«Voi non meritate i nostri aiuti»

Un paese (difficile) devastato dalle alluvioni

Violenze e discriminazioni contro le donne e contro i non-musulmani, vicinanza a movimenti terroristici, possesso di arsenale nucleare. È il Pakistan, paese che nei mesi scorsi è stato devastato da alluvioni, che hanno provocato migliaia di morti e milioni di sfollati. Nonostante l’entità della tragedia, gli aiuti inteazionali sono arrivati con il contagocce. Per questo si è parlato di «vittime di serie B». Ma è giusto che il Pakistan venga aiutato meno perché considerato – a torto o a ragione – poco meritevole? È giusto far pagare a donne e bambini sbagli ed intolleranze? L’aiuto non dovrebbe essere un atto di generosità disinteressata e di umana pietà?

Inumeri – pur ballerini – sono impressionanti: 20,2 milioni di persone coinvolte, un’area interessata estesa 50 mila chilometri quadrati, 2,4 milioni di ettari di raccolti andati perduti, oltre 1,9 milioni di case distrutte o danneggiate(1).
Sono le conseguenze delle inondazioni monsoniche che la scorsa estate – dal 22 luglio al 16 settembre – hanno colpito il Pakistan, un paese già prostrato dai conflitti interni e dai problemi usuali di una nazione in via di sviluppo. Una catastrofe, insomma. Eppure, rispetto ad altre tragedie (il terremoto di Haiti, ad esempio), ci sono state meno immagini in televisione, meno giornalisti inviati sul posto, meno campagne di solidarietà, meno Sms per raccogliere fondi. Che sia stato perché, in un mondo sempre più interconnesso (forse la forma più visibile della globalizzazione), le tragedie sembrano ormai essere all’ordine del giorno? O perché il Pakistan è un paese troppo diverso (per religione, cultura e tradizioni) e troppo ambiguo (i suoi presunti legami con il terrorismo internazionale) per meritare i nostri aiuti?

TRA TALIBAN E KASHMIR
Con oltre 180 milioni di abitanti, il Pakistan è il sesto paese più popolato del mondo e il secondo più grande stato musulmano dopo l’Indonesia. È un paese afflitto da enormi problemi fin dalla sua nascita (1947), ma accentuati a partire dal novembre 2001, quando Stati Uniti e Gran Bretagna cacciarono il governo talebano del vicino Afghanistan, dando inizio a quell’interminabile conflitto da cui oggi tutti vorrebbero ritirarsi(2).
A parte l’annoso contenzioso con l’India per il controllo della regione del Kashmir, il problema del Pakistan sta proprio lungo il confine con l’Afghanistan, dove due vaste province sono ormai fuori controllo: le «Aree tribali ad amministrazione federale» (Federally Administered Tribal Areas, Fata) e la «Provincia della frontiera nord-ovest» (North West Frontier Province, Nwfp).
In queste zone, imperversano gruppi armati collegati ai talebani. In particolare, nella Swat Valley, zona densamente popolata perché ricca di acqua e vegetazione, la situazione è molto difficile. «Negli ultimi due anni – scrive Amnesty Inteational -, i talebani hanno distrutto più di 200 scuole nello Swat, oltre un centinaio delle quali erano scuole femminili. Secondo le autorità locali, questi attacchi hanno interrotto gli studi di più di 50.000 alunni, dalla scuola primaria all’università»(3).
Il governo centrale, dopo gli anni (1999-2008) del generale Musharraf (despota protetto dagli Stati Uniti di George W. Bush), è ora guidato dal presidente Asif Ali Zardari, vedovo di Benazir Bhutto, personaggio poco limpido, già coinvolto in vari scandali. Il governo Zardari gode oggi di molta impopolarità, dentro e fuori del paese, per l’incapacità di contrastare la violenza e la pessima gestione dell’emergenza durante le alluvioni.
A causa della pluralità e complessità dei problemi, è facile prevedere che la polveriera Pakistan occuperà per molto tempo i notiziari inteazionali.
Quanto alle recenti alluvioni, è da dire che la situazione è stata resa ancora più difficile dalle tradizioni – sociali e religiose – vigenti presso le popolazioni colpite. Ad esempio: le donne vittime dell’alluvione potevano (e possono) essere visitate soltanto da personale medico femminile, cosa molto difficile  vista la carenza dello stesso(4). Si è inoltre parlato di discriminazioni verso i pakistani non-musulmani (cristiani ed hindù) nella distribuzione degli aiuti. Cosa certamente da stigmatizzare (ove, come pare, sia confermata)(5), ma che – purtroppo – capita frequentemente nelle società diseguali, con molti soggetti più deboli. Un esempio ci è stato offerto anche dagli Stati Uniti all’epoca – era il 2005 – dell’uragano Katrina. È risaputo che gli afroamericani, appartenenti agli strati più poveri della popolazione, furono gli ultimi ad essere soccorsi e quelli che sopportarono le conseguenze più pesanti del disastro.

