico Julius Malema (leader dell’African National Congress Youth League, Ancyl, la sezione giovanile del partito di governo); sebbene a livello personale egli sia più che benestante, trova buon gioco nell’insistere sul senso di insoddisfazione delle classi nere più povere. Essere populista è un modo facile per diventare popolare.
Credo comunque che lo «zoccolo» di centro sia sufficientemente ampio da mantenersi compatto e resistere alla pressione di entrambi gli estremismi. La maggior parte della popolazione lo ha dimostrato chiaramente anche prima della fine dell’apartheid, quando venne indetto un referendum (17 marzo 1992) e gli stessi bianchi votarono per avere un cambiamento, una nuova Costituzione. Ci si rese conto che non si poteva proseguire in quel modo: bisognava cambiare per il bene del paese e per evitare la guerra civile.
La gente continua a nutrire e vivere gli stessi sentimenti, nonostante che il bullismo estremista cerchi ogni tanto di appannare i sogni democratici della popolazione. La parte migliore di noi emerge in momenti come quello della Coppa del Mondo. Lì si è potuto toccare con mano come la maggioranza, bianca o nera che sia, creda in un nuovo Sudafrica e voglia contribuire a costruire la nazione.

Come vede il Sudafrica del futuro e come dovrebbero affrontare, oggi, il fenomeno giovanile lo stato e la chiesa?
Quando ci si occupa di educazione superiore, una delle domande più assillanti riguarda il come educare i giovani e dar loro un futuro. È un problema vissuto dall’intero continente africano. In Sudafrica viviamo oggi il grosso problema di studenti che abbandonano la scuola superiore. Oggi, nel paese solo il 16% dei giovani accede all’università, laddove la media europea si aggira intorno al 45% e la percentuale del continente africano è del 6%; questi sono i nostri due parametri di riferimento.
Il problema è questo: quando si preparano giovani accademicamente, occorre anche garantire loro adeguate opportunità di lavoro. Lo stiamo facendo? Una delle cose che il paese ha appreso dalla Coppa del Mondo è stata proprio la necessità di procurare impieghi per il settore giovanile. Oggi, però, la Coppa del Mondo è finita… e allora?
Non guasterebbe, forse, se alcune delle imprese sudafricane fossero ancora di proprietà dello stato; anche a costo di lavorare in perdita. Quel disavanzo sarebbe in realtà un investimento per il futuro.
Penso, ad esempio, alle ferrovie. Nel «vecchio» Sudafrica, quando il National Party prese il controllo del paese togliendolo ai britannici, buona parte della popolazione afrikaners viveva in situazioni di grande povertà e uno dei mezzi usati dal governo per sollevae le condizioni economiche fu l’impiegae un gran numero nel servizio ferroviario. Non solo la gente riceveva un lavoro, ma anche una formazione professionale. Sebbene le ferrovie chiudessero i loro bilanci in rosso, contribuivano a offrire innanzitutto un servizio efficiente di trasporto al paese e, in secondo luogo, la possibilità per molte persone di affrancarsi dalla povertà.
Come le ferrovie anche altre imprese, oggi private o semi private, potrebbero essere potenziali bacini di impiego per molti giovani. Viste anche le condizioni sociali, l’aumento della criminalità, ecc., a lungo termine potrebbe essere conveniente per lo stato mantenere alcune imprese che non danno reddito, invece di pagare un costo sociale due volte più elevato in termini di lotta alla criminalità e mantenimento del servizio carcerario.
Infine, ho appena finito di leggere un libro che analizzava la famiglia come capitale sociale. Dare sostegno e stabilità alla famiglia è senza dubbio una forma di investimento che aiuterebbe a tagliare i costi di prevenzione e lotta contro l’illegalità e il crimine. Oggi, la causa che sta alla radice dell’aumento di criminalità in questo paese è il crollo della famiglia.

Che cosa può dire della Campagna contro il traffico di persone organizzata in occasione dei campionati del mondo?
La Coppa del Mondo è stata un’importante cassa di risonanza per quello che era ed è un problema del paese. Ho letto che il Brasile si sta preparando a sfruttare l’evento dei prossimi campionati, che si giocheranno lì fra quattro anni, associandovi una campagna per contrastare il fenomeno della prostituzione minorile. Oggi, molte strade del traffico passano attraverso il Sudafrica. Il paese sta diventando un crocevia per il traffico delle persone, smistando «merce umana» fra i mercati asiatici e Sud/Nord americani.
Sappiamo bene che la Coppa del Mondo ha solo gettato luce su questa realtà, ma i problemi restano da risolvere. Posti come Citta del Capo stanno diventando mete di turismo sessuale. È un problema che dobbiamo affrontare seriamente come nazione e deve diventare una priorità del governo.

Una domanda finale rivolta al filosofo. Che cosa può oggi offrire il Sudafrica al continente africano in fatto di pensiero? E la chiesa cattolica che parte può avere in questo processo?
Una cosa che il Sudafrica può certamente offrire al resto del continente è una riflessione matura sui pro e contro del fenomeno «industrializzazione», fattore in cui il paese vanta una grande esperienza, soprattutto nel settore minerario. Penso, per esempio, ad alcuni scritti di Heidegger che vertono sulla strumentalizzazione delle relazioni e su come questo fatto svilisca la dignità del lavoratore e dello stesso datore di lavoro.
Anche una riflessione sulla diversità interculturale; su questo tema si sono sviluppati vari esperimenti di pensiero, su quali potevano essere i migliori modelli, capaci di facilitare il dialogo fra le differenze. In questo ambito, la chiesa è vista come un interlocutore importante proprio per la sua esperienza in merito.
In effetti, il Sudafrica non è soltanto un crogiuolo di culture, ma anche di filosofie. Per esempio, molte università statali, di fondazione britannica, seguono una tradizione analitica; la chiesa, invece, segue una tradizione continentale, cosa che rende possibile un buon dialogo e produce ricchezza di pensiero.
Un altro passo importante che si sta cercando di dare consiste nel far dialogare il pensiero originale sudafricano con il resto della filosofia del continente. Direi che questa è una delle priorità filosofiche del momento. Sicuramente possiamo imparare tutti dall’esperienza dell’altro. Prima vivevamo come chiusi, intrappolati in un sistema che non ci permetteva un’apertura verso l’esterno. Oggi possiamo trarre beneficio da tutta una riflessione africana che è venuta via via maturando nei campi della filosofia e della teologia.
In Sudafrica certamente qualcosa si sta facendo; uno dei temi emergenti nei circoli filosofici sudafricani è l’esplorazione del concetto di «ubuntu»: che significato ha il concetto di comunità oggi, a confronto con la modeità, davanti al fenomeno dell’urbanizzazione, in un contesto prettamente africano? Cosa significa e che senso ha, oggi, condividere e preoccuparsi per il bene comune? Mi sembrano temi importanti con i quali il Sudafrica di oggi deve assolutamente confrontarsi.

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Cari missionari

Ospedale di Wamba
Dopo 40 anni di missione, il medico Silvio Prandoni ha lasciato Wamba e aperto una Casa Famiglia a Mombasa. La diocesi di Maralal è una delle più povere del Kenya e l’attuale vescovo Virgilio Pante – missionario della Consolata – chiede aiuto agli Amici di Wamba per far quadrare i conti dell’ospedale. Con il dott. Prandoni noi abbiamo «fatto miracoli per 40 anni»… Salvo errore, l’Istituto Missioni Consolata finora non ha sostenuto finanziariamente il peso di questa opera grandiosa che versa in gravi difficoltà economiche. In Tanzania gli «Amici di Consolata Ikonda Hospital» affiancano l’Istituto Missioni Consolata di Torino nel sostegno finanziario di quest’opera grandiosa! Con la massima stima.
Associazione
 Amici di Wamba

L’ospedale di Wamba sta a cuore a tutti proprio per il prezioso e insostituibile servizio che offre alle popolazioni dell’area. Su questa rivista ne abbiamo parlato molte volte (non ultima, nel numero di settembre 2010), perché siamo molto vicini a quell’ospedale, anche se – a differenza di quello di Ikonda – non appartiene ai Missionari della Consolata, ma alla diocesi di Maralal. Ne conosco personalmente la qualità e il servizio, non solo perché vi sono stato curato all’inizio della mia esperienza missionaria, ma anche perché vi ho mandato innumerevoli pazienti sempre trattati con grande competenza e amore. Quanto al sostegno, l’Istituto ha sempre dato quanto ha potuto senza fae pubblicità, pur non avendone responsabilità diretta e senza tener conto di quanto i suoi missionari (che pure sono Istituto) hanno fatto (anche solo saldando i conti di molti, moltissimi pazienti insolventi). Gestire un ospedale non è facile, tanto più in Africa, e ancor più in un’area come il distretto Samburu. C’è bisogno di almeno mezzo milione di euro ogni anno. Per questo non servono le polemiche, ma, come ha scritto in una lettera a tutti gli amici dell’ospedale il vescovo mons. Virgilio Pante di Maralal, diretto responsabile e proprietario, occorre «lavorate con gioia e stima reciproca, evitando critiche, confronti, affermazioni inesatte, per non cadere nel protagonismo o forme di gelosie. Sottolineo questa ultima frase, anche se forte … L’ospedale deve continuare e non guardare indietro con rimpianti».
I bisogni sono tanti e c’è spazio per la collaborazione di tutti, rallegrandosi di trovare tante persone diverse e solidali in uno stesso progetto.

