«Minacciati, criminalizzati, censurati»
Danilo Rueda (Commissione giustizia e pace)
Nella spirale della guerra: popolazioni native, campesinos, sindacalisti, organizzazioni dei diritti umani.
«In Colombia è sempre grave la situazione dei diritti umani. In questo panorama, la Comisión de Justicia y Paz lavora da anni per la verità, la giustizia, la ricostruzione e la memoria. Accompagnando comunità rurali in varie zone della Colombia, permette la difesa della vita, dei diritti umani e dell’ambiente, attraverso la creazione di zone umanitarie e per la biodiversità, assieme alle comunità locali. Secondo una fonte, contro i membri della Commissione Giustizia e Pace è in atto un piano di attacco su due fronti: uno giudiziario e mediatico ed un altro persecutorio, con la complicità di agenti dello stato. Coloro che traggono vantaggio dalla violenza paramilitare per ottenere i noti benefici provenienti dal commercio della palma, dall’allevamento intensivo e dalla coltivazione dei banani, si occupano anche di screditare il lavoro di coloro che difendono i diritti delle comunità, sfollate e danneggiate proprio da queste stesse imprese. Ancora una volta, un’organizzazione per la difesa dei diritti umani è vittima di un attacco. Questa situazione in Colombia non è eccezionale. Coloro che vorrebbero continuare ad agire nella totale impunità si vedono “minacciati” dal lavoro delle organizzazioni della società civile. Per questo, sempre di più, i difensori dei diritti umani e dell’ambiente sono minacciati, criminalizzati o censurati, per ostacolare il loro lavoro».
Questo è parte di un comunicato del settembre scorso, che denunciava apertamente le minacce subite da membri della Commissione Interecclesiastica Justicia y Paz (CIJYP). Da più di dieci anni questa associazione si occupa dell’accompagnamento delle comunità indigene e contadine «desplazadas», nei territori dai quali sono state allontanate con la violenza dalle organizzazioni paramilitari.
Come molte associazioni per i diritti umani in Colombia, Justicia y Paz vive in uno stato di assedio. In media, in Colombia viene ucciso un attivista al mese. Amnesty Inteacional calcola che ogni anno circa 1.500 civili rimangano uccisi nel conflitto armato che insanguina il Paese da oltre mezzo secolo. Quasi 200 sono le vittime di sparizioni forzate, soprattutto nel sud del Paese, particolarmente colpito a causa dei combattimenti in corso tra le forze di sicurezza, paramilitari e i gruppi della guerriglia. Gli sfollati a causa del conflitto hanno dovuto affrontare condizioni di profonda e radicata discriminazione ed emarginazione, che hanno reso ancor più difficile per loro accedere a servizi di base come sanità e istruzione. I gruppi della guerriglia e paramilitari reclutano forzatamente bambini. Anche le forze di sicurezza utilizzano bambini come informatori, contravvenendo alla Direttiva del 2007 emessa dal ministero della Difesa che proibiva l’impiego di bambini per scopi di intelligence. Ogni anno, altre 300 persone sono vittime di esecuzioni extragiudiziali da parte delle forze di sicurezza. I paramilitari al soldo delle imprese straniere che operano in Colombia per petrolio, agrocombustibili, attività di estrazione mineraria, commercio di banane e di zucchero, e naturalmente per il narcotraffico, continuano a uccidere civili e a commettere altre violazioni dei diritti umani, a volte con il supporto o l’acquiescenza delle forze di sicurezza. Si calcolano fra i 400 ed i 500 morti ammazzati ogni anno per mano loro.
Nel 2009, oltre 180 uccisioni di civili sono state attribuite ai gruppi della guerriglia. Almeno 46 sindacalisti sono stati uccisi nel corso dell’anno passato, 20.000 le sparizioni forzate ed un numero di sfollati in costante crescita (oltre 4 milioni): solo nell’anno scorso, i nuovi sfollati sono stati oltre 286.000. Tra i maggiormente colpiti sono risultati i popoli nativi, gli afro-americani e i campesinos (contadini). Il governo si è rifiutato di appoggiare un progetto di legge sulle vittime del conflitto, che avrebbe garantito loro dei risarcimenti.
In particolare, sono le popolazioni indigene – ridotte a meno del 2% della popolazione colombiana – a soffrire delle violenze e dell’impunità di chi le compie. Nel corso della sua visita in Colombia, il Relatore speciale delle Nazioni Unite ha descritto la situazione dei diritti umani che le popolazioni native si trovavano ad affrontare in Colombia come «un grave, critico e profondo motivo di preoccupazione».
Durante l’anno sono stati uccisi 114 tra uomini, donne e bambini nativi. E sono solo i dati ufficiali.