MATRIMONI COMBINATI E DRAMMI FAMILIARI
In Italia ci sono circa 80-100 mila pakistani, il 70 per cento dei quali vive nel Nord Italia. La maggiore concentrazione si registra nella città e nella provincia di Brescia.
Nonostante l’abbinamento (mediatico) di pakistani uguale terroristi, in Italia la comunità pakistana vive in tranquillità. Essa è stata oggetto di attenzione da parte dei media soltanto in occasione di alcuni fatti di sangue avvenuti in famiglia. L’ultimo risale al 3 ottobre, in provincia di Modena.
Un pakistano, Ahmad Khan Butt, ha ucciso la moglie Begm Shnez e ferito gravemente Nosheen, la figlia ventenne che non voleva accettare un matrimonio combinato. L’uomo è stato aiutato dal figlio maggiore, Humair, di 19 anni.
La tragedia ha fatto ricordare un altro delitto avvenuto nell’estate del 2006 in una famiglia pakistana che viveva a Sarezzo, in provincia di Brescia. Hina Saleem, poco più che ventenne, era stata uccisa dal padre e da alcuni parenti maschi. La sua colpa: essere fidanzata con un italiano.
Nosheen e Hina, ragazze pakistane, volevano scegliere il proprio destino come le coetanee italiane: troppo per le loro famiglie d’origine, legate a tradizioni ancestrali. Abbiamo parlato di pakistani, ma  le circostanze si ripetono anche per altri. Nel settembre 2009, in provincia di Pordenone, Sanaa Dafani, 18 anni, marocchina, è stata uccisa dal padre, perché fidanzata con un italiano(6).
Davanti a questi fatti, il giudizio popolare – sospinto da politici e media interessati – è di solito perentorio ed inappellabile: «Visto? Gli immigrati non si adatteranno mai al nostro modo di vivere!».
In realtà, è probabile che sia vero il contrario: è la rapida integrazione nel paese d’adozione dei figli degli immigrati che porta a conflitti familiari, soprattutto in presenza di culture molto diverse, come nei casi di cui abbiamo fatto cenno.

GLI AIUTI INTERNAZIONALI E LE EMERGENZE CHE VERRANNO
Tutto questo giustifica meno compassione e meno aiuto verso i disperati del Pakistan? Le colpe di governanti e gruppi fondamentalisti vanno fatte pagare anche a gente innocente – bambini e donne in primis – bisognosa di aiuto? «Sarà che il Pakistan ci evoca terrorismo, immigrazione, talebani, un mondo sconosciuto e quindi pericoloso,… Sarà? – ha scritto Gianmarco Marzocchini, direttore della Caritas diocesana di Reggio Emilia -. Ma mi chiedo e vi chiedo il perché tante emergenze nazionali e inteazionali vengano considerate di Serie B!»(7).
Queste osservazioni valgono oggi per il Pakistan, ma sono ripetibili per molte altre situazioni, del presente e del passato. È vero che ci sono emergenze più emergenze di altre, ma morti e sofferenti si somigliano ovunque. O forse no?
Proviamo a fare qualche altra considerazione… Quando accade un’emergenza internazionale (un terremoto, una siccità, un’inondazione), i singoli stati concedono aiuti (intendendo soltanto aiuti non militari) in base a considerazioni geopolitiche e, in ogni caso, le promesse iniziali, fatte per rispondere all’emozione del momento, non sono mai rispettate. Si calcola che venga donato al massimo il 40% di quanto promesso. Rimangono le raccolte presso i singoli cittadini fatte da chiese (la Caritas, ad esempio), Ong, associazioni umanitarie ed agenzie Onu. È altamente probabile che, nel prossimo futuro, le emergenze inteazionali aumentino sempre più, vuoi per gli sconvolgimenti climatici, vuoi per le pressioni demografiche, vuoi per le instabilità sociali e politiche. Sarebbe bello che prevalesse sempre l’aiuto disinteressato, che non guarda alle diversità culturali, geografiche, etniche e religiose. Oggi, troppo spesso, sembrano invece prevalere criteri dettati da calcolo politico, ignoranza, fanatismo e pregiudizio. 

Paolo Moiola

Note

1 – Questi dati, aggioati all’8 ottobre 2010, sono quelli divulgati dalle Nazioni Unite. Sono reperibili, assieme ad altre informazioni, sul sito: www.unportal.un.org.pk.
2 – Mentre scriviamo queste righe, altri 4 soldati italiani sono stati uccisi in Afghanistan (9 ottobre 2010), portando a 34 il totale dei morti dell’Italia in questo conflitto, che nel 2011 entrerà nel suo decimo anno.
3 – Amnesty Inteational, La situazione dei diritti umani nel mondo. Rapporto 2010, Fandango Libri, Roma 2010, pag. 335.
4 – Si legga: Caritas Pakistan issues call for female doctors, 3 settembre 2010 su www.cathnewsasia.com.
5 – La fonte principale, poi ripresa da vari media, è Fides. In particolare, Cristians and Muslim confirm discrimination in aid distribution, pubblicato il 15 settembre 2010 su www.fides.org.
6 – Si legga il reportage di Robert Fisk, per «The Independent»: The crimewave that shames the world. Tradotto e pubblicato in Italia dal settimanale «Internazionale», n. 867, 8 ottobre 2010.
7 – Si veda: www.caritasreggiana.it.

Paolo Moiola

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