Un santino per
Siamo due genitori, molto rassegnati e preoccupati, con una figlia di 7 anni; simpatica, carina e vivace ma affetta da distrofia muscolare grave. Chiediamo un piacere per accontentarla: possiamo avere per posta, qualche santino con immagine sacra del Beato Giuseppe Allamano e della Ss.ma Vergine Consolata. Ne sarebbe tanto, ma tanto contenta. Che tristezza e che sofferenza dà il vedere nostra figlia ridotta in questo stato. Le amichette vengono a trovarla, lei si diverte ed è felice. A sera, dopo cena, prima di portarla a letto, preghiamo insieme la Beata Vergine, che la possa aiutare, consolare e guarire. Lo desideriamo tanto. Qualche volta la vediamo piangere, agitarsi nel sonno per i dolori allucinanti che ha alle deboli e fragili gambe.
In attesa, vi ringraziamo; perdonateci il disturbo. Porgiamo con affetto i nostri saluti. Ciao!
Paolo e Ada Turchetto
 Jesolo (VE)

La vostra sofferenza è la nostra, come nostra è la vostra speranza. Vi abbiamo mandato tutte le immagini a nostra disposizione, ma vi assicuriamo soprattutto la nostra vicinanza nella preghiera, sicuri che anche i lettori faranno catena di preghiera e amore con voi per la vostra piccola.

Missionari
e soldi

Caro Direttore,
mi sono portato sulla spiaggia il numero di luglio-agosto della sua rivista e ho letto con attenzione la lettera del signor Di Cosimo e la risposta che lei ha dato. Entrambe mi sono piaciute. Queste sono le lettere che mi piacciono e le risposte che fanno pensare. Aggiungerei che siete sempre contro Israele, ma non conoscendo bene la materia mi astengo da giudizi. Quello che desidero dirle è che mi sento sempre meno unito alla chiesa cattolica. Il fatto è che non esce uno scandalo finanziario nel quale non sia coinvolto sempre un qualche monsignore. Ne ho l’anima piena!
E perché lo dico a lei, aggiungendole magari un peso sullo stomaco invece che una soddisfazione? Perché voi missionari siete l’ultima frontiera della stima che ho per la chiesa cattolica. Dopo, il nulla. è per questo che ho provato veramente un senso di schifo quando ho conosciuto la vicenda del costruttore Anemone e dei suoi soci in imbrogli, tra i quali un certo padre bancomat, in quanto teneva nella sua cassaforte quattro milioni di euro in contanti, non ho capito se per attuare corruzioni oppure per trafficare questi soldi in vista di utili. Cosa vengo a scoprire? Che appartiene ad un ordine missionario come il vostro. […] Io spero tanto che voi Missionari della Consolata siate diversi, ma perché non indicate come impiegate i soldi di cui alla pagina dove sono descritte le forme di aiuto che vi si possono dare (cf. pag. 67, ndr)? I lasciti, siano essi appartamenti, ville, castelli, sottoscala, come li utilizzate? Sarebbe bello poterlo sapere e sicuramente vi farebbe onore, poiché non vi reputo disonesti e perché, come le ho detto in apertura, voi Missionari siete l’ultima linea di trincea che mi tiene ancora legato a questa chiesa dalla quale un disamore costante e progressivo mi allontana.
Con affetto. Sentivo proprio il bisogno di sfogarmi!
Alfredo Nagorìa
Torino

Ho omesso un bel pezzo della sua lettera, ma l’idea è chiara. Chi le risponde ora non è lo stesso direttore di allora, ma siamo in continuità. Commento qui solo sul tema soldi. Dall’inizio della Chiesa i soldi sono stati un fattore di rischio e corruzione. Anania e Saffira negli Atti degli Apostoli, sono il primo esempio. I più grandi monasteri hanno cominciato il loro declino quando sono diventati troppo ricchi. L’Allamano, nostro fondatore, ha sempre insistito che i suoi missionari fossero «canali e non conche» per quanto riguarda i soldi. Ma quante tentazioni!
Penso alla sofferenza dei confratelli di padre bancomat, messi alla gogna con lui. Ho visto con i miei occhi le loro bellissime missioni in Tanzania, prova che i soldi dei benefattori arrivavano a destinazione e che forse padre bancomat si è fatto prendere la mano proprio per amore delle missioni. Ho conosciuto missionari che si sono lasciati ingannare e strumentalizzare da presunti benefattori nella speranza di avere le somme necessarie per un ospedale, una scuola, una chiesa. Ingannati e usati in buona fede! E di falsi benefattori è pieno il mondo missionario. Approfittano del bisogno, della reale povertà, delle difficoltà che i missionari affrontano per far quadrare i conti, e, a volte, anche della loro inesperienza. La speranza di avere grosse somme risolutive da grandi benefattori è come la tentazione di giocare al lotto. Se vincessi i milioni del superenalotto, avrei già in mente una lista infinita di emergenze da risolvere e di bene da fare. Ma, mi viene un dubbio: se poi la tentazione (del potere dei soldi!) fosse troppo grande? Forse è meglio continuare ad arrancare con i 2, 5, 10 o 50 euro che i benefattori normali mandano con fedeltà e amore pur nelle loro difficoltà.
Dare conto sulla rivista di come spendiamo i soldi che riceviamo. Fin dalla sua fondazione questa rivista portava la lista delle offerte ricevute. Poi, negli anni ‘90, si è dovuto rinunciare a quell’informazione per le troppe complicazioni che insorgevano. Quello che le posso dire è questo: tutte le offerte che riceviamo vengono versate integralmente al missionario indicato, senza neppure caricare le spese che i nostri uffici si sobbarcano come personale, rivista, spese postali e/o bancarie – è per questo motivo che abbiamo cominciato a suggerire 5 euro extra per la rivista e spese postali!
Lasciti o altre donazioni (il cui fine non viene specificato) servono per la vita stessa dell’istituto: formazione di nuovi missionari, cure dei malati, assistenza agli anziani (che sono sempre di più), gestione di tutte le attività necessarie ad un’istituzione complessa come la nostra. Il bilancio dell’istituto è strettamente monitorato e, adempiuti gli obblighi di legge civile e canonica, non si può capitalizzare. L’utile di ogni anno (magro in questi anni di crisi) viene ridistribuito alle varie regioni dell’istituto per progetti specifici: fame, sviluppo, ospedali, scuole, progetti di riconciliazione e pace, giovani, rifugiati, catechesi, chiese …
Le assicuro che se noi avessimo attività apostoliche in Italia invece che nelle aree più povere del mondo, non avremmo bisogno di chiedere continuamente soldi ai nostri benefattori e potremmo vivere del nostro ministero. È l’amore per la gente, per i poveri, i piccoli e gli emarginati di questo mondo che ci rende mendicanti. È vero che qui in Italia oggi ci troviamo a vivere in grandi strutture nate in altri tempi, che danno un’impressione di ricchezza. I rapidi cambiamenti di questi anni, la diminuzione delle vocazioni (in Europa) e l’invecchiamento del personale, hanno costretto anche gli istituti missionari a prendere decisioni, a volte confuse, contraddittorie e non oculate. E poi non è così facile disfarsi di edifici carichi di storia. Per avere la certezza che i soldi mandati in missione non sono finiti nelle sue tasche, basterebbe andare ad accogliere un missionario che rientra dalla missione dopo 20/30/50/ 60 anni di servizio e vedere cosa si porta a casa: non un container (come fanno gli impiegati delle ambasciate o delle grandi compagnie), ma una sola valigia (perché ormai non ha più la forza di portae due) con pochi indumenti e tanti ricordi. E spesso, dalle sue mani sono passati miliardi per i poveri del mondo.
Certo, ci sono casi di cattivo uso del denaro da parte di missionari. Il denaro può essere come una droga e ha il potere di corrompere. Ma un caso, dieci casi non dovrebbero scoraggiare e indurre a generalizzare. Molti dei nostri lettori hanno visto con i loro occhi cosa han fatto i missionari con i soldi ricevuti dai benefattori e questo dovrebbe bastare a togliere i dubbi o almeno a non accusare tutta la categoria quando succedono degli scandali. D’altra parte, va considerato che neppure i missionari si stancano di benefattori che mandano uno e poi spendono tre per andare a vedere se il loro uno è stato speso bene. E neppure cacciano fuori di casa chi va a trovarli e sta due mesi a sbafo, (trasporto e traduzioni comprese) sempre a causa di quell’uno donato una volta.

Sbilanciati?