Questo è il desolante scenario in cui i difensori dei diritti umani devono operare. Ma, a sentire loro, ne vale la pena. Come racconta Danilo Rueda, che lavora per la Comisión de Justicia y Paz.
«L’accompagnamento ai desplazados, gli sfollati a causa della guerra, che noi operiamo, è diretto e permanente e si realizza attraverso un gruppo di lavoro che garantisce la propria presenza nella zona di conflitto: noi viviamo e condividiamo la vita con le comunità che assistiamo. Questo ha permesso ai componenti della Commissione una conoscenza profonda delle realtà di ogni comunità, delle famiglie che la compongono e delle necessità di ognuna di loro. E quindi anche di denunciare e visibilizzare le violazioni dei diritti umani perpetrati in queste zone al fine di creare uno scudo, umano e mediatico, in difesa delle comunità. Lavoriamo per il miglioramento del benessere comunitario attraverso la sicurezza alimentare, la costruzione di infrastrutture comunitarie e familiari, l’appoggio psicosociale, la difesa del territorio: per questo costruiamo abitazioni e scuole, acquedotti comunitari, sistemi igienico sanitari, orti comunitari per il recupero e la valorizzazione delle sementi autoctone. Inoltre sono stati avviati processi comunitari di protezione ambientale, conservazione del territorio, della cultura e della memoria».
Danilo Rueda non sta passando un periodo facile. Qualche tempo fa era in moto ad un semaforo. È stato raggiunto ed affiancato da una serie di motociclisti che semplicemente gli hanno detto: «Smetti di occuparti di quello che stai seguendo. O sei morto». Era vicino a casa sua. Ha preso moglie e i due figli e ha cambiato, di nuovo, abitazione.
«Non ti ci abitui mai. La paura è tanta. Ma è il nostro lavoro – racconta Danilo -. Ma quando poi un solo uomo, una sola donna, un solo bambino che noi proteggiamo, ti dimostra che hanno capito cos’è la dignità, sai che ne vale la pena».
Gli chiediamo di raccontarci della Colombia con il nuovo presidente, Manuel Santos: «Gli ultimi 8 anni sono stati una sintesi del modello di repressione colombiano. La militarizzazione della maggior parte dei territori attraverso il programma di “sicurezza democratica” portato avanti dall’ex presidente Uribe, ha provocato la frammentazione delle popolazioni e ha abusato della cornoptazione dei falsi testimoni. Difatti, la commissione JyP si sta esponendo molto proprio perché sta riuscendo a documentare con elementi probatori e giuridici le violazioni ai diritti umani delle multinazionali. Nelle carceri ci sono 8.500 persone detenute illegalmente. Con Santos pare esserci più dialogo, ma di fatto la linea politica segue nel solco del predecessore e la pressione militare continua: assistiamo ad una implementazione del paramilitarismo – in particolare nel Chocò – e ad una sua istituzionalizzazione per un maggiore controllo sociale e militare dei territori. Aumenta la violenza sociopolitica, col pretesto della lotta alla guerriglia. In verità, è tutto in nome della sicurezza per gli investitori stranieri, mentre il 20% dei colombiani sono poveri, 8 milioni sono in condizione di miseria, l’accesso all’acqua potabile è un lusso».
La politica economica dell’Unione Europea, l’accettazione del TLC (Trattato di libero Commercio), quanto incide nella situazione dei diritti umani colombiani e sulla difesa delle zone di biodiversità?
«La crisi energetica dell’Europa ha oggi un motto: “consumiamo verde”. Che in Colombia si trasforma in “produciamo verde”, nel senso della coltivazione di biodiesel ed agrocombustibili come l’olio di palma. Questo significa sfollamenti forzati, confisca delle terre alle popolazioni originarie, paramilitarismo. Oltre che la distruzione di aree d’interesse forestale e di biodiversità».
Quali sono le vostre vittorie?
«Le zone umanitarie funzionano (zone che JyP fa riconoscere e struttura perché siano prive di militarizzazione, ndr), e stiamo riuscendo a fare ottenere la consulta previa a molte comunità indigene.
E la gente ha voglia di lottare, non molla. Due milioni di contadini stanno affrontando un processo per ottenere la restituzione delle loro terre. Su quello abbiamo meno speranza: la politica estrattivista delle società minerarie, sostenuta dal governo, non guarda in faccia nessuno».
Che chiedete e che sperate?
«Per noi non può esserci soluzione militare al conflitto colombiano. E noi non perdiamo la speranza. Quando ci minacciano, penso ai miei figli. Ma poi penso che sto facendo questo anche per loro. È il rischio di lottare per la democrazia. E per un sistema e per un mondo che così, non possono andare avanti».
Francesca Caprini