Egregio Direttore, Caro Dio (esageròma nen),
noto che ogni tanto qualche lettore, come il sig. Di Cosimo, si lamenta del vostro «fare politica», ossia schierarvi a sinistra. Ciò non dovrebbe stupire, chi ha un po’ di memoria e nozioni storiche sa che il grande dono divino dei sacerdoti e missionari è condizionato dallo «zeigest», lo spirito del tempo; per cui, in epoca risorgimentale alcuni preti progressisti combatterono in armi a fianco dell’esercito piemontese contro l’impero austroungarico, sotto il fascismo altri religiosi rivoluzionari fecero in talare il saluto romano, altri ancora inquieti seminaristi, a Rivoli nel «formidabile ‘68», accolsero il card. Pellegrino in visita al grido di «Mao Tze Tung» per poi diventare preti operai.
è difficile riempire un mensile di cose interessanti e voi, pur non dicendo tutta la verità, ve la cavate egregiamente. Non ho mai letto però quanto sia pesato nel mancato o ritardato sviluppo democratico del II e III mondo l’influenza nefasta del comunismo sovietico, che durante la guerra fredda combatteva con ogni mezzo per esportare la rivoluzione violenta sovvenzionando e incitando le masse povere. Avete parole di condanna per Israele, ma non per Hamas, organizzazione terroristica, che nel suo statuto dichiara di volere la distruzione fisica dello stato ebraico. Non dite nulla sull’Egitto che anch’esso blocca il suo tratto di frontiera con la striscia di Gaza da cui potrebbero transitare gli aiuti per i palestinesi, giunti con le mani semipacifiche. Tenete una rubrica con un titolo da religione animista primordiale «nostra madre terra», ma la terra è stata creata da Dio per l’uomo non perché gli fosse madre (c’è già la Consolata), ma come un dono prezioso da sfruttare al meglio. Vi opponete al nucleare facendo leva sulla paura provocata dall’insicurezza, ma nessuna fonte energetica è sicura e non inquinante, si tratta di scegliere con la testa e non con i sentimenti. Infine permettetemi un piccolo aneddoto su s. Giovanni Bosco, coevo dell’Allamano, a chi gli chiedeva come mai non prendesse posizione in quei tempi pericolosi e mutevoli che visse, rispose che attuava la politica del Padre Nostro. Sante parole.
Vittorio Mortarotti
 Savigliano (CN)

Quando il mio predecessore scrisse che «Dio rimane il vero direttore editoriale» non voleva certo garantirsi il marchio dell’infallibilità o darsi un’autorevolezza indebita. Ricordava solo che questa rivista non è una rivista di politica né di economia né di sociologia, né di destra né di sinistra, ma una rivista diretta da missionari che cercano di avere l’amore di Dio al centro della loro vita, del loro interesse e del loro modo di vedere la storia. Non potremmo fare diversamente: Dio deve essere al centro. Ma proprio per questo vediamo la realtà da sbilanciati verso i poveri, i deboli, gli emarginati e gli oppressi, dovunque essi siano. E diventiamo allergici a ingiustizie e bugie.
A rischio di antisemitismo? è vero che come rivista, Angela Lano in testa, siamo sulla lista nera di siti sionisti, ma scrivere della situazione degli ordinari palestinesi discriminati e oppressi e resi prigionieri di una situazione che ha rafforzato gli estremisti di Hamas e si trascina ormai da troppi anni, non è esaltare Hamas. ed essere tristi ed anche delusi perché uno stato di diritto come Israele si comporta come si comporta lasciandosi ricattare dai suoi estremisti, non è essere antisionisti. Quando Israele è nato, ci aveva fatto sognare cose ben diverse da quelle che vediamo oggi. Ricorda il film Exodus? Ma tra quello e il muro che oggi taglia e divide la Terra Santa ci sono anni luce. Intanto la gente normale soffre e gli estremismi prosperano nell’impotenza (o calcolo?) internazionale.
Lei, signor Vittorio, menziona poi diversi altri sbilanciamenti di cui noi saremmo colpevoli. Circa il non aver mai parlato contro i danni del comunismo, il mio predecessore, p. Gabriele Soldati, con cui ho lavorato agli inizi degli anni ‘80, si rivolterebbe nella tomba, lui che era un anticomunista militante.
La rubrica «nostra madre terra». Legga questa citazione: «Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre Terra, | la quale ne sustenta et governa, | et produce diversi fructi con coloriti flori et herba». L’autore è al di sopra di ogni sospetto: san Francesco.
Esprimere dubbi sul nucleare è legittimo, e non sponsorizziamo acriticamente altre fonti alternative, soprattutto quando corrono il rischio di finire nelle mani di enti che hanno solo fine di lucro e sono fuori dal controllo della gente comune (come si vuol fare con l’acqua).

Come una
goccia

Egregio Direttore,
sono un vostro “vecchio” lettore. Mi permetto di scriverVi per dirVi che l’articolo “Come una goccia di rugiada” (del Settembre 2010) è stato bello, uno dei più emozionanti che mi possa ricordare. Le scuole italiane dovrebbero adottarlo… Ancora grazie per il vostro lavoro.
Alfio T.
Cervia (Ra)




Su due piedi …

C’era una volta un bravo ragazzo, ben educato. Scriveva con la destra, faceva il segno di croce con la destra, dava la destra per salutare e, naturalmente, rispettava la destra. Anche quando si misurava le scarpe nuove offriva il piede destro. Andava tutto perfettamente bene, anche se, sì, un problemino c’era. Le scarpe nuove andavano benissimo per il piede destro, ma il sinistro ci stava sacrificato e, sotto sforzo, normalmente ci rimetteva l’unghia dell’alluce. Un bel paio di sandali alla fraticella risolvevano bene il problema durante l’estate, ma d’inverno il sinistro tornava a soffrire. Il tutto durò per anni, fino a quando, un giorno d’estate, a piedi nudi sulla sabbia, commiserando l’alluce sinistro che ancora portava i segni dell’ultima unghia caduta, gli venne il ghiribizzo di misurarsi i piedi. Il piede sinistro era quasi un centimetro più lungo del destro. Dentro lo sapeva da sempre, ma visto lì, in quelle righe nella sabbia, sembrava incredibile. Tutto quel tempo a soffrire per niente! Avesse ascoltato il piede sinistro tanti anni prima! Nelle scarpe nuove, una misura più del suo solito, il sinistro stava a suo agio e il destro non soffriva di certo, anzi, e insieme camminavano meglio.
Questa piccola storia di ordinaria stupidaggine mi ha fatto pensare a questo nostro paese dove sembra esserci la mania di classificare tutto e tutti, fino al ridicolo: sinistra, destra, ultra e centro, con tutte le variazioni possibili e immaginabili. Tutto è etichettato: politica, religione, cultura, economia e società. Ciascuno deve appartenere, perché solo l’essere di parte garantisce la verità e la stabilità. Chi non appartiene, chi non è classificabile, disturba. Sei padrone, destra. Sei operaio, sinistra. Vuoi sicurezza, destra. difendi gli extracomunitari, sinistra… Gli esempi abbondano. Neppure i preti si salvano. I missionari poi, sono sopportati solo finché non parlano troppo.
Quel povero piede sinistro, che per anni ha subito in silenzio l’ignoranza di quello destro, aveva pur le sue ragioni. Quando lui soffriva, era tutto il corpo, anche il piede destro, che soffriva. Ora che sta meglio, nelle scarpe nuove a sua misura, tutto il corpo cammina meglio, su due piedi!
Che? Non sono queste riflessioni da rivista missionaria? Forse. A dir la verità mi sono un po’ scocciato di sentirmi classificato ogni volta che scrivo o di ricevere lettere insultanti contro i missionari perché stanno dalla parte degli extracomunitari e si permettono perfino di aiutare quei nemici della civiltà cristiana che sono i musulmani, non importa se disastrati da una catastrofe naturale senza precedenti (ne parleremo sul numero di dicembre).
Noi missionari italiani (di una certa età, figli del dopo guerra – per me sono 60, proprio oggi mentre revisiono queste righe) ci troviamo in una situazione davvero poco invidiabile. siamo partiti da una comunità che aveva una fede vibrante in un contesto di diffusa povertà e tanta voglia di lavorare. alle frontiere del mondo siamo stati testimoni di tutte le sofferenze possibili e immaginabili e là abbiamo visto fiorire la fede. tornati a casa nostra, siamo presi con il nostro popolo nel vortice di un benessere mai sognato, con le chiese – bellissime e ben tenute – quasi vuote, centri commerciali che traboccano, televisioni che ci inondano di frivolezze e lotterie da capogiro. Tanto benessere (anche se c’è la crisi) e poca felicità. Se parliamo di alfabetizzazione, di ambiente, di culture e di poveri bambini, riusciamo anche a farci ascoltare o a far commuovere per un po’. Ma se ci permettiamo di dire giustizia, fratellanza, accoglienza, nuova pastorale, impegno personale, conversione, sobrietà, cambiamento di stili di vita e vangelo…  siamo visti con sospetto (ed etichettati, di sinistra!) o messi su un piedistallo (il che è anche peggio).
La realtà è che abbiamo bisogno di tutti per stare bene, come abbiamo bisogno di due piedi per camminare, correre e danzare. La verità non è monopolio di nessuno, tantomeno di chi sta bene e pensa di avere le soluzioni in tasca per chi soffre. In Italia c’è un sacco di positivo, di cui noi missionari siamo testimoni privilegiati. E questo dà molta speranza. Se solo ci ascoltassimo di più, rendendoci conto che abbiamo bisogno gli uni degli altri (questo vale anche per i vari talebani del mondo, così sicuri di sé)… riusciremmo davvero a costruire un mondo migliore per tutti, che danza su due piedi…

Gigi Anataloni




Non di soli antiretrovirali

Lotta all’HIV/AIDS: a che punto siamo
I missionari della Consolata sono stati coinvolti nella lotta all’Hiv G fin dal primo manifestarsi della malattia, negli anni Ottanta. Sono numerose le testimonianze dei missionari che raccontano del loro sgomento al vedere «decine di persone morire come mosche» di un male misterioso contro il quale la comunità scientifica internazionale era allora completamente impotente. «Oggi condanniamo negli altri le paure e i pregiudizi legati all’Hiv e a chi lo ha contratto», racconta p. Valeriano Paitoni, che segue diversi centri di accoglienza per malati di Aids G in Brasile, «eppure anche noi, all’inizio, avevamo lo stesso atteggiamento: facevamo visita alle persone malate ma non avevamo il coraggio di accettare nemmeno una tazza di caffè, allora. Non ne sapevamo nulla e, anche oggi, molte delle false credenze sono dovute all’ignoranza, al pregiudizio».
Pregiudizio, stigma, ignoranza sono solo alcune delle cause per le quali la battaglia all’Aids non si è ancora chiusa, anzi, pare essere di fronte a nuove, inedite sfide a volte causate proprio da quanto è stato fatto per limitare il contagio: quasi trenta anni dopo la sua ufficiale scoperta, la malattia che all’inizio fu erroneamente considerata come tipica degli omosessuali, e che si è diffusa invece in tutto il mondo fra tutte le fasce sociali, fra uomini e donne, eterosessuali e omosessuali, ha provocato ad oggi venticinque milioni di morti, nonostante i massicci finanziamenti per controllarla e debellarla è ancora un’emergenza mondiale, una
pandemia G.
Dei trentatré milioni di sieropositivi, due terzi sono concentrati nel continente più povero del globo, l’Africa, dove la sanità non è un diritto gratuito, ma un privilegio per chi può permettersi i costi delle visite e dei farmaci, dove le infrastrutture sanitarie sono inadeguate, e dove in media ci sono solamente 2 medici e 11 infermieri per 10.000 abitanti (contro ad esempio i 37 medici e 72 infermieri ogni 10.000 abitanti dell’Italia). Degli oltre due milioni di bambini sieropositivi al mondo un milione e ottocentomila vivono in Africa e dei due milioni di decessi avvenuti nel corso del 2008 a causa dell’Hiv un milione e mezzo sono stati registrati nello stesso continente.
Se è vero che attualmente il numero di persone in cura e che ricevono i trattamenti antiretrovirali G (Arv G) è enormemente cresciuto fino ad arrivare agli odiei quattro milioni, è anche vero che, come riporta l’agenzia delle Nazioni Unite per la lotta all’Aids, l’Unaids, per ogni due persone che iniziano un trattamento Arv cinque contraggono il virus, che i servizi di prevenzione non riescono a raggiungere tutti coloro che ne hanno bisogno e che oltre la metà dei dieci milioni di sieropositivi che hanno urgente bisogno di cure non hanno accesso ai trattamenti Arv.
Sebbene le realtà africane presentino differenze non trascurabili tra di loro, in linea di massima le difficoltà che i missionari segnalano hanno una serie di tratti in comune. Tra questi:
– La resistenza dei pazienti a sottoporsi al test G per timore di scoprirsi sieropositivi e quindi venir esclusi dal contesto sociale nel quale vivono. La maggior parte delle persone che si sottopongono al test lo fanno perché sono già malate o perché i sintomi della malattia si sono già manifestati.
– La distanza dall’ospedale. Spesso per i malati che dovrebbero accedere alla terapia con Arv il costo del viaggio per recarsi fisicamente a ricevere il trattamento è troppo elevato oppure i pazienti sono in condizioni di debilitazione tali da impedire loro di muoversi.
– Ancora, l’effettiva disponibilità dei farmaci Arv non è sempre costante. Infatti, sebbene sulla carta in molti paesi – anche in Africa – le cure e i trattamenti siano gratuiti e foiti dalle autorità sanitarie pubbliche, le strutture sanitarie che li offrono spessissimo ne sono sprovvisti.
– Infine, nutrizione. L’apporto nutrizionale che deve combinarsi con la terapia Arv ha, per molti pazienti e le loro famiglie, costi proibitivi.
Questi fattori causano spesso una discontinuità di trattamento che rischia di creare resistenza ai farmaci di prima linea (cioè quelli più diffusi ed economici) nei pazienti. A quel punto la terapia richiede, per essere efficace, che si passi a farmaci di seconda linea, che sono molto più costosi. È stato stimato che il 5% di pazienti in trattamento di seconda linea sul totale dei pazienti in trattamento nei Paesi del sud del mondo potrebbe costare, da solo, ben un quarto dei fondi a disposizione per le cure.
Dal pregiudizio alla cura: l’impegno dei missionari della Consolata
Nel corso degli anni, i missionari della Consolata hanno seguito l’evolversi della pandemia, ne hanno appreso le dinamiche e si sono organizzati per venire in soccorso dei malati e prevenire il diffondersi dell’infezione.
In ambito strettamente sanitario, i progetti dei missionari della Consolata legati alla prevenzione e cura dell’Hiv sono numerosi in tutti i paesi del sud del mondo in cui operano. Le attività più strutturate si svolgono ovviamente nei grandi ospedali che i missionari gestiscono in Africa.
L’ospedale di Ikonda, in Tanzania, il cui amministratore è p. Sandro Nava, ha un ambulatorio specializzato su Hiv/Aids che fornisce servizi di vario tipo (test, assistenza psicologica e nutrizionale, terapie, eccetera) a una media di 14.000 persone l’anno. In particolare, 1.800 pazienti sieropositivi, tra i quali molti bambini, sono costantemente monitorati e, di questi, oltre 500 ricevono la terapia Arv. Delle oltre mille donne che ogni anno partoriscono a Ikonda, quelle sieropositive possono usufruire di un servizio di prevenzione della trasmissione da madre a figlio, mentre dei 2.000 pazienti che beneficiano di assistenza alimentare la maggioranza è composta da malati di Hiv. Nell’ospedale, sotto la direzione del professor Gerold Jaeger prestano la loro opera circa 15 tra medici, infermieri, laboratoristi e assistenti sociali.
L’ospedale Nostra Signora della Consolata di Neisu, nella Repubblica Democratica del Congo, al quale sono collegati 11 centri sanitari e dispensari anche questi gestiti dai missionari della Consolata, serve un bacino di utenza di oltre 50.000 persone, seguendo quasi 6.000 i pazienti affetti da Hiv e tubercolosi. È in corso un progetto di gemellaggio con l’Ospedale Salvini di Milano, cornordinato dalla dottoressa Barbara Terzi con la collaborazione dell’amministratore p. Richard Larose, per incrementare il numero di malati di Aids assistiti e per incominciare il servizio per la prevenzione della trasmissione del virus Hiv da madre a bambino. Infatti su 1.500 donne che ogni anno partoriscono all’ospedale o ai centri sanitari collegati, circa un centinaio sono sieropositive.
Ancora, a Wamba, in Kenya, il personale del Catholic Hospital, gestito dalla diocesi di Maralal con i missionari della Consolata, ha effettuato circa 3.500 test per Hiv nel periodo 2007-2008 riscontrando una prevalenza Hiv che sfiora quasi il 10% (i sieropositivi sono risultati 325, di cui 189 donne) e tra il 2003 e il 2008 l’ospedale di Wamba ha messo in terapia Arv 130 persone.
Infine, l’Ospedale di Gambo, in Etiopia, funge da «centro sentinella» nell’ambito di un programma nazionale di prevenzione dell’Hiv e ha 67 pazienti in terapia Arv. Dal 2007, sotto la direzione di Fratel Francisco Reyes e dei suoi collaboratori, ha iniziato un programma di screening ante e post natale sulle donne incinte.

Oltre gli ospedali
Al di là dei servizi foiti negli ospedali e nei numerosi centri sanitari e dispensari, che prevedono anche il trattamento di malattie opportunistiche (in particolare la tubercolosi), le strutture sanitarie della Consolata svolgono un intenso lavoro di sensibilizzazione e educazione sanitaria su come evitare il contagio da Hiv e, per i malati, su come ottenere assistenza medica. I quattro ospedali da soli eseguono visite ambulatoriali che sommano a circa 130 mila e il complessivo bacino d’utenza è pari ad almeno cinque volte tanto: questo significa che con attività di sensibilizzazione efficaci che prevedano una collaborazione fattiva della popolazione locale, è possibile raggiungere svariate decine di migliaia di persone, che aumentano ulteriormente se si aggiungono le attività di formazione realizzate nelle parrocchie.
Oltre agli interventi sanitari in senso stretto, i missionari della Consolata, spesso in collaborazione con le missionarie, gestiscono diverse attività che hanno a che fare con l’assistenza ai malati in termini di accoglienza, nutrizione, istruzione.
Un esempio sono certamente la Casa Siloé e Lar Suzanne, strutture aperte negli anni Novanta a San Paolo del Brasile per ospitare circa trenta bambini e una decina di adulti. Non si tratta di strutture ospedaliere, bensì di luoghi dove i pazienti risiedono e vengono seguiti in un’atmosfera simile a quella che si instaura in una vera e propria famiglia. Nei centri per i bambini lavorano dieci persone a tempo pieno, per dare continuità e sicurezza ai piccoli, e centoventi volontari che aiutano in lavanderia e nella pulizia dei locali, portano i bambini a scuola o all’ospedale, li intrattengono nel doposcuola e li fa giocare. Il trattamento medico avviene in stretta collaborazione con l’ospedale governativo, che prescrive e fornisce gratuitamente tutte le medicine da somministrare ogni giorno.
Altro esempio di iniziative come questa sono le attività di sensibilizzazione realizzate ad esempio a Neisu attraverso i Co.Sa., i comitati sanitari di villaggio. Grazie alla formazione che i membri dei comitati ricevono dal personale dell’ospedale di Neisu nel corso di varie sessioni di educazione sanitaria, i Co.Sa. possono fare da «moltiplicatore», diffondendo informazioni corrette sulla prevenzione dell’Hiv una volta rientrati ai loro villaggi.

Lotta all’Aids
e buona sanità di base
La rete di ospedali, centri sanitari e dispensari è fondamentale nel lavoro di lotta all’Aids, così come cruciali sono anche tutti quegli interventi con le comunità locali per fare informazione, educazione, prevenzione.
Oltre alle attività legate specificamente all’Hiv, determinante per garantire l’efficacia degli interventi è il fatto che ogni intervento di cura e trattamento per l’Aids viene innestato su una struttura sanitaria solida e funzionante. I missionari della Consolata, infatti, inseriscono i loro programmi di lotta alla diffusione dell’Hiv e di cura dell’Aids nell’ambito di complessi sanitari dove ad essere garantiti non sono solo i servizi relativi a Hiv/Aids ma anche l’assistenza sanitaria relativa ad altre patologie e, soprattutto, l’assistenza sanitaria di base.
Questo aspetto risulta tanto più rilevante se si traccia un bilancio degli interventi realizzati dalle grandi agenzie umanitarie inteazionali e dalle Ong: dopo anni di campagne e progetti di lotta all’Hiv, infatti, è emerso in modo abbastanza evidente che spesso uno degli elementi che mina alla radice l’efficacia degli interventi di lotta all’Hiv nei paesi del sud del mondo è proprio l’inadeguatezza delle strutture sanitarie di base. Un intervento di cura e trattamento Aids, se non inserito all’interno di una struttura operativa in grado di fornire servizi sanitari di base, rischia non solo di non portare ai risultati sperati, ma di compromettere il funzionamento della struttura stessa: si rischia, per fare un esempio, di fornire farmaci Arv senza essere in grado di curare una banale ferita infetta o un’infezione intestinale.
Difatti i finanziamenti per la lotta all’Hiv finiscono a volte per fagocitare la sanità di base: in molti paesi del sud del mondo il lancio di un progetto in grande stile concentrato su Hiv/Aids rischia di distogliere il già scarso numero di personale sanitario disponibile dalle sue normali funzioni per specializzarsi ed operare esclusivamente sull’Aids, trascurando quindi quello che è la routine sanitaria. Si forma così, di fatto, un vero e proprio sistema sanitario «parallelo», regolato da logiche non sempre in linea con le priorità definite dai governi nazionali, con finanziamenti comunque insufficienti, spesso poco equilibrati e eccessivamente concentrati su un unico ambito sanitario. Ci si trova, nel concreto, a vivere il paradosso di strutture dove il reparto Hiv/Aids è abbastanza ben strutturato, attrezzato e seguito da personale specializzato mentre gli altri reparti mancano perfino delle più elementari attrezzature e del minimo di personale che servirebbero a farli funzionare in maniera sufficiente. Si assiste quindi a una distorsione nell’erogazione del servizio sanitario e a una competizione tra interventi di lotta all’Hiv e sanità di base, mentre i due ambiti dovrebbero essere in cornordinamento e sostenersi l’un l’altro.

L’altra faccia della lotta all’Hiv
Date le considerazioni precedenti, è evidente che un programma efficace di lotta all’Hiv/Aids non può più prescindere dal miglioramento delle condizioni socio – economiche rispetto alle quali l’Hiv/Aids è solo la punta dell’iceberg. Non basta quindi ampliare l’accesso ai servizi per la distribuzione di medicinali; occorre innanzitutto rafforzare i sistemi sanitari di base in modo che siano efficienti, accessibili per tutti e gratuiti.
Sono poi necessari interventi sociali che mettano i malati nella condizione di superare le difficoltà che limitano il loro accesso alle cure, come i già menzionati costi per il cibo o i trasporti, ed evitino la discriminazione sociale.
Dovrebbe, inoltre, essere garantito anche un servizio domiciliare di cura, non solo per chi abita troppo lontano dai centri sanitari, ma anche per chi questi centri non li può raggiungere per motivi di salute. Purtroppo, in quasi tutti i paesi del sud del mondo, e in Africa in particolare, questi servizi di cura domiciliare sono previsti ma, per mancanza di fondi, non sono effettivamente disponibili e la maggior parte dei pazienti che non può recarsi nelle strutture sanitarie non riceve alcun trattamento. I costi per formare gli operatori domiciliari, decisivi specialmente nel trattamento delle infezioni opportunistiche, non sono così elevati e, comunque, inferiori a costi derivanti dal sottrarre personale medico alla sanità di base per destinarla ai progetti di lotta all’Hiv.
Infine è necessario costruire una rete di operatori che possa far sì che i messaggi sulla prevenzione raggiungano i destinatari e, soprattutto, che possa informare le persone sieropositive che esistono servizi presso i quali ricevere cure e trattamenti. Non solo. Oltre a informare, occorre anche invogliare i pazienti a far uso dei servizi offerti, mettendoli in condizione di superare i pregiudizi e il timore che la loro condizione di sieropositività, una volta dichiarata, possa finire per isolarli dalla loro comunità.
Le cliniche mobili, la costruzione di centri sanitari periferici, la formazione di responsabili sanitari comunitari e il lancio di progetti «paralleli» (microcredito, micro – progetti agricoli, formazione professionale e simili) sono alcuni dei mezzi attraverso i quali i missionari della Consolata cercano di ovviare alle difficoltà socio – economiche che impediscono a un paziente di fruire effettivamente dei servizi relativi all’Hiv/Aids a causa della propria condizione di indigenza.

Hiv, un’emergenza per tutte le stagioni
Elemento che desta preoccupazione quando si riflette sulle logiche che regolano gli interventi nel sud del mondo è la «riciclabilità» dell’Hiv/Aids come tema su cui si concentra la cooperazione internazionale in mancanza di emergenze più attuali: «L’Hiv non va più di moda, quest’anno: adesso che è finito lo tsunami è il cambio climatico il più gettonato», commentava qualche anno fa con amaro sarcasmo una funzionaria internazionale, constatando le fluttuazioni anche brusche dell’attenzione della comunità internazionale.
Così come «passa di moda» in fretta, altrettanto repentinamente l’Hiv/Aids torna alla ribalta, attraverso gli appuntamenti annuali come la giornata mondiale di lotta all’Hiv (1° dicembre) e anche per effetto di campagne estemporanee lanciate da istituzioni inteazionali e Ong. Ma il problema rimane, anche quando non sta sulle pagine delle riviste o nei documentari trasmessi alla televisione e il modo più efficace di affrontarlo spesso parte dalla lotta alla povertà e all’ingiustizia prima ancora che all’Hiv/Aids.

Chiara Giovetti e Marco Simonelli

Chiara Giovetti e Marco Simonelli




Piccolo popolo, tanti primati

Samariani: pochi, ma «buoni»

Fenomeno più unico che raro, i Samaritani sono sopravvissuti come entità etnica e religiosa a difficoltà e persecuzioni secolari; il loro numero può apparire insignificante; le loro tradizioni sembrano più attrazioni turistiche che espressioni di fede; eppure hanno una forte ambizione: fare da ponte nel conflitto israelo-palestinese… Anche perché, per sopravvivere, hanno bisogno di pace soprattutto.

«Siamo la più antica e la più piccola nazione e setta religiosa del mondo. Per questi e altri primati potremmo entrare in molte pagine del Guinnes of Records – esordisce Husney W. Kohen, fondatore e direttore del Museo dei Samaritani a Kiryat Luza, villaggio sulla dorsale del monte Garizim -. Tre mila anni fa i Samaritani erano 3 milioni; nel medioevo erano un milione e 200 mila; nel 1917 contavano appena 146 persone. Oggi sono 729 (1° gennaio 2010); metà vivono sul monte Garizim, il resto a Holon presso Tel Aviv».
Elegante nella sua lunga veste grigia, 66 anni, Husney Kohen si presenta come uno dei 12 sacerdoti custodi della fede dei Samaritani e, sottolineando il suo lignaggio, spiega l’albero genealogico: «Da Adamo a me ci sono 162 generazioni; da Aronne, fratello di Mosè, 132 generazioni».
LE ORIGINI
«Abbiamo anche il calendario più antico del mondo – continua Kohen mostrando un almanacco con le cifre 3647-3648 -. Questi sono gli anni trascorsi da quando gli ebrei passarono il Giordano, entrarono nella terra di Canaan e rinnovarono l’alleanza qui a Sichem (oggi Nablus), secondo il comando di Mosè:  “Quando il Signore tuo Dio ti avrà condotto nella terra che vai a conquistare, tu porrai la benedizione sul monte Garizim e la maledizione sul monte Ebal” (Deut 11,29)».
E così avvenne, come si legge nel libro di Giosuè: tutte le tribù schierate attorno all’arca dell’alleanza, metà voltate verso il monte Garizim pronunciarono le benedizioni per gli osservanti della legge; metà rivolte al monte Ebal lanciarono le maledizioni contro i trasgressori (Cf Gios 8,33).
Nella regione che prenderà il nome di Samaria rimasero i discendenti di Efraim e Manasse, figli di Giuseppe, e alcuni della tribù di Levi, mentre le altre continuarono la conquista del territorio sotto la guida dei giudici e poi della monarchia. Per 270 anni esse condivisero la stessa storia; seguirono due secoli di storia parallela, in seguito alla divisione (930 a.C.) tra regno di Giuda al sud, con capitale Gerusalemme, e regno d’Israele al nord, con capitale Sichem e poi Samaria.
La separazione politica divenne anche divisione religiosa, a partire dal 722 a.C., quando il regno del nord fu distrutto dagli Assiri e una parte della popolazione (27.290 secondo gli annali dei vincitori) fu deportata e sostituita con coloni della Mesopotamia, provenienti soprattutto da Cutha, che si mischiarono ai 60 mila israeliti rimasti sul luogo. La mescolanza etnica e culturale, con relativo sincretismo religioso, provocò il rigetto da parte dei giudei del sud verso i Samaritani, chiamati con disprezzo «cutheani», cioè gente di sangue misto e semi-pagana.
In realtà, i Samaritani continuarono a ritenersi parte del popolo ebraico e nel 538 a.C., quando i giudei esiliati a Babilonia tornarono a Gerusalemme, i Samaritani offrirono il loro aiuto per ricostruire il tempio e officiarlo insieme, ma furono respinti brutalmente, perché considerati razzialmente impuri. Per questo, nel IV secolo a.C., i Samaritani costruirono il proprio tempio sul monte Garizim, il luogo in cui, secondo il loro credo, erano avvenuti diversi eventi significativi della storia dei patriarchi e del popolo israelitico. Si consumava così lo scisma tra le due popolazioni.
Non passarono due secoli e il tempio fu raso al suolo, nel 128 a.C., dal re di Giuda, Giovanni Ircano, nel tentativo di sottomettere i Samaritani alla tradizione gerosolimitana, portando al culmine, invece, l’incomunicabilità, l’ostilità e l’odio tra giudei e samaritani. E questo era il clima che si respirava al tempo di Gesù (vedi riquadro).
Nei secoli seguenti, con il susseguirsi nella terra santa di varie dominazioni  – romana, bizantina, islamica, turca – i Samaritani sperimentarono momenti di pace alternati a periodi di oppressione e persecuzione, in cui essi furono costretti alla conversione o alla diaspora. Così il loro numero si assottigliava costantemente, fino a raggiungere il minimo storico di 146 persone, grazie anche a una tremenda epidemia scoppiata a Nablus alla fine della guerra mondiale, quando i turchi lasciarono la Palestina.
IDENTITÀ
«Da oltre tre millenni abitiamo in questo luogo; siamo il resto dell’antico regno d’Israele, ci riteniamo e definiamo Bene-Yisrael, figli d’Israele. Siamo i veri israeliti» afferma Husney Kohen in polemica con una corrente storiografica che definisce i Samaritani una setta staccatasi dal giudaismo nel periodo del 2° tempio (538 a.C.-70 d.C.), e continua: «Contrariamente a quanto capita per la maggior parte dei popoli, non è la Samaria a dare il nome ai suoi abitanti, ma il contrario: il termine samaritani deriva infatti dall’ebraico “shamerim”, che significa “custodi, osservanti” dell’insegnamento di Mosè».
Mentre parla, Kohen si avvicina a una parete ricoperta da un drappo rosso con scritte ricamate in oro; rimuove un velo rosso e apre un rotolo di pergamena avvolto in un panno di seta verde, ugualmente ricoperto da una fitta scrittura ricamata in oro. Poi continua, sciorinando altri primati: «Questo è il più antico libro del mondo, il Pentateuco, i cinque libri della Torah, l’unica nostra legge, tramandataci da Mosè. Questo codice è di 150 anni fa, ma ne abbiamo un altro che risale a sei secoli fa, ma non viene mostrato al pubblico; già una volta hanno tentato di rubarlo, quando era nella sinagoga di Nablus. Molti musei vorrebbero comperarlo; il British Museum ha offerto una grossissima somma solo per custodirlo ed esporlo al pubblico, ma non possiamo privarci del nostro tesoro più prezioso».
Oltre al contenuto, la preziosità del codice sta nella sua rarità: è scritto in ebraico antico, con un alfabeto precedente a quello attuale a lettere quadrate, adottato dagli ebrei dopo l’esilio sotto l’influsso della scrittura babilonese. «L’ebraico antico è la madre di tutte le lingue del mondo» continua Kohen, indicando una riproduzione delle lettere dell’alfabeto e spiegando come ognuna di esse corrisponda a un membro del corpo umano.
Il Pentateuco samaritano, la cui redazione è attribuita dalla tradizione ad Abisha, pronipote di Mosè, contiene oltre 7 mila differenze rispetto al testo ebraico masoretico. Per lo più sono diversità ortografiche, ma alcune anche di contenuto «teologico», come la questione del luogo della presenza di Dio. In 22 versetti del Deuteronomio, la versione samaritana usa il verbo al passato: «Nel luogo che l’Onnipotente ha scelto»; mentre la redazione masoretica usa il futuro: «Nel luogo che l’Onnipotente sceglierà» (Dt 16,11).
La differenza è cruciale: per i Samaritani tale scelta è avvenuta ancor prima dell’entrata nella terra promessa ed è il Garizim, unico monte della terra d’Israele espressamente consacrato nel Deuteronomio quale luogo delle benedizioni (Dt 11,29), luogo dove Abramo e Giacobbe hanno costruito altari. Per i giudei, invece, il verbo al futuro esprime solo l’annuncio della scelta, che si realizzerà al tempo di David e Salomone (1000-930 a.C.) e cadrà sul monte del tempio a Gerusalemme.
Un’altra differenza riguarda la redazione del decalogo (Es 20,1-14). Nel testo samaritano il primo comandamento è: «Non avrai altri dei…» (secondo nella versione masoretica); il decimo ordina di costruire un altare sul monte Garizim, comandamento assente nel testo masoretico.
Il luogo del culto è sempre stato il pomo della discordia, da quando Eli scippò al Garizim l’arca dell’alleanza e la trasportò a Silo, fino al tempo di Gesù, come appare dalla domanda della donna samaritana: «I nostri padri hanno adorato Dio sopra questo monte e voi dite che è Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare». E rimane tutt’ora la principale discriminante tra la fede dei Samaritani e quella degli Ebrei, come si apprende dalle labbra stesse di Kohen: «Inutile che certi Ebrei cerchino di ricostruire il terzo tempio a Gerusalemme, quando Dio ha scelto il Garizim».
CREDO E FESTE
«I Samaritani sono guidati da quattro principi di fede – continua -: un solo Dio, il Dio d’Israele; un solo profeta, Mosè figlio di Amran; un solo libro sacro, il Pentateuco, la Torah trasmessa da Mosè; un solo luogo sacro, il monte Garizim. Inoltre crediamo nella venuta del Taheb, “un profeta come Mosè” (cf Dt 18,15), un messia (cf Gv 4,25) della stirpe di Giuseppe e non di discendenza davidica, che verrà alla fine dei tempi, nel giorno della vendetta e della ricompensa».
Samaritani ed Ebrei hanno in comune la celebrazione di sette festività, quelle menzionate nel Pentateuco: la Pasqua con il suo sacrificio (vedi riquadro) per ricordare la liberazione dalla schiavitù in Egitto; la festa degli Azzimi, per sette giorni si mangia pane non lievitato; la festa delle Settimane (Shavuoth) o pentecoste; il primo giorno del Settimo Mese (Tishri), per ricordare l’entrata nella terra di Canaan; il Gioo dell’Espiazione (Yom Kippur); la festa delle Capanne (Sukkot), a ricordo delle abitazioni durante l’esodo, che si conclude con la festa della Gioia della Torah.
«In conseguenza della persecuzione islamica dei secoli passati – continua Kohen mentre mostra un grande plastico di frutta multicolore – i Samaritani costruiscono il sukkot in casa e non all’aperto come gli Ebrei. Comperiamo 3-400 chili di frutta della terra santa, la leghiamo a un graticcio di acciaio formando disegni fantasiosi e lo appendiamo al soffitto della stanza principale; l’ottavo giorno, la frutta è ridotta in succo per la delizia dei più piccoli, e non solo, per festeggiare la dolcezza della Torah».
Altri doveri del «buon samaritano» sono: vivere in terra d’Israele o almeno mantenervi la residenza; celebrare la pasqua sul monte Garizim; fare il pellegrinaggio al monte sacro tre volte l’anno (ultimo giorno degli Azimi, Pentecoste; primo giorno del Sukkot); osservare scrupolosamente le leggi della purità alimentare e del sabato. «In tale giorno – continua Kohen – non solo non facciamo alcun lavoro, ma non usiamo l’elettricità né rispondiamo al telefono, non usciamo di casa se non per andare a pregare nella sinagoga; tornati a casa leggiamo un capitolo della Torah».
PROBLEMI E LAMENTELE
«Siamo la popolazione più giovane al mondo – continua Kohen con un altro primato – ma abbiamo un grave problema: da oltre due secoli soffriamo la scarsità di spose, per cui i nostri uomini cercano donne di altre religioni. Attualmente un’ebrea, 5 cristiane provenienti da Russia e Ucraina, 3 musulmane da Turchia e Azerbaigian sono sposate con uomini samaritani di Kiryat Luza. Prima, però, sono state sottoposte a un periodo di prova, si sono convertite alla nostra religione e impegnate a osservarla».
Sono curioso di sapere come vengono combinati tali matrimoni. «Usiamo anche noi internet e facebook – risponde sorridendo -. Siamo molto religiosi, ma aperti al mondo moderno. I miei figli, due maschi e tre femmine, hanno studiato all’università: una giornalismo, un’altra economia e commercio, la terza informatica; un figlio gioca a pallacanestro».
Contro la sopravvivenza dei Samaritani congiurano anche altri problemi economici e sanitari. «La nostra gente ha spesso mal di testa» lamenta Husney Kohen. La causa è attribuita alle radiazioni elettromagnetiche emanate da 7 torri di comunicazione, costruite e gestite dal governo israeliano attorno al villaggio».
Da più di tre anni i Samaritani sopportano l’embargo al loro rinomato tahinia (crema di sesamo). «Il migliore al mondo» afferma Kohen. Israele ne impedisce l’esportazione per motivi di sicurezza, dicono; in pratica priva del lavoro una decina di famiglie».
Ma il problema più grave per il futuro dei Samaritani viene dalla situazione di guerra israelo-palestinese. I musulmani li considerano ebrei; gli ebrei li ritengono arabi; per questo si sentono spesso «tra l’incudine e il martello» e in passato hanno subito angherie da ambo le parti.
«Come abitanti di Kiryat Luza abbiamo la cittadinanza palestinese – spiega Kohen -; nella vita quotidiana parliamo l’arabo, ma il sabato e nelle feste usiamo l’antico ebraico e lo insegniamo ai nostri figli a scuola. In quanto credenti della Torah, abbiamo ricevuto la cittadinanza israeliana, come quelli della comunità di Holon, in territorio israeliano. Non siamo schierati da nessuna delle due parti. Anzi, molti di noi hanno la carta di identità palestinese, il passaporto israeliano e quello giordano, dato che fino al 1967 eravamo sotto il re della Giordania».
Con tale neutralità i Samaritani si propongono come intermediari tra Israele e Palestina; l’irrilevanza numerica favorisce la credibilità della loro mediazione, dal momento che non rivendicano alcun privilegio territoriale, ma solo la libertà di vivere secondo le proprie tradizioni. «Israeliani e palestinesi devono imparare dai Samaritani – conclude Kohen -. Anche noi vogliamo essere motivo di pace tra i due popoli. Senza pace sono a rischio Samaritani, Palestinesi e Israeliani. La guerra non serve a nessuno. Ma non può esserci pace senza riconoscere ai Palestinesi il diritto alla propria patria. Per questo noi lavoriamo e preghiamo. E anche ora prego Dio perché ci conceda la pace».
Che Dio lo ascolti.

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Al voto… senza fretta

Il Paese si prepara alle elezioni

Dopo 50 anni di dittatura quasi ininterrotta, la giunta militare ha promesso libere elezioni.
Ma l’opposizione è divisa, movimenti etnici e spinte separatiste richiedono ancora la presenza dei militari nel governo: la piena democrazia è ancora un miraggio, ma il futuro sarà meglio del regime attuale.
Lo sperano tutti.

Da quando Win ha saputo che ero un giornalista, ho dovuto cambiare hotel. «Mi dispiace – si è scusato – ma è diventato troppo pericoloso tenerti qui tra i miei clienti. Alcuni funzionari hanno già fatto domande e mi hanno fatto capire che i tuoi articoli non sono piaciuti».  
Non che ne sia rimasto particolarmente sorpreso; padre Philip, sacerdote cattolico della cattedrale di St. Mary, mi aveva avvertito: «Ogni hotel che ospita stranieri ha almeno un informatore tra lo staff. Continuando a frequentare lo stesso albergo, prima o poi verranno a sapere chi sei».
Speravo che, scegliendo un alloggio da quattro soldi, riuscissi a mimetizzarmi, ma alla fine quel giorno è arrivato: ho fatto le valige e mi sono cercato un’altra stanza. Prima di andarmene, Win mi ha abbracciato sussurrandomi: «Spero che presto la situazione cambi: i militari non possono durare per sempre».
INCERTEZZE… CERTE
Per sempre no di certo, a lungo, invece, sì. Probabilmente Win, che si avvia verso la settantina, non riuscirà a vedere l’auspicato cambiamento. Prima, infatti, dovranno sparire i due generali che dominano la scena politica del paese: Than Shwe e Maung Aye. Entrambi sono malati e vecchi, è vero, ma da anni stanno manovrando l’Spdc (State Peace and Development Council), la giunta militare che governa la nazione, affinché alla loro dipartita poco o nulla cambi. Tutti e due sanno che in Myanmar non è mai accaduto che vi fosse un trasferimento di poteri pacifico. La loro unica preoccupazione, quindi, è trovare il modo di mettersi da parte volontariamente, preservando gli interessi economici e politici delle loro famiglie.
Nel frattempo tutto rimane come sospeso. Il futuro del Myanmar rimane drammaticamente certo nelle proprie incertezze. È certo che nel 2010 si terranno le elezioni generali, ma non è ancora dato sapere quando verranno aperte le ue. È certo che i militari continueranno ad avere un ruolo fondamentale nel governo del Paese, ma non si sa chi sarà chiamato a gestirlo. È certo che Aung San Suu Kyi non potrà ricoprire cariche istituzionali, ma non si sa se il governo manterrà la promessa di liberarla a novembre. È certo, infine, che la popolazione non si aspetta rivelazioni clamorose dai risultati elettorali, ma non è chiaro in quale verso muterà la situazione sociale ed economica.
«L’insicurezza rende tutto più difficile da affrontare – racconta Htway, uno studente universitario di Yangon -. È frustrante osservare che tutte le speranze di una rinascita vengono spente quando incominciavamo a credere nel cambiamento».
Zeya, sua amica, aggiunge: «A questo punto preferirei sapere che niente cambierà in Myanmar. Almeno avrei una certezza su cui costruire la mia vita. Non voglio più lottare per un’illusione».
C’È POCO DA RIDERE
Non tutti, per fortuna, la pensano come Zeya.
A Mandalay, ad esempio, U Pa Pa Lay e U Lu Zaw, in arte The Moustache Brothers, da anni sfidano la censura rappresentando ogni sera, in una stanzina di tre metri per quattro, uno spettacolo satirico che mette in ridicolo la giunta militare. La popolarità riscossa tra i turisti in visita nella vecchia capitale, ha contribuito a proteggerli da eventuali rappresaglie.
La fama nazionale, invece, non è servita al dentista U Maung Thura, più noto con il soprannome di Zarganar, la cui comicità, più pungente e diretta, non ha riscontrato, tra gli stranieri, lo stesso entusiasmo riscosso dai Moustache Brothers. Questo è stato sufficiente perché i suoi denti fossero spaccati dalle spranghe dei militari. «Oramai sono un dentista senza denti. Chi andrebbe a farsi curare da un dentista che ha perso tutti i suoi denti?» ha scherzato qualche anno fa, quando l’ho incontrato poche settimane prima che fosse di nuovo rimesso in prigione.
Le sue battute restano memorabili e vengono ancora sussurrate nelle serate conviviali e goliardiche: «In Birmania i dentisti non hanno lavoro perché nessuno osa aprire bocca»; oppure la famosa storiella di tre ragazzini che si ritrovano a raccontare le gesta dei loro parenti: un cugino senza braccia che ha attraversato a nuoto l’Ayeyarwady, un fratello senza gambe che ha scalato la montagna più alta del paese, risultano ben poca cosa rispetto allo zio del terzo ragazzino che «pur essendo senza testa, governa un’intera nazione!».
ELEZIONI A SORPRESA
Eppure, anche se l’orizzonte sembra cupo, qualche timido raggio di sole sembra si stia infiltrando tra le nubi. Le elezioni, ad esempio, che dopo l’amara esperienza del 1990 il governo cercherà di manipolare, sono pur sempre una tappa verso quella «road map to democracy» disegnata dalla giunta per ridare al Myanmar una parvenza di partecipazione popolare alla gestione del potere.
«I generali vogliono evitare di ripetere l’esperienza traumatizzante delle elezioni del 1990, quando la Lega nazionale per la democrazia (Lnd) conquistò la maggioranza assoluta dei voti – spiega Sean Tuell, professore di Economia alla MacQuarie University di Sydney -; per questo la data sarà comunicata il più tardi possibile per non lasciare ai partiti tempo di organizzarsi.
Nel 1990, infatti, il regolamento per la registrazione era stato promulgato venti mesi prima la scadenza elettorale e i candidati dell’opposizione avevano avuto la possibilità di compiere una sorta di campagna elettorale, conquistando così la fiducia di gran parte della popolazione. La Lega nazionale per la democrazia, il partito di Aung San Suu Kyi che nel 1990 aveva ottenuto la maggioranza assoluta dei voti, ha deciso di non partecipare alle consultazioni. La dichiarazione di astensione di Aung San Suu Kyi, nasconde però la realtà di un dibattito interno alla Lnd, che rimane fortemente diviso tra chi vorrebbe comunque aderire alle elezioni e chi, invece, è contrario.
Win Tin, uno dei leader storici del partito, ha criticato l’inviato speciale del segretario generale delle Nazioni Unite, Ibrahim Gambari, per aver incoraggiato il governo birmano a organizzare le elezioni del 2010 in modo accettabile per la comunità internazionale. «Non è la comunità internazionale che deve essere accontentata, ma è il popolo birmano» ha giustamente replicato Win Tin.
Tre erano le condizioni imposte dalla Lega nazionale per la democrazia affinché avesse potuto prendere in considerazione un suo coinvolgimento: il rilascio di tutti i prigionieri politici, la riforma della Costituzione approvata nel 2008 in un referendum farsa e la supervisione internazionale del voto.
«L’unico punto accettabile per i militari sarebbe stato il terzo – risponde Bertil Lintner, giornalista svedese che, da Bangkok, segue le vicende birmane -. Degli altri due, solo la liberazione dei prigionieri politici può essere messa sul tavolo delle trattative dalla giunta».
PER STRADE DIVERSE
Nel frattempo le fratture intee alla Lnd si sono allargate, sancendo la spaccatura del partito lungo la crepa di chi segue la linea della dirigenza storica, capeggiata da Aung San Suu Kyi e Win Tin, e chi, invece, preferisce cogliere l’occasione di intrufolarsi nello spiraglio di democrazia che le elezioni lasciano trasparire. Sarà quindi interessante vedere quale posizione prenderà il bacino elettorale democratico: si asterrà o piuttosto dirotterà il proprio voto sui membri della Lnd che, in dissidenza con la Signora, hanno deciso di partecipare alle consultazioni?
In attesa di un verdetto, alcuni leaders si sono già mossi: il National Unity Party, il partito emanazione del vecchio Burma Socialist Programme Party che nel 1990 aveva avuto il 22% dei voti, è sceso in lizza in una nuova veste, meno legata ai militari. Il Democratic Party di Thu Wai e la Graduated Old Student Democratic Association, di idee democratiche, ma critici verso la Lnd, uniranno le proprie forze e anche Sandar Win, figlia di Ne Win, sembra voglia formare una propria lista.
Nelle aree tribali, dove la Lnd e l’icona di Aung San Suu Kyi non sono così inossidabili come nelle regioni Bamar, i movimenti si stanno muovendo l’uno per contro proprio. Per molti di loro, la nuova costituzione assicura una partecipazione alle decisioni locali maggiore di ogni altra precedente, compresa quella del 1947, garantendo la costituzione di sei regioni autonome per i Wa, i Naga, i Danu, i Pa-O, i Pa Laung e i Kokang e la rappresentanza nei governi locali di 135 etnie. «Tutti i gruppi etnici con una popolazione maggiore di 57 mila unità hanno diritto ad avere un loro rappresentante – contesta Pu Cin Sian Thang, portavoce del United Nationalities Alliance, una coalizione di dodici partiti etnici contrari alla costituzione – ma non c’è alcun censimento che attesti la popolazione. Su che base potremmo rivalerci di questo diritto?».
Il Karen National Union, che già aveva rigettato la costituzione del 1947 scegliendo la via della completa indipendenza, ha ribadito il rifiuto di partecipare alle prossime elezioni, a differenza di altri gruppi etnici, come i Kachin, che negli ultimi vent’anni hanno concluso accordi di cessate il fuoco con Naypyidaw, la nuova capitale del Myanmar.
«Dobbiamo difendere i nostri diritti e la costituzione approvata nel 2008, pur con i suoi difetti, contiene dei semi di democrazia. È per questo che abbiamo deciso di partecipare alle elezioni» mi dice James Lum Dau, vice ministro degli Esteri del Kachin Independence Organization e uno dei fondatori del Kachin State Progressive Party.
PROBLEMI A VENIRE
I maggiori problemi, però, nasceranno dopo che i risultati avranno stabilito quale governo dovrà imporre la legge nel paese. Con il 25% dei seggi riservato ai militari, i generali continueranno ad avere un ruolo attivo nella politica del Myanmar, ma per la prima volta dal 1962 ai civili verranno aperte alcune nuove opportunità.
«L’appoggio dei militari sarà comunque indispensabile per approvare gli emendamenti – spiega un giornalista birmano – ma un 25% è sempre meglio che un 100%».
In effetti, alcuni analisti hanno fatto notare che la soglia voluta dai militari potrebbe essere un primo passo di una transizione indolore verso un governo democratico e civile, visto che un improvviso ritiro del Tatmadaw (l’esercito birmano) da ogni forma di potere, potrebbe far piombare il paese nel caos e in una sanguinosa guerra civile con la periferia. È anche per questo che le nuove autorità avranno il difficile compito di disarmare quei gruppi etnici che, nonostante abbiano firmato l’armistizio, continuano ad avere propri eserciti.
Per rendere più accettabile la smobilitazione, la costituzione birmana prevede la formazione delle cosiddette «Forze di guardia alle frontiere». Le armi non saranno più rivolte verso l’interno e verso i soldati del governo centrale, bensì verso l’esterno e usate contro altri gruppi etnici ribelli (cosa, del resto, che già accade). Il problema è che sino ad ora nessuno, tranne il Democratic Kayin Buddhist Army, ha accettato la proposta.
Uno dei punti principali su cui ci si confronterà, sarà l’elezione del presidente, che dovrà essere residente in Myanmar da almeno 20 anni (e quindi vengono esclusi tutti i dissidenti), non essere sposato con stranieri (in questo caso Aung San Suu Kyi, in quanto vedova, potrebbe essere eletta) e non avere figli con passaporto straniero (è questa la clausola che esclude la Lady dalla presidenza).
Anche qui, i militari hanno il diritto di presentare uno dei tre candidati che, quasi sicuramente, non sarà Than Shwe, notoriamente refrattario ai viaggi e agli incontri con stranieri, in particolare occidentali. Ma l’orgoglioso generale non ama neppure essere «comandato», men che meno da una figura, come quella del presidente, che potrebbe essere ricoperta da un civile. Si pensa, quindi, che i militari creeranno una posizione ad hoc, estea al governo, ma altrettanto autorevole; una sorta di Grande Leader o Leader Supremo.
Ed archiviato Than Shwe, rimane il numero due, Maung Aye, l’unico generale che non ha ancora trovato una collocazione nel dopo elezioni e, per questo, potrebbe rappresentare un pericolo nella stabilità nazionale. L’accantonamento di Maung Aye, infatti, porterebbe alla rovina tutta la sua famiglia e l’entourage.
Un’aperta rivolta all’interno stesso dei ranghi militari, potrebbe, inoltre, invogliare i gruppi etnici più refrattari a Naypyidaw, a riprendere la lotta per l’indipendenza. Un’eventualità, questa, che destabilizzerebbe l’intera regione sud orientale dell’Asia, chiazzata da migliaia di minoranze, le quali non si sono mai sottomesse ai governi centrali. Cina, India e Thailandia, in particolare, le nazioni confinanti con il Myanmar e che hanno tutte grossi problemi con le etnie tribali a ridosso delle proprie frontiere, non gradirebbero di certo un paese poco controllato.
La guerra d’Indocina con i suoi tragici lasciti non è ancora scomparsa dalla memoria delle diplomazie mondiali e poco più a ovest, l’Afghanistan è un preciso monito verso chi chiede democrazia senza avere le basi su cui costruirla.

Